sabato 30 aprile 2011

Rio

La trama (con parole mie): Un rarissimo pappagallo viene rapito da alcuni contrabbandieri nei pressi di Rio de Janeiro per finire negli States e cadere dal camion che lo trasporta nel bel mezzo del Minnesota. 
A raccoglierlo una ragazzina che per quindici anni vivrà in simbiosi con lui, educandolo ad una vita praticamente umana e ribattezzandolo Blu.
Non si sa come, a un certo punto spunterà un ornitologo brasiliano che, con la scusa di accoppiare Blu con l'ultima esponente femmina della sua specie convincerà la giovane Linda che la cosa migliore sta nel partire subito per Rio.
Non si sa come, ovviamente i due pappagalli, una volta insieme, verranno rapiti e a furia di schermaglie troveranno l'amore.
Non si sa come, Blu scoprirà il suo lato istintivo e "volatile".
Non si sa come un sacco di cose.
Soprattutto come sia possibile che Saldanha e i suoi siano ancora in giro a fare film.

Personalmente, mi ritengo un grande fan del Cinema d'animazione.
Continuo a sostenere che, quando le cose funzionano bene e al pari di ogni altro genere, anche i "cartoni animati" dovrebbero avere le stesse possibilità ai grandi Festival di tutti gli altri esponenti della settima arte, come fu per Miyazaki vincitore dell'Orso d'oro a Berlino con La città incantata.
Niente più proiezioni solo pomeridiane, insomma, e niente più etichette insulse e riduttive per un bacino di idee meraviglioso come quello del disegno - o surrogati dello stesso - animato.
Perchè se esistono film davvero per tutti, questi sono proprio gli esponenti della suddetta categoria.
E poi che succede!? Non faccio neppure in tempo a convincere qualche radical chic duro e puro che un Miyazaki, un Ocelot, una Pixar sono grandi quanto i numerosi registi di culto in giro per il mondo che subito arriva un film come Rio a rendermi la vita più difficile.
Onestamente, per quanto l'abbia visto senza problemi e mi sia anche concesso un paio di risate - il dialogo a cena tra Linda e Tulio ad argomento uccelli risultava esilarante, se preso da un'altra angolazione -, devo ammettere di avere assolutamente detestato questo film.
Melenso e buonista come i peggio Disney, privo di logica e costruzione dei personaggi come i meno riusciti Dreamworks, la creatura di Saldanha - che forse voleva semplicemente omaggiare la sua città natale, cosa che avrebbe potuto fare senza necessariamente propinarci questa roba - è quanto di più falso, semplicistico, riduttivo e scandalosamente paraculo l'animazione possa produrre.
Dal ragazzino orfano della favela che si pente a tempo di record subito dopo il rapimento dei pappagalli agli irritanti e già citati Linda e Tulio, dal pessimo adattamento e doppiaggio italiano - ma qualcuno lo sa che il portoghese e lo spagnolo sono diversi!? - allo spot clamorosamente agghiacciante di Rio stessa - che sarà pure una delle città più incredibili del mondo, ma presentarla come una sorta di confettino pronto per il carnevale in cui anche i bassifondi sono una specie di giostra di colori mi pare un pò eccessivo perfino per un cartone animato - tutto suona falso, già detto, già sentito e clamorosamente telefonato.
Senza dover infierire sul tormentone di Blu che non sa volare nonostante sia un uccello - e voi lo sapete già come andrà a finire, vero!? - praticamente ogni passaggio della supposta sceneggiatura appare così ovvio da annoiare anche soltanto a pensarlo, e il tutto viene ulteriormente peggiorato da una (fortunatamente) breve serie di canzoni neppure ci trovassimo in un Classico Disney della peggior specie, una più brutta dell'altra ed ulteriormente peggiorate dal già bottigliato adattamento.
E a proposito di Disney, salta all'occhio perfino il plagio della dipartita dell'uccellaccio cattivo finito nel motore dell'aereo in pieno stile del tanto detestato da Cannibale Gli incredibili.
Confrontata a Rio, anche una schifezza retorica e terribilmente noiosa come fu Robots risulta quasi innovativa, ennesima conferma che l'exploit de L'era glaciale non fu nient'altro che un fuoco di paglia, e che Saldanha e soci abbiano in realtà ben poche idee, spesso riciclate e per nulla emozionanti.
Se esistesse un equivalente cinematografico del centrismo politico falso e per famiglie, di sicuro un intrattenimento come questo sarebbe la gioia di tutti i bravi bambini la domenica pomeriggio.
Giusto dopo la Messa e il pranzo con i parenti.
Perdonami, Dembo, per quello che sto per dire, perchè, come giustamente ha sottolineato Julez, se questo film fosse stato interessante, avrei volentieri dedicato il post a te ed Elvis.
Piuttosto che una realtà buonista del genere, io il pappagallo quasi estinto me lo faccio arrosto, e lo mangio anche di gran gusto.
Sognando, grazie al pisolino digestivo, un ornitologo occhialuto e secchione rapinato da tutti gli orfani delle favelas che poi, non contenti, vanno a fare un pò di culo anche ad un certo regista locale un pò troppo crogiolato nel sogno americano.

MrFord

"Im looking for complications,
looking cause I'm tired of lying,
make my way home
when I learn to fly (high)."
Foo fighters - "Learn to fly"-

venerdì 29 aprile 2011

Offside

La trama (con parole mie): In Iran, tra i tanti divieti, vige la regola secondo la quale le donne non possono recarsi alle manifestazioni sportive pubbliche maschili, pena l'arresto.
Un gruppo di ragazze, accomunate dal desiderio di non mancare la sfida con il Bahrein, decisiva per la qualificazione ai Mondiali 2006, si ritrovano a condividere la recinzione destinata alle fermate prima di essere trasportate in caserma.
Una riflessione lucida, disarmante e al contempo leggera della situazione politica di un Iran che pare ancora lontano anni luce dall'idea di democrazia.

Da queste parti l'ammirazione per il Cinema iraniano è sempre stata considerevole, pur se limitata dalle proposte che riescono a valicare confini, frontiere e proibizioni interne e giungere ai grandi Festival del vecchio continente e non solo.
Kiarostami e Panahi sono le due voci più autorevoli di una corrente artistica paragonabile al nostro neorealismo, ed autori di pellicole indimenticabili quali Il sapore della ciliegia - uno dei film più sconvolgenti degli ultimi vent'anni - e Oro rosso, tanto per segnalare i più importanti.
Il secondo tra i due registi, che cominciò la sua carriera come aiuto ed allievo del primo, ha percorso l'Europa come un ciclone con lo straordinario Il cerchio, vincitore del Leone d'oro a Venezia e responsabile di una nuova sensibilizzazione rispetto al Cinema di un Paese in cui la vita di artisti ed intellettuali - ma non solo - non è propriamente rose e fiori.
Nel caso di Offside - Orso d'argento a Berlino qualche anno fa - Panahi abbandona, almeno in parte, i toni cupi e senza speranza dei succitati Il cerchio e Oro rosso, arrivando quasi a sfiorare l'ironia di Persepolis, e ponendo sotto i riflettori il ruolo scomodo della donna nella società attraverso il calcio, disciplina storicamente a quasi totale appannaggio maschile, in un momento di grande aggregazione, la vittoria dell'Iran sul Bahrein che consentì alla compagine mediorientale di partecipare a Germania 2006 - POPOROPOPOPOPOOOO! -.
Le ragazze protagoniste, da quelle silenziose e rassegnate alle future libere pensatrici "combattenti", messe a confronto con la possibilità negata di stare accanto alla propria squadra nazionale in un momento così importante e con i militari di leva costretti a sorvegliarle prima dell'arrivo del loro superiore assume tutti i connotati di una satira sociale anche più spietata di quanto potrebbe essere quella di un qualunque film profondamente drammatico, e trasforma i momenti quasi comici che vengono a crearsi in una serie di riflessioni profonde sui cambiamenti di cui una nazione dalla Storia così importante necessita per poter definitivamente entrare nel nuovo millennio - magari senza un leader dispotico e dittatoriale come quello che si ritrova ora -.
I continui confronti tra le ragazze e i militari, dai ricordi del responsabile, legato alla sua casa e alla sua terra in provincia, fino alla straordinaria sequenza nel bagno degli uomini - perchè negli stadi iraniani non esiste una toilette per signore - paiono quasi un trattato sull'umanità e la sua complessità sociale che rimanda alla riflessione ben più terribile di Kiarostami nel di nuovo già citato Il sapore della ciliegia, in cui il protagonista chiedeva ad un religioso, un soldato e un contadino di aiutarlo a suicidarsi.
Il crescendo conclusivo e la festa a seguito della vittoria dell'Iran paiono quasi un sospiro di sollievo non soltanto per lo spettatore, ma per il regista stesso, che nonostante tutto pare nutrire speranze enormi per i giovani, siano essi figli della moderna Teheran o delle campagne ancora ancorate alle tradizioni, giovani donne coraggiose o soldati con il terrore di un prolungamento della leva.
Panahi è ottimista ancora oggi.
Panahi è in stato di fermo - dopo mesi di carcere e di appelli della comunità cinematografica internazionale, ai domiciliari - per aver minacciato il regime attraverso la realizzazione e la diffusione del suo lavoro, e così sarà per i prossimi cinque anni.
Panahi non potrà più girare, produrre, scrivere, montare un film, in Iran o all'estero, per una sala di quartiere o un grande Festival internazionale, per vent'anni.
Panahi, senza dubbio, nutre ancora speranza. Di lottare, di girare, di vivere.
E chissà che un giorno non ce la faccia, come questo sorprendente Iran dei mondiali 2006.
Chissà che un giorno l'Iran non riesca ad arrivare a vincerli.
Chissà che un giorno l'Iran non possa diventare un Paese libero.

