martedì 31 agosto 2010

Satoshi Kon (1963-2010)

So long, Perfect blue.

MrFord

It

Ad alleviare le miserrime visioni horror estive - ma solo un poco, perchè, badate bene, nonostante l'amarcord NON si tratta di un film memorabile, ma solo a tratti piacevole nella prima parte - è giunto in nostro aiuto il vecchio e ad ogni modo sempre amato It, che vidi ormai decadi fa, nel bel mezzo dell'estate tra la prima e la seconda media, con alcuni amici già adolescenti pieni e che mi terrorizzò selvaggiamente.
Ricordo anche che, qualche anno dopo, tentai inutilmente di spararmi il romanzo, e fu in quell'occasione che compresi l'importanza fondamentale di dare sempre la precedenza alla lettura di un libro rispetto alla visione del film dallo stesso ispirato, se non si vuole abbandonare l'impresa dopo una decina di pagine scarsa.
Ad ogni modo, rivisto ora appare estremamente curioso quanto gli elementi tipici del Cinema fine anni '80/inizio anni '90 siano evidenti e male invecchiati, pur dando atto alla pellicola di non mantenere uno standard particolarmente alto per il Cinema riuscendo comunque a cavarsela dignitosamente rispetto al panorama televisivo, ambito per il quale fu creato il progetto - come molti di quelli correlati alle opere di Stephen King non d'autore (certo, Shining e La zona morta non contano, tanto per citarne due di signori che si chiamano Kubrick e Cronenberg) -.
L'aspetto più interessante del film, visto con gli occhi di un "adulto" e se si eccettua l'ottima caratterizzazione del personaggio di Pennywise il clown - irrimediabilmente rovinata dall'orrenda vera forma di It, realizzata, probabilmente, con gli stessi mezzi che avrebbe utilizzato Ed Wood, ma con molto meno "mito" attorno -, è dato dall'evoluzione dell'amicizia del gruppo ribattezzato "La banda dei perdenti", esempio illuminante di losers che trovano il coraggio di affrontare le loro paure e riscuotono, con la crescita, il successo che l'infanzia pareva aver loro negato.
Un "romanzo di formazione", dunque, che ricorda - con i dovuti paragoni - i temi trattati da pietre miliari del genere quali Stand by me, I goonies o il recente - ed erroneamente sottovalutatissimo - Un ponte per Terabithia.
Sicuramente, se confrontato con schifezze subumane come l'appena postato Within o il prossimamente postato Slither, It appare ancora ben solido nonostante siano passati più di vent'anni, e riesce ancora a regalare ottimi momenti a cavallo fra l'umorismo nero e l'horror classico: la scena dell'incontro fra Stan e la mummia/clown, con il libro di birdwatching usato come uno scudo e i nomi degli uccelli recitati dal ragazzo terrorizzato ad alta voce è ancora oggi un piacere da guardare, almeno quanto la morte del piccolo Georgie, raccordo fra il passato e il presente dei sette, inseparabili protagonisti.
Insomma, se volete emozioni forti, sparatevi The descent o La casa del diavolo, o tornate a Romero e Hooper, ma se, come me, ogni tanto venite travolti da quella nostalgia di prima adolescenza e di "Notte horror", allora date pure volentieri fuoco alle polveri del vecchio clown danzante.
Pennywise sarà sempre pronto a svegliarsi, anche se non saranno ancora passati i fatidici trent'anni.

MrFord

"Clear your mind hide your fear
don't look around
don't turn around
Pennywise is here."
Pennywise - "Pennywise"

lunedì 30 agosto 2010

La notte del drive in 1, 2 e 3

Fortunatamente, sulle spiagge croate, a farmi dimenticare i brutti film horror, c'era il mio beniamino Joe R. Lansdale con la sua consueta dose di grottesco texanesimo a tirarmi su il morale culturale.
Concluso il ciclo di Hap&Leonard, mi sono dedicato all'altra famosissima e adorata - dai lettori - epopea lansdaliana: le avventure di Jack all'interno - e non solo - del drive in Orbit: gigantesco, terrificante, orrorifico, divertentissimo omaggio all'horror e alla fantascienza anni '50, vero e proprio calderone di personaggi indimenticabili e situazioni al limite del delirio.
Quattro amici quasi inseparabili - il protagonista Jack, il cowboy finto duro Bob, Willard il bullo di strada e il nerd Randy -, nel bel mezzo di un normalissimo venerdì sera di bagordi all'Orbit, si ritrovano confinati, dopo il passaggio di una cometa rossa e sorridente, all'interno dello stesso drive in, dovendo fare i conti con la loro nuova condizione di "prigionieri" e con la convivenza con il resto dei presenti, massa di spettatori progressivamente strafatti di bibite gassate e zuccheri alla ricerca di nuovi Dei e carne - spesso e volentieri umana - che garantisca forza, energia e sopravvivenza.
In un'alternanza di horror, onirismo selvaggio, Interceptor e La notte dei morti viventi - che, peraltro, è anche uno dei quattro film costantemente proiettati sui giganteschi schermi dell'Orbit -, i quattro si ritroveranno su due diversi lati della barricata, quando Willard e Randy, attraverso un'unione fisica e spirituale, animati dai fulmini che misteriosi e tentacolari Dei alieni hanno voluto, mossi da un'attrazione che non è omossesualità, ma neppure amicizia, diverranno un'unica entità che si autoproclamerà il Re del popcorn e detterà legge all'interno del drive in, quasi in attesa di una rivoluzione che saranno proprio Jack e Bob a stimolare e portare a compimento, in attesa di un nuovo passaggio della cometa che sbloccherà la condizione di prigionieri dei personaggi per catapultarli all'interno di un mondo che è Jurassic park in bilico su Carpenter, e che porterà ad un viaggio unico e delirante verso il centro del mondo nel terzo libro della serie, fra amazzoni quasi sempre nude, pesci giganti, dinosauri, tribù di cannibali e fantasmi di quel mondo di pellicola che tutto il ciclo omaggia selvaggiamente - straordinario il flashback di Popalong -.
Detto così, lo riconosco, sembra proprio un gran casino. E non è neppure un briciolo di quello che accade fra quelle pagine.
Ma vi assicuro, è uno spasso garantito per ogni lettore.
Certo, manca forse l'ironia pungente e il realismo pulsante dei romanzi dedicati a Hap&Leonard, così come i due migliori protagonisti della letteratura noir recente, ma il ciclo del drive in rappresenta senza dubbio una nuova frontiera dei romanzi di fantascienza: non più solo materia cervellotica per nerd pronti a smanettarsi allegramente il piffero pensando a buchi neri, paradossi temporali e affini, ma una sbronza vorticosa di stramberie, violenza, colpi di scena e mostri terrificanti che, magari, in alcuni punti provocheranno ugualmente lo smanettamento dei nerd ma che riusciranno ad eccitare, stimolare, intrattenere e far godere anche i lettori più instabili.
Il tutto con un finale che riporta nientepopodimeno che a 2001.
E con 2001, io impallidisco e non dico più una parola.

