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lunedì 7 agosto 2017

Okja (Joon-Ho Bong, Corea del Sud/USA, 2017, 120')




E' sempre molto difficile, scrivere di film come Okja.
Occorrerebbe riuscire a scindere la ragione, il sentimento, l'etica e la coscienza dalla nostra natura animale, per poterlo fare come si conviene.
Senza dubbio, si tratta di un lavoro di ottima fattura, costruito molto bene da Bong, che si conferma uno dei registi più "contro il sistema" che la grande distribuzione possa vantare di avere dalla sua parte.
Senza dubbio avvince, fa discutere ed è efficace, e a più livelli.
Senza dubbio parliamo dell'ennesima proposta intelligente ed azzeccata di Netflix, che ancora una volta si conferma come una delle realtà più importanti al mondo quando si parla di piccolo e ormai anche grande schermo.
Eppure, ci sono un sacco di eppure.
Nel corso delle ultime settimane, ho letto numerosi pareri - più o meno entusiastici, ma sempre di livello medio/alto - incentrati principalmente sul dilemma morale legato al consumo della carne e sfruttamento degli animali, e riscontrato che la prima domanda che veniva posta una volta terminata la visione di questo film era legata proprio al futuro dello spettatore come consumatore.
Personalmente, credo sia una vera stronzata.
Bong, che probabilmente è molto furbo, infatti, denuncia raccontando la lotta per la salvezza di un'amica - o una sorella, in qualche modo - da parte di una ragazzina cresciuta con lei, sfruttando l'onda emotiva del singolo caso per avere l'esempio giusto rispetto alla "massa", in barba al fatto che al termine del film nessuno si preoccupi di quale fine facciano tutti i super maiali lasciati alle spalle dei protagonisti o che - ma questa è un'osservazione provocatoria tutta mia - nessuno si sia mai preso la briga, animazione a parte, di costruire una pellicola di "sensibilizzazione" di questo genere su un pesce, un uccello o un insetto, tanto per citare forme di vita profondamente diverse dai mammiferi che fatichiamo decisamente di più a comprendere.
Quella stessa furbizia, che porta alla sequenza più efficace della pellicola - quella legata all'acquisto di Okja -, perfetta nel mostrare la spietata logica del mercato - quella sì, da denunciare e studiare da vicino - e l'interesse che ognuno di noi, lo si ammetta o no, ha di salvare chi ama, riesce a forzare la mano quasi sottovoce, e conquistare credo la maggior parte dell'audience in barba al fatto che la parte "positiva" della vicenda - rappresentata da Paul Dano ed i suoi - finisca per uscire nettamente sconfitta neanche fosse un Jake Gyllenhaal troppo sopra le righe bastonato da chi le righe le ha tracciate.
Perchè, parlando onestamente, è chiaro che ognuno di noi continuerà a cercare di salvare il proprio animale domestico e non la massa di destinati al macello che non abbiamo mai visto, che penserà prima alla sopravvivenza sua e di chi ama e solo dopo, forse, a quella del resto del mondo, e scandalizzarsi e correre a mangiare quinoa per il resto della vita dopo aver visto film come questo è ipocrita almeno quanto criticare a priori il più classico dei Disney dal finale buonista.
Certo, anch'io vorrei una Okja, e non farei mai del male ai miei gatti, e trovo che il sistema andrebbe cambiato, ma in fondo, parlando di sopravvivenza, so bene che, allo stesso modo, dovessi mettere sotto i denti qualcosa sarei il primo, da uomo delle caverne, a cacciare il mio pezzo di carne.
E di nuovo si torna alla ragione, il sentimento, l'etica e la coscienza a confronto con la nostra natura animale.
Razionalmente, trovo che questo film pecchi sotto molti punti di vista - come Julez faceva notare, per quale motivo non sadico mostrare Okja costretta ad accoppiarsi con un altro supermaiale "dopato", per poi, una ventina di minuti dopo, destinarla al macello? -, e finisca per risultare troppo qualunquista.
Emotivamente è senza dubbio un esperimento riuscito, a metà tra Miyazaki e La storia infinita, e scommetto che in molti si saranno commossi di fronte a quell'ultimo dialogo all'orecchio.
L'etica è complessa, ma quantomeno Bong, per quanto sicuramente di parte, non rinuncia a mostrare - o a cercare di farlo "super partes" - tutti i lati di questa caotica medaglia.
E la coscienza? Beh, se grazie al legame tra le due protagoniste si riesce a dimenticare l'ululato disperato dei super maiali destinati al macello, allora tranquilli.
Potrete continuare a mangiare carne come un predatore del mio stampo e, al prossimo dilemma, ricordare che il Grillo Parlante l'avete già fatto alla griglia da parecchio.
In fondo, sono tutte proteine.




MrFord



 

lunedì 7 novembre 2016

Doctor Strange (Scott Derrickson, USA, 2016, 115')