MrFord

"Free as a bird,
it's the next best thing to be.
free as a bird."
The Beatles - "Free as a bird" - 

giovedì 28 aprile 2011

The house of the devil

La trama (con parole mie): Samantha, una giovane universitaria in cerca del denaro necessario per affittare una casa senza dover condividere la stanza nel dormitorio del campus con la disordinata e tendenzialmente selvaggia amica Megan, si imbatte nell'annuncio del signor Ulman, alla ricerca di una baby sitter per quella sera stessa.
Nonostante le stranezze del possibile datore di lavoro e gli inviti alla prudenza di Megan, Samantha deciderà ugualmente - per una considerevole somma di denaro - di accettare l'incarico anche quando scoprirà che il suo babysitting riguarda, in realtà, l'anziana signora Ulman, confinata nella soffitta dell'enorme villa di proprietà della famiglia.
Le ore che separeranno la ragazza dal ritorno dei padroni di casa si trasformeranno presto in un incubo.

Diamo a Cannibale quel che è di Cannibale.
Nonostante la nostra ormai leggendaria rivalità, le opinioni divergenti sulla quasi totalità della produzione cinematografica mondiale e non ultima l'idea che il suddetto continua ad avere del vostro cowboy preferito, devo riconoscere che alcune tra le visioni più interessanti degli ultimi mesi sono passate dritte dritte dai suoi suggerimenti.
The house of the devil, considerata la media delle produzioni horror che passano sui nostri schermi abitualmente rappresenta di certo uno dei prodotti più interessanti degli ultimi anni, al pari del recentemente postato The loved ones.
Come per l'appena citato film australiano, anche nel caso di The house of the devil non siamo di fronte ad un Capolavoro, o ad un nuovo riferimento per il genere, eppure l'intrattenimento che il prodotto finale fornisce è sicuramente di livello, e almeno fino alla risoluzione della trama e, di fatto, allo scioglimento della tensione degli ultimi venti minuti, l'impressione che fornisce è quella di un omaggio riuscitissimo al Cinema di Hitchcock e Polanski.
Certo, si parla di due Maestri praticamente inarrivabili - soprattutto il primo - autori di pellicole che hanno fatto la storia dell'horror - soprattutto il secondo -, eppure Ti West, classe 1980, dimostra di avere stoffa da vendere, riuscendo a citare mostri sacri come Psycho, L'esorcista e Rosemary's baby senza mai eccedere o scadere nel radicalchicchismo da bottigliate selvagge.
Inoltre, per quasi un'ora e un quarto, il giovane regista sfrutta al meglio quello che è il segreto per tenere sulla corda, inquietare e, all'occorrenza, terrorizzare l'audience: ovvero il nulla.
Tolta la revolverata improvvisa in pieno stile Animal kingdom, assistiamo infatti alla quasi totalità della pellicola senza sapere se effettivamente i sospetti e le paure di Samantha siano effettivamente credibili o, piuttosto, un'elaborata ed erronea costruzione della sua mente, proiezione di ansie e timori.
In una casa vuota eppure estremamente vivida, si assiste ad un montare di suggestioni che riporta in pieno la lezione di Robert Wise e del suo incredibile, indimenticabile Gli invasati - recuperatelo, è una vera e propria lezione di Cinema -, e, addirittura, riesce nell'impresa di far seguire la protagonista con disagio ed irritazione, considerata la sua curiosità ed il suo ispezionare la villa, quasi ci sentissimo in colpa come se fossimo noi a farlo o innervositi come se qualcuno lo facesse tra le nostre mura.
Da un certo punto di vista, il logico e risolutivo climax del finale toglie parte del fascino ad un lavoro comunque pregevole, godibilissimo ed assolutamente interessante rispetto ad un genere ormai bistrattato da presunti colpi di genio ed ironia - qualcuno ha detto Scream!? - o cose improponibili ingiustificatamente divenute cult - la doppietta di Hatchet -.
Inoltre, una pellicola in grado di tenere sulla corda e lontana dalla nanna Julez, che sfodera omaggi ad un Cinema ormai quasi dimenticato, mantiene senza menarsela troppo uno stile che omaggia un'epoca e sfoggia come protagonista il macabro Tom Noonan, già serial killer dell'indimenticabile Manhunter, non può che avere il mio sostegno.
In fondo, non tutti i cannibali vengono per nuocere.

MrFord


"Ever danced with the devil baby? Oh no.
Make my day,
do you feel lucky? Oh no.
Tomorrow's another day."
Stereophonics - "Devil" -
 



mercoledì 27 aprile 2011

Molto incinta

La trama (con parole mie): Alison Scott, giovane presentatrice televisiva, festeggia la sua promozione con una sempre divertente sbronza danzante in compagnia della sorella finendo a letto con Ben, che vive sfruttando gli ultimi scampoli di un vecchio risarcimento assicurativo con un gruppo di amici che sognano di mettere online un sito che permetta di scoprire a quale minuto di quale film la propria star preferita sia riproposta senza veli.
La nottata ha conseguenze inaspettate, e una volta scoperto di essere incinta, Alison dovrà decidere cosa fare della sua vita, del suo lavoro e del rapporto con Ben, a prima vista certo non idilliaco.

Judd Apatow, con quello che può essere considerato una sorta di suo clan, si sono ritagliati, negli ultimi anni, uno spazio sempre maggiore all'interno della realtà della commedia made in Usa, convincendo anche molti appassionati di Cinema colto a colpi di grottesco e volgarità assolutamente irresistibili neanche fossero un'incarnazione del Kevin Smith migliore: pellicole come SuXbad o Pineapple express ne sono ormai la testimonianza effettiva - anche per il sottoscritto -, avendo fornito una sorta di standard anche all'interno della filmografia del regista e produttore.
Sarà per questo, sarà per la mancanza del brio dei lavori precedenti, sarà per l'eccessiva durata - patita, in qualche modo, anche nell'appena citato Strafumati -, ma Molto incinta non mi ha convinto così tanto.
Tolto, infatti, l'adattamento assolutamente insensato dell'originale "Knocked up" - ma con i film di Apatow, in fondo, ci siamo abituati a scempi di questo genere -, paiono venire meno molti dei tratti distintivi della "poetica" del regista, sacrificati ad una struttura e ad uno svolgimento più simili a quello delle commedie romantiche canoniche, che personalmente di solito trovo piuttosto stoppose, se la fase di scrittura manca del mordente necessario.
Assieme agli horror, infatti, trovo che le pellicole sentimentali siano tra le più difficili da scrivere per uno sceneggiatore, soprattutto nel caso di mancanza di drammi o, come per Molto incinta, se l'idea è quella di proporre un film che possa concentrare sentimenti e risate sguaiate in modo da accontentare entrambi i componenti di una coppia una volta giunti in sala, evitando litigi all'uscita - e a volte anche prima -.
Ed è proprio con la sceneggiatura che i limiti di questo film spuntano fuori come funghi - non allucinogeni, purtroppo -: la situazione lavorativa di Alison, il rapporto con la sorella, l'atteggiamento di Ben rispetto alla paternità e ai suoi compagni, con il passare dei minuti, più che essere approfonditi, passano con leggerezza e una certa sufficienza a dare il minimo indispensabile - e spesso anche qualcosa in meno - in attesa del finale, creando una sensazione di noia diffusa non controbilanciata dalla consueta dose di risate e situazioni assurde cui questo tipo di pellicole ci aveva abituato in altre occasioni.
In qualche modo pare quasi che Apatow abbia tentato il salto di qualità unendo la sua comicità demenziale ad un film per i suoi standard più impegnato senza riuscire a centrare del tutto l'obiettivo, e facendo rimpiangere quella che, ormai, è la pellicola di riferimento per questo genere: Zack&Miri make a porno di Kevin Smith, un vero e proprio gioiellino capace addirittura di prendere il posto, nel mio cuore, dei due indimenticabili Clerks.
Del resto, non tutti sanno essere estremamente volgari, irresistibilmente divertenti, inguaribilmente romantici e in grado di conquistare il lato azzurro e quello rosa della platea contemporaneamente.
Certo, non tutti sono Kevin Smith.
E Judd Apatow deve, dico deve, tornare ad occuparsi di quel cameratismo che tanto manca a Ben e Pete, e riduce quest'ultimo alle sessioni di fanta-baseball all'insaputa della moglie.
Perchè tolto quello, del suo Cinema resta davvero pochino.