MrFord

"When I was seventeen, I drank a fifth of vodka
on an empty stomach, then drove over to a friend's house
and I backed my car between his parent's Cadillac's without a scratch."
Drive by truckers - "Let there be rock"

Within

Ritorno dalle ferie in pieno relax e pronto da subito a fare a brandelli il primo film visto in vacanza, dato che non è vacanza se non ci si gode, nelle notti al mare, qualche bell'horror che ci ricordi che eravamo bambini e ce la facevamo sotto quando su Italia uno in seconda serata i cult del genere facevano capolino a tormentare i sonni estivi, e ugualmente non si poteva proprio fare a meno di perderli.
Ma i tempi sono cambiati, e profondamente: noi siamo cresciuti e gli horror sono clamorosamente peggiorati, tanto da sortire un effetto soporifero contrario a quello che faceva rintanare sotto le lenzuola anche con trentacinque gradi.
Within, megaporcata da competizione, è l'esempio perfetto del declino di un genere che, un tempo, ci regalava i Non aprite quella porta come se piovessero: regia agghiacciante - a ben guardare, la cosa davvero horror del film -, montaggio vomitevole, attori dalle capacità interpretative ben lontane da quelle che, a undici anni, ormai tanto tanto tempo fa, esibivo nei panni di Agamennone nel teatro della scuola - quindi un cast che si assesta ad un livello piuttosto lontano dalla decenza, se non fosse passato l'autoironico messaggio -.
Fondamentalmente la risibile trama si può riassumere così: una doppia coppia dagli incroci discutibili - gli immancabili ex, l'amico che ci prova con entrambe le ragazze, le ragazze che ci provano fra loro fornendo basse imitazioni dei già bassissimi American pie - in gita a Praga viene indirizzata da un misterioso individuo verso un castello maledetto che prevede come unica possibilità di uscita il "sacrificio" di uno dei quattro, che sarà costretto a rimanere prigioniero del maniero.
La permanenza al suo interno innescherà il consueto gioco al massacro fra i protagonisti, che cercheranno di sgambettarsi a vicenda in modo da portare a casa il culo a scapito del più pollo dei quattro.
Non voglio svelare oltre anche perchè, onestamente, ho trovato estremamente difficoltoso arrivare al termine della misera oretta e mezza senza crollare per noia, sonno e, più tecnicamente, schifo.
Ora che le vacanze sono alle spalle e ho messo un paio di settimane di distanza da questa discutibile visione, il ricordo di Within è come quello delle disavventure vissute in ferie: quando ci sei in mezzo ti chiedi come sia possibile e ti disperi, e al ritorno diventano aneddoti divertentissimi che animano feste e sbronze in compagnia.
Ovviamente, il tutto pregando che non capiti di nuovo.

MrFord

"I wanna see from within,
I wanna be where I've been,
I wanna truth, not a lie,
I wanna live 'fore I die."
Within - Kiss

venerdì 13 agosto 2010

Ferie d'agosto

In equilibrio tra sonno, svarioni e fame inarrestabile annuncio con soddisfazione abnorme la partenza mia e della mia consorte per le tanto agognate ferie.
Fino al 29 agosto saremo bel belli schiantati in riva al mare a dimenticarci di tutto quello che c'è qui.
Tornerò più riposato, rilassato, assetato e affamato di vita, cinema e dintorni nonchè pronto a ritrovarvi tutti - e magari qualcuno in più - per i nuovi capitoli di questo viaggio.
Fate i bravi, tenete il fortino, e se non torno per l'alba chiamate il presidente.
Chissà se qualcuno azzecca questa citazione magari non proprio precisa precisa?
Potete sempre tentare, mentre sono via.
In fondo, è una questione di riflessi.
Saludos!

P.S. Un'ultima aggiunta al volo: questo piccolo concorso legato alla citazione scadrà il 29 agosto, vincerà il primo/a a rispondere correttamente e il premio consisterà in un post su un film da lui/lei scelto. Ovviamente confido nella vostra panesalameria, quindi non andare a cercarvelo su internet, o vi squalifico selvaggiamente e con gioia. Nel caso in cui, poi, qualcuno indovinasse anche il nome del personaggio e dell'interprete potrei pensare ad un premio speciale che ancora devo quantificare.

MrFord

"I beg to dream and differ from the hollow lies,
this is the dawning of the rest of our lives,
on holyday."
Greenday - "Holyday"

giovedì 12 agosto 2010

La faccia nascosta della luna

Arrancando selvaggiamente verso la partenza, la mente a riposo da visioni cinematografiche - ma che bomba la terza di True blood e la sesta di Grey's anatomy! - e in attesa dei Mickey Spillane e dei Lansdale on the beach mi sono riposato in questi ultimi giorni di lettura con il buon vecchio Carlo Lucarelli, dalle mie parti uno di casa dai tempi in cui vedevo sui Raitre a tarda sera Blunotte prima versione, con quei delitti insoluti capaci di inquietare grazie all'abile mix di ricostruzioni, indagine giornalistica, narrazione quasi teatrale e, soprattutto, per il fatto di essere tutti reali, avvenuti, consumati "alla porta accanto".
In questo libro che è più una sorta di raccolta, Lucarelli raccoglie eventi, morti e misteri per nulla comuni, tutti legati ai paradisi dorati di musica, cinema e spettacolo: pur non sfoggiando una prosa alla McCarthy - anzi, trovo che il suo stile eccessivamente legato alla colloquialità da trasmissione poco si adatti alla pagina scritta - e rimanendo nell'ambito della curiosità, più che dell'indagine approfondita - ad ogni episodio sono dedicate solo poche pagine - lo scrittore di Parma riesce comunque nell'intento di attrarre ed incuriosire il lettore, aiutato certo anche dal fascino "maledetto" che morti e misteri illustri sono sempre in grado di smuovere nell'animo umano, sia esso fan, oppure no.
Così, dalla Black dahlia che ispirerà anche Ellroy e DePalma fino a Heath Ledger e all'ombra del Joker passando attraverso Brandon Lee, Cobain, Hendrix si scoprono - o riscoprono - le vite di Wendy O. Williams, paladina punk animalista, o Darby Crash, frontman dei Germs suicida per manifesto oscurato dall'uccisione di John Lennon, avvenuta neppure ventiquattro ore dopo la sua morte.
Nel mezzo, senza dimenticare il fascino di Crowley e le sue influenze sulla musica degli anni '70, Manson e la sua family, John Wayne Gacy e i suoi trenta e più omicidi, il dramma di Gimme shelter, la furia incendiaria e omicida di Varg Vikernes, Sam Cooke e Marvin Gaye, la lotta fra Tupac e Notorious B.I.G., O.J. Simpson, l'uccisione sul palco di Dimebag Darrell e i miti come Morrison, Marylin, Elvis, Jfk e Jimmy Dean.
Vite al massimo, ma anche morti solitarie e terribili, uccisioni misteriose ed influenze magiche, che a volte, ma solo a volte, restano semplicemente un simbolo di spettacolarizzazione - l'esempio dei Throbbing Gristle è evidente - e l'ancora di chi è riuscito ad assaggiare un pò di quell'abisso senza farsi guardare troppo di rimando.
E' curioso quanto, casualità o crudeltà a parte, quelli che apparivano come miti anche nella morte soltanto qualche anno fa, ora diventano vittime con le quali, personalmente, non cambierei il posto per nulla al mondo: successo, fama o denaro non mi pare che valgano la vita, e se da un lato ci sarà chi penserà che io lo scriva soltanto perchè invidioso di quella stessa immortalità data dall'affermazione, o più materialmente dei soldi, io imperterrito continuo ad aggrapparmi saldo alla mia esistenza e al futuro, pensando che, in qualche modo, come tanta altra "gente normale", sono riuscito - e riuscirò - a fare molto più di quanto molti di loro abbiano avuto la possibilità di fare.
In fondo, ormai sono più vecchio di Morrison, Hendrix, Janis Joplin, Brandon Lee, Darby Crash, Nick Drake, Cobain, James Dean.
Sono tutti miei fratelli e sorelle minori.
E tutta quella fama, quei soldi, quella vita non se la stanno neppure godendo.
Così, invece di ammirare quelle vite spezzate, mi dispiaccio per loro.
Perchè io sono qui, e posso continuare a scrivere, mangiare, bere, fare sesso e pensare al mio futuro, e lotterò con le unghie e i denti per farlo il più a lungo possibile.
Mi dispiaccio per loro perchè, forse, erano troppo fragili. O troppo attratti dal lato oscuro.
O forse no, e se la sono cercata, la loro sorte.
E mi dispiace ugualmente.
O forse, più semplicemente, "a volte sei tu che mangi l'orso, e a volte è l'orso che mangia te."
Mi viene in mente Grizzly man, ma questa è un'altra storia.