Ai tempi delle vette più alte della mia passione di lettore di fumetti - in particolare di supereroi - c'erano due categorie di personaggi che faticavo sempre a digerire: i cosiddetti "eroi cosmici" - troppo da fantascienza nerd, troppo potenti, troppo divini per i miei gusti - e quelli "magici" - a prescindere dal contesto in cui potevano muoversi, dalla Scarlet degli Avengers a Sciamano di Alpha Flight -.
Doctor Strange era parte assoluta - e forse simbolo - di quest'ultima categoria: ricordo infatti di aver letto ben poche storie con protagonista lo Stregone Supremo, e di averlo digerito a stento anche quando incrociava la strada di uno dei miei favoriti, Spider Man, che in più di un'occasione ha stretto alleanza con il mistico.
L'idea, dunque, che il Cinematic Universe della Casa delle Idee si potesse arricchire con un lungometraggio dedicato proprio al dottore mi entusiasmava ben poco, specie considerato che, ormai, le dimensioni di questo affresco stanno rischiando di divenire talmente grandi da saturare lo stesso: lo stesso trailer, incentrato sull'azione più che sul contesto dark dello stregone, aveva alimentato i timori nonostante la presenza di una certezza come Cumberbatch, che negli ultimi anni, tra Sherlock e Star Trek, è riuscito a convincermi anche nei casi in cui si è trovato al confronto con produzioni mainstream.
Ebbene, nel corso delle quasi due ore della visione, mi sono dovuto ricredere totalmente.
Non solo Scott Derrickson - che, del resto, mi aveva già molto convinto con il primo Sinister - e gli sceneggiatori sono riusciti a rendere il charachter attuale, ironico e molto piacevole - una sorta di versione "magica" del Tony Stark tutto raziocinio e tecnologia -, ma questo Doctor Strange è senza dubbio il miglior prodotto Marvel degli ultimi anni insieme a I Guardiani della Galassia e The Winter Soldier, funge da veicolo per il terzo capitolo di Thor - si veda la coda dei titoli di coda - e prepara il terreno per l'Infinity War che coinvolgerà non solo gli Avengers ma anche i succitati Guardiani nei prossimi anni quando collideranno con il terrificante Thanos - già intravisto in un paio di occasioni -, è un solidissimo intrattenimento intelligente e si presenta come un riuscito cocktail di Batman Begins, Inception, momenti ad alto contenuto nerd ed approccio da giungla d'asfalto.
L'evoluzione del charachter di Strange, come molti nati dalla penna di Stan Lee - che continua imperterrito ad apparire in ogni pellicola targata Marvel Studios, sempre in gran forma nonostante i novantatre anni -, è legata ad una rinascita dopo una caduta rovinosa, e per molti versi corre parallela a quella del già citato Tony Stark di Iron Man, ed è resa molto bene da un Cumberbatch senza dubbio credibile supportato da un cast di prim'ordine, che vede tra le sue fila Chiwetel Ejiofor, Rachel McAdams, Mads Mikkelsen e Tilda Swinton: come se non bastasse, l'equilibrio mostrato tra le parti "mistiche" e quelle action è davvero notevole, l'ironia piazzata alla grande in ogni passaggio che potrebbe annoiare il pubblico - bellissime le battute legate al "nome unico" di Wong o al "mantra" dato allo stesso Strange all'inizio dell'addestramento - ed i passaggi da viaggio cosmico realizzati splendidamente, quasi un omaggio alle inarrivabili immagini di 2001 così come al Cinema trash di gente come Mario Bava o ai paradossi temporali di Ritorno al futuro, Ricomincio da capo o il recente Edge of tomorrow - il confronto con Dormammu, nemesi di Strange, è uno dei più divertenti faccia a faccia buono contro cattivo che ricordi nel Cinema di genere e non solo -.
Certo, qualche sbavatura si può trovare - soprattutto nei raccordi di sceneggiatura -, ma poco importa: Doctor Strange diverte, intrattiene, a suo modo fa sognare e rappresenta senza dubbio il prototipo perfetto di come dovrebbe essere un film di supereroi in grado di far godere fan e non.
Da un punto di vista mistico, direi che ho trovato senza ombra di dubbio la mia reliquia di Casa Marvel.




MrFord




 

martedì 17 maggio 2016

Ave, Cesare!

Regia: Joel Coen, Ethan Coen
Origine: USA, UK, Giappone
Anno:
2016
Durata:
106'








La trama (con parole mie): Eddie Mannix è il problem solver ed il coordinatore dei Capitol Studios, una delle realtà più importanti del Cinema all'inizio degli anni cinquanta.
Il suo compito, a qualsiasi ora del giorno e della notte, è fare in modo che le cose girino sempre per il verso giusto, che registi ed attori svolgano il loro lavoro al meglio cercando di mettersi nei guai il meno possibile e tirarli fuori dagli stessi guai all'occorrenza: quando Baird Whitlock, star principale del kolossal in corso di ripresa Ave, Cesare! scompare misteriosamente dagli studios, per Mannix inizia una ricerca che potrebbe condurlo a scoperte decisamente scomode, nonchè ad utilizzare tutto il suo talento nel rimettere sui binari quello che rischia di deragliare ad ogni sequenza.
Perchè se nella settima arte esistono tante stelle, e storie, ed il senso di meraviglia conquista, alle spalle di tutto resta sempre un demiurgo che ha ben chiaro il senso del suo compito, e lo svolge con diligente solerzia.