MrFord

P.S. Da spettatore di Grey's anatomy, inoltre, non posso che riscontrare l'incapacità attoriale - ed anche una certa antipatia - che il grande schermo induce in Katherine Heigl, decisamente più a suo agio nell'universo delle serie tv rispetto a prove come questa o all'indecente 27 volte in bianco.
Quindi, prima che sia troppo tardi, le converrà decidere di tornare a vestire i panni di Izzie Stevens.

"That's my daughter in the water
everything she owns I bought her
everything she owns.
that's my daughter in the water,
everything she knows I taught her.
everything she knows."
Loudon Wainwright III - "Daugter" -

martedì 26 aprile 2011

Scre4m

La trama (con parole mie): Sidney Prescott fa il suo ritorno trionfale nella cittadina natale, la stessa che l'aveva vista sopravvivere alle prime scorribande di Ghostface - che, poi, non era un solo killer, ma questa è un'altra storia - in occasione del lancio del suo libro, una sorta di autobiografia che mostri quanto è stata in gamba ad uscire dal tunnel del terrore.
Peccato che, in città, gli omicidi riprendano con la stessa modalità, e che qualcuno pare proprio voglia rinverdire i fasti degli anni novanta aggiornandoli al nuovo millennio.

Premetto che, personalmente, trovo che Wes Craven sia stato uno dei grandi pionieri dell'horror nel corso degli anni ottanta: L'ultima casa a sinistra, Le colline hanno gli occhi, Il serpente e l'arcobaleno e soprattutto Nightmare hanno reso il regista di Cleveland uno dei grandi innovatori del genere agli occhi degli appassionati, e non solo.
Perchè l'arzillo Wes, ad una certa truculenza e alla paura, è sempre riuscito ad unire una componente di nerissima comicità ed ironia che molti suoi anche più illustri colleghi non hanno mai neppure lontanamente immaginato di avere, e con la stessa è riuscito più di una volta a colpire il mio immaginario di spettatore: l'ultima, cronologicamente parlando, risale ai tempi dell'ottimo - e troppo sottovalutato - La casa nera, datato 1991.
Ricordo che vidi Scream al Cinema, stregato da un trailer che prevedeva un crescendo di tensione quasi insopportabile e mi faceva ben sperare ricordando il terrore che, da bambino, era in grado di scatenare in me Freddy Krueger, spodestato soltanto dall'insuperabile Bob di Twin peaks.
Ricordo anche tutto il clamore e l'immediata trasformazione di quello che pareva niente più che un teen movie in un cult, e lo stupore che la cosa suscitò nel sottoscritto.
Perchè se il di nuovo arzillo Wes non aveva perso tecnica ed ironia, si era come fatto travolgere dalle stesse, neanche fosse uno di quei cinquantenni che girano per locali con il sorriso dei tempi migliori sperando di portarsi a casa qualche ventenne nella speranza di farsi venire un bell'infarto tra le lenzuola.
Così ho deciso di dare personalmente un taglio alla mia frequentazione dei lavori del signor Craven, fino a quando il clamore pubblicitario e della rete non mi hanno convinto - insieme a Julez, sostenitrice del genere squartamenti assortiti - a cimentarmi una volta ancora con le imprese di Ghostface.
Sono passati quindici anni dal primo capitolo della saga, e cosa scopro?
Che il nostro arguto regista non solo non è cambiato ma, se possibile, è diventato anche più sornione: intelligente? Di sicuro. Divertente? Anche. Ironico? Senza dubbio.
Ma davvero vogliamo spacciare il giochino delle citazioni - a dir poco insistite - e gli incastri in apertura di pellicola per metacinema?
Se così fosse, una cosa come Rubber sarebbe da considerare una sorta di nuova frontiera della settima arte, invece che un buon film.
E Underground, già di suo un Capolavoro, la pietra angolare di tutta la storia del grande schermo dai Lumiere ad oggi.
Un giochino divertente, ecco cosa rimane dei trucchetti di Craven: che all'ennesima domanda sui film horror diventa simpatico quanto il vostro compagno nerd incapace di star zitto delle superiori.
Certo, la riflessione sull'evoluzione dei tempi è interessante, e la chiusura di agghiacciante attualità, eppure di paura non si parla neppure da lontano, e l'impressione è che il regista - così come la protagonista stessa - rifiuti l'idea del tempo che passa e cerchi in tutti i modi di apparire più cool delle nuove generazioni in rampa di lancio.
Se proprio dovessi pensare all'horror e alle sue citazioni, credo che Leatherface o Jason se ne sarebbero bellamente infischiati, di un mostro di nuova generazione, o forse si sarebbero sforzati quel poco di più per farlo a pezzetti.
Per non parlare di Freddy Krueger, che si sarebbe limitato ad un paio di insulti e una risata, forse senza neppure darsi il disturbo di toglierlo di mezzo.
Inutile dirlo, Wes.
Hai stile, ma il tuo tempo è inesorabilmente passato.
E più ti sforzi a voler dimostrare che non è così, più apparirai vecchio ed obsoleto.
Basti solo pensare che l'ultima volta in cui hai davvero inquietato il pubblico era, per l'appunto,  il 1991.
Per dirla come Sidney, l'originale vincerà sempre.
E tu ormai non sei altro che il remake di te stesso.


MrFord


"Hey, why you keep screaming at the top of your head?
I say hey, why you keep screaming at the top of your head?"
Chris Cornell - "Scream" -

lunedì 25 aprile 2011

Repo men

La trama (con parole mie): In un futuro prossimo una megacorporazione gestisce il mercato degli organi artificiali garantendo salute e prosperità ad un mucchio di gente in più rispetto a quanto non accada ora attraverso finanziamenti che fanno sembrare i mutui attuali una sorta di buffetto sulla spalla.
Passati novantasei giorni di insolvenza, un recuperatore è incaricato di riportare la merce alla corporazione stessa asportandola dal malcapitato di turno.
Remy e Jake sono due tra i migliori sul campo, veri schiacciasassi del mestiere.
Peccato che, a seguito di un incidente, a Remy verrà innestato un cuore artificiale, avvenimento che scatenerà una crisi di coscienza che, ovviamente, porterà soltanto guai.

Questo Free drink è per Dae.

Alla fine, è arrivato.
Quando ho dato il via alla rubrica sui film a richiesta mi sono chiesto come mi sarei sentito quando il free drink avrebbe portato ad un post sostanzialmente negativo.
Perchè così come è vero che un film possa essere percepito in modo differente a seconda dello spettatore e nulla di un giudizio legato allo stesso vada ad intaccare minimamente il valore della persona che lo consiglia, la sensazione è un pò quella di quando qualcuno ti invita a cena per poi sentirsi rifiutato il piatto forte della serata.
Ma, d'altro canto, il confronto è fatto anche di questo, è dato che il saloon è sempre stato aperto alle discussioni, non posso certo tirarmi indietro come se dovessi rimangiarmi la parola.
Devo anche ammettere che Repo men, tutto sommato, non è neppure così male.
Forse il suo peccato peggiore sta nel fatto di essere solo molto, molto paraculo.
Probabilmente autore - prima - e regista - poi - hanno riconosciuto da subito l'impossibilità di replicare la magia dell'inimitabile Blade runner, l'angoscia crescente di District 9 e la soffocante realtà di A scanner darkly, tre titoli cui, certamente, Repo men è molto legato: così, per mantenere comunque intatta una certa aura di autorialità unita all'intrattenimento del film d'azione con tutti i crismi entrambi paiono aver tratto ispirazione da Minority report, titolo che presenta gli stessi livelli di paraculaggine in crescita incontrollata, e parte appassionando per poi chiudere con colpi bassi e lavate di coscienza.
La responsabilità maggiore mi pare quella di una sceneggiatura inadeguata, a tratti segnata da buchi logici degni dei peggiori film horror e sempre pronta a scagliare il sasso per poi nascondere innocentemente la mano, perdendosi al contempo in lungaggini e togliendo forza ad un film partito - come si diceva per l'appena citato Minority report - discretamente e con potenzialità che avrebbero permesso, in altre condizioni - e forse sotto una direzione diversa -, di replicare il piccolo miracolo che fu I figli degli uomini, il lavoro migliore di Cuaron ed una delle pellicole di sci-fi prossima alla nostra realtà più interessanti e sottovalutate degli ultimi anni.
L'idea - ottima, sulla carta - del recupero crediti legato agli organi - ho i brividi solo a pensare a cosa avrebbe potuto fare con un soggetto simile il Park Chan Wook dei tempi d'oro - viene così progressivamente svilita dai più banali sviluppi che si possano immaginare: l'antieroe è in realtà un brav'uomo vessato dalla moglie nonchè amico fedele e dipendente modello, la sfortuna e il caso lo portano ad empatizzare con chi, prima, lo stesso toglieva senza troppi problemi di mezzo per portare lo stipendio a casa, sopraggiunge la consueta crisi di coscienza legata a doppio filo con l'abbandono da parte della moglie, arrivano a ruota la rottura con il sistema, la crisi con l'amico di una vita, il consueto nuovo e tormentato amore. 
Tutto prima di rompere culi a destra e a manca per riportare l'ordine e la giustizia.
Troppo facile, così.
E anche quando il colpo di scena conclusivo pare riportare su un binario interessante l'intera pellicola si resta comunque perplessi sul perchè non si potesse far durare il tutto una buona mezzora in meno e con la sensazione, in qualche modo, di essere stati presi in giro con un gioco di specchi che è ben lontano dall'essere lo stesso di The prestige.
Nolan, ecco un altro nome che avrebbe fatto faville, con materia come questa.
Peccato davvero che, dietro la macchina da presa, ci fosse Miguel Sapochnik, che il massimo cui potrà aspirare, sarà continuare a dirigere episodi del Dr. House.
Troppo facile, davvero.
E preferisco struggermi di fronte al tramonto sognato in punto di morte da Carlito, che pensare a quanto possa essere crudele il cocktail sulla spiaggia di Remy che si gode la sua autobiografia.


