domenica 30 aprile 2017

Lui è tornato (David Wnendt, Germania, 2015, 116')





Penso che, senza ombra di dubbio, una delle rappresentazioni del Male più significative della Storia e della cultura popolare abbia il volto di Adolf Hitler.
Il responsabile dell'ascesa del Reich e di tutto quello che accadde tra gli anni trenta e quaranta in Germania ed in Europa, per quanto terrificante al pari di tanti altri dittatori assolutisti - da Pinochet a Duvalier, passando per i fin troppo numerosi casi in Africa ed in Oriente -, è divenuto un simbolo di quanto agghiacciante possa essere l'opera dell'Uomo a questo mondo, e rappresenta per la Germania una ferita ancora aperta, un personaggio pericolosissimo con il quale confrontarsi anche e forse soprattutto quando lo si fa in chiave grottesca o ironica.
Lui è tornato, giunto sugli schermi del Saloon in ritardo rispetto all'uscita in sala, rientra nel novero degli esperimenti coraggiosi tentati sul grande schermo a proposito della figura del Fuhrer, e senza dubbio finisce per rappresentare una visione "sul filo", a metà tra la genialità e la classica cagata fuori dal vaso, tra le risate e l'inquietudine che alcune riflessioni possano generare.
In tutta onestà, infatti, non solo non saprei dare una collocazione precisa ad un film come questo, che passa dalle suggestioni di critica sociale di uno dei Von Trier a mio parere più interessanti, Il grande capo, alla sfrontatezza nera di cult come Le mele di Adamo fino ad arrivare all'attualità sfrenata - per quanto folle possa suonare, se Hitler o uno come lui dovesse fare ritorno in un contesto storico delicato come quello in cui viviamo, rischierebbe davvero di fare molti proseliti, si veda ad esempio, pur se non comparabile, l'ascesa di Trump negli States come cartina tornasole per gli effetti del terrore sul mondo e la società -, ma anche nella mera valutazione, che si scontra con la bizzarra natura del prodotto, la sua apparente povertà tecnica associata ad idee metacinematografiche e profonde ed una sensazione di quasi disagio che giunge al termine della visione, legata a doppio filo alla presa di coscienza di quel "Hitler è dentro tutti noi" che rappresenta non tanto un'ammissione di colpa da parte della Germania, ma dell'Umanità intera, che quando guarda dentro l'abisso, spesso e volentieri non ricorda che l'abisso ricambia, ed influenza non poco.
E per quanto, dunque, mi sia divertito ad osservare le gesta dell'Hitler trapiantato nel nostro tempo mentre chiama i suoi seguaci "negri" imitando il gergo dei rappers che ribaltano l'appellativo dispregiativo per indicare i loro amici più stretti o manifesta la propria preferenza per il partito dei Verdi, d'altra parte sono rimasto agghiacciato rispetto alle risate che susciterebbe nelle vesti di "comico", o ai proseliti che raccoglierebbe soprattutto in strada, considerata la crescente psicosi da attentati, immigrazione, crimine e via discorrendo.
Una produzione, dunque, quella di Wnendt, che potrebbe essere considerata quasi horror, e che porta alla luce molti nervi scoperti della società anche a quasi un secolo dagli inizi dell'ascesa di Hitler: il terrore, la manipolazione, la strumentalizzazione sono mezzi usati allo stesso modo ancora oggi, pur se attraverso canali differenti.
E se dovesse arrivare, purtroppo per noi, un nuovo Hitler - o chi per lui - e sapesse usarli, allora ci sarebbe davvero ben poco da ridere.




MrFord




 

sabato 29 aprile 2017

Ray Donovan - Stagione 2 (Showtime, USA, 2014)