MrFord

"May you build a ladder to the stars,
and climb on every rung,
may you stay forever young."
Bob Dylan - "Forever young"-

martedì 10 agosto 2010

Uragano


Ogni volta che approccio un film di John Ford mi sento come se stessi tornando bambino, per andare a trovare mio nonno e gustarmelo con lui, sdraiato sul divano con la merenda, tic tac alla menta e il pupazzo dell'Uomo ragno.
Sono passati secoli, ormai. 
Eppure quei film continuano a farmi l'effetto della ratatouille su Ego.
Anche quando si tratta, come in questo caso, di pellicole che - non essendo western o non avendo John Wayne come protagonista - non facevano parte della videoteca del papà di mia madre, e quindi, in qualche modo, risultano essere quasi "novità", anche se targate millenovecentotrentasette.
Uragano ha tutta l'aria di un film di commissione, per Ford - non sarà mica un caso, se condividiamo "il cognome" -, ancora non completamente libero dalle politiche dei grandi Studios e, soprattutto, non un nome affermato come sarà dagli anni quaranta in poi: eppure, oltre alla perizia con la quale è girato, appaiono evidenti tutti i temi che caratterizzeranno la produzione di questo Maestro del cinema statunitense e non solo, dall'importanza della famiglia al senso dell'onore, dalla difesa delle origini al riscatto sociale passato attraverso le imprese del singolo, per giungere al mio caro aneddoto sul confronto fra realtà e leggenda, che oltre al West, pare funzionare anche rispetto ai Mari del Sud.
Perchè nella vicenda di Terangi c'è tutta la carica magica che, vent'anni dopo, porterà a L'uomo che uccise Liberty Valance: ovvero la capacità, sulla frontiera - e non importa che sia il selvaggio West o un'isola che fa capo a Tahiti -, di riuscire in una qualche impresa capace di oscurare la realtà e rendere possibile l'impossibile.
Lo stesso ritratto degli indigeni del luogo, più volte paragonati agli uccelli, liberi da legami e in grado di volare in ogni dove, e in ogni momento, appare profondamente legato alla cultura del "mito" figlia di tutto il cinema di Ford, contrapposta ad una realtà che è anche formazione culturale del regista incarnata alla perfezione da DeLaage, che soffocherà le sue emozioni per il rispetto della legge fino alla fine, quando l'uragano avrà spazzato ogni dubbio che il governatore francese poteva avere sulla vera natura di Terangi.
Ford non prende posizione rispetto ai due "antagonisti", se non, bonariamente, grazie all'apporto del personaggio di Kersaint e di Padre Paul - esempio di quello che dovrebbe essere un rappresentante della Chiesa vero e proprio, in barba a tutto il finto buonismo della stessa partito da molto prima rispetto a questo film e proseguito, purtroppo, fino ai giorni nostri -.
Proprio attorno a Padre Paul e DeLaage ruota il dialogo più profondo di Uragano, legato all'evasione di Terangi - incarcerato per aver colpito un politico di spicco razzista ed arrogante e divenuto un detenuto dedito ai tentativi di fuga - e alla morte accidentale di una guardia che cercava di fermarlo: il prete, di fronte al governatore, afferma di aver visto l'innocenza nel cuore del fuggiasco - pur effettivamente responsabile, anche se "involontario", della morte della guardia -, l'innocenza di un uomo che cercava di tornare alla sua casa, e che sarà qualcun'altro a giudicarlo per la decisione di averlo aiutato.
Un confronto più che attuale che esplode tutta la potenza di quello che sarà il John Ford di Furore, appena prima di lasciare il campo ai prodigiosi effetti speciali per la catastrofica sequenza della tempesta che si abbatte sull'isola, da brividi anche a quasi ottant'anni di distanza.
Sicuramente, visto rispetto ai suoi successivi capolavori, questo potrà sembrare un film troppo accademico, per un mostro sacro come Ford, eppure, ad ogni fotogramma, dalla calma dei mari del Sud e del matrimonio di Terangi e Marama alla furia degli elementi, dai dialoghi profondi alla sequenza indimenticabile che in pochi minuti racconta anni di tentativi d'evasione del protagonista, quest'opera nasconde tutto il fascino irresistibile che solo i grandi classici possono avere, e sulla scia del Tabù di Murnau e Flaherty - che non raggiunge, ma al quale si accoda più che dignitosamente - regala al pubblico una storia d'amore ed avventura dalla morale solidissima resa spettacolare dal confronto fra Uomo e Natura.
Solo i grandi invecchiano così.


MrFord


"My body is burning, 
it starts to shout,
desire is coming,
it breaks it loud."
Scorpions - "Rock you like a hurricane"

Ashes of time

Dopo anni di attesa, finalmente sono riuscito a mettere le mani sull'unico lavoro di Wong Kar Wai che mancava alla mia lista di spettatore.
Un'opera diversa, complessa, estremamente in contrasto con la consueta "mitologia" del regista eppure clamorosamente simile per tematiche e temi affrontati ai più noti In the mood for love, Hong kong express e 2046.
Ammetto apertamente - causa stanchezza e attesa clamorosa e spasmodica delle vacanze - di aver faticato non poco nella prima parte - così Julez non potrà rinfacciarmi di essere stato sul punto di addormentarmi di fronte ad un film "dei miei" - ma di aver recuperato ed essermi gustato il tutto fino in fondo, perso nelle immagini straordinarie che il regista e l'immenso Christopher Doyle, suo direttore della fotografia, hanno saputo confezionare per questa insolita pellicola, che inganna con premesse da wuxian per rivelarsi, al contrario, una riflessione sul valore dell'amore e della memoria nel pieno rispetto del wongkarwaismo.
Abbracciando un anno e le sue stagioni, infatti, il regista pone i suoi protagonisti di fronte a scelte, drammi e momenti indimenticabili come solo l'amore può regalare, giocando fin dal principio sull'importanza dei ricordi nelle vite di ognuno di noi e rispetto alle storie sentimentali passate e future, inserendo come elemento destabilizzante un vino magico capace di annullare la memoria di chi lo beve, in modo che ogni suo giorno possa essere, di fatto, il primo.
Alle riflessioni riguardanti questi temi alti il buon vecchio Wong lega immagini di una bellezza da togliere il fiato, magie della macchina da presa che sono state capaci di riportare alla mia mente i giochi di prestigio di Sokurov con distorsioni e filtri speciali, che - è indubbio -  fanno tanto Cinema d'elite ma altrettanto indubbiamente riescono a mostrare l'abilità straordinaria e mai - in questo caso - compiaciuta e spocchiosa dell'autore, che certo sa ed è ben conscio delle sue capacità ma riesce a non affogare nelle stesse, senza incorrere nello spiacevole inconveniente di produrre qualche mostro d'essai come quelli che ogni tanto capita che mi diletti a sbeffeggiare.
Ashes of time è, in parole povere, un vero regalo visivo - anche nei pochi duelli che il regista concede, quasi come un omaggio, al genere che ha ispirato la cornice del film - ma, in misura anche maggiore, uno spunto continuo per mente e - in particolare - cuore, che risulta quasi ipnotizzato dalle continue riflessioni sull'amore e le tracce che lo stesso è in grado di lasciare nella nostra natura, portino esse alla violenza, alla generosità, al sacrificio, al silenzio, ad una nuova vita o all'inseguimento di un sogno, o di noi stessi.
Come sarà, infatti, per In the mood for love e 2046, i protagonisti dei legami che racconta Kar Wai non troveranno quello che cercano - o che pensano di cercare -, ma avranno tutti gli strumenti e le possibilità di scelta per affrontare il futuro - e il passato - mossi dalla passione e dalla certezza che quel momento arriverà.
Il momento della nuova primavera. Della vita. Dell'amore.
E poi non dite che non sono un sentimentale.