MrFord


"Now I have seen the warnings, screaming from all sides
it's easy to ignore them and G-d knows I've tried
all this temptation, it turned my faith to lies
until I couldn't see the danger or hear the rising tide."
Pink Floyd - "Take it back" - 



 

domenica 24 aprile 2011

Mary and Max

La trama (con parole mie): Mary, una bambina australiana di otto anni introversa e vessata da una madre terribile, sceglie un nome casuale tra le pagine di una guida telefonica trovata per caso ed entra in contatto con Max, un uomo di mezza età timoroso, sovrappeso ed affetto da attacchi d'ansia di New York.
Inizia in questo modo una corrispondenza che durerà oltre vent'anni, creando un legame unico in grado di infondere coraggio e voglia di vivere ai due protagonisti ogni volta che la realtà li metterà alla prova.
Tutto a partire da un pezzetto di cioccolato.

Anche se non è richiesto, questo Free Drink è per Julez.

Volavamo da Sydney verso Francoforte, nel corso dell'interminabile rientro dal viaggio di nozze in Australia, e più o meno all'altezza dell'India, curiosando nella guida ai film disponibili, incappammo in Mary and Max, film d'animazione di produzione australiana - per l'appunto - colpevolmente mai distribuito in Italia.
Niente sottotitoli, ma l'idea di un esperimento che ci riportasse con il cuore indietro nel pieno del continente down under era troppo forte, in grado di vincere sonno, stanchezza ed una familiarità non proprio perfetta di Julez con l'anglofonismo, che di persona viene superata grazie alla sua sempre incredibile carica di comunicatività - il fenomeno "Julez amica di tutti" che spesso ci coinvolge quando usciamo di casa, e che il vecchio Ford può sperare di pareggiare solo quando è molto ubriaco -.
Il risultato fu una delle sorprese più incredibili tra le visioni di quella stagione da spettatori: una vera e propria perla di profondità ed intensità incredibili, animata da un ottimo stop motion, recitata benissimo da Toni Colette e Philiph Seymour Hoffman - rispettivamente Mary e Max -, scritta con la semplicità e la meraviglia di un bambino eppure filtrata da emozioni assolutamente travolgenti legate alla crescita di ognuno di noi, in grado di toccare amicizia, amore, morte e tutti gli alti e bassi dell'esistenza cui tutti, in qualche modo, dobbiamo qualcosa, presto o tardi che sia.
Il crescendo emozionale che accompagna Mary dall'infanzia all'età adulta e Max alla vecchiaia è quanto di meglio possa offrire il Cinema d'animazione, e ancora oggi, a distanza di due anni, mi ricorda le meraviglie di Miyazaki, il brio di Persepolis, la scrittura semplice eppure profondissima di Ocelot e la magia della Pixar.
Una favola struggente sulla solitudine e la ricerca della persona che più di ogni altra, dai momenti migliori ai peggiori, dalle risate fino alle lacrime alle lacrime e basta, sarà indiscutibilmente la più importante della nostra vita.
Non che già non lo sapessi, ma quando Julez ha staccato le cuffie sul finale, con gli occhi gonfi e lucidi, ho sentito una volta ancora che lei era, è e sarà sempre la Mary di questo altrimenti irrimediabilmente perduto Max.

So di non aver ecceduto in tecnica, e che più che parlare del film mi sono concentrato su di me, ma ragazzi, fidatevi e guardatelo: perchè ci sono cose per cui vale sempre la pena di provare del sano strùggio e versare lacrime senza averne vergogna.
Guardatelo.
O vi scasso di bottigliate.

MrFord

"I'm here without you baby
but you're still on my lonely mind
I think about you baby
and I dream about you all the time."
3 doors down - "Here without you" -

sabato 23 aprile 2011

Carlito's way

La trama (con parole mie): Carlito Brigante, un criminale della vecchia scuola, a causa di un cavillo legale viene completamente prosciolto dopo aver scontato cinque dei trent'anni di carcere che gli erano stati comminati. Per le strade è una sorta di leggenda, e molti - a partire dal suo avvocato, il viscido David Kleinfeld - vorrebbero vederlo tornare al crimine: ma il sogno di "Charlie" è di ricongiungersi all'amata Gail, mettere da parte un buon gruzzolo e trasferirsi alle Bahamas per noleggiare auto ai turisti.
Una vita da sogno, una vita pulita.
Ma si sa che, quando si prende la strada della realtà, difficilmente i sogni si avverano.

L'avevo promesso pochi giorni fa con Scarface.
Non esiste un Tony Montana senza un Carlito Brigante.
Sono come Batman e Joker, La sottile linea rossa e Apocalypse now, Beatles e Rolling Stones.
Stesso regista - un sempre tecnicissimo De Palma: attraverso i movimenti pare quasi sia in grado di far recitare la macchina da presa -, stesso attore protagonista - istrionico e sopra le righe, Pacino è sempre una garanzia -, dieci anni di distanza tra le pellicole per due storie legate a doppio filo con dramma e caduta.
Ma cosa rende differenti le parabole di Montana e Brigante?
La risposta giunge immediata e più semplice di quanto non si possa credere: il cuore.
Perchè tanto il famelico Tony - oserei dire quasi una versione giovane ed arrogante di Carlito - risale la china ritrovandosi sempre più solo per scelta e volontà, quanto lo stesso Carlito sprofonda negli abissi della condanna che fin dall'incipit pesa sulla sua testa lottando fino all'ultimo secondo per tenersi stretto il sogno che ha coltivato nel corso dei cinque anni passati dietro le sbarre, allontanando il destino che la strada disegna per quelli come lui con il pensiero di una vita normale, fuori dai giochi.
Ed è così che Carlito si dichiara: fuori dai giochi, ritirato. Nessun credito, nessun debito.
Solo l'offerta di gestire un locale accettata grazie al tributo di sangue lasciato dal nipote, troppo fragile per poter sopravvivere in una giungla come quella che ha reso Brigante una delle belve più ambite dai cacciatori di gloria, siano essi giudici o piccoli criminali in ascesa.
Lavorare duro, tenere un profilo basso, e portarsi a casa quei soldi che quasi permettono di poter toccare il sogno, sfiorarlo come fosse la pelle della propria donna, assaporare la passione fino in fondo.
E Carlito di passione se ne intende, perchè è un duro, tutto d'un pezzo, di quelli della vecchia scuola, che non tradiscono gli amici e ribollono sempre, anche quando tutti i loro sforzi si concentrano sul mantenere il controllo: e quando di fronte si ha una possibilità, allora anche le mezze tacche come Benny Blanco, che un tempo non avrebbero esistato a fare fuori, finiscono accompagnati fuori dal locale soltanto un pò ammaccati.
E' un errore, si dice Carlito, un rischio.
Eppure la forza si dimostra, a volte, senza mostrarla.
Con l'ex amico traditore Lalin - un grandissimo Viggo Mortensen - tra le mani, che quasi implora di essere ucciso dopo essere finito sulla sedia a rotelle, Brigante si sovrappone a Montana, che di fronte al suo boss in ginocchio diceva "Io non ti uccido. Manny: fai fuori questo pezzo di merda!", e come ferito sussurra "Io non ti uccido. Chiamo qualcuno che ti spinga fuori.".
E di colpo pare che il mondo moderno non abbia spazio, per uno come Carlito.
Troppo forte, forse. Troppo passionale. Troppo tutto.
Del resto, non ce n'era neppure per il più popolare Scarface, che quello stesso spazio era abituato a prenderselo, più che sudarselo giorno per giorno.
E così, accompagnato da una voce fuori campo che ci culla come meglio non si potrebbe, Charlie corre incontro alla morte con fiera rassegnazione, aggrappandosi sempre e comunque alla vita con le unghie e con i denti, ma soprattutto con il cuore.
E regalando al suo pubblico almeno tre sequenze da antologia - il biliardo e la sparatoria sul retro del barbiere in principio, la porta sfondata per raggiungere Gail e tutta la sequenza conclusiva, che ricorda i fasti de Gli intoccabili - ci prepara all'inevitabile: perchè Carlito Brigante, che è un Uomo, e non uno squalo come Kleinfeld, è inesorabilmente destinato a cadere al suo fianco.
Niente debiti, niente crediti. Pulito. Per ricominciare da capo.
Ma come si può ricominciare una vita intera quando la strada ha già parlato per noi?
Non si può. Non si può più nulla.
E di nuovo tornano alla mente i ragazzi terribili e clamorosamente umani di Romanzo criminale.
Ma non esiste nulla, per chi brucia così tanto.
Così, non resta che goderne fino in fondo, per scoprire quando sarà troppo tardi per essere ricuciti che quel sogno è stato bello anche solo accarezzarlo, come il ventre di Gail che ospita quello che sarà un Carlito migliore.