A volte, al termine della visione di un film o della stagione di una serie, ci si chiede per quale diavolo di motivo si sia aspettato così tanto per buttarcisi a capofitto: qui in casa Ford approcciammo Ray Donovan ormai qualche anno fa, più o meno in contemporanea con Orange is the new black, e tra tradimenti, sentimenti forti e famiglia disfunzionale, le vicende del problem solver più taciturno di L.A. interpretato da un roccioso Liev Schreiber avevano senza dubbio colpito il bersaglio.
Eppure, la seconda stagione di questo serial è rimasta a prendere polvere fino a quando, poco tempo fa, per mancanza di alternative non è stata riesumata: il risultato è stato senza dubbio una cavalcata ancora più intensa e tosta della precedente, tanto, per l'appunto, da farmi chiedere per quale cazzo di ragione non mi fossi precipitato ai tempi a recuperarla e mettermi in pari con le vicende dei Donovan, scombinati, spigolosi e difficili da gestire come poche altre famiglie del piccolo e grande schermo.
In questo secondo ciclo di episodi ci si concentra principalmente sulle conseguenze degli avvenimenti che hanno chiuso il primo e sui tentativi di ognuno dei fratelli di far funzionare - invano, ovviamente - la propria vita: Ray, sempre più violento e dritto per la sua strada, pur essendo il pilastro sul quale tutta la famiglia si poggia continua ad isolarsi, Bunchy perde una grandissima occasione - e non è neppure colpa sua - di uscire dal tunnel di dolore ed ansia iniziato con le violenze subite da bambino, Terry, come tutti i "buoni", finisce per prenderlo dove non batte il sole rispetto al sogno di emigrare in Irlanda e vivere una vita normale con la sua donna, almeno fino a quando la sua malattia lo permetterà, e via discorrendo tutti gli altri, figli, nipoti, amici e mogli, tutti condizionati dagli strascichi della vita non proprio dentro le regole di Ray e quella totalmente egoriferita di suo padre Mickey, uno che fa sembrare genitore dell'anno Frank Gallagher.
Ed accanto alle loro schermaglie i dolori della crescita dei due figli di Ray, in special modo quelli di Bridget, costretta prima ad andare contro il volere del genitore per amore e dunque vedersi strappare quello stesso amore nel peggiore dei modi, innescando l'ennesimo colpo di mano del Mr.Wolf del piccolo schermo, che come di consueto, pur vestendo e mantenendo sempre un tono molto elegante non risparmia certo i colpi, bassi e non, se vede messa a rischio l'incolumità soprattutto della sua famiglia - o almeno, di una parte di essa -.
Un esempio di grande capacità attoriale - Jon Voight è strepitoso - e di scrittura, che almeno per il momento pongono Ray Donovan in scia con i grandi cult di genere - I Soprano su tutti - ed aumentano l'hype del sottoscritto per una terza stagione che certo non attenderò più anni per iniziare: anche perchè, come tutti i tipi silenziosi, chiusi e forti, perfino Raymond avrà un punto di rottura.
E resta da capire quale sarà la portata dei danni che si porterà dietro nel momento in cui questo punto, come pare dall'ultima inquadratura del season finale, sarà raggiunto.
Nel frattempo, ripercorro le follie, le situazioni grottesche - la festa di compleanno del figlio quattordicenne terminata con la sequenza d'antologia sulle note di Walk this way nella versione Run DMC -, il ribollire del sangue che solo il sangue innesca, e dunque solo le persone che possiamo amare o odiare - o entrambe le cose - più di ogni altra: quelle cui siamo legate da qualcosa di così ancestrale e forte come la Famiglia.
E penso che, se c'è qualcuno che non è un marinaio, ma il capitano, è proprio Ray.
E che, nonostante detesterebbe saperlo, in questo è tale e quale a suo padre.




MrFord




 

venerdì 28 aprile 2017

Mike&Dave - Un matrimonio da sballo (Jake Szymanski, USA, 2016, 98')




In barba al fatto che una quindicina d'anni fa, in pieno periodo radical, non avrei neppure preso in considerazione film di questo genere, devo ammettere di avere rivalutato con il tempo il Cinema trash, anche fosse soltanto per una questione distensiva: impegni, lavoro, quotidianità e figli, infatti, finiscono per richiedere molte delle energie che allora erano destinate alle visioni impegnate, tanto da favorire, spesso e volentieri, scelte legate a pellicole senza dubbio votate al riempimento e poco altro.
Qualche mese fa, in questo senso, mi ritrovai tra i pochissimi a considerare divertente Nonno scatenato, volgarissima commediaccia made in USA con protagonista Zac Efron, ex volto pulitino Disney Channel divenuto l'emblema del tipico ragazzone americano tutto palestra e spring breaks.
La speranza di trovare un titolo associabile a quello appena citato ha finito per stimolare il recupero di questo Mike&Dave dopo mesi di titubanza: peccato che il risultato non sia stato proprio lo stesso.
Perchè quello di Szymanski è in tutto e per tutto uno dei lavori che in questi ultimi mesi qui al Saloon sto cercando di stroncare anche idealmente sbattendomene della lunghezza dei post o di quello che racconto tra le righe degli stessi: roba che non vale più tempo di quello che non sia già stato buttato nel corso della visione, salvata quantomeno dalla combo selvaggia della domenica pomeriggio con il Fordino scatenato sempre determinato a coinvolgermi nei suoi giochi e nella volontà crescente della Fordina di camminare guidata dal sottoscritto per ore in tutta la casa.
In un certo senso, queste pellicole sono l'equivalente a stelle e strisce dei Cinepanettoni di Boldi e De Sica, ed il motivo per il quale molti radical e non odiano a prescindere il Cinema ammeregano: una vera schifezzina volgarotta e dimenticabile, alla quale non mi sento davvero di dedicare nulla più di qualche riga.
Preferisco, in questo senso, godermi una sbronza made in Saloon senza sognare questi finti hangover da finti trasgressivi pronti al lieto fine.