Fin dai tempi dei primi passi nel mondo del Cinema autoriale, ho sempre adorato il modo di raccontare storie dei fratelli Coen: scombinati eppure perfettamente lucidi, assurdi ma calcolatori, pronti a regalare perle da pisciarsi addosso dalle risate come Il grande Lebowski o Arizona Junior e ritratti quasi oscuri come Fargo e L'uomo che non c'era, così come a lanciarsi in esperimenti pronti a toccare i più disparati generi cinematografici, da Crocevia della morte a Il grinta.
Neppure di fronte ai loro lavori meno ispirati e riusciti - si pensi a Prima ti sposo poi ti rovino o Ladykillers - sono riuscito a volere male ai due fratellini, anzi, ho finito per godermi anche i punti più bassi della loro carriera: eppure, ai tempi dell'uscita del trailer, non ero affatto convinto di quest'ultimo Ave, Cesare!, che dava al sottoscritto l'impressione della minestra riscaldata che funziona sempre poco, soprattutto al Cinema.
E invece, al contrario di tutte le aspettative, i Coen hanno finito per stupirmi in positivo un'altra volta.
Ave, Cesare!, infatti, è un film complesso nonostante l'apparenza giocosa e citazionista - senza dubbio è un lavoro costruito da amanti del Cinema soprattutto classico per amanti del Cinema soprattutto classico -, di quelli che, probabilmente, finiscono per acquistare valore visione dopo visione, all'interno del quale, come in un gioco di scatole cinesi, si fondono il noir, la commedia, il grottesco, il musical, l'epoca fantastica dei grandi studios ed il kitsch dei kolossal che fecero la Storia negli anni cinquanta, da I dieci comandamenti a Ben Hur, una specie di strano mix tra il già citato Il grande Lebowski e Vizio di forma, con qualche spruzzata di metacinema e la consueta riflessione legata alla Fede tipica dei Coen già presente nel sottovalutato e bellissimo A serious man.
Non un film per tutti, dunque, ed ancor meno per i detrattori dei due registi e sceneggiatori, che in Ave, Cesare! ritroveranno tutti i tratti distintivi che fanno andare in visibilio i loro fan hardcore tanto quanto irritano chi non si specchia nel loro modo di approcciare la settima arte: a prescindere, comunque, da questo, e dal cast davvero all star, la realizzazione tecnica risulta impeccabile nella ricostruzione della cornice d'epoca così come nella messa in scena.
Dal canto mio, a parte i molteplici riferimenti ad un'era che adoro del Cinema americano, ho trovato in questo film tutto l'amore che i Coen nutrono per la settima arte in tutte le sue incarnazioni, ed una riflessione davvero profonda nata sfruttando la figura da Mr. Wolf di Eddie Mannix, una sorta di divinità scesa in terra per aggiustare tutti i guai originati dalle star scombinate, caotiche e spesso e volentieri neppure in grado di comprendere la vita oltre il set ed espiarli e confessarli come se fossero propri, neanche fosse il Gesù del kolossal che si incarica di salvare riportando sulla retta via il perduto - in tutti i sensi - Baird Whitlock.
O forse quella stessa riflessione è in realtà una grande presa in giro della seriosità ed importanza che alcuni dogmi - che si parli di Fede o di Cinema poco importa - finiscono per avere anche quando si vivrebbe meglio con leggerezza e strafottenza, con la capacità di dimenticarsi della Fede stessa come Baird o con la semplicità del cowboy ritrovatosi attore Hobie Doyle, incapace di recitare quando occorre rapportarsi agli umani - strepitoso il siparietto con Ralph Fiennes - così come di togliersi la dentiera nel pieno di un appuntamento per raccontare di quando un incidente di rodeo gli è costato tutti i denti neanche parlasse delle scarpe che si è messo quella stessa mattina per uscire.
Ma in fondo, che si tratti di una cosa o dell'altra, non è dato conoscere la risposta, ma se senza dubbio caldeggiato provare a trovarne una, fosse anche sbagliata: il bello del Cinema - e di Ave, Cesare! - è proprio questo.
Un intrigo passionale.
Una storia d'amore.
Un atto di fede.
Un tentativo di rivolta.
Ad ognuno il suo.
L'importante è avere il set giusto per brillare.





MrFord





"Who are these christians?
What is this strange religion?
I' ve heard it said they turn the other cheek
ha ha ha ha
throw them to the lions
throw them to the lions
throw them to the lions
thumbs down
10 pieces of gold for every man
hail caesar hail caesar."
Iggy Pop - "Caesar" - 





lunedì 28 settembre 2015

Un disastro di ragazza

Regia: Judd Apatow
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 125'





La trama (con parole mie): Amy, che con la sorella minore Kim ha subito da bambina il trauma della separazione dei genitori, ha sviluppando crescendo lo stesso rapporto con la vita e le relazioni del padre, dedito a notti brave, alcool e sesso occasionale come se piovessero, incapace di credere nella monogamia.
Kim, al contrario, ha finito per sposarsi con un uomo già genitore a sua volta, continuando a credere nella solidità della famiglia come concetto.
Quando, parallelamente al peggioramento della malattia del padre, ad Amy viene assegnato un incarico dalla rivista per la quale lavora legato alla medicina sportiva ed in quel contesto conosce Aaron, la sua vita sentimentale subisce uno sconvolgimento: dopo aver rotto con il presunto fidanzato Steven, infatti, la donna dovrà fronteggiare l'evidenza della sua prima, grande, vera cotta, e considerare il fatto che una storia impegnata è possibile. Riuscirà nell'impresa?