MrFord


"We're strong, no one can tell us we're wrong
searchin' our hearts for so long, both of us knowing
love is a battlefield."
Pat Benatar - "Love is a battlefield"

domenica 8 agosto 2010

Sotto un cielo cremisi

E così, inevitabilmente, sono arrivato anch'io a pareggiare il conto con l'ultimo - solo per ora, spero ardentemente: Joe, datti da fare e regalaci presto un nuovo capitolo - romanzo della serie dedicata a Hap&Leonard, premiata ditta di antieroi made in Texas divenuti ormai oggetto di culto per una schiera di inossidabili appassionati.
Sotto un cielo cremisi, pur mantenendo alcuni dei tratti distintivi delle precedenti epopee del duo di avventurieri per caso - l'ironia, le parentesi grottesche - si discosta dagli altri titoli della serie concentrandosi molto maggiormente sull'aspetto di uomini d'azione dei due protagonisti, introducendo un dilemma morale che segna - e segnerà?- Hap nel profondo.
Se, infatti, al principio delle loro avventure su carta Hap e Leonard si trovavano spesso e volentieri a dover lottare per la propria sopravvivenza o a ritrovarsi nei guai per raddrizzare un torto o aiutare amici, ex mogli o fidanzate, questa volta, pur partendo da premesse simili, si ritrovano a recitare la parte dei duri come mai prima, arrivando a somigliare più a dei cowboys che non a due vecchi casinisti ironici e un bel pò buzzurri.
In particolare, la scelta di Lansdale di far "saltare il fosso" a Hap risulta essere la più sconvolgente del romanzo e, in prospettiva, della serie: era già accaduto, infatti, che i nostri due beniamini dovessero far fuori qualche malintenzionato intento a cercare di uccidere loro o i loro cari, ma mai il democratico e sempre equilibrato Collins aveva fatto saltare a sangue freddo la testa alla gente, neppure - a pensarci bene - al termine di Capitani oltraggiosi, quando freddò il boss messicano e il suo gigantesco gorilla con un fucile di precisione, quasi fosse un cecchino.
Il cambiamento in Hap si era già avviato, a dire il vero, almeno dai tempi di Bad chili, e trovo che sia motivato principalmente - oltre che dalle avventure che vive e in cui si trova coinvolto - non tanto dall'amicizia fraterna con Leonard, sempre irresistibile nel suo essere macho gay, repubblicano convinto e assolutamente tranquillo rispetto ai cattivi che spedisce sotto terra, quanto dal rapporto con Brett, donna tostissima e di carattere quanto capace di passione e violenza ai limiti dell'incredibile.
L'episodio della morte del suo ex marito - da lei incendiato e finito a badilate - spesso citato da Hap a dimostrare le potenzialità "belliche" della sua compagna è l'esempio di quanto il ruolo della tostissima rossa possa essere importante nel progressivo "repubblicanamento" del nostro, da sempre vulnerabile al fascino di donne forti, bellissime e pericolose - da Trudy in Una stagione selvaggia a Vanilla ride poprio in quest'ultimo romanzo -.
Si ride meno e si spara di più, insomma, e se dal punto di vista della dinamicità e del ritmo Lansdale non perde un colpo mancano le numerose parentesi dedicate agli irresistibili duetti fra i protagonisti e i provocatori dialoghi all'indirizzo dei loro antagonisti, anche se, in quelle poche che capitano, il vecchio Joe si mostra sempre all'altezza delle aspettative che noi lettori continuiamo a caricare sulle spalle di questi due personaggi assolutamente riusciti e memorabili.
Sarà interessante vedere cosa accadrà e come verranno sviluppati i temi legati all'avvicinamento di Hap a quello che lui considera "il lato oscuro" e al personaggio di Vanilla ride, che credo proprio tornerà a fare capolino nelle vite dei signori Collins&Pine.
Peccato, invece, per la fine di Tonto, capace di farsi apprezzare da subito e altrettanto velocemente sacrificato sull'altare della letale Vanilla, che mi dovrà, personalmente, un enorme favore che potrà pareggiare solo rivelandosi un personaggio indimenticabile almeno quanto sarebbe potuto esserlo il buon - che poi, tanto buono non era - Tonto, per l'appunto.
E dopo tutta questa azione, sarebbe bello poter assaporare di nuovo un capitolo delle avventure di Hap e Leonard più incentrato sui dialoghi e l'ironia, e perchè no, gettando nel calderone Vanilla e mettendola a confronto con Brett: come da sempre sostiene Leonard, in fondo, Hap è spesso e volentieri guidato dal suo instupidimento da gentil sesso, e sarebbe fantastico poter assistere ad uno scontro fra queste due donne pericolosissime con il vecchio Hap preso nel mezzo.
Io, con Leonard, mi siederei comodo comodo, armato di wafer alla vaniglia e Dr. Pepper, e mi godrei lo spettacolo fino in fondo.
Joe, pensaci su.

MrFord

"Better hide your heart, better hold on tight,
say your prayers, cause there's trouble tonight,
when pride and love battle with desire,
better hide your heart cause you're playin' with fire."
Kiss - "Hide your heart"

sabato 7 agosto 2010

Point break

Ammetto tranquillamente che, nonostante ogni anno, il 21 giugno, riveda con enorme godimento Il grande Lebowski, per me l'estate non è estate fino alla visione di Point break: ad oggi ancora l'opera migliore di Kathryn Bigelow, uno dei film maschili - e non maschilisti, dettaglio fondamentale - più importanti mai prodotti, pietra miliare dell'action movie ed esempio di tecnica e ritmo all'ultimo respiro.
Tutto questo senza nemmeno menzionare le stupende riprese di surf - seconde soltanto a Un mercoledì da leoni - e paracadutismo, personaggi ottimamente caratterizzati, un cast perfetto, scene di culto a profusione: potrei senza troppi problemi recitare a memoria almeno la metà delle battute della pellicola, almeno quanto sobbalzare per le vertiginose rapine - e conseguenti inseguimenti - degli ex-presidenti come fosse la prima volta.
Patrick Swayze, che mai trovò nel corso della sua carriera un personaggio così carismatico nè un'interpretazione tanto intensa, si fa portatore di una filosofia che non può non coinvolgere e affascinare, giocata sull'adrenalina e la sfida al sistema, filosofeggiando sulla vita e il surf spinto dall'intuizione che il suo giovane rivale, l'agente Fbi interpretato da Keanu Reeves, sarà sempre pronto a buttarsi a testa bassa in ogni confronto.
E il coinvolgimento personale che porta il protagonista ad avvicinarsi così tanto alle sue "prede" è un percorso di formazione ed acquisizione delle esperienze, un avvicinamento all'abisso - quasi un tuffo, per restare in ambito "da tavola" - che si chiude attorno come nel più impressionante dei tubi, e dal quale occorre uscire prima che sia troppo tardi.
La storia d'amore con Tyler/Lori Petty e l'amicizia con l'agente Angelo Pappas/Gary Busey - fra i protagonisti del già citato Big wednesday - sono ancora per l'agente Johnny Utah nonchè controparti di Bodhi nel mosaico morale che il giovane agente costruisce - o distrugge - dal principio della vicenda, e che ha la sua conclusione con la tempesta del cinquantennio e l'ultimo, drammatico faccia a faccia con Bodhi stesso, che precede un finale che ricorda il gesto di Callaghan una volta eliminato Scorpio.
Ma tutto quello che potrei scrivere a proposito della realizzazione o dei personaggi, dei piani sequenza o della risoluzione della trama, dei meriti della regista o del cast non vale la dimensione mitica che questo film ha assunto con il passare degli anni, divenendo un classico della mia generazione - e non solo, spero ardentemente - e uno dei pochissimi esempi di western moderno insieme a Heat - La sfida e Vivere e morire a Los Angeles, altri due film perfetti per ogni estate nonchè pezzi da novanta del cinema d'azione, nonchè d'autore.
Dal surfista con i baffi incerati al pestaggio sulla spiaggia, dall'urlo di Reaves che spara in aria - celebrato nell'irresistibile Hot fuzz, di cui prima o poi dovrò decidermi a parlare - all'ultima onda di Bodhi, un viaggio che è una scossa, una lotta, una scopata senza freni sulla spiaggia.
Point break è un simbolo, un mito, esempio di tutto il bello degli anni '90 - sì, è capitato anche nel disgraziatissimo decennio grunge di "quel frocetto di Cobain", come direbbe Randy the ram, che fosse prodotto qualcosa di memorabile - e della loro carica (auto)distruttiva e selvaggia, senz'altro un aspetto fondamentale della filosofia del surf, in cui stare in equilibrio sulla tavola è come esserlo fra un esplosione di vita e il rischio di perderla.
"L'importante è imparare a rialzarsi", viene insegnato a Bruce Wayne in Batman begins.
Attenzione a cadere, però: qui c'è tutto il rischio di rimetterci il culo.
Non sarebbe un "point break", altrimenti.