MrFord




giovedì 27 aprile 2017

Thursday's child



Settimana di uscite che, a meno di clamorose sorprese e delusioni, potrebbe confermarsi parecchio fordiana: in alto i calici, dunque, per il Cinema e l'approccio pane e salame del sottoscritto ed escluso dalla festa il mio ormai putroppo sempre più ex avversario Cannibal Kid, che forse, sotto sotto, sta cominciando ad essere contento anche lui in questi casi.


"Ancora Cannibal Kid!? Ma io lo denuncio, quello è uno stalker!"


Guardiani della Galassia Vol. 2

"Ford e Cannibal vogliono unirsi al gruppo? Ma se quelli non sanno neanche fare i guardiani di loro stessi!?"

Cannibal dice: Il primo Guardiani della Galassia a sorpresa mi aveva divertito e gasato parecchio (o diciamo abbastanza), cosa assai rara per un film Marvel, capitata poi solo con l'ancor più spettacolare Deadpool. Di un secondo episodio a così breve distanza non è però che avessi tutta questa necessità, quindi mi sa che rimanderò la visione in attesa che l'esaltazione fanciullesca di Ford si esaurisca.
Ford dice: il primo Guardiani della Galassia, nonostante non portasse sullo schermo supereroi tra i più famosi della Marvel - o forse proprio per questo - era risultato davvero una discreta ficata.
Nonostante questo secondo giunga forse un po' troppo presto in sala, sono davvero molto curioso e molto gasato. Speriamo che non deluda le aspettative.

 

The Circle

"Cannibal mi stalkerizza, Ford non vuole saperne di guidare: questo è un disastro!"

Cannibal dice: Un film con Emma Watson lo si vede e basta, anche se non è certo sempre sinonimo di qualità, ma solo di fregnaggine. Questo film sembra inoltre un thrillerino sui pericoli di Internet di quelli che, pur nella loro banalità, sanno come conquistare l'attenzione, quindi io The Circle lo cerco e lo cerchio. Mentre Ford prevedibilmente ci tirerà una riga sopra.
Ford dice: Emma Watson non è mai stata tra le mie preferite, così come i thrillerini con risvolti pseudo sociali. Dunque direi che il cerchio, questa settimana, lo farò su altri titoli più interessanti.

 

L'amore criminale

"Ti ho detto che è molto meglio Pensieri Cannibali!" "Te lo puoi scordare, troietta: White Russian è il numero uno!"

Cannibal dice: La fordiana Rosario Dawson contro la cannibalesca Katherine Heigl. Si tratta per caso della rilettura al femminile di una Blog War tra Ford e me?
Ford dice: secondo thrillerino della settimana, che potrebbe risultare più interessante del precedente per due ragioni: la prima è che sia Rosario Dawson che Katherine Heigl sono molto più interessanti di Emma Watson, e la seconda è che potrebbe avere qualche risvolto vagamente erotico. Almeno spero.

 

La tenerezza

"Bere un white russian a quest'ora del mattino? Non siamo mica Ford!"

Cannibal dice: Non sono un grande conoscitore del cinema di Gianni Amelio. A dirla tutta, veramente, non credo di aver mai visto un film di questo regista che mi sa di molto fordiano. Il suo nuovo teneroso lavoro riuscirà per la prima volta a sverginare il mio cuoricino, complice anche un buon cast capitanato da Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti?
Ford dice: Gianni Amelio è un signor regista, che soprattutto negli anni novanta produsse titoli davvero pazzeschi - Lamerica o Come eravamo, giusto per citarne due - e che negli ultimi anni ha più che altro vivacchiato.
Questo nuovo film dal cast decisamente interessante, però, potrebbe rilanciarlo: anche in questo caso, speriamo bene.

 

La ragazza dei miei sogni

"Vorrei tatuarmi, ma ho paura di incontrare Ford: a quanto dice Cannibal, è un vero rissaiolo!"

Cannibal dice: Ci mancava solo il ritorno di Nicolas Vaporidis...
Ford dice: Ci mancava solo il ritorno di Nicolas Vaporidis..


La guerra dei cafoni

"Ragazzi, dovete metterci più canotta, se volete essere cafoni come Ford!"

Cannibal dice: Commedia italiana ambientata negli anni '70, si rivelerà cafona abbastanza da piacermi e da inorridire lo snob e anti-italico Ford?
Ford dice: operazione nostalgia che non mi ispira granchè, e che pare più un'hipsterata di quelle che piacciono a Cannibal. Per il momento, rimando. Poi si vedrà.

 

Altin in città

"Dai retta al vecchio Ford, ragazzo, e stai lontano da Casale: non ci sono segni di civiltà, da quelle parti."

Cannibal dice: La storia di un ragazzo albanese sbarcato in Italia. Troverà l'America, o finirà a Lodi insieme a Ford?
Ford dice: la storia di un ragazzo albanese sbarcato in Italia. Realizzerà i suoi sogni, o finirà a Casale insieme a Cannibal?

 

Le verità

"Un white russian? E chi ti credi di essere, il Fordino?"