MrFord


"And now, the end is near,
and so I face the final curtain.
my friends, I'll say it clear;
I'll state my case of which I'm certain."
Frank Sinatra - "My way" -


venerdì 22 aprile 2011

La vita è un sogno

La trama (con parole mie): Siamo nel maggio del 1976, ed è l'ultimo giorno dell'annata in una scuola di una piccola cittadina del Texas. Randall "Pink" Floyd e i senior sono intenzionati a fare baldoria e a godersi la nottata, oltre a torturare le matricole, come tradizione vuole.
Dall'altra parte, i "poppanti" come Mitch e Sabrina dovranno cercare di superare alla meno peggio le prove loro destinate e, chissà, guadagnarsi rispetto e amicizia dei grandi cominciando ad assaporare il mondo dell'high school.
Una giornata storica in cui vicende personali e ritrovi di gruppo si incrociano prima che le vite di tutti i suoi protagonisti possano davvero prendere forma.

Questo Free drink è per Ottimista.

Esistono delle pellicole che diventano, pur non affrontando temi particolarmente profondi o scottanti, sconvolgenti o necessariamente pesanti, piccole pietre miliari nel corso della nostra crescita, andando a stuzzicare quella parte di noi che ha vissuto quei momenti così normali eppure ad un tempo straordinariamente eccezionali che fanno parte dell'esistenza di ognuno.
Certamente, l'inizio e la fine delle scuole superiori fanno parte, con tutto il loro bagaglio di piccoli successi e grandi delusioni, dell'esperienza di noi tutti.
Così come La vita è un sogno rientra perfettamente nella stessa categoria di film di cui fanno parte I Goonies, Stand by me, Y tu mama tambien, Quasi famosi, per citarne soltanto alcuni.
Il lavoro di Linklater non sarà memorabile, eppure ha il potere di parlare un linguaggio universale a tutti noi ragazzi figli della cultura occidentale, quasi fosse una sorta di versione "stoned" di American graffiti, capostipite del genere "chissà cosa sarà delle nostre vite, intanto mi godo al massimo questo momento di baldoria e tentativi di ribellione".
In questo senso, il personaggio di Pink rappresenta al meglio quante contraddizioni, grandi ideali e cazzate siano in testa in quel particolare periodo della vita, che coincide, più o meno, con la volontà di ottenere tutto ma solo ed esclusivamente alle proprie condizioni, cercando di fare tesoro di quello che si è vissuto ma senza dimenticare, pur non dimostrandolo apertamente, di essere il numero uno: il rapporto con la squadra e l'allenatore di football sono un esempio perfetto, così come il modo in cui lo stesso Pink tratta Mitch, rendendolo, di fatto, il suo protetto agli occhi degli altri senior.
Interessanti, inoltre, i personaggi di David, che ha deciso di non frequentare l'università per godersi la soddisfazione immediata dei soldi di un lavoro in città, di Mitch e sua sorella Jodi, e Sabrina, capace di sopportare le intemperanze delle compagne più grandi e ritagliarsi uno spazio allo stesso modo di Mitch.
Il tutto ritmato da una colonna sonora che pare proprio cucita addosso al vecchio Ford, tra Aerosmith, Black Sabbath, Led Zeppelin - cui si deve anche lo stesso titolo originale della pellicola - ed Alice Cooper, senza dimenticare il momento in cui, tra manichini e birra, vengono sparate a tutto volume le note dei Kiss, conquistando completamente ed irrimediabilmente il sottoscritto, che proprio sul finire del liceo visse una incredibile annata di passione per le quattro rockstar autrici di Detroit rock city culminata nel fantastico concerto di Milano del marzo 1999.
Amarcord, un pò come quello raccontato da Linklater.
Perchè chi davvero può sapere dove sono finiti quei ragazzi, se sono felici, o disperati, all'apice del successo, o addirittura morti, sono soltanto loro.
Qui restano i loro sogni, grandi e piccoli.
E anni che, volenti o nolenti, ricorderemo per sempre.


MrFord


"Perchè a vent' anni è tutto ancora intero, perchè a vent' anni è tutto chi lo sa,
a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell' età,
oppure allora si era solo noi non c' entra o meno quella gioventù:
di discussioni, caroselli, eroi quel ch'è rimasto dimmelo un po' tu."

Francesco Guccini - "Eskimo" -

giovedì 21 aprile 2011

Rubber

La trama (con parole mie): Uno pneumatico si risveglia di colpo nel bel mezzo di una zona desertica degli States, e una volta riavutosi decide di muoversi e confrontarsi con la realtà delle cose.
Una giovane lo investe con l'auto, dando origine ad una vendetta feroce da parte del gommoso protagonista, osservato da lontano da una platea d'eccezione orchestrata - ma non troppo - da una regia imperfetta.
Tutto ciò, prima di reincarnarsi in triciclo e andare alla conquista di Hollywood.
Perchè succede tutto questo!? E' ovvio: per nessuna ragione.

Quando ho visto le sedie Ikea - Stefan, per la precisione, le stesse della Fordcucina - afflosciarsi colpite da una macchina in slalom ho pensato subito a quale incredibile vagonata di bottigliate si stava preparando per questo film che appariva come la solita sbrodolata pretenziosa di qualche autoreferenziale ed assolutamente inesistente genio creativo venuto dal videoclip o dalla pubblicità.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivato uno degli esempi più illuminati e clamorosi di metacinema che mi sia mai capitato di vedere, con il discorso dello sceriffo che, prontamente, darà una caccia semiserrata al nostro pneumatico omicida di fronte ad un pubblico pronto a sopportare qualsiasi prova per giungere alla fine, eppure osteggiato da una produzione che, da par suo, vorrebbe veder conclusa la sua giornata lavorativa il più presto possibile.
Un pò come lo spettatore stesso, quando di fronte allo psicocinetico killer adatto ad ogni tipo di terreno cercherà di nascondersi dietro un dito affermando che, non essendo un personaggio, andrebbe risparmiato alla furia delle teste esplose come angurie colpite da incudini piovute dal cielo.
O l'autostoppista uscito dritto dritto dagli anni settanta, che chiede un passaggio al bambino in bmx che porta la pizza al dispotico genitore e si ferma giusto in tempo per guarnirla con interiora di corvo fatto esplodere trovato sul ciglio della strada.
O il manichino, che si domanderà perchè deve proprio essere doppiato, per entrare a far parte della produzione, per giunta prima dalla pseudo-protagonista, poi dallo sceriffo, poi di nuovo dalla stessa pseudo-protagonista. 
Neanche fosse la Bellucci. 
Il manichino, intendo.
Il tutto, per finire anche con la testa esplosa come un essere umano qualunque.
O il triciclo, che credeva di poter avere una chance in Shining, e invece si trova a dover guidare una rivoluzione di pneumatici in rivolta pronti a conquistare l'industria cinematografica intera, o almeno, il suo danaroso cuore.
Che cosa dite!? Che tutto questo non ha alcuna ragione!?
E' assolutamente vero.
Ma del resto, la vita ne ha?
Chi decide cosa? A quale scopo?
Perchè i vostri vestiti, in questo momento, sono di quei particolari colori?
E perchè questi colori esistono?
Per nessuna ragione?
Non esattamente.
Del resto, il metacinema e la sua dissacrante carica hanno senso nel loro dare spessore all'esistenza stessa della settima arte.
Ed è per questo che un film come questo, con tutte le sue imperfezioni ed il suo non essere assolutamente per tutti, appare contradditoriamente come una visione quasi obbligatoria, ed una delle più geniali trovate dell'anno.
Tutto il sapore del radical chic per una pellicola totalmente - o apparentemente, meglio - senza regole, e tutto il pane e salame del grindhouse selvaggio al servizio di una tecnica che colpisce in pieno centro l'immaginario dell'audience.
Sia esso a colori o in bianco e nero, pronto a lasciarsi travolgere e avvelenare o a battersi fino all'ultimo, a mostrare cuore e viso aperti o tentare di celarsi dietro il trucco della finzione e della realtà.
E infine, un doveroso ringraziamento a Cannibale e Frank, che hanno segnalato la pellicola e portato a questa inaspettata, fantomatica, esplosiva - in tutti i sensi - visione.
Perchè, infine, questo post appare così strano, disorganizzato e folle!?
Nessuna ragione.
Tranne per il fatto che Rubber è la pazzia più cazzuta che possiate trovare in giro in questo momento.


