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lunedì 11 marzo 2019

White Russian's Bulletin



Nuova settimana per il Bulletin e ritorno, a causa di impegni sportivi e lavorativi, ad una frequenza degna dei mesi scorsi di visioni - nonostante True Detective continui a proseguire -, con solo due titoli a dare corpo alla rubrica. E' un periodo difficile, da molti punti di vista, per il mio rapporto con la settima arte, ma so benissimo che questo legame tornerà ad essere vivo come quando da queste parti c'era il fermento giusto per sostenerlo. E resterà anche quando da queste parti non sarà rimasto più nessuno.


MrFord



THE LEGO MOVIE 2: UNA NUOVA AVVENTURA (Mike Mitchell, Danimarca/Norvegia/Australia/USA, 2019, 107')


The Lego Movie 2: Una nuova avventura Poster


Il primo film dedicato ai mattoncini che hanno caratterizzato l'infanzia di molti di noi era stato una vera e propria sorpresa dalle parti del Saloon, una scheggia impazzita fatta di metacinema, ironia e sentimenti che aveva generato - giustamente - costole più che discrete come lo spin-off dedicato al personaggio di Batman. Il secondo capitolo della saga di Emmett e Lucy conferma le impressioni avute nel corso della visione del primo: il brand Lego, in sala, raccoglie l'eredità - per questo vecchio cowboy fondamentale - di Spongebob, portando il grottesco ed il gioco con realtà e finzione avanti a qualsiasi altra cosa, perfino all'idea di piacere a tutti costi al grande pubblico.
Gli incassi non avranno dato ragione al progetto di Mitchell, ma il risultato è interessante anche nelle sue imperfezioni, ed è più utile di tante altre proposte indirizzate ai più piccoli a mostrare le zone d'ombra del mondo ai più piccoli senza che necessariamente si debba perdere il sorriso nel farlo.




IL CORRIERE - THE MULE (Clint Eastwood, USA, 2018, 116')

Il corriere - The Mule Poster


Chiunque mi conosca sa benissimo che Clint è e sarà sempre il mio nonno cinematografico, l'equivalente di Johnny Cash per la Musica. Senza ombra di dubbio, parliamo del regista statunitense più importante e grande attualmente in vita e in attività, l'erede assoluto di John Ford, che ha consegnato alla settima arte numerosi Capolavori dalla fine degli anni settanta ad oggi.
Io voglio bene a Clint, e quando affronto un suo film so che, a conti fatti, uscirò soddisfatto dalla visione. Ed è stato così anche questa volta. Il corriere si lascia guardare, è molto godibile, mescola le atmosfere di Narcos e Breaking Bad alla visione da "grande vecchio" che il Maestro riesce a dare degli USA, del viaggiare, della vita.
Una sorta di Guido piano - che adoro, tra l'altro - trasportata in sala.
Eppure, nonostante le chicche - e che ne sono, dagli incontri con le motocicliste lesbiche alla famiglia afroamericana alle prese con il cambio della ruota - ed i momenti più intensi - la morte della ex moglie di Earl Stone -, a questo The mule manca l'emotività profonda dei classici dell'ex Ispettore Callahan: mi ha fatto pensare più a Di nuovo in gioco, che non a Gran Torino. Quasi il buon Clint si sia sentito in dovere di consegnare al pubblico un altro piccolo pezzo di lui, sperando sinceramente che non sia l'ultimo. 


mercoledì 14 marzo 2018

BoJack Horseman - Stagione 3 (Netflix, USA, 2016)