Cannibal dice: Altro film italiano della settimana. Volete la mia verità? Mi sembra meno intrigante di un nuovo post di White Russian.
Ford dice: di recente ho recuperato ed in alcuni casi parlato anche bene di alcune produzioni italiane. Ora, però, non vorrei esagerare.

 

Tanna

"E pensare che, rispetto a Ford, noi viviamo all'avanguardia!"

Cannibal dice: Pellicola australiana nominata agli ultimi Oscar ambientata tra le tribù degli indigeni. Potrebbe essere un sorprendente gioiellino, così come una noiosa fordianata pseudo autoriale. Chissà?
Ford dice: potenziale sorpresa fordiana della settimana, tra Australia e wilderness. Sarà come promette, o si rivelerà una pippa d'autore in pieno stile cannibalesco?


Le donne e il desiderio

"Ragazze, ma secondo voi così conciate siamo più radical di Cannibal?"

Cannibal dice: Un mattonazzo polacco firmato da Tomasz Wasilewski che persino Ford nel suo periodo più radical-chic avrebbe evitato come la peste.
Ford dice: questo film una quindicina d'anni fa avrebbe rappresentato il titolo radical da recuperare della settimana. Fortunatamente, ora mi sono scrollato di dosso certe usanze e con la primavera che esplode non ho davvero voglia di imbarcarmi in visioni troppo pesanti.

 

A casa nostra

"Abbiamo aspettato tanto, e finalmente oggi possiamo farci fare l'autografo da Ford."

Cannibal dice: Una produzione franco-belga che potrebbe suonare come una cosa cannibale e invece no, pare essere una lagna neorealista bella (ma magari nemmeno bella) e buona. Cos'è questa, la settimana dell'orgoglio fordiano?
Ford dice: seconda potenziale sorpresa della settimana, malgrado la provenienza transalpina solitamente più cannibalesca. Posso solo sperare in un ritorno non solo delle fordianate al cento per cento, ma anche della rivalità dei bei tempi con Cannibal.

 

mercoledì 26 aprile 2017

Jonathan Demme (1944 - 2017)



So long, Mr. Demme.



MrFord





Le cose che verranno - L'avenir (Mia Hansen-Love, Francia/Germania, 2016, 102')




Considerata la vita difficile che i titoli eccessivamente radical, specie se provenienti da un bacino sempre molto radical come quello del Cinema francese, finiscono per avere al Saloon, pensavo che affrontare L'avenir sarebbe stato una vera e propria passeggiata.
Tradotto in termini molto poco tecnici: non vedevo l'ora di massacrare l'ennesimo pippone pseudo intellettuale da salotto borghese a suon di bottigliate tonanti.
E ci ho provato, credetemi.
Ci ho provato non solo per partito preso, ma con desiderio e volontà.
Eppure, al termine della visione, l'unica sensazione che ho avuto è stata quella di aver visto un gran bel film.
Certo, il modo in cui è presentato, scritto, girato, parlato trasuda supponenza e quell'aura da intellettuali pronti a credersi un gradino sopra il resto del mondo che da queste parti sta sul cazzo come forse solo l'ignoranza sfrenata, eppure, spogliato dell'apparenza, L'avenir porta sullo schermo una storia semplice, che potrebbe avere protagonista chiunque di noi, con i suoi sogni, i desideri, le passioni espresse e quelle che invece espresse non lo saranno mai se non attraverso la speranza per il futuro che rappresentano le nuove generazioni, tutto quello che viene dopo di noi e, in qualche modo, fosse anche solo per Natura, farà un passo oltre.
Una storia che, vista da un'angolazione differente, avrebbe potuto raccontare anche Ken Loach, o Clint Eastwood, o un qualsiasi regista tra i più fordiani che possiate immaginare.
Certo, la protagonista è un'insegnante parigina di filosofia che con un tamarro della mia specie c'entra poco e nulla - benchè ai tempi delle superiori adorassi la materia, come probabilmente l'adorerei ora tra un film action, un allenamento ed un cocktail -, eppure in quel suo fare sostenuto, nel non liberare il desiderio di voler assolutamente scopare con il suo giovane ex allievo prima e dopo la fine del suo matrimonio, il rapporto nevrotico con la madre accentratrice, si rivedono molte umanità che non hanno nulla di radical, ma nelle quali si trovano le debolezze e gli inciampi di una vita semplice e pane e salame, malgrado la cornice ed il background.
In fondo, per tutte le persone abituate a vivere secondo una routine e delle regole per una vita, trovarsi a confronto con il proprio tempo e la propria libertà totale sia una sensazione unica quanto straniante, clamorosamente affascinante quanto potenzialmente pericolosa.
Più o meno quello che questo film ha rappresentato rispetto ai miei pregiudizi.
Ed è curioso quanto abbia provato con tutte le forze ad odiarlo, e quanto semplicemente, senza trucchi o inganni, passando per la via sicuramente più lunga ed impervia, lo stesso si sia fatto strada nel mio cuore di spettatore e di appassionato di vita e vite vissute: senza dubbio, dall'inizio dell'anno ad oggi sono approdati in sala titoli nettamente superiori a questo, così come può essere che il voto che abbia deciso di assegnare al lavoro della Hansen-Love sia perfino troppo alto, ma un riconoscimento ci stava tutto, dalla naturalezza della Huppert alla liberazione dell'istintività di una gatta considerata troppo grassa, troppo vecchia e domestica, pronta ad una notte folle e ad un ritorno con un topo come preda.
Mai sottovalutare la Natura.
Anche quando pare lontanissima da noi.
In fondo, in Lei c'è il passato.
Ma anche, e soprattutto, il futuro.
L'avenir.