MrFord


"I said hold on
and it won't take long
baby put this put this put this
rubber on!"
Pitbull - "Rubber on" -

mercoledì 20 aprile 2011

Pineapple express - Strafumati

La trama (con parole mie): Dale Denton, fumatore di marijuana appassionato che si occupa di consegnare ingiunzioni giudiziarie, assiste ad un omicidio che vede coinvolti una poliziotta corrotta e il fornitore del suo pusher Saul. Un mozzicone di canna con all'interno la pregiatissima erba Pineapple express sarà la traccia che il criminale seguirà per dare la caccia all'insolita coppia di fuggiaschi, che cercheranno di arrangiarsi come possono inanellando una serie di situazioni al limite del grottesco neanche fossimo nel bel mezzo di un film con protagonisti Jay e Silent Bob diretti da un Kevin Smith strafatto. 
E alla fine ci scappa pure la sparatoria, giusto per contentare noi vecchi appassionati dell'azione.

Questo Free drink è per Ginger.

Lo ammetto, era dai tempi di SuXbad a casa di Dembo che non mi divertivo così sguaiatamente con un bel film da amicizia virile virata sul cazzonismo.
Superato il trauma di un altro tra i titoli più imbecilli mai appioppati ad una pellicola nel suo adattamento - curioso che, di recente, sia accaduto lo stesso con un altra visione di "verde" argomento, Fratelli in erba -, da subito il lavoro della premiata ditta Apatow/Rogen mi è parso fresco e frizzante, scorrevole e a tratti irresistibilmente divertente, candidato ad essere uno dei miei personali cult di genere, quasi alla pari con il succitato Suxbad o Una notte da leoni.
Certo, non siamo qui a parlare di pellicole in grado di lasciare il segno nella Storia del Cinema, e probabilmente, con qualche accortezza in più nello script, il risultato sarebbe potuto essere certamente migliore, eppure sequenze come la notte nel bosco, la rissa improvvisata a casa di Red - divenuta in pochi istanti una delle mie scene cult di questo inizio duemilaunidici -, la cena a casa della fidanzata di Dale e l'incredibile inseguimento in macchina non si dimenticano facilmente, oltre a far pisciare sotto dalle risate neanche si fosse tornati di colpo adolescenti nel pieno esercizio della loro proverbiale demenza.
L'accoppiata Rogen/Franco, inoltre, sfodera simpatia e suddetto cazzonismo - sono in vena di neologismi, in questo periodo, ispirato da Julez - a profusione, suscitando immediata empatia nello spettatore, consumatore abituale di erba o no: i due compagni di fuga, a tratti simili ai protagonisti dei Classici Disney che si trovano, scoprono di essere legati, hanno un momento di difficoltà, rinsaldano la loro amicizia e sconfiggono i cattivi di turno, riescono a mantenere un livello di stupidità consolidato ed irresistibilmente divertente, scomodando nella mente del sottoscritto, in alcuni momenti, addirittura un paragone - pur se alla lontana - con i passaggi più surreali di Arizona junior o Il grande Lebowski.
Certo, siamo pur sempre di fronte ad un film super fracassone da veri e propri jackass legati gli uni agli altri come dei veri fratelli che non avrebbe perso nulla con una ventina di minuti in meno, ma ragazzi, me lo sono proprio goduto. 
L'unica, grande pecca sta nel fatto di non averlo programmato per una bella serata in compagnia con rutto libero, risate idiote e fidanzate e mogli che guardano allibite da lontano chiedendosi se sia realtà o fantascienza il fatto che si siano legate a rincoglioniti di proporzioni bibliche come gli scimmioni strafatti che ciondolano poco lontani da loro di fronte alla tv.

P.S. Non c'entra nulla o quasi, ma non resisto a non dirlo: McLovin!


MrFord

"They’ll stone ya when you’re tryin’ to make a buck
they’ll stone ya and then they’ll say, “good luck”
tell ya what, I would not feel so all alone
everybody must get stoned."
Bob Dylan - "Rainy day women 12&35"-

martedì 19 aprile 2011

Scarface

La trama (con parole mie): Tony Montana, immigrato cubano dal dubbio passato, giunge a Miami definendosi un "rifugiato politico" ed inizia la sua personale scalata verso la conquista del mondo e del sogno americano del self made man. 
Attraverso omicidi, violenza, sfrontatezza ed un ego da spavento, spalleggiato dall'amico Manny, giunge in pochi anni ai vertici dell'organizzazione criminale che l'aveva accolto al suo arrivo fino a divenirne il boss indiscusso, portando ai massimi livelli la distribuzione di cocaina grazie al legame con il terribile trafficante Sosa.
Ma lo stesso carattere in grado di dargli la forza per compiere la scalata e raggiungere la vetta sarà la causa della sua rovinosa caduta.

Pochi giorni fa, in occasione del post sulla meravigliosa serie già culto Romanzo criminale mi è capitato di citare uno dei cult più controversi della mia storia cinematografica nonchè di generazioni di spettatori.
Ispirato al Capolavoro di Howard Hawks - cui la pellicola è giustamente dedicata -, Scarface adatta, come fece anche Il padrino prima di lui, l'epica della tragedia greca al mondo criminale moderno, l'eccesso ed i colori saturi ad una vicenda nerissima e terribile, un'interpretazione assolutamente sopra le righe ed uno dei protagonisti più negativi che mi sia mai capitato di vedere sullo schermo.
Brian De Palma, che cela dietro la vicenda e lo script di Oliver Stone la sua sempre esplosiva tecnica - i movimenti di macchina sono sinuosi, e passaggi come l'interno/esterno/interno nel corso del massacro nell'hotel di Miami Beach a inizio pellicola sono da brividi -, conduce l'audience in un viaggio senza ritorno nell'abisso che è Tony Montana, che possa piacere o no, uno dei personaggi più significativi di un certo cinema nero made in Usa dell'epoca, e non solo.
Non per nulla, ho sempre pensato all'indiavolato boss cui Pacino da volto quasi volesse trasformare Michael Corleone in una versione strafatta di se stesso, tutto pancia ed ego, come al lato fisico e di strada di Gordon Gekko, altro squalo eighties nato dalla penna di Stone.
Entrambi, senza consumare mai a fondo - ma, piuttosto, venendone consumati - l'hybris che si portano sulle spalle, viaggiano dritti verso la vetta fagocitando quanto più possibile e distruggendo chiunque si metta tra loro e l'obiettivo finale, senza accorgersi del vuoto che, un passo alla volta, si costruiscono attorno.
Certo, le cadute saranno differenti, eppure dietro la visione di Elvira/Michelle Pfiffer, che considera Tony un vero capitalista, si cela tutta la critica all'arrivismo arrembante di un'epoca e degli States stessi nel pieno rispetto della poetica del futuro regista di Wall street.
Ma Tony Montana non è Gekko con il suo fare un pò guascone e un pò sornione, e non è il Libanese - anche se le loro cadute appaiono clamorosamente simili -, ed indiscutibilmente rappresenta uno status così oscuro e negativo che ancora oggi, dopo visioni e visioni di questa pellicola e l'effettiva esplosione di coscienza che porterà alla rottura definitiva con Sosa, non riesco ad affezionarmi ad un personaggio crudele ed autoreferenziato come questo.
Eppure, nella sua dimensione tragica, questo intraprendente boss della droga pare portare con sè tutti gli elementi dei grandi dal destino segnato tipici della tragedia greca così come tratti indubbiamente shakespeariani, che in alcuni momenti supercult di queste durissime quasi tre ore inducono a pensare che, se non per tecnica e perfezione stilistica, per carisma e potenza questo Scarface possa addirittura aver superato l'originale.
In particolare, non posso non citare la stupenda sequenza dell'ascesa di Tony sulle note di "Push it to the limit" - all'altezza dell'apertura del Capolavoro Vivere e morire a Los Angeles, di cui prima o poi mi deciderò a parlare -, con i fiumi di dollari, la villa che è un inno al kitsch e i viaggi avanti e indietro dalla banca, il discorso tenuto da Tony al ristorante, sequenza da brividi in cui il protagonista pare rivolgersi al pubblico in un delirio addirittura metacinematografico e l'incredibile climax degli ultimi venti minuti, degni davvero della migliore tragedia, in cui le pareti rosso sangue dell'atrio della casa di Tony fanno da sfondo ad un confronto terrificante con i suoi fantasmi, la coca, i proiettili, la paranoia, il rapporto con la sorella Gina ed i sicari di Sosa.
Onestamente, se dovessi pensare al mio punto di vista e a come è fatto il vecchio Ford, sono e sarò per sempre più dalla parte di Carlito Brigante - avendo postato Scarface, non posso esimermi, ora, dal mettere in conto a breve anche Carlito's way - che di Tony Montana.
Eppure, come dice lo stesso sfregiato cubano, "dove lo trovate, un altro cattivo così"?