MrFord

"Every man has certain needs,
talkin' 'bout them dirty deeds,
to these needs I must concede."
Red hot chili peppers - "Funky monks"

giovedì 5 agosto 2010

C'era una volta in Messico

Devo proprio ammetterlo: mi sono divertito da matti.
Cuba ed improbabili sparatorie, sano tamarrismo con ironia, talento - perchè è indubbio che Rodriguez ne abbia parecchio - e consapevolezza della dimensione dello stesso.
C'era una volta in Messico ha superato Desperado nella mia personale classifica di gradimento delle opere del nostro Robert Tex-mex.
Un cast all star divertito e divertente capitanato da un ottimo Johnny Depp - Sands è un personaggio da antologia - guida lo spettatore in quella che, per ora, è l'ultima fatica del regista di San Antonio dedicata al personaggio che ha fabbricato la sua fortuna, El mariachi, per gli amici ormai solo "El" - non mi stupirei, comunque, se non se ne tirasse fuori un ulteriore capitolo -: questa volta il nostro chitarrista/pistolero preferito si trova nel cuore di un intrigo che lo porterà a difendere niente meno che il Presidente del Messico, incrociando al destino del suo paese la vendetta per la morte dell'amata Carolina/Salma Hayek e della loro figlia, cadute per mano dello spietato generale Marquez.
El mariachi diviene, dunque, l'eroe di un Messico che lotta contro i signori della guerra e della droga, mescolando una trama che ricorda opere terribili, realistiche e meravigliose come Il potere del cane a tutto il farsesco del cinema di Rodriguez, che gestisce baracca e burattini come fosse Welles consapevole che il suo talento sia enorme soltanto rispetto a questo ambito, e che forse non potrà mai sentire dalla Storia la frase "questo è proprio il mio capolavoro" applicata ad uno dei suoi film - ma attendiamo fiduciosi, tutti quanti, Machete -.
Regia, sceneggiatura, colonna sonora, montaggio e fotografia sono tutte in mano al simpatico Robert, che si destreggia gigioneggiando - questo occorre ammetterlo - ma sempre alla grande, confezionando un giocattolone che forse non avrà grandi valenze o significati, ma intrattiene alla con disinvoltura e regala momenti di vero godimento "trucido" senza dimenticare il sentimento - la scena del confronto finale fra Depp e la Mendes mi ha mosso qualche brivido, lo ammetto, romanticone che non sono altro - e il grande amore che deve avere il regista/factotum per il western, specie quello "all'italiana", da Quien sabe? di Castellari - recuperatelo, è un filmone! - a tutta la produzione di Sergio Leone.
E proprio al nostro Sergione si devono titolo e duelli decisivi continuamente rimandati, musiche roboanti e sentimenti pompati come i colori di una fotografia più che satura: in fondo la Frontiera rappresentata nella mitologia di Cinema e Letteratura si è spostata a Sud nel ventesimo secolo, giocando partite con vita e morte - non per nulla la resa dei conti avviene nel giorno dei morti, festa grande in Messico - lungo il confine fra il caos messicano e il sogno americano.
Un confine che può giocare secondo la realtà - Non è un paese per vecchi, Le tre sepolture - o la leggenda - Il buono, il brutto e il cattivo e C'era una volta in Messico, per l'appunto -.
Qualcuno, certo più in gamba e più saggio di me, una volta disse: "Nel West, quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda."
Chi indovina di quale film si tratta e il regista vince un primo giro di bevuta offerto dal sottoscritto.
Chi sbaglia, avrà un'altra occasione, prima o poi. Qui non siamo mica "spietati". Non troppo, almeno.
Chi non sa di cosa si stia parlando sarà obbligato a rimediare alle sue pesantissime lacune.
E non sperate di cavarvela guardando su internet.
Queste cose si devono sapere e basta. Quindi siate onesti, e non costringetemi ad usare le maniere forti.
E se poi, proprio proprio, anche quel lui non avesse ragione e C'era una volta in Messico fosse solo una tamarrata per gente di poco conto, che posso dire!?
In fondo, io tengo solo i cavalli.

MrFord

"Ay, pistolero!
Como estas?
Te quiero."
Juno Reactor - "Pistolero"

Segreti di famiglia - Tetro

Partiamo dal presupposto che Francis Ford Coppola è uno dei registi più importanti degli ultimi quarant'anni di Cinema.
Senza contare gli ormai sdoganati primi due capitoli della saga de Il padrino - che restano ad ogni modo capolavori, il secondo in particolare - un regista che sforna due cose come Apocalypse now - immenso - e La conversazione non può che guardare quasi tutti gli altri dall'alto in basso, ridendo felice e godendosi beatamente i meriti di aver diretto uno dei dieci film assolutamente fondamentali della storia della settima arte - forse saranno più di dieci, ma l'epopea del viaggio verso Kurtz entra comunque nel novero-.
Appurato questo, occorre allo stesso modo notare che, senza mettere in discussione l'abilità del Maestro, con gli anni Francis Ford si è perso tutto il furore che caratterizzava le sue migliori stagioni, e che i suoi lavori sono divenuti semplicemente degli esempi di perfetta forma senza il cuore che ribolliva nella giungla di Brando, o nelle registrazioni di Hackman.
A questo proposito, ricordo che applaudii platonicamente la scelta del regista di ritirarsi dopo il pur discreto L'uomo della pioggia, concedendosi una sorta "pensione" lasciando le scene a figlia e nipoti sparsi ormai in tutto il mondo dello showbiz, conscio probabilmente del fatto che nessuno di loro sarebbe comunque riuscito a raggiungere le vette da lui toccate - vero, Sofia!? -.
Evidentemente, però, il richiamo della macchina da presa è stato troppo forte, tanto da spingere il vecchio leone a cimentarsi nell'ambizioso progetto di Un'altra giovinezza - che, ammetto, per paura non ho ancora guardato -, prima di iniziare quello che sarebbe stato il tortuoso viaggio di Tetro.
Ritiratosi a Buenos Aires per studiare le locations e scrivere, Coppola fu derubato della sceneggiatura quasi completa in circostanze misteriose a metà fra la trovata pubblicitaria e la sfiga più incredibile: la situazione si risolse e finalmente le riprese iniziarono, incentrate attorno alla figura dell'eccentrico Vincent Gallo, musicista, attore e regista capace ugualmente di cose meravigliose - l'interpretazione in Fratelli, Buffalo '66 - ed altre decisamente poco riuscite - The brown bunny, alcuni veri e propri deliri agghiaccianti alternati a pochi bellissimi pezzi nei suoi dischi -.
Il risultato, uscito in Italia con l'inutile titolo Segreti di famiglia, è il simbolo di quello che è Coppola oggi: un regista capace di tecnica straordinaria - le inquadrature e il b/n sono qualcosa di clamoroso - eppure completamente assente in materia di cuore, nonostante in questo caso sia lui autore della sceneggiatura e la stessa vada a stimolare corde probabilmente molto importanti per il vecchio Francis - la figura paterna, la rivalità tra fratelli, l'importanza dell'arte -.
Intendiamoci: Segreti di famiglia non è affatto un brutto film.
Tutt'altro.
Ci sono centinaia di registi che si sognerebbero per mille e una notte un lavoro di questo genere, baciandosi i gomiti in continuazione prima dell'amaro risveglio.
Semplicemente, e amaramente, però, non è all'altezza del vero Coppola.
Purtroppo, è questo il dramma dei grandissimi: come per Scorsese in Shutter island, anche in questo caso abbiamo di fronte un lavoro ottimo per uno "sconosciuto" e troppo manierista e vuoto per un Maestro.
Il fatto che me lo sia gustato, immaginando una Buenos Aires magnifica avvolta da musica e bianco e nero da foto d'epoca, capace di mescolare tutta la passione europea e latina di un Almodovar alla tecnica sempre perfezionista figlia della scuola made in Usa, non cambia il fatto che il Tetro che Coppola insegue, probabilmente lui stesso, non ha alcuna speranza di tornare, come accade al contrario nella pellicola.
"Non guardare quella luce", sussurra Vincent Gallo/Tetro a Benni nel finale: l'impressione è che Coppola l'abbia vista fin troppo bene, ed ora non riesca più a raggiungerne la sfolgorante rivelazione.