Ho sempre pensato che realizzare un film sia un lavoro enorme, che richiede uno sforzo titanico a chiunque ne prenda parte, dai tecnici di supporto fino agli attori principali ed al regista: una specie di rappresentazione della vita in famiglia, o di un rapporto di coppia che sia o abbia qualche possibilità di essere duraturo.
E con duraturo non intendo rose e fiori, sia chiaro, quanto più "guns and roses": in questo senso, c'è una scena di Trainwreck - adattato come di consueto scandalosamente in Un disastro di ragazza - che mi ha colpito molto: Amy ed Aaron litigano, e mentre lei tenta di fare tutto il possibile per rendere la cosa irreparabile, il suo compagno risponde che è normale che stiano discutendo, che una volta passata faranno la pace e tutto potrà ricominciare.
Allo stesso modo, l'apertura con la splendida spiegazione del padre in procinto di lasciare casa a seguito della separazione intento a spiegare in forma molto personale il concetto di tradimento ha solleticato e non poco tutto il lato del mio carattere che deve tanto a casinisti come Hank Moody o, per l'appunto, Amy e il suo vecchio.
Questo perchè nella mia vita sono stato da entrambi i lati di queste barricate, e sento che, in un modo o nell'altro, entrambi mi appartengano e contribuiscano o abbiano contribuito a costruire, nel bene o nel male, quello che sono: in un certo senso, pensando al genitore di Amy e di sua sorella Kim, qualcuno che riesce benissimo ad essere uno stronzo, ma che ha la stessa capacità di diventare il preferito di qualcuno.
La cosa che rende Un disastro di ragazza ancora più interessante, almeno ai miei occhi di bestiale esponente del sesso maschile, è che a scriverlo sia stata la sorprendente Amy Schumer, che non è neppure lontanamente figa o simpatica - anzi, il più delle volte la sensazione che più suscita è quella di solleticare gran schiaffi in faccia, a meno che non si tratti di bere insieme - ma che come sceneggiatrice deve sapere proprio bene come si costruisce una commedia con le palle, e che trova in Apatow - uno dei re dell'approccio maschile al genere - un compagno ideale per regalare al pubblico quella che non solo promette di essere la proposta di genere più interessante del panorama USA di quest'anno, ma anche uno dei lavori migliori del regista, che prosegue nel suo percorso di esplorazione dei quarantenni o quasi dopo il già più che discreto This is 40.
Come se non bastasse, finiamo per trovarci nel bel mezzo di una romcom alla rovescia, con una protagonista femminile pronta a pensare solo alla soddisfazione del momento, alla scopata del giorno o alla sbornia che sarà preludio della stessa ed una serie di spalle maschili pronte a mostrare il loro lato romantico o vulnerabile, anche e soprattutto dal punto di vista dell'ironia sboccata e verace della protagonista: esempi perfetti, in questo senso, più che l'azzeccato Bill Hader, i due sportivi Lebron James - strepitoso nel ruolo dell'amico dell'innamorato che rischia di uscire a pezzi dalla storia con la schiacciasassi Amy - e John Cena - che non solo finisce per prendere per il culo alla grande se stesso in quanto bodybuilder e wrestler, nonchè esponente della categoria troppo spesso erroneamente considerata come quella dei maschi alfa, ma che regala una sequenza da lacrime quando nel corso di una visione in sala con tanto di partecipazioni di Daniel Radcliffe e Marisa Tomei impazzisce all'idea di essere paragonato a Marc Wahlberg -, pronti a mettersi alla berlina per dimostrare che, al cospetto di determinate dinamiche, regole e questioni sentimentali - e di sesso, ovviamente - siamo tutti sulla stessa barca, e più che come siamo, o quali siano le parti predominanti del nostro carattere, abbiamo la possibilità di poter costruire qualcosa, e non solo distruggere.
Un film dolceamaro che non riesce a deragliare neppure con la giusta quanto telefonata parte finale, e che permette di concedersi risate sguaiate ed una punta di commozione - la già indirettamente citata sequenza a proposito dell'essere, nonostante il proprio carattere, i preferiti di qualcuno -, scritto e diretto con onestà e mestiere, in grado di raccontare come funziona per certi versi la vita e di farlo senza avere pretese, ma al contrario trasmettendo ai suoi interpreti la voglia di divertirsi nel dialogare con il pubblico neanche fosse un primo appuntamento che si vuole sfruttare per fare colpo.
Poi, certo, personalmente non ho amato particolarmente Amy Schumer.
Personaggio o persona dietro il personaggio che dir si voglia.
Ma poco importa.
In fondo, i rapporti migliori li costruiamo tutti sui difetti che finiscono, un giorno dopo l'altro, per farci amare chi è destinato a diventare una presenza importante nella nostra vita.





MrFord





"I'm gonna try for an uptown girl
she's been living in her white bread world
as long as anyone with hot blood can
and now she's looking for a downtown man
that's what I am."
Billy Joel - "Uptown girl" -





domenica 20 luglio 2014

Constantine

Regia: Francis Lawrence
Origine: USA
Anno: 2005
Durata: 121'





La trama (con parole mie): John Constantine è un poco di buono tabagista e cinico dedito ad esorcismi grazie ai quali comprare, in un modo o nell'altro, un posto in Paradiso, di norma negato per contratto a qualunque suicida. Quando, tramite il ritrovamento della Lancia del Destino, il figlio "dimenticato" di Lucifero rischia di trovare la via per il mondo degli Uomini sconvolgendo, di fatto, gli equilibri eterni tra il sotto ed il sopra coinvolgendo due sorelle gemelle dai poteri quasi unici e molto simili a quelli dello stesso John, Constantine dovrà rimboccarsi le maniche e mettersi in gioco come mai prima di quel momento, finendo per affrontare forze in grado di andare anche oltre le sue stesse capacità.
Ma uno scontro impari potrebbe comunque dare origine alla scintilla in grado di cambiare davvero le cose.








Il mio passato di appassionato - e, seppur decisamente dimenticabile - di sceneggiatore di fumetti dovrebbe farmi sentire in colpa, per aver recuperato Constantine soltanto ora, a quasi dieci anni dalla sua uscita in sala: Hellblazer - titolo targato Vertigo dal quale il film di Francis Lawrence è tratto -, infatti, ha rappresentato a cavallo tra gli anni novanta e l'inizio del Nuovo Millennio una delle realtà di riferimento del comic book "adulto", e seppur superato - di gran lunga - da cose enormi come Preacher - e prima o poi dedicherò una serie di post anche alla rilettura della creatura principe di Ennis -, un titolo senza dubbio imperdibile per ogni appassionato del settore, e la sua trasposizione cinematografica avrebbe dovuto richiamare l'attenzione del sottoscritto fin da allora.
Purtroppo per questo lavoro, però, ai tempi mi trovavo ancora preda della crisi di radicalchicchismo che di fatto portò il sottoscritto a dedicare visioni e tempo solo ed esclusivamente a pellicole d'autore per almeno tre o quattro anni, rinunciando ad ogni svago cinematografico - o quasi - e a proposte di questo genere, decisamente lontane anni luce dal concetto di Cinema d'essai.
La scorsa estate, però, tra un dibattito e l'altro riguardanti il Cinema ed il blog, tornò alla ribalta l'argomento Constantine con i cugini di Julez, pronti a sponsorizzare il prode John e la pellicola a lui dedicata: su pressione in particolare del buon Edward, ho deciso dunque di prepararmi alla discussione che seguirà la revisione della trilogia di Matrix - che non ho mai particolarmente apprezzato - proprio con questo recupero.
Senza dubbio il voto non troverà soddisfazione nei miei giovani parenti acquisiti, eppure la visione di Constantine è risultata divertente ed in grado di intrattenere come solo i prodotti più tamarri e sguaiati possono fare, di fatto rappresentando una sorta di versione più curata e posata del secondo Ghost rider, con angeli e demoni a giocarsi a dadi il nostro mondo ed un unico antieroe ad opporsi al volere dei Poteri Superiori: ed è proprio il vecchio John a rappresentare la scelta giusta - per quanto non approvi particolarmente l'utilizzo di Keanu Reeves, considerato che l'appeal del personaggio sarebbe stato senza dubbio più vicino ad un Barry Pepper -, da cinico figlio di puttana dalla scorza piuttosto dura e finto senza cuore come piacciono tanto al sottoscritto.
Certo, la regia non sarà memorabile - del resto, parliamo di Francis Lawrence -, lo script patisce e non poco il fatto di ispirarsi ad una serie di graphic novels e l'intera produzione di non avere avuto il successo sperato e, dunque, di fatto non aver potuto originare un vero e proprio brand con tanto di sequel e spin off, eppure il lavoro nel complesso risulta godibile quanto basta per assurgere al rango di proposta ideale da serata del weekend, lontana dalle pretese autoriali e giusta giusta per il riposo al termine della tempesta che, di norma, è la settimana lavorativa.
Inoltre lo scenario biblico, per quanto da queste parti si finisca per essere felicemente lontani da qualsiasi religione e spesso e volentieri anticlericali, funziona sempre grazie alla sua aura da leggenda, ed induce ad appassionarsi - almeno nel tempo della durata della pellicola - e a chiedersi da che parte ci si schiererebbe, in caso di "conflitto eterno": onestamente non sono troppo entusiasta all'idea di un Paradiso perfetto ed incorruttibile, ed essendo un esempio perfetto dei "Mr. Bad Example" - per dirla come Warren Zevon - dovrei stare dall'altro lato della barricata.
Ma forse, tirando le somme, mi troverei a vestire più che bene i panni del Constantine di turno, troppo stronzo per i piani alti, ma ad un tempo troppo buono per quelli bassi - o almeno in parte -: dunque, pur se lontane dalle proposte d'autore, vengano pure quelle di questo genere, tamarre e sguaiate.
E se non vi stanno bene, stronzi, allora vorrà dire che passerete decisamente un brutto quarto d'ora.