MrFord

"Push it to the limit
walk along the razor's edge
but don't look down, just keep your head
and you'll be finished."
Paul Engemann - "Push it to the limit" -

lunedì 18 aprile 2011

Notte di sangue a Coyote Crossing

La trama (con parole mie): Toby Sawyer, giovane musicista fallito finito a fare l'aiuto sceriffo part time in una sperduta cittadina del Sud degli States si ritrova, decisamente controvoglia, a lottare per la sopravvivenza in un affare che vede coinvolti alcuni insospettabili rappresentanti della legge, immigrati messicani e la famigerata famiglia Jordan, dinastia di criminali piccoli e grandi del posto.
Nel corso di una notte che pare infinita - neanche fossimo in un Fuori orario scritto da Lansdale - Toby imparerà ad uccidere, fuggire, cacciare e soprattutto, a non essere più una semplice comparsa nella sua vita, ma l'(anti)eroe protagonista.


Da queste parti - come alcuni di voi ben sanno - Joe Lansdale è considerato una vera e propria leggenda, essendo stato responsabile di una delle scoperte più importanti della mia carriera di lettore: il ciclo dedicato alle avventure di Hap e Leonard.
Da quel giorno di gennaio in cui detti inizio a Una stagione selvaggia all'uscita di Devil red e l'incontro con Lansdale stesso - un grandissimo anche umanamente, un pomeriggio intero di chiacchiere come se fossimo vecchi amici, tra un autografo e l'altro ai fan -, il vecchio Joe ha rappresentato un vero e proprio spartiacque rispetto a molte delle mie scelte riguardanti la pagina scritta, e ancora oggi accarezzo spesso col pensiero l'idea di ricominciare da capo, e rileggere tutti gli episodi della saga con ancora più gusto di quanto non feci la prima volta.
Per questo, credo, ci sarà sicuramente tempo ed occasione: intanto, mi consolo con l'ultima fatica di Victor Gischler, sceneggiatore di fumetti e romanziere, southern nell'anima ed appartenente a quella schiera di alfieri del noir di cui Lansdale, Jim Thompson e in una qualche misura Don Winslow sono i rappresentanti più importanti.
Notte di sangue a Coyote Crossing, con la sua azione praticamente ininterrotta, le situazioni al limite del grottesco, le ripetute sparatorie e i bagni di sangue finisce quasi per essere una sorta di punto d'incontro tra Fuori orario di Scorsese e tutta l'irriverente carica da "bad boy" di Tarantino, The killer inside me e Non è un paese per vecchi.
Toby Sawyer - un nome che non potevo non apprezzare - è l'aiuto sceriffo part time di una cittadina che è uno dei tanti buchi di culo del mondo persi nel pieno delle badlands americane da ballad springsteeniana, con un trailer di proprietà, un figlio piccolo, una ragazza che ha preso a detestarlo, rimpianti del passato di musicista ed una giovanissima amante in partenza per l'università.
Tutto questo fino alla morte di Luke Jordan, che cambia tutto, e anche di più.
Perchè Luke è uno dei rampolli della dinastia più terribile della zona, l'unica davvero pericolosa e legata al mondo del crimine in un posto in cui il massimo dell'adrenalina è dato dall'intimidire gli studenti universitari ubriachi di passaggio il venerdì o il sabato sera.
Con l'omicidio del meno redneck dei Jordan inizierà per Toby la notte più lunga della vita, ed il viaggio del lettore diverrà una sorta di letterario episodio di 24, una corsa senza respiro che porterà il protagonista ad una quasi involontaria maturazione che lo porterà da giovane alternativo deluso della propria vita a diventare un quasi clamorosamente leggendario vigilante per le strade di una cittadina d'improvviso scossa da omicidi, sparatorie, inseguimenti, incendi e traffici di immigrati.
Manca l'ironia selvaggia di Lansdale e dei suoi due incomparabili protagonisti, ma Gischler è indubbiamente un tipo con le palle, e confeziona un romanzo che fila via come il vento nei capelli, tesissimo, violento, ed incentrato su un protagonista credibile ed indubbiamente simpatico al pubblico, trasformato da ex musicista reduce al massimo da qualche rissa al pub ad una sorta di giustiziere della notte senza la pretesa di essere una macchina da guerra ambulante in pieno stile Jack Bauer - tanto per tornare a 24 -.
Anzi, la sua forza alimentata dalla volontà di sopravvivere per poter crescere il piccolo Toby Jr., unita alla curiosità per il futuro, qualsiasi esso sia, rendono il giovane una sorta di dispensatore di energia, un piccolo Crank in stile southern che a noi cowboys di frontiera non può che apparire come una sorta di ideale compagno di bevute e amico da cui farsi coprire le spalle.
Perchè per le strade, tra una zona d'ombra e l'altra, non si sa mai chi può cercare di farti la festa.

MrFord

"Don't take your guns to town son
leave your guns at home Bill
don't take your guns to town."
Johnny Cash - "Don't take your guns to town"-

Se7en

La trama (con parole mie): I detective Somerset - ad una settimana dalla pensione - e Mills - giovane rampante ansioso di fare carriera nella grande città -, partners forzati, si ritrovano a fronteggiare una serie di efferati, terrificanti omicidi ispirati ai sette peccati capitali. 
Il crescendo della vicenda e la caccia all'autore della serie di delitti cambierà per sempre le loro vite e la percezione che hanno del mondo.


E' davvero roba tosta, fronteggiare un film come questo.
La prima volta che lo vidi non avevo neppure vent'anni, ero nel pieno della stronzaggine da radical chic finto creativo alle prese con un mondo di idioti e, in qualche modo, mi ritrovavo affascinato dalla figura agghiacciante del serial killer predicatore e visionario cui i due protagonisti danno la caccia.
Oggi, con qualche anno in più e parecchia spocchia in meno sulle spalle, mi pare quasi di sentire tutto il peso di ogni singola goccia di pioggia che il mondo riversa su tutta la torbida vicenda narrata da David Fincher, qui ad una delle sue prove migliori.
La controllata razionalità di Somerset e l'impulsività sfrenata di Mills, il loro lavoro e le loro vite, i pregi e i difetti esercitano ora un fascino molto maggiore di quello che il rincoglionito e stronzo Ford adolescente subiva da John Doe ai tempi, così come il rapporto che cresce e si consolida tra i due: un metronomo che non riesce più a scandire i tempi di una vita per troppo tempo consumata in solitudine pare quasi suggerire alle passioni di tenersi stretto quello che hanno conquistato, facendo attenzione a non andare un passo troppo oltre, a guardare l'abisso quel tanto che basta perchè lo stesso ricambi l'occhiata.
L'escalation degli omicidi, la loro pianificazione, il piano cambiato e l'ammirazione espressa per i poliziotti ed il loro lavoro delineano un profilo scritto chirurgicamente da Andrew Kevin Walker, che consegna a Fincher una sceneggiatura ad orologeria cucita addosso ai tre protagonisti, resa ancor più potente da una messa in scena e una colonna sonora da brividi ed esplosa in almeno tre scene di culto - il ritrovamento di Victor, l'inseguimento di John Doe nel palazzo dove vive, il confronto finale - in grado di consegnare Se7en alla Storia della settima arte rendendolo una pellicola di riferimento del suo genere quasi al pari dei leggendari Manhunter e Il silenzio degli innocenti - prima o poi verrà anche il loro turno, qui al saloon -.
Ma non esiste un commento tecnico o razionale, per questo film, che valga una lettura anche meno precisa ma più passionale: i tempi del fascino del male sono passati, e per quanto io possa mantenere con buon successo il mio equilibrio nella vita di tutti i giorni e comprendere l'approccio di Somerset, non riesco a non rabbrividire di fronte ai tremori di Mills, e a quella pistola spianata dall'ira.
Esistono la legge e l'ordine come il caos e la distruzione, e da più di un punto di vista la scelta di abbassare l'arma appare la più giusta e logica, la più coerente e civile.
Eppure, di fronte alla rivelazione più sconvolgente che John Doe potesse fare a Mills, a quei singhiozzi strozzati e alla disperazione magnificamente resa da Brad Pitt, viene difficile pensare di resistere alla tentazione di premere il grilletto: più che vendetta, pare di essere di fronte a qualcosa di dovuto al nostro cuore, che allora non capivo, ma ora comprendo bene.
Forse la differenza sta nell'avere qualcuno che ami.
Per questo Somerset riesce, pur se non fino in fondo, a scandire il tempo di quel metronomo, e pensare ad una soluzione che porti ad una vittoria, alla conclusione del loro percorso di detective, e non del sanguinoso piano di John Doe.
Somerset è solo. Da qualche parte, ma non lontano.
Eppure sempre, inesorabilmente solo.
Mills ha qualcuno da amare, proteggere, tenere a distanza da un mondo che piange per lavare via tutti i suoi peccati.
E il sole spunta soltanto alla resa dei conti, quando occorre scegliere se premere o no quel grilletto.
Forse, con il tempo, un pò come l'Hap di Lansdale, sono diventato un pò meno democratico di quanto pensavo di essere, o semplicemente la mia natura più vera e passionale ha preso il sopravvento su quella fastidiosa aura di superiorità che amavo sfoggiare ai tempi in cui mi credevo chissachì e invece ero solo uno stronzetto adolescente che ancora non sapeva che farsene di quello che cominciava a ribollirgli dentro.
Fatto sta che in quel momento, di fronte a quella rabbia, non mi importerebbe proprio un cazzo della vittoria di Doe, o del completamento del suo grande piano.
Fanculo, John Doe.
Non c'è posto qui, per te.
Per te e la tua spocchia.
Se questo significa essere ira, che ira sia.
Il mondo è un bel posto, e vale la pena lottare per esso, recita Somerset in chiusura citando Hemingway, dichiarandosi d'accordo solo con la seconda parte.
Io dico che non ci sono John Doe che tengano, sono in tutto e per tutto con il vecchio Ernest.
Anche se questo significa "vivere delle proprie emozioni" accanto a Mills.