MrFord

"Blinded by the light,
revved up like a deuce,
another runner in the night."
Manfred Mann - "Blinded by the light"

mercoledì 4 agosto 2010

Desperado

Come promesso, eccomi qui a braccetto con l'amico Robert Rodriguez per il secondo capitolo della trilogia messicana con protagonista il personaggio del Mariachi, sostituito in corsa dopo il film omonimo da un Banderas al suo primo ruolo di protagonista negli Usa nonchè fortemente voluto dalla produzione Columbia, che intravide le possibilità economiche del giovane regista texano di origini latine e del suo connubio con l'attore spagnolo.
E "il bell'Antonio", che sicuramente allora incarnava l'ideale del "fascino dannato" molto più di Carlos Gallardo - che interpretava il chitarrista divenuto sicario nel capitolo precedente -, si carica con la dovuta dose d'ironia il personaggio sulle spalle, asservendo più che bene al compito assegnatogli dal regista e non sfigurando neppure nelle brevi parti dedicate ai flashback del primo film rigirate per l'occasione in modo da creare un ponte ideale fra le due pellicole e il "nuovo" personaggio del Mariachi.
Non vedevo Desperado da anni, e onestamente non capisco per quale motivo ricordassi soltanto la seconda parte - forse, allora, Salma Hayek e le sue forme distolsero la mia giovane mente dal resto, chissà!? -, onestamente divertente per le improbabili sparatorie ma dalla trama troppo persa nella storia d'amore del protagonista con l'affascinante libraia per l'appunto interpretata dalla Hayek e sgonfiata di tutta la fulminea freschezza della prima parte, cinematograficamente superiore - e di gran lunga - al finale.
I monologhi di Steve Buscemi e Quentin Tarantino, girati nello stesso bar di fronte agli stessi brutti ceffi, sono due chicche degne dello stesso regista di Pulp fiction: ironici, tesi, divertenti, cattivi, sottilmente - ma neanche troppo - grotteschi, ed entrambi capaci di dare l'occasione all'attore di sfoderare tutto il suo talento - e in questo caso, meglio di certo Buscemi che Tarantino, che potrà anche divertirsi, ma che come attore non vale l'unghia del mignolo di se stesso regista -.
L'apertura della pellicola, affidata alle movenze nervose ed imprevedibili dell'appena citato Buscemi e agli inserti in flashback del racconto gonfiato delle imprese del Mariachi è assolutamente irresistibile, e lascia presagire - e sperare che sia proprio così - già l'atmosfera del cult, la cui atmosfera rimane ben presente fino al termine della sequenza che vede Tarantino fra i protagonisti: la sua barzelletta - fantastica, peraltro -, preludio alla carneficina che il Mariachi scatenerà all'interno del locale, è una vera e propria perla di utilizzo del tempo scenico, della narrazione e dell'uso magistrale del grottesco.
Peccato, dunque, che l'arrivo della bella rovini senza ombra di dubbio il percorso iniziato trionfalmente di questo circo di bestie da polvere e pallottole, che se non perde dal punto di vista dell'intrattenimento e del divertimento - così come dei morti ammazzati - precipita clamorosamente passando dal film d'autore "sbarazzino" - ieri ho citato, in proposito, La casa del diavolo, ma quasi tutti i film di Tarantino sono così - al semplice blockbuster d'azione arricchito semplicemente dal talento visivo e nel montaggio di Rodriguez.
Di sicuro non sarà il film del secolo, ma ad ogni modo tutto questo sminuirlo non mitiga certo il divertimento che ne comporta la visione, specie se accompagnata da bevande e cibi adeguati e in tema, un pò di quella spacconeria guascona degna dei veri credenti del "grindhouse" e tutta la calura estiva che, anche in notturna, favorisce lo stravaccamento selvaggio da divano.
Se cercate qualcosa per una serata sbronza e rutto libero, Desperado calza a pennello.
Burp!

MrFord

"Desperado, why don't you come to your senses?
You been out ridin' fences for so long now."
Eagles - "Desperado"

martedì 3 agosto 2010

Il sepolcro indiano

Come promesso, torno a godermi Fritz Lang e Il sepolcro indiano, seguito - ma potrei dire quasi secondo tempo - de La tigre di Eschnapur.
A seguito di un antefatto che riassume le vicende della prima pellicola, torniamo a seguire le vicende legate all'amore "proibito" di Berger e Seetha, anche se, in questa seconda parte del dittico, l'attenzione è principalmente rivolta agli intrighi di palazzo che nascono e si sviluppano attorno a Chandra, che assurge a ruolo di protagonista a dispetto della coppia di amanti in misura molto maggiore rispetto a La tigre di Eschnapur.
Il fratello maggiore del marajà, infatti, dopo aver ricoperto il ruolo di marginale cospiratore nel primo capitolo, assume ne Il sepolcro indiano i connotati del vero e proprio "antagonista dell'antagonista", ponendosi al centro della disputa per l'amore di Seetha così da poter sfruttare la rivalità dello "straniero" e del suo consanguineo, nel mirino del suo colpo di stato, del cognato e dei monaci, che conservano una parte marginale nello scontro ma vengono dipinti con chiaro sdegno dal regista, incapace di prendere una posizione anche solo lontanamente positiva nei loro confronti.
Il personaggio di Chandra, al contrario, esce arricchito ed approfondito da Il sepolcro indiano, guadagnando spessore nel suo ruolo di "cattivo senza scrupoli" fino a giungere al bellissimo confronto finale con Berger, giocato sugli sguardi, il montaggio e la suggestione e capace di assumere i connotati di una vera e propria lezione di Cinema.
La pellicola mantiene, per il resto, lo standard qualitativo - altissimo - de La tigre di Eschnapur, approfondendo grazie a Debra Paget la parte sensuale del racconto - la danza di redenzione alla dea di fronte al cobra è così carica di erotismo da ricordare Oshima, pur non mostrando nulla di esplicito - e mantenendo la tensione legata alla componente avventurosa, altrettanto trascinante, sfruttando sfumature solo accennate nel primo capitolo - la prigione dei malati e la loro rivolta, le catacombe sotto Eschnapur - per mutarle in veri e propri personaggi, capaci di parlare al pubblico quanto i protagonisti.
Mi rendo conto di essere stato forse un pò troppo "autoriale", rispetto al mio standard di post tutti pane e salame, ma per il vecchio Fritz questo ed altro.
Per ripagarvi della pazienza, cercherò di proporre per la serata in famiglia Desperado, in modo da tornare, domani, con qualcosa di un pò più tamarro.