MrFord




"The lover of life's not a sinner
the ending is just a beginner
the closer you get to the meaning
the sooner you'll know that you're dreaming
so it's on and on and on, oh it's on and on and on
it goes on and on and on, Heaven and Hell
I can tell, fool, fool!"
Black Sabbath - "Heaven and hell" - 




mercoledì 21 maggio 2014

Solo gli amanti sopravvivono

Regia: Jim Jarmusch
Origine: USA, UK, Germania
Anno: 2013
Durata: 123'





La trama (con parole mie): Eve e Adam sono due vampiri immortali, legati da un amore che non accenna a diminuire, e che li rende sempre più vicini secolo dopo secolo. I due, però, vivono ad un oceano di distanza, la prima a Tangeri, quasi lasciandosi massaggiare dal tempo che passa, ed il secondo a Detroit, perennemente in lotta con se stesso ed il futuro. 
Quando il rischio di un suicidio di Adam porta Eve negli States, l'equilibrio della routine si spezza, tornando a congiungere le loro anime complementari ma anche a solleticare la curiosità della caotica sorella di lei, pronta a rompere ogni regola e condurre la coppia alla fuga.
Riusciranno due esseri senza tempo come loro a non soccombere alla noia, al sentimento senza più freni e all'incertezza ancora più acuita del futuro a sopravvivere?









Ho sempre amato Jim Jarmusch, ed il suo modo quasi jazz, solo apparentemente scombinato e senza criterio di fare Cinema.
Quelli che, a mio parere, sono i suoi due migliori film - parlo di Dead man e Ghost dog - sono tra i preferiti del sottoscritto degli anni novanta, ed un pezzo di cuore della mia Storia di spettatore.
Ma il Tempo passa, inesorabilmente e senza pietà, e non è possibile rimanere immobili sperando quasi che possa non accorgersi di noi: non sarebbe possibile neppure se fossimo immortali, con il potere e la possibilità di attraversare secoli e secoli senza neppure essere scalfiti dallo stesso.
Personalmente - escludendo l'impossibilità di mangiare e bere, o di starsene in totale relax in spiaggia al mare - adorerei essere un vampiro: nessun limite per poter imparare sempre di più, fare esperienze, viaggiare, conoscere, non darsi alcun limite in termini di programmi e desideri.
Non mi fa paura l'eternità, al pensiero di passarla godendo di quelle che sono le mie passioni, e non avrei certo il timore di annoiarmi sfruttandola: al contrario di Julez, che spesso e volentieri mi ricorda quanto poco sarebbe tagliata per un'esistenza di questo genere.
I film sui vampiri che abbiano davvero toccato questo tema - che, a ben guardare, è molto più umano ed attuale di quanto non si possa pensare - si contano sulle dita di una mano, dal Dracula di Coppola - almeno in parte - a Intervista col vampiro, passando per Addiction di Abel Ferrara, altro titolo fondamentale per i nineties: ed è proprio a quest'ultimo che pare riferire gran parte delle sue influenze Only lovers left alive, tentativo crepuscolare di Jarmusch di riproporre nel Nuovo Millennio una sorta di cocktail tra quello che i succhiasangue furono in opere di rottura come Il buio si avvicina e la rappresentazione comune rispetto allo spettatore dei Figli di Caino, da Nosferatu in avanti.
Peccato che, nonostante le idee interessanti, le intuizioni, la volontà e l'indubbia abilità questo film risulti in gran parte posticcio come i suoi protagonisti, perso in una cornice dal sapore proprio anni novanta che, oltre a risultare fuori tempo massimo, finisce per non mostrare abbastanza carattere da imporsi se confrontato al passato e, in una certa misura, al futuro.
A partire dalla struttura, fin troppo giocata su dialoghi di fatto inconcludenti ed atti a stupire senza successo l'audience - dalle rivelazioni a proposito delle opere di Shakespeare alle numerose citazioni colte -, per giungere ai due protagonisti - Hiddlestone funziona certo meglio come Loki che da versione autoriale del moscissimo Edward Cullen, la Swinton è odiosa nei suoi usuali standard - Solo gli amanti sopravvivono pare essere giunto in colpevole ritardo rispetto agli anni del grunge e della depressione a tutti i costi, poetico fino a diventare stucchevole, statico e pesante, noioso e certo lontano dallo standard di road movie autoriale cui in passato aveva abituato il suo regista.
Allo stesso modo, è difficile definire questo un brutto film, o qualcosa di veramente meritevole delle bottigliate delle grandi occasioni: l'intenzione del buon Jim, probabilmente, era quella di sfruttare la parabola del Tempo che scorre - o almeno questo è quello che crediamo - per raccontare una storia d'amore, con tutte le sue zone d'ombra e gli entusiasmi, gli elementi esterni in disturbo della stessa - davvero ben resi da Mia Wasikowska - e le domande che ogni amante ed innamorato che si rispetti finisce per porsi almeno una volta nella vita.
Peccato che, in questo senso, il regista lo faccia quasi per dovere, come se le lancette che inesorabilmente scorrono abbiano segnato il passo principalmente per lui: e chiunque abbia provato almeno una volta un sentimento così forte, sa bene che le elucubrazioni e la ricerca di risposte hanno ben poco senso.
Perchè sono distanti anni luce da quello che significa davvero l'amore.
O la sopravvivenza.