MrFord


"Hai presente Kevin Spacey?
Bene, è lui Kaiser Soze nei Soliti Sospetti!
Serial killer di Seven? Kevin Spacey!
Cattivo di Superman? Kevin Spacey!
Perfetto Criminale? Kevin Spacey!"

Caparezza - "Kevin Spacey" -

domenica 17 aprile 2011

Hatchet 2

La trama (con parole mie): Marybeth, la tipa con cui lo sfigato di Avatar protagonista del primo film ci avrebbe provato volentieri, è riuscita miracolosamente a mettersi in salvo dalla furia di Victor Crowley grazie all'intervento di uno strano frequentatore della palude, che non esita a cacciare di casa la giovane appena scoperto chi era suo padre.
Tornata a New Orleans, la ragazza scoprirà la storia del mostro che ha trucidato i suoi compagni di viaggio e chiederà aiuto all'improbabile finto stregone Zombie per tornare, uccidere Crowley e recuperare i resti di suo padre e suo fratello.
Inutile dire che la battuta di caccia sarà piuttosto sanguinosa.

Neppure il tempo di finire di prendere a bottigliate il primo capitolo della saga di Victor Crowley che subito Adam Green, sull'onda del discorso nato poco tempo fa a proposito de La casa 2, mi sfodera un sequel nettamente superiore alla pellicola originale, decisamente più ironico e maledettamente trash e violento, come piace a noi vecchi lupi di mare in serate cullate dal sonno e dalla grappa di rosa.
La carrellata di personaggi protagonisti di questo secondo capitolo non è meno idiota della precedente, eppure l'atmosfera profondamente redneck e l'idea della caccia al mostro, unite al lungo flashback che racconta la sfortunata esistenza mortale di Crowley danno un nuovo spessore al personaggio, omaggiando i già citati Jason Voohries, Michael Myers e Leatherface, capisaldi di questo genere cinematografico purtroppo ormai caduto nel dimenticatoio o, se si è fortunati, nel vintage finto trash come questo, senza farli sembrare appartenenti ad una categoria decisamente troppo in altro per il nostro.
Certo, la fantasia omicida di Crowley è sempre limitata, eppure il campionario di uccisioni pare leggermente aggiornato, e in alcuni casi sfodera anche citazioni eccellenti - American history X su tutte - divertendo lo spettatore e distogliendo il pensiero di essere di fronte non soltanto ad un prodotto di infima categoria, ma anche al fatto che, nel corso della pre-adolescenza, non si sarebbe esistato un secondo a definirlo un film di culto, da rivedere nelle notti d'estate, tra una pomiciata e la paura celata dietro al fatto di dover cominciare a fare l'uomo per farsi bello con la fidanzatina di turno.
In questo senso, maturato grazie ad una produzione senz'altro migliore e più danarosa e nell'ottica di girare un terzo episodio, Adam Green ha, indubbiamente, centrato il bersaglio, dando origine a quello che, in un contesto differente, sarebbe stato un ottimo acquisto del gruppo grindhouse capitanato dalla premiata ditta Rodriguez/Tarantino, non sfigurando accanto alla scuola Rob Zombie, decisamente di molto avanti a lui eppure, da un certo punto di vista, meno svisceratamente - in tutti i sensi - tamarro.
Certamente, non uno di quei film che mi sentirei di consigliare a tutti - giusto per evitarmi qualche bottigliata di ritorno -, ma se siete stati adolescenti nella golden age dello slasher o degli expendables vittime dell'amarcord come il sottoscritto, vale sicuramente la pena di sopportare il primo capitolo per godersi come se si fosse tornati indietro di vent'anni questa piccola scoperta di serie molto, molto b.

MrFord


"I can't pretend
and you just want a war man
and there you go again
you ought to bury the hatchet
and leave behind all the lies."
Lagwagon - "Bury the hatchet" -






 

sabato 16 aprile 2011

Hatchet

La trama (con parole mie): Lo sfigato primo della classe di Avatar è a New Orleans per i festeggiamenti del martedì grasso, occasione per passare del tempo con gli amici, star dietro a qualche fanciulla e dimenticare la storica ex che l'ha appena mollato - e giustamente, aggiungo io -.
Ma il nostro eroe non ha voglia di sbronzarsi e guardare tipe a seno nudo, così convince uno dei suoi compagni di viaggio ad imbarcarsi in un tour organizzato da quello che pare proprio un povero idiota vestito a festa attraverso le paludi infestate dagli spiriti della Louisiana.
Ovviamente, vedrà ugualmente tipe a seno nudo, ma invece di sbronzarsi dovrà lottare per portare a casa la pelle quando il mostruoso Victor Crowley comincerà a far fuori i componenti della gita.

Un vero (finto) film anni ottanta. Ma anche un finto cult.

Nel corso di questi ultimi mesi, la blogosfera è stata una vera e propria fucina di fonti d'ispirazione per nuove visioni, e senza dubbio ha permesso al sottoscritto di scoprire - o riscoprire - perle sfuggite e dimenticate dalla sempre poco presente distribuzione italiana, contribuendo ad arricchire il mio bagaglio grazie a post, tam tam di vario genere, voci e critiche positive o negative che fossero.
Una delle pellicole più volte menzionata era stata proprio questo The hatchet, slasher a metà tra il gore e lo splatter di cui ignoravo completamente la trama, ma che, in cuor mio, si materializzava come una sorta di ancor più violento e crudele Centurion, un viaggio allucinante nel sangue in grado di far passare agli abitanti di casa Ford una sonora ora e mezza d'intrattenimento trucido e terrificante.
Invece, nel corso della visione, scopro che l'intera operazione compiuta dal regista e sceneggiatore Adam Green - peraltro visto da queste parti recentemente con Frozen - tratta principalmente una sorta di ironico omaggio allo slasher anni ottanta in pieno stile Venerdì 13 - una saga che mi riservo di rivisitare, prima o poi -, con la classica truppa di rincoglioniti massacrati dal mostro deforme di turno.
Risultato: a parte la delusione di non assistere davvero ad un eccidio in stile Marshall e di non poter provare almeno un pochino di culo stretto da colpo di scena improvviso, tolti un paio di omaggi, il cammeo di Robert Englund e un paio di idee magari non originali ma ben gestite - sopratutto il finale -, davvero pochino resta di questo tanto chiacchierato cult della rete.
Da assoluto critico della saga di Scream - sicuramente più interessante, divertente ed intelligente di questo lavoro di Green - non potevo affezionarmi certo ai protagonisti di questa pellicola, che ho trovato noiosa anche nella parte sulla carta più divertente, quella degli squartamenti e delle morti dei partecipanti alla gita: Victor Crowley, assolutamente lontano dagli standard fissati dai mostri sacri Michael Myers, Leatherface, Jason Voohries e Freddy Krueger, e clamorosamente troppo simile al wrestler dei tempi che furono Hillbilly Jim per poter essere credibile ai miei occhi, pare infatti nutrire una particolare passione per gli smembramenti a mano per mezzo della sua forza bruta, ma con una decina di vittime a disposizione, questa scarsa creatività nell'esecuzione fa rimpiangere addirittura l'inventiva del da me tanto detestato Enigmista.
La mancata soddisfazione per una serata bourbon coca e patatine è stata dunque tale da pregiudicare la curiosità di assistere il secondo capitolo, già pronto per un prossimo passaggio da queste parti ed ora probabilmente rimandato di qualche giorno, anche perchè pare proprio che l'atmosfera sia stata talmente priva di emozioni da portare anche la stessa Julez, solitamente appassionata del genere, ad abdicare in fretta per dedicarsi ad un senz'altro più soddisfacente sonno.
A tratti, io stesso mi sono ritrovato a provare nostalgia per filmacci di genere mai trovati neppure per caso interessanti come Jeepers Creepers - del quale mi sono ben guardato di visionare il sequel -, ma del resto, la rete non può sempre regalarci gli Enter the void o i Valhalla rising, no!?
Per chiudere, giusto per non smentire la mia natura di tamarro appassionato di wrestling, vi lascio con il confronto tra Victor Crowley e Hillbilly Jim, ditemi voi se non sono due gocce d'acqua!


MrFord


"Lascia l'ascia di guerra
e accetta l'accetta dell'amicizia,
è solo un presente per te."
Elio e le storie tese - "Indiani (A caval donando)" -
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