MrFord




martedì 25 aprile 2017

Via da Las Vegas (Mike Figgis, USA, 1995, 111')




Di norma, considerati il mio background, i vizi e le debolezze, gli stronzi con un cuore dediti ad alcool e donne finiscono sempre per colpire il sottoscritto, che con ogni probabilità fa parte senza neppure fare troppa fatica della categoria.
Da anni sentivo parlare di Via da Las Vegas, cult per moltissimi spettatori che avevo sempre in qualche modo mancato e che non troppo tempo fa, in occasione del Day dedicato da noi bloggers al mitico Nicholas "Parrucchino Selvaggio" Cage, avevo dovuto abbandonare per mancanza di tempistiche nel recupero del dvd: a causa di quell'ennesimo colpo a salve, ho deciso che in un modo o nell'altro avrei recuperato questo lavoro di Mike Figgis, che nel corso della vita ho perfino sentito definire Capolavoro da alcuni tra i miei amici e colleghi decisamente a loro agio in materia cinematografica.
Onestamente, il responso non è stato, almeno per questo vecchio cowboy, dei più positivi.
Perchè certo, Via da Las Vegas è un film intenso e struggente, in grado di raccontare con grande forza sia la passione di una storia d'amore sia quella che ogni persona con una dipendenza ha rispetto al veleno che si è scelta, con un'ottima escalation ed un paio di momenti decisamente toccanti, ma è anche un film prigioniero del suo tempo - puzza di anni novanta, come stile e contenuti, lontano miglia -, fin troppo volutamente "alternativo", lento e, a tratti, perfino noioso.
E a fare da contraltare ad una Elizabeth Shue bellissima come sempre, un Cage che, per quanto gli voglia bene, pare troppo sopra le righe perfino per lui, anche se, lo ammetto, il dubbio che il suo esserlo fosse legato anche all'esserlo della pellicola mi è passato per la mente: basterebbe pensare, sempre per rimanere in ambito alcolico, ad un Capolavoro - quello sì - come Giorni perduti di Wilder, forse ancora oggi uno dei ritratti più drammatici e toccanti del dramma dell'alcolismo, che se confrontato con il tentativo di Figgis finisce per ridimensionare lo stesso non poco.
Eppure, nonostante tutto e nonostante il fatto che, a conti fatti, non mi sia particolarmente piaciuto, non sono proprio riuscito a voler male a questo film, forse per lo spirito da outsiders e perdenti che lo pervade fin nell'anima, e che consegna al pubblico un ritratto - anzi, due - dei losers a stelle e strisce che dal grande sogno sono stati masticati e sputati fuori perchè non troppo graditi.
Con ogni probabilità, infatti, è stato sopravvalutato come molti film generazionali - presumo che i trentenni di allora abbiano visto in un lavoro come questo la versione romantica di quello che fu Trainspotting, decisamente superiore sotto tutti i punti di vista - e per chi lo vede ora per la prima volta, privo dell'occhio dell'amore, non resta molto altro se non i difetti.
Anche se, in una certa misura, è giusto così: Via da Las Vegas è la storia devastante di due solitudini che si incontrano e che sono inevitabilmente destinate al disastro.
E a volte è dura ammettere che dal disastro non c'è speranza di salvarsi.
Soprattutto se non lo si vuole.




MrFord



 

lunedì 24 aprile 2017

Rectify - Stagione 1 (Sundance TV, USA, 2013)