MrFord



"Never said thank you 
never said please 
never gave reason to believe 
so as it stands I remain on my knees 
good lovers make great enemie."
Ben Harper - "Please bleed" - 





mercoledì 2 aprile 2014

Snowpiercer

Regia: Joon Ho Bong
Origine: Corea del Sud, USA, Francia, Rep. Ceca
Anno: 2013
Durata: 126'




La trama (con parole mie): in un prossimo futuro i governi del mondo, messi in ginocchio dal riscaldamento globale, appoggiano un piano di raffreddamento della Terra che provoca una catastrofe climatica degenerando in una sorta di nuova era glaciale, uccidendo la maggior parte degli abitanti del pianeta. I sopravvissuti, riparatisi all'interno di un treno speciale in viaggio continuo attraverso il mondo intero, sono divisi in classi sociali ben definite legate alla posizione dei vagoni: dalla locomotiva abitata dal dominatore assoluto Wilford alla coda con i reietti della società, costretti a vivere al servizio dei potenti e cibarsi di sole gelatine proteiche ricavate dagli insetti.
Curtis, a capo di un gruppo di ribelli dell'ultima vettura, a seguito dell'ennesimo sopruso decide così di dare il via ad una rivolta che dovrebbe riportare l'equilibrio all'interno del convoglio.







E così, anche Joon Ho Bong, probabilmente il più grande regista sudcoreano vivente, in grado di superare ben più noti colleghi come Park Chan Wook e Kim Ki Duk ed autore di perle assolute come The host, Memories of murder e Mother, è caduto.
Qui al Saloon, fin dalla sua apertura, non si sono risparmiate bottigliate neppure per gli idoli, quando è stato il tempo di sfoderare i colpi più duri che il bancone richiedeva, ma mai e poi mai mi sarei aspettato che a tradire gli ideali fordiani sarebbe stato uno dei cineasti più interessanti e di talento che mi sia capitato di seguire nel corso delle ultime stagioni, il cui ultimo lavoro, questo Snowpiercer, era tra i più attesi dal sottoscritto per la prima parte dell'anno: dunque, dopo i già citati Kim Ki Duk - preso dai suoi deliri di onnipotenza - e Park - snaturato definitivamente e perduta tutta la forza degli inizi con l'ultimo, radical e freddo Stoker - anche Bong segna il passo, schiacciato da una produzione colossale che porta l'uomo dietro la macchina da presa dalle parti del già visto e sentito, sfornando un blockbusterone che sarà pure d'autore a livello tecnico ma che, oltre a non inventare nulla, risulta noioso, decisamente troppo lungo ed appesantito da parentesi al limite del grottesco - la sequenza nella scuola del treno - ed un finale che potrei addirittura definire ridicolo.
Pescando, dunque, da un immaginario distopico già noto sia in Letteratura che al Cinema, da 1984 a V per vendetta, si finisce purtroppo per sfociare in una sorta di versione molto action e videoludica - la struttura a vagoni ricorda quella a quadri dei games anni ottanta - del bolsissimo Cosmopolis targato Cronenberg, mostrando quella che dovrebbe essere una critica sociale feroce come fosse la più banale delle epopee tipiche degli eroi Expendables del sottoscritto ai loro tempi d'oro.
Gli spunti non mancano, eppure tutta la meraviglia e l'aspettativa costruita da una campagna pubblicitaria che addirittura accostava questo Snowpiercer a cose come Blade runner - e bisogna proprio averne, di fantasia, oltre che di coraggio! - finisce per spegnersi in un susseguirsi di scontri che paiono decisamente slegati l'uno dall'altro e sfruttati soltanto per portare in scena l'ottima fotografia e l'occhio esperto dell'autore culminati con uno spiegone da trituramento di cosiddetti del "bad guy" Ed Harris che dovrebbe essere il fulcro della riflessione sulla decadenza dei governi e dei cosiddetti rivoluzionari e ben rappresentato dalla statica inespressività di Chris Evans, che mostra le stesse doti attoriali di una parete di cemento armato.
Non combina tanto di più il resto del cast, da una troppo gigioneggiante Octavia Spencer all'anonimo Jamie Bell, senza dimenticare John Hurt ridotto ad una macchietta insieme alla componente coreana del gruppo di ribelli protagonisti e all'insopportabile Tilda Swinton, che vorrebbe passare per cattiva cult ma finisce per suonare più come una caricatura involontaria: un esperimento fallito su tutti i fronti, che senza dubbio, per il momento, guadagna la posizione di titolo più deludente di questa prima parte di duemilaquattordici, tanto da farmi rimpiangere quello che è il film "a livelli" più importante del passato recente - quel gioiellino di The Raid: redemption, pronto al solo pensiero ad alimentare l'attesa per l'imminente sequel - e classici sulle rotaie come A trenta secondi dalla fine, decisamente più interessanti sia per costruzione che per tensione mantenuta ad un livello decisamente più alto di quello proposto da Bong in questo caso.
Una ferita destinata a lasciare il segno nella mia memoria di spettatore per molto tempo, ennesima conferma del male che la majors e le grandi produzioni riescono a fare all'opera di registi abituati ad avere completa libertà espressiva, letteralmente masticati e risputati dalla grande macchina del blockbuster multimilionario: mi dispiace davvero per Bong, che spero torni presto nella più accogliente Corea per realizzare qualcosa dallo spirito più vicino ai suoi precedenti lavori, evitando così di deragliare in un mondo dal bagliore accecante ma dominato dalla prospettiva non proprio da sogno di finire sbranato dai predatori di turno.
E non me ne vogliano gli orsi polari.