MrFord

"India terra di santi indiani,
poeti indiani,
navigatori indiani,
Gange fiume che ti bagna fiume che ti parla,
non vorrai rovinare un così bel rapporto."
Elio e le Storie tese - Very good very bad

La tigre di Eschnapur

Fritz Lang è Fritz Lang. A prescindere.
Perchè quando fai qualcosa di gigantesco come M - Il mostro di Dusseldorf entri di diritto nell'Olimpo del Cinema e non ne esci più.
Eppure, nonostante la sua vita non sempre limpidissima e pellicole spesso e volentieri legate a temi non certo da merenda a cuor leggero, anche il Maestro sapeva divertirsi, e con uno stile leggendario almeno quanto la sua capacità straordinaria di narratore.
Con il dittico La tigre di Eschnapur/Il sepolcro indiano Lang si cimenta con il cinema d'avventura ad ampio respiro, quello che, decenni dopo, sarebbe divenuto dimora degli Indiana Jones e degli inseguimenti della pietra verde, e che il grande cinema americano ha omaggiato con pellicole quali La regina d'Africa: due film che paiono uno, come per la saga de Il signore degli anelli, ritmati da una tecnica e da un uso magistrale di spazi, locations, scenografie e colori, orchestrati magicamente dal regista tedesco e messi al servizio di una vicenda che mescola Aladdin e Le mille e una notte, mistero e passione, occulto e scienza.
Inutile dire che, per un appassionato di Cinema, godersi questi film è una pacchia senza limiti, considerato che a tutti gli effetti potrebbero essere considerati "d'intrattenimento" ma, all'interno, mantengono limpidissime tutte le caratteristiche dell'autorialità totale, regalando scene che sono una festa per gli occhi, e che si distribuiscono uniformemente nel corso delle tre ore complessive del dittico.
La trama è delle più classiche: Berger, giovane ed aitante architetto tedesco invitato dal marajà Chandra a Eschnapur per progettare la costruzione di ospedali e di un nuovo polo urbano per la sua città, si innamora, ricambiato, della danzatrice Seetha, figlia di una donna indiana e un europeo, cresciuta e formata dalla cultura locale, suscitando le ire del sovrano che utilizzerà tutti i mezzi a sua disposizione per ostacolare i due amanti, giungendo a mettere in pericolo le loro stesse vite.
I personaggi, fedeli al genere e alla trama, non si allontanano dai clichè che li competono, fungendo da archetipi per un Cinema che mai come in casi come questo pare figlio e ideale erede della grande letteratura d'intrattenimento e d'avventura, all'interno della quale una trama scontata non perde un briciolo di fascino grazie alla maestria dei suoi narratori, e diviene veicolo di comunicazione universale superando le diversità culturali date dalle diverse - e spesso esotiche - ambientazioni, spesso utilizzate semplicemente come schermo per affrontare temi quotidiani per i lettori rendendoli avvincenti e straordinari.
La storia di Berger e Seetha e della lotta per l'affermazione e il riconoscimento del loro amore è antica quanto il mondo, eppure, osservando l'architetto celato dalla dea spiare la danza dell'amata nel tempio - Debra Paget, in questi due film, è un simbolo indimenticabile della sensualità, e nelle danze ricorda tutta la passione della parte finale di Cous cous -, o la loro fuga attraverso il deserto, ogni spettatore non può che cadere nella trappola e rimanere affascinato e coinvolto come fosse la prima volta che ascolta, vede o vive un'esperienza di questo tipo.
La meraviglia del Cinema, anche solo di fronte ad un'opera nata e realizzata per l'intrattenimento, passa tutta da pellicole come questa.
E poco importa se i sapientoni giudicano come minore questo lavoro di Lang, o se il grosso del pubblico lo bolla a priori come noiosissimo polpettone di regista tedesco morto e stramorto: La tigre di Eschnapur e - come vedremo nel prossimo post - Il sepolcro indiano sono due vere e proprie perle, funzionano alla grande e ce le si gusta dal primo all'ultimo minuto.
Sinceramente, credo che il segreto stia tutto lì.
Come il piacere puro del Cinema.

MrFord

"India, India,
quante volte ti ho vista sulla cartina
e ti ho sottovalutata."
Elio e le Storie tese - Very good very bad

La follia di Barbablù

Purtroppo, temo che il signor Edgar G. Ulmer sia conosciuto quasi esclusivamente da quei fastidiosissimi (finti) cinefili che si imbrodano con qualche testo o professore - o entrambi - in università senza mai approfondire davvero o lasciare libera la loro passione per la settima arte - sempre ammesso che l'abbiano -.
E dico purtroppo perchè i suoi due lavori più noti e celebrati - Detour e, appunto, La follia di Barbablù - sono vere e proprie chicche del noir con ben poco da invidiare a pellicole dello stesso genere di Maestri del calibro di Hitchcock e Aldrich - prima o poi mi deciderò a dedicare un post a Un bacio e una pistola, il noir più stratosferico della storia del cinema insieme a La fiamma del peccato di Wilder -: se nella prima delle due sue opere appena citate, però, il regista concentrò le sue attenzioni al continuo precipitare della situazione in cui era coinvolto il suo protagonista - una sorta di Fuori orario ante litteram -, nel secondo è l'atmosfera a farla da padrona, ripescando dall'immaginario espressionista, dal cinema muto e da pellicole come Svengali portando sullo schermo un personaggio romantico e terribile, interpretato alla grande da un John Carradine che non pare aver nulla da invidiare in quanto a statuarietà a Vincent Price.
La vicenda - un noir fosco e disturbante legato agli omicidi di Barbablù, burattinaio e pittore che abbandona i cadaveri di giovani donne strangolate nella Senna - passa in secondo piano rispetto ai drammi interiori dell'assassino e della sua innamorata/antagonista, il primo perseguitato dal ricordo del suo primo omicidio e dalla sua condizione di artista capace di esprimersi al meglio solo di fronte alla morte e la seconda dapprima stregata dal fascinoso burattinaio e poi dilaniata dai dubbi sulla sua responsabilità nelle uccisioni, nati da una casualità dal sapore di Hitchcock e legati alla scomparsa della sua stessa sorella, impegnata nelle indagini.
Proprio la sequenza del tentativo di cattura di Barbablù orchestrato dalla polizia con la sorella della protagonista tocca il vertice emotivo ed artistico della pellicola, alimentando terrore e tensione ai massimi livelli sopportabili all'epoca - e non solo -: il ritratto iniziato ben celato dalle tende usando un sistema di specchi, il momento della rivelazione dell'identità, il confronto con il mercante d'arte responsabile della vendita dei quadri dello stesso Barbablù con la polizia alle porte risultano incredibilmente efficaci ed inquietanti anche agli occhi dello spettatore del nuovo millennio, a dimostrazione del fatto che quando temi universali sono trattati con mestiere - anche se occorrerebbe definirla maestria, in questo caso - non esiste tempo che possa scalfire la potenza di una pellicola.
Un'opera da inverno pieno, di quelle da gustarsi stretti stretti alla coperta sul divano accompagnati da qualcosa di caldo, mentre fuori infuria la tempesta: ma c'è da dire che, anche vista in piena estate, l'inquietudine che lascia e porta nello spettatore non perde un colpo che sia uno.
Considerato che fu girato in sei giorni, direi che difficilmente si poteva fare meglio.
Chapeau.