La percezione che dall'esterno possono avere di noi è una delle variabili più clamorose, scombinate e potenzialmente pericolose della nostra esistenza: tendenzialmente io sono una persona tranquilla e molto paziente, ed è difficile - ed è meglio che sia così - vedermi perdere davvero le staffe, sono molto gioviale e compagnone, ed anche al lavoro - almeno fino a qualche mese fa - sono sempre stato l'anima ed il motore della mia squadra.
Eppure, saranno i tatuaggi, l'abbigliamento, il piglio, il modo di pormi o di camminare, il fatto che negli anni mi sia decisamente irrobustito - anche se, ammetto, accadeva molto spesso anche prima -, ma sono stato fermato dalla polizia neanche fossi tornato ai tempi dell'adolescenza dei capelli lunghi e del fare da ribelle alternativo anni novanta.
In particolare ricordo l'estate di un paio d'anni fa, quando, tra canotte e taglio mohawk, ho fatto il pieno di controlli, in particolare uno sulla banchina della stazione mentre stavo prendendo il treno una domenica mattina per andare al lavoro - "Ma la bici che ha parcheggiato fuori dalla stazione è sua? E' italiano?" -, uno tornando alle nove passate la sera sempre dal lavoro e sempre in bici - e mi chiedo, ma quale squilibrato si metterebbe a rubare ed utilizzare per sfrecciare per le strade con la musica in cuffia una bicicletta con due seggiolini per bambini? - ed uno addirittura al mare, quando in una mattina di tempo non eccezionale e con il Fordino - la Fordina era ancora "in forno", ai tempi - a spasso con i miei genitori decisi di andare a fare un pò di spesa al market, e fui affiancato da una volante con tre baldi giovani - per una volta in ottima forma fisica - che mi trattennero per controlli per un buon quarto d'ora intimandomi di rimanere di fronte alla macchina ed in vista - ed io sempre in canotta, pantaloni lebowskiani ed infradito - di fronte ad un passaggio a livello con i passanti che mi guardavano come fossi una sorta di evaso.
Ricordo bene anche casi cinematografici come il meraviglioso Il sospetto, che proprio sulla percezione dall'esterno portavano una riflessione profonda sui pericoli del giudizio in una società, specie se molto ristretta numericamente - anche se, a ben guardare, le cifre contano molto relativamente, in questi casi -.
Rectify, recuperata prontamente dopo il parere entusiastico di Lisa Costa, è legata a doppio filo agli stessi temi: Daniel Holden, neanche ventenne nella Georgia di provincia è arrestato per l'omicidio e lo stupro della sua fidanzata e condannato a morte, scontando vent'anni tra ricorsi e vita da recluso tra i reclusi fino ad essere scagionato da una prova del DNA che gli permette, ormai adulto mai davvero cresciuto, di fare ritorno dai suoi cari e nella sua città.
E cosa accadrebbe, se qualcuno che per così tanto tempo aveste pensato colpevole di un delitto efferato tornasse a camminare per le vostre strade, libero e comunque - vent'anni nel braccio della morte penso possano segnare chiunque - instabile?
Nel corso di questa prima stagione di Rectify ci si concentra su questa domanda ed ancor di più sulla condizione di esule e prigioniero del protagonista anche una volta abbandonata la cella, in bilico tra ricordi ed una vita mai davvero vissuta: a prescindere, dunque, dagli sviluppi della trama e dalla nuova indagine che dovrebbe mettere chiarezza una volta per tutte sul suo caso, seguiamo principalmente il difficile reinserimento emotivo di Daniel nella società, tra sequenze splendide - il ritrovamento del baule con i suoi "cimeli" anni novanta - ed altre terrificanti - il pestaggio che chiude l'ultimo episodio -, una famiglia spezzata nel profondo dalla tragedia messa a confronto con quella ugualmente segnata della ragazza uccisa.
Il risultato è un interessante viaggio nell'animo umano, luminoso o oscuro che sia, sfumature comprese, che mette molta carne al fuoco ma al quale, per il momento, manca ancora la scintilla in grado di far mordere il freno per recuperare immediatamente il resto della serie: quello che è sicuro è che, da parte mia, uno come Daniel Holden merita una possibilità.
Fosse anche solo di dimostrarsi colpevole.



MrFord



 

domenica 23 aprile 2017

Steve McQueen - Una vita spericolata (Gabriel Clarke&John McKenna, USA/UK, 2015, 102')