MrFord



"Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore 
mentre fa correr via la macchina a vapore 
e che ci giunga un giorno ancora la notizia 
di una locomotiva, come una cosa viva, 
lanciata a bomba contro l' ingiustizia, 
lanciata a bomba contro l' ingiustizia, 
lanciata a bomba contro l' ingiustizia!"

Francesco Guccini - "La locomotiva" -





giovedì 6 dicembre 2012

Moonrise Kingdom

Regia: Wes Anderson
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 94'




La trama (con parole mie): siamo nel New England, nel cuore di un'isola piccola e fiabesca alla fine dell'estate del 1965. Sam e Suzy, due adolescenti innamoratisi praticamente a prima vista ed entrambi a loro modo isolati dal mondo - il primo è un orfano rifiutato anche dalla famiglia adottiva, la seconda è prigioniera all'interno di una casa in cui regnano una taciuta lontananza tra i genitori ed il dominio quasi incontrastato dei fratelli minori -, decidono di organizzare un piano e completare una fuga d'amore che li porti a scoprirsi a vicenda, giungendo per la prima volta a mettere il loro mondo interiore a disposizione di un altro.
La scomparsa dei due, però, provoca una sorta di crisi locale, così il funzionario di polizia del luogo, il Capitano Sharp, insieme ai genitori della ragazza, all'addetto alla posta Jed, al capo scout Ward e ai compagni di campo di Sam da inizio ad una ricerca a tappeto dei fuggitivi.
Il loro ritrovamento, però, sarà solo l'inizio di una nuova avventura, e chissà, anche di qualcosa di più grande.




Wes Anderson è uno di quei registi che ha tutte le caratteristiche buone per farmi incazzare: la cura maniacale per ogni dettaglio applicata ad un'estetica da nerd saputello, il tocco di un talento cristallino ingabbiato da una forma di altezzosità assolutamente irritante, tematiche profonde soffocate da una voglia incontrollabile di apparire cool: di conseguenza, ho sempre avuto un rapporto altalenante con il suo Cinema, e anche se l'unica vera delusione è stata Il treno per il Darjeeling, ho sempre guardato con sospetto al lavoro dell'autore de I Tenenbaum.
Moonrise kingdom, attesissimo dal sottoscritto dopo l'ottimo Fantastic Mr. Fox, giungeva in casa Ford spinto da recensioni entusiastiche lette in ogni dove - ebbene sì, anche dalle parti del mio antagonista Cannibale - e da un folgorante inizio giostrato alla perfezione dal regista ed in grado di unire il gusto per la fiaba ai carrelli laterali, la musica ai colori pastello, le suggestioni alle immagini.
Peccato che, nonostante le ottime premesse, la storia - e soprattutto, la via scelta dall'autore per raccontarla - prenda quasi subito la piega di una lezioncina leziosa che Mr. Anderson si prodiga a sviolinare a noi poveri cristi molto al di sotto delle sue straordinarie capacità dall'altra parte dello schermo: e non c'è cosa peggiore, soprattutto rispetto ad un film di formazione dalle tematiche assolutamente profonde e dalla messa in scena interessante, di un tono saccente e superiore come quello che trasmette questo lavoro.
Come se non bastasse, la storia di Sam e Suzy e la loro fuga d'amore e di maturazione ha risvegliato nel sottoscritto un paragone quasi immediato con uno dei film "per ragazzi" meglio realizzati degli ultimi dieci anni, quel Un ponte per Terabithia che mi lasciò senza parole e con il magone quando, ai tempi della sua uscita, lo affrontai con scetticismo e finì per strabiliarmi: dal punto di vista emozionale, Moonrise kingdom ricorda l'appena citata pellicola firmata da Gabor Csupo come se la stessa fosse stata anestetizzata, o tutti noi affrontassimo la visione con dei cuscini premuti fortissimo sulla faccia ad impedirci di esternare qualsiasi emozione.
Ho terminato la visione - tra l'altro, priva del ritmo e del mordente che dovrebbe conquistare il pubblico in un film d'avventura e ricerca, pur se interiore - assolutamente determinato a dedicare al buon Wes tutte le bottigliate che meriterebbe, quasi soddisfatto all'idea di scrivere un post che potesse sfogare tutta la delusione rispetto alla meraviglia provata in passato per i già citati Tenenbaum o Steve Zissou - per non parlare dello spreco di Bill Murray in una parte che non gli si addice neppure da lontano -.
Poi ho fatto un respiro profondo e ho pensato ai due protagonisti, al loro rapporto con il mondo esterno, sentendomi come uno degli scout pronti a vessare il povero Sam con il loro fare da bulli, ed ho avuto come un'illuminazione: non avrei trattato la pellicola di Anderson come i suoi due piccoli eroi non avrebbero voluto essere trattati a loro volta.
E ho ripensato a quanto dev'essere difficile, per quelli come loro - e il regista che li ha "creati" -, essere quello che sono senza rischiare qualche bottigliata a priori.
A quanto è difficile essere adolescenti e decisi, adolescenti e innamorati.
L'amore non è uno scherzo, ad ogni età: che sia legato ad una coppia, o dietro al rapporto tra genitori e figli - sempre al centro della poetica dell'autore -.
E se è vero che Moonrise kingdom è a suo modo spocchioso, algido, troppo perfettino per arrivare dritto al cuore di questo vecchio cowboy, è altrettanto indiscutibile non solo il suo valore artistico, ma anche la possibilità che merita di avere per comunicare ed aprirsi al mondo - e in qualche modo alla vita -.
Moonrise kingdom è come i due giovani viaggiatori che lo animano.
E ora che sto dall'altra parte della barricata, mi sento come Edward Norton, o Bruce Willis, che vorrebbero dare a Sam la possibilità che nessuno avrebbe voluto dargli.
E così, ad un film che mi ha irritato profondamente e fatto prudere le mani, convincendomi quanto fosse giusto bottigliarlo con tutte le forze, darò una possibilità di essere - e diventare - grande.
Perchè questo è quello che farebbe un padre.
Questo è quello che fa l'amore.
E di questo hanno bisogno Sam e Suzy.