MrFord

"Just killing time,
kiss that world goodbye,
it's all over now,
nothing is over now."
(Hed) P. E. - Killing time

El mariachi

L'estate, si sa, porta sempre un bagaglio di Cinema liberatorio, esplosivo, roboante, capace di scuotere le ossa rimaste per troppi mesi al proprio posto.
Un pò come quando, ai tempi della scuola, si arrivava alle vacanze estive: cambio momentaneo degli amici, improvvisa interruzione di ogni altra attività che non fosse trovarsi la storia cui associare canzoni e ricordi di quel periodo per gli anni a venire, e così via.
Fu proprio in estate che vidi per la prima volta El mariachi, registrato per caso da mio fratello credo addirittura sull'allora Telepiù: di Robert Rodriguez non sapevo proprio nulla, non avevo ancora visto Pulp fiction e la passione per la settima arte non era neanche lontanamente esplosa.
Eppure, in quel massacro montato in stile iperaccelerato e girato con gli stessi mezzi del filmino di un matrimonio, c'era già allora qualcosa che richiamava attenzione, e trovava il giusto equilibrio fra spacconeria e sentiti omaggi, manierismo - grezzo, ma pur sempre manierismo - e attitudine naturale al pane e salame.
Della realizzazione di questo film e della sua genesi se ne sono dette di ogni, probabilmente in parte grazie e per volontà della Columbia che, allora, scoprì il talento di quel ragazzo di origini latine che si dilettava a far saltare teste e cuori cavalcando esattamente a metà strada fra quello che sarebbe diventato il cinismo del suo futuro amico Tarantino e il western degli spaghetti nostrani, figlio di Sergio Leone e di un America "alternativa" eppure leggendaria almeno quanto quella figlia degli Hawks e dei Ford.
Quello che ha me interessò - e, onestamente, interessa sicuramente più delle voci - è la piacevole sostanza che Rodriguez mette nel suo lavoro - ad oggi, forse, ancora il suo migliore -, creando il primo, vero, film d'autore "grindhouse" anni '90, facendo da precursore a un genere che verrà esplorato, esaltato, svenduto e sdoganato negli anni successivi, fino a trovare la sua ideale conclusione con lo stupendo "La casa del diavolo" di Rob Zombie, opera della quale probabilmente, prima o poi, parlerò con grande entusiasmo in un post lungo e sboccatissimo.
La vicenda del mariachi solitario, che verrà ripresa ed espansa almeno quanto il portafoglio del suo regista e creatore nei due capitoli successivi - Desperado e C'era una volta in Messico, che non mancherò di postare nei prossimi giorni, tanto per continuare la tradizione dello spirito estivo - ha il potere di affascinare diverse tipologie di pubblico, centrando il bersaglio grazie ad un eroe sostanzialmente "outsider" che si riscopre protagonista senza necessariamente dover fare la parte dello spaccaculi in stile Walker Texas Ranger - che ce ne scampi ogni divinità possibile -, mantenendo tutti i clichè di genere grazie alla donna difficile e già perduta e l'antagonista - anche se qui, a dire il vero, è come se fossero due - apparentemente troppo in alto per lui.
Storie vecchie quanto il mondo, ma che hanno fatto la fortuna di registi destinati a ruoli ben più importanti nella storia della settima arte del caciarone Robert, che, devo proprio ammetterlo, con El mariachi si è guadagnato il suo piccolo spazio nel mio cuore dedito all'intrattenimento truculento estivo.
Se non l'avete ancora visto, che posso dirvi!?
Preparatevi un bel cuba forte - o una confezione di birre, se proprio siete di quelli che il giorno dopo lavorano e non vogliono esagerare -, piazzatevi di fronte al ventilatore, spalmati sul divano, tendenzialmente con nachos e qualche salsa terribilmente piccante, e godetevelo fino in fondo.
That's the way we like it.

MrFord

"Yo no te ofrezco riquezas,
te ofrezco mi corazon,
te ofrezco mi corazon,
a cambio de mi pobreza."
Chingon - Malaguena salerosa

domenica 1 agosto 2010

Suso Cecchi D'Amico (1914-2010)

So long, vecchia signora. La più grande sceneggiatrice del Cinema italiano.

MrFord

Predator

Comincio subito con un avvertimento: se siete di quelli che snobbano i film di genere, non avete ancora visto - scellerati! - o, ancor peggio, non avete apprezzato Predator - quello vero, il primo, unico ed originale - smettete immediatamente di leggere questo post, e prendetevi la giornata - voi che potete, soprattutto se di domenica non lavorate - per riflettere sui vostri peccati.
Avendo percorso una via simile qualche giorno fa con Highlander, non potevo esimermi, sull'onda dell'insipido ultimo capitolo di questa franchise, parlare di uno degli action movies più innovativi ed interessanti degli anni '80, nonchè pietra miliare nell'ormai stracitata mia ideale lista di film "estivi": John McTiernan - che negli anni pare essersi bevuto tutta la sua abilità, ma allora stupiva a ripetizione, considerato questo film e il primo della serie di Diehard -, partendo da un soggetto classico che incrocia lo spirito militare/ironico di Gunny alla tipica trama horror - mostro spaventoso e sconosciuto uccide uno ad uno tutti i membri del gruppo fino a venire sconfitto dal protagonista di turno - riesce ad inchiodare alla poltrona con un abile mix di risate, autoironia, tecnica - fu il primo ad introdurre in un film l'utilizzo delle termocamere, utilizzate fino ad allora soltanto in ambito industriale o militare - e terrore, sfruttando al meglio il cast e giocandosi perfettamente uno dei mostri meglio realizzati della storia del Cinema, a mio parere sviluppato nel design e nelle movenze addirittura meglio del suo "collega" Alien.
Kevin Peter Hall, gigante che allora interpretò il Predator, diede al mostro tutta l'eleganza di un ninja nonostante la mole, e, pur sotto un pesantissimo trucco - stupendo - e il casco portato per quasi tutta la durata del film caratterizzò la nemesi di Arnold e soci con un'espressività inaspettata, giocata principalmente sul movimento, la "vista termica" - ma qui il merito va assegnato al regista - e l'utilizzo delle mani, vero e proprio strumento di comunicazione delle emozioni dell'alieno.
Il resto dei protagonisti, una squadra che vedeva fra le sue fila alcuni fra i più mitici interpreti dei film di genere del periodo - Schwarzenegger a parte, figurano Jesse "The body" Ventura, Sonny "Sorvegliato speciale" Landham, Carl "Apollo Creed" Weathers e Bill "Commando" Duke -, appare in forma come non mai, affiatata e sempre in grado di cavalcare quel sottilissimo filo che separa l'autoironia dal patetismo.
Non mancano, inoltre, scene di culto assoluto, una buona dose di violenza e i brividi di un duello finale con i controfiocchi, dalla fuga di Schwarzy ricoperto di fango alla scazzottata con il Predator, fino alla risata beffarda che segna la conclusione della caccia.
Il tutto con la sensazione che non ci siano veri vincitori, alla fine, e che il segno lasciato nella psiche molto più che nel corpo del buon "Terminator" sia più profondo di quanto non possa sembrare.
Un film di quelli come non se ne fanno più, capace di essere autoriale quanto profondamente sguaiato e terra terra, tecnico e trucidissimo: se qualcuno dice in giro di essere un appassionato di Cinema e non apprezza un lavoro come questo, girategli bene al largo, perchè non ama davvero, di quella passione tarantiniana o smithiana, la settima arte.
Quella passione che spinge a vedere ogni film fino in fondo, e a godersi, gustarsi e cinementarsi con tutti i generi senza paura di definire cult chicche assolute come questa.
Chiudo con una speranza e un'aspettativa: il 3 settembre uscirà in sala The expendables di Stallone, film che ha tutte le carte in regola per poter rimembrare tutto il meglio dei sottogeneri anni '80.
Speriamo che Sly porti nel nuovo millennio quella magia che solo l'epoca d'oro sua e del suo "rivale" Schwarzy pareva regalare a film di questo tipo.

MrFord

"Oh baby, yes, baby,
ooh baby, havin' me some fun tonight."
Little Richard - Long tall Sally
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