Penso non ci siano dubbi rispetto al fatto che Steve McQueen sia stato uno degli attori più cool di tutti i tempi.
Personalmente, credo che soltanto in due potessero superarlo, uno in bellezza - Paul Newman - ed un altro in carisma - Marlon Brando -.
Ma tant'è.
Per me, il vecchio McQueen sarà per sempre quello "che tiene i cavalli", il mitico protagonista de L'ultimo buscadero di Peckinpah, uno dei film di riferimento della mia formazione di cinefilo e non solo.
Ma anche l'icona di Getaway!, La grande fuga, Bullit e chi più ne ha, più ne metta.
Nonchè l'emblema di uno spirito libero, ribelle, senza peli sulla lingua, devoto alla vita così come a velocità, donne, alcool, rischio.
Uno che non toglieva il piede dall'acceleratore, quando si trattava di qualcosa che amava.
E Steve McQueen amava alla follia l'automobilismo.
La 24 ore di Le Mans, film uscito dopo numerose e non felici vicissitudini produttive all'inizio degli anni settanta, era l'incarnazione su pellicola di quell'amore.
Da non amante della guida, proprio il titolo che il veloce Steve ha amato di più è paradossalmente uno dei pochi della sua filmografia ancora a mancarmi, anche se attraverso questo interessante documentario si assiste non solo alla realizzazione del suddetto film, ma anche allo scontro tra McQueen ed il suo sogno di portare se stesso all'interno di quello che era il suo lavoro, quasi dovesse completarlo per la prima volta con la passione.
Emblema della "candela che brucia dai due lati", espressione di una virilità non tanto ostentata, quanto vissuta attraverso la sicurezza in se stessi e l'amore per il rischio, McQueen in realtà rappresenta principalmente l'antieroe romantico che passa da stronzo e che, al contrario, per la sua trasparenza risulta più pulito di tanti finti bravi ragazzi, un uomo devoto alle sue passioni e pronto a giocarsi il tutto per tutto per esse: in un certo senso, con tutti i suoi difetti, un personaggio così è di quelli che si trovano raramente, a prescindere dai compromessi accettati a malincuore o rifiutati palesemente, o degli eccessi.
Il percorso compiuto, dapprima come produttore e quasi regista e dunque come "semplice" attore, sempre come pilota, all'interno di quello che era il progetto più importante della sua carriera, non solo rende il mito McQueen fallibile e grandioso proprio per la sua sconfitta, ma anche e più di quanto non si percepisca dall'esterno come pane e salame, dall'influenza sul figlio Chad - che probabilmente vorrebbe essere il padre - alla lettera ai "pezzi grossi" rispetto al riconoscimento economico per il pilota Piper, che perse una gamba durante le riprese, dalla sua prima moglie alle innumerevoli avventure, dall'atteggiamento molto "cocky" ad un cuore che si sente battere ben oltre le poltroncine della sala, o il divano di casa.
Steve McQueen visse al massimo della sua velocità, ed in tutta serenità, quando il tumore ai polmoni che gli costò la vita - e che pare derivasse dall'amianto presente nelle tute da pilota che spesso indossava - se lo stava portando via, dichiarò serenamente "di aver finito la benzina".
Per uno che, probabilmente, non si sarebbe mai fermato, tanto di cappello.
Ed in tutta onestà, quando anche per me arriverà la fine della corsa, vorrei poter affrontare la cosa allo stesso modo: coscienza dei propri limiti e palle, quantomeno, per sfidarli.
Anche se tutti sappiamo che con la morte non si vince.
Perchè a volte capita che, nella sconfitta, si trovi un segreto ancora più profondo.



MrFord



sabato 22 aprile 2017

Tutta colpa di Freud (Paolo Genovese, Italia, 2014, 120')




E' davvero curioso come e quanto possa cambiare la percezione dei punti di vista quando si passa dall'essere uomini all'essere padri: personalmente, devo dire di essere stato quasi sempre un bello stronzo, dal punto di vista sentimentale.
Del resto, sono un ingordo di vita, un egoista, un predatore, e negli anni ho preso le mie mazzate ma senza ombra di dubbio le ho restituite nel modo peggiore, perchè non l'ho fatto per vendetta, ma per natura, e spesso e volentieri non l'ho fatto con chi se le meritava davvero, anzi.
Eppure, il lato oscuro di me è anche quello che definisce quello che invece vive in piena luce, e che tira fuori qualità che senza i difetti non ci sarebbero, e si perderebbero in un nulla che, sinceramente, non mi attrarrebbe neppure in una donna, per l'appunto.
Ma non sono giustificazioni, quanto ammissioni.
Di colpa e di presenza.
Ora che la Fordina è con noi, a volte, penso a quanto mi sarei preso a pugni se fossi stato il padre di una qualsiasi delle ragazze o donne che nel corso della mia vita ho trattato male, o deluso, o fatto incazzare, o qualsiasi cosa si possa combinare in amore: è difficile, da questo punto di vista, essere padre, e cercare di crescere la propria figlia sapendo bene a cosa andrà incontro, perchè in un modo o nell'altro ci andrà.
In un certo senso, pare quasi di consegnare quella che diviene la donna della nostra vita ad un branco di bestie pronta a masticarla e, in caso, risputarla fuori: una cosa che spaventa tantissimo anche me, credo dal giorno dell'ecografia in cui scoprimmo che era femmina.
Eppure, come in tutte le cose, esistono sfumature e punti di vista, così come i difetti che non solo ci definiscono anche per quanto riguarda il nostro meglio, ma che, soprattutto nei rapporti di coppia e quelli con i propri parenti, la propria Famiglia, creano quella magia, quel legame che permette ad alcune persone di legarsi per la vita, ed imparare a conoscersi sempre di più.
Tutto questo pippone, in realtà, viene tradotto dal film di Paolo Genovese in modo molto più naif e leggero, quasi come se di fronte ci trovassimo ad una commedia pseudo indie americana e non ad una pellicola pop tutta Roma, da Gassman a Giallini, per non parlare della città: una pellicola che, e ben sapete quale sia stato il mio rapporto con il Cinema nostrano negli ultimi anni, ho trovato piacevole e ruffiana al punto giusto, in grado di guardare da più angolazioni l'amore ed i rapporti e che, cosa curiosa, ho scoperto casualmente quando il suocero Ford, che non sempre ha rapporti semplici con Julez, l'ha lasciata probabilmente in modo che fosse sua figlia, a vederla.
Ed è curioso che, guardandola, ho pensato che forse avrebbe dovuto trovare il modo di chiederle di vederla insieme, così come al fatto che già adoro ci possa essere la possibilità che, tra una quindicina d'anni, possa vedere un film come questo insieme alla Fordina, e cominciare a condividere con lei le gioie ed i dolori che comporterà avere a che fare con gli ominidi, o con l'amore in generale.
E così come in un rapporto il bello, una volta passati il sesso, i sogni, i progetti e via discorrendo, è andare incontro ai pregi ed ai difetti dell'altro, e sapere bene ed in anticipo di cosa avrà bisogno, quando si tratta di figli pare quasi tutto spogliarsi del lato più incasinato dell'amore, in modo che resti a definirlo solo quello più puro.
Fortunatamente, è solo un'apparenza.
E, seppur diversi, casini sono e saranno sempre.
Ma del resto, senza quelli, gli occhi non sarebbero così belli.