MrFord


"Some folks might sa-ay that I'm no good
that I wouldn't settle down if I could
but when that open ro-oad starts to callin' me
there's somethin' o'er the hill that I gotta see
sometimes it's har-rd but you gotta understand
when the Lord made me, He made a Ra-amblin' Man."
Hank Williams - "Ramblin' man"- 


domenica 15 aprile 2012

Il ladro di orchidee

Regia: Spike Jonze
Origine: Usa
Anno: 2002
Durata: 114'



La trama (con parole mie):  Charlie Kaufman è uno sceneggiatore molto apprezzato cui è stato appena dato l'incarico di lavorare all'adattamento cinematografico del successo letterario Il ladro di orchidee, un libro scritto da una giornalista a proposito dell'esperienza avuta nel seguire, intervistare e scoprire John Laroche, trafficante di orchidee rare e uomo capace di appassionarsi rispetto a molteplici e curiose attività. La chiusura dello sceneggiatore stesso rispetto al mondo e la sfida di uno script basato sulla non-fiction metteranno in crisi profonda Charlie, che si troverà costretto a confrontarsi con il poco sopportato gemello Donald, che divide con lui l'appartamento, si mostra esplosivo e sempre aperto all'esterno ed aspira a portare sullo schermo un thriller che Charlie giudica banale e ridicolo. 
Ma pare essere l'unico.
L'impresa di portare a termine Il ladro di orchidee sarà più dura del previsto, e non sarà priva di conseguenze in grado di cambiare l'intero mondo dello scrittore.




Esistono pellicole di cui si è sempre sentito parlare, e in ogni modo - dal più lusinghiero alle tempeste di bottigliate -, che, inspiegabilmente, restano lontane per anni dai nostri schermi, senza una spiegazione ben precisa.
Il ladro di orchidee è una di queste.
Letteralmente osannato da uno dei disegnatori che conobbi nel mio periodo da sceneggiatore di fumetti dei poveri, osteggiato da alcuni compari appassionati di Cinema ed assolutamente venerato da altri, nonostante mi fosse capitato di incrociarne il dvd in più di un'occasione non ebbi mai lo stimolo per confrontarmici, lasciando questo lavoro di Spike Jonze nel limbo delle eterne promesse senza preoccuparmene troppo.
La recente visione dell'incredibile Synecdoche, New York però, ha stimolato la mia curiosità rispetto all'operato di Charlie Kaufman, sceneggiatore tra i più interessanti che gli anni zero abbiano riservato al pubblico, autore di opere destinate, con il tempo, a divenire - se non lo sono già - cult della settima arte come Eternal sunshine of a spotless mind: così, sono tornato indietro nel tempo ripescando questo lavoro assolutamente acerbo e traboccante difetti che, ugualmente, riesce a comunicare allo spettatore tutta la potenza ancora inespressa del linguaggio dello stesso Kaufman, per l'occasione - e per mano di Nicholas Cage e del suo parrucchino, in grande spolvero in questo ruolo - sullo schermo in prima persona - almeno figurativamente parlando - e pronto a mettere il suo io, le ansie, le esperienze e le delusioni al servizio di un film totalmente e completamente dedito alla non fiction.
Sfruttando l'ideale vicenda legata all'intervista di una reporter in carriera  - una Meryl Streep senza particolari acuti, nonostante il Globe che ebbe per la parte - ad un trafficante di fiori rari, uomo appassionato ed appassionante - grandissimo Chris Cooper, che la maggior parte di noi ricorda principalmente per il suo ruolo in American beauty -, Kaufman costruisce un confronto con se stesso, le proprie paure ed i propri limiti, creando al contempo un personaggio memorabile come Donald, alter ego del protagonista, specchio dello sceneggiatore e fulcro attraverso il quale innescare le grandi e piccole rivoluzioni di una vita passata a rifugiarsi dal un mondo che pare aggressivo quanto e più dei predatori che lo popolano, siano essi animali o inequivocabilmente umani.
In questo senso, risulta ottima la prima parte, legata a doppio filo alle ansie del protagonista neanche ci trovassimo nel pieno di un Woody Allen sotto acido, con le splendide parentesi dedicate a Laroche e alla storia dell'evoluzione del nostro pianeta, bizzarre escalations di quello che avrebbe potuto essere - e non è stato - The tree of life, pippone formato gigante di Malick vincitore del Festival di Cannes 2011, e meno incisiva la seconda, nel corso della quale la riscossa e la rinascita di Charlie passate attraverso un'impennata di "realtà" - all'interno del film stesso - risultano quasi dispersive rispetto all'apparente caos delle prime sequenze: il risultato, sempre in bilico sul sottile filo che separa un giudizio tutto sommato positivo dalle già citate bottigliate, è curioso ed instabile come i personaggi che lo popolano, e giustifica appieno i pareri discordanti che negli anni ho visto avvicendarsi in merito.
Quello che, però, non va sottovalutato, è il talento innegabile di Spike Jonze e soprattutto di Charlie Kaufman, da solo in grado di risparmiare critiche eccessive ad un film incostante, bizzarro e spesso debole come questo e rendere lo stesso, a suo modo, un piccolo, grottesco cult di inizio millennio.
E come se non bastasse tutta questa arte - o presunta tale - il parrucchino di Nicholas Cage non è mai stato al suo posto come ora: scusate se è poco.


MrFord


"Imagine me and you, I do
I think about you day and night, it's only right
to think about the girl you love
and hold her tight, so happy together."
The Turtles - "Happy together" -


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