MrFord




 

venerdì 21 aprile 2017

Beata ignoranza (Massimiliano Bruno, Italia, 2017, 102')




I lettori più assidui di questo blog ben sanno quanto, soprattutto nel corso delle ultime stagioni, sia stato decisamente diffidente rispetto alle produzioni nostrane, complici annate pessime, scelte esclusivamente banali o troppo commerciali, e via discorrendo.
Come con quasi tutto quello che so che potrebbe piacermi, però, anche con il Cinema difficilmente non sperimento o faccio tentativi - alla peggio, possono andare male e tanti saluti -, dunque spinto da una serata di relax, un bel White Russian formato Ford e la curiosità di rivedere Marco Giallini dopo le buone prove di Rocco Schiavone e Perfetti sconosciuti, qui al Saloon è giunto Beata ignoranza, commedia decisamente popolare che tocca temi molto vicini al sottoscritto: la Famiglia, la paternità, l'insegnamento - se solo non fossi stato così stronzo da mollare l'università, mi sarebbe piaciuto diventare un professore di liceo - e l'importanza che, nel bene e nel male, hanno avuto internet e la cultura "social" rispetto al mondo.
In questo senso penso immediatamente alla mia generazione, nata con il walkman e le cassette riavvolte con la Bic, quando per invitare fuori una ragazza dovevi chiamarla sul fisso, a casa, e sperare non ti rispondesse il padre per non impappinarti, e nessuno sapeva dove fossi quando uscivi fino a quando rientravi: oggi tutte queste difficoltà non sono neppure immaginabili, e sulla mia pelle ho provato quanto sia diventato più semplice, negli anni, tra sms ed internet, per esempio rimorchiare.
Poi, certo, ho uno smartphone, un blog, Instagram, qualche giochino, uso il navigatore o cerco qualche recensione o dritta, ma difficilmente mi sentirei perso senza la tecnologia, per quanto ci si sia tutti abituati - altra cosa per la quale ricordo fatiche incredibili, lo sfruttamento del porno: ai tempi te li scordavi Pornhub o Youporn, era una battaglia fatta di registrazioni di film "da bollino rosso" ad orari improponibili -: da questo punto di vista Beata ignoranza centra il bersaglio con leggerezza e profondità ad un tempo, unendo elementi da commedia di grana grossa ad un messaggio di fondo per nulla scontato, con spazio a sentimenti non lacrimevoli ma sicuramente toccanti, soprattutto per un genitore.
E dunque, mentre con Julez ci si stuzzicava paragonandoci ai due protagonisti - io che uso il telefono solo nel momento in cui mi serve, e per lunghe ore della giornata giace in tasca o in un cassetto, e lei che ormai lo sfrutta con la velocità di una pistolera del vecchio West -, si è trovato spazio per risate grasse e sincere, simpatia per i personaggi, riflessioni su quanto sia importante non tanto l'assenza o la presenza di qualcosa, ma l'utilizzo che se ne fa ed un pò di vecchio e sano sentimentalismo che, quando viene presentato pane e salame, funziona sempre: una promozione su (quasi) tutta la linea, dunque.
Una cosa che non mi sarei mai aspettato da un prodotto nato per la grande distribuzione che, sulla carta o qualche anno fa nel mio periodo radical, avrei considerato meno di zero: e invece non solo Beata ignoranza si becca un giro gratis qui al Saloon, ma anche un consiglio a recuperarlo a chi non l'avesse visto da parte di questo vecchio cowboy sicuramente più avvezzo alle grandi frontiere a stelle e strisce che non alla periferia romana da Come te nessuno mai versione professori invece che studenti.
E anche in questo senso, ci si trova di fronte ad una lezione importante: genitori o professori, o semplicemente adulti, non si smette mai di imparare.
Che, forse, è la cosa più bella di questo nuovo mondo "social" in movimento.




MrFord




 
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