E' davvero dura, a volte, essere degli stronzi.
Nella maggior parte dei casi a farne le spese è chi sta accanto ai suddetti, ma di tanto in tanto, quando la merda piove e gli stronzi, per l'appunto, sono per la strada rigorosamente senza ombrello, capiscono quanto sia dura essere come si è.
BoJack Horseman è uno stronzo. Spesso e volentieri non si rende conto delle necessità di chi lo circonda, è egoista, alcolizzato, dipendente dai suoi lati oscuri, e chi più ne ha, più ne metta.
Eppure essere così com'è lo rende in grado di affrontare il mondo, e di tanto in tanto, regalare emozioni sincere proprio perchè non velate da quella piccola ipocrisia che, inesorabilmente, è parte della società ma non di chi ne sta ai margini, o al di fuori.
E la storia di BoJack, sempre più maliconica e a tratti struggente, incalza e tocca nel profondo episodio dopo episodio, regalando in questa sua terza annata due episodi che potrebbero essere definiti quasi Capolavori, Fish out of water - geniale e assurdo come un trip - e That's too much, man - un lento, inesorabile, poetico lungo addio -, confermando il carisma di uno dei charachter più interessanti della Storia recente del piccolo schermo, tridimensionale ed imperfetto neanche fosse davvero un attore scombinato e dissoluto, vero erede, almeno per me, di quell'Hank Moody che ho amato alla follia ed ha rappresentato una sorta di mia versione "amplificata".
Dunque, da stronzo e da persona vulnerabile ai suoi lati oscuri, non posso che stare dalla parte del vecchio BoJack, pronto ad una rincorsa all'Oscar che potrebbe significare un rilancio della sua carriera ed un riconoscimento al suo talento, con la conseguente sbronza di gloria o rovinosa caduta conseguenti, e mentre tutti attorno a lui paiono cercare quantomeno di andare avanti, cambiare, trovare una propria strada, il nostro cavallo sregolato guarda l'abisso che si porta dentro quasi crogiolandosi nell'essere guardato di rimando, pensando forse che per uno stronzo non ci sarà mai il "troppo tardi", anche quando si finisce per autocommiserarsi.
Il problema è che il troppo tardi prima o poi arriva, e a quel punto si è costretti a scegliere davvero una strada da prendere.
Ma a prescindere dalle ipotesi che, probabilmente, affronterò nella visione della quarta stagione, BoJack Horseman diviene senza ombra di dubbio una delle serie più drammatiche che abbia visto negli ultimi anni, grandiosa nel far digerire ferite e lacrime servendole accanto al grottesco, all'ironia, a quel qualcosa che, come nel già citato Fish out of water, sembra lontanissimo da noi, e invece ci apre il cuore neanche fosse un cazzo di chirurgo che nessuno potrebbe immaginare neppure in televisione, una specie di incrocio folle tra Derek Shepard e Hannibal Lecter.
Dunque, da stronzo ma anche da amante della vita e delle belle cose - su grande e piccolo schermo - spero che la cavalcata di BoJack possa durare ancora molto, e non smetta di essere così fottutamente schietta, incasinata, caotica, bevuta, carnosa, divertita, arrabbiata e qualunque altro aggettivo possiate farvi passare per la testa e renda bene l'idea di quanto forte sia la vita, e di quanto sia bello viverla ammettendo a se stessi - che poi, in fondo, è quello che conta, dato che, come si diceva in Lost, "si vive insieme, si muore soli" - tutto di se stessi.
Perchè potremo essere casinisti, bugiardi, eccessivi con il mondo e chiunque ci abiti, ma non potremo mai davvero esserlo con quello che è con noi da quando ci svegliamo la mattina a quando crolliamo addormentati la sera, che è lo stesso che guardiamo nello specchio.
E come un abisso, ci rimanda lo sguardo.




MrFord




 

lunedì 5 febbraio 2018

Jean Claude Van Johnson - Stagione 1 (Amazon, USA, 2016/2017)




I miti e gli eroi, neanche avessero superpoteri e potessero cambiare il mondo, che ci consegna l'infanzia - soprattutto se si è cresciuti negli anni ottanta - influenzano il corso della vita di ognuno di noi quasi quanto finiscono per fare le persone in carne ed ossa che ci stanno accanto e davvero si prendono cura di noi: ai tempi delle elementari e delle medie, quando lottavo contro la timidezza che mi divorava e sembravo perennemente almeno tre o quattro anni più piccolo dell'età che avevo, poche cose finivano per farmi sentire tranquillo e sicuro più degli action movies.
Da Schwarzenegger a Stallone, passando per Van Damme, ho vissuto alcuni dei momenti più belli, innocenti e magici di quell'epoca al ritmo delle botte che rifilavano al cattivo di turno, prima di dimenticarli come un figlio adolescente che non vuole immischiarsi con i propri vecchi e tornare a rivalutarli e comprendere la loro importanza nell'età adulta: nel corso degli ultimi dieci anni, inoltre, grazie ad una carica enorme di autoironia, consapevolezza e metacinema, tutti questi ex eroi indistruttibili, messi di fronte all'inesorabile progredire del Tempo, hanno saputo reinventarsi nel modo migliore, finendo per appassionare anche un pubblico che, forse, ai loro tempi non era neppure nato.
Van Damme, che già qualche anno fa stupì pubblico e critica - sì, avete letto bene - con il bellissimo JCVD, una sorta di revisione della propria vita in chiave ugualmente comica e drammatica, grazie ad Amazon ed alle nuove realtà dei network di streaming torna protagonista con questa miniserie - o serie? Io già spero nella seconda stagione - che lo vede di nuovo nella parte di se stesso affrontare non solo l'idea del mito originato proprio dalle pellicole che lo resero famoso ai tempi, ma anche di un genere - quello dello spionaggio - divenuto un classico del Cinema e mostrando un lato decisamente autoironico che al culmine della carriera, considerati gli eccessi, la fama ed alcune sue intemperanze sarebbe parso fantascienza non solo a lui stesso, ma anche alla maggior parte del pubblico che lo seguiva.
A partire dal geniale pilota fino alla spaccata della resa dei conti, passando per la gara di drifting neanche fossimo dalle parti di Fast and Furious e per le sue due spalle interpretate da Kat Foster - una vera e piacevolissima sorpresa, in tutti i sensi - e Moises Arias, che mi hanno riportato alla mente un'altra serie che ha avuto il merito di sottolineare l'importanza di un attore ed un personaggio mitici, Ash vs Evil Dead, posso dichiarare senza ritegno alcuno di aver amato ogni secondo di ognuno dei sei episodi, pronti a contagiare con il loro delirio, le botte e le risate perfino il Fordino, che ancora non ha assolutamente idea di chi sia Van Damme e che ha identificato il tutto con il personaggio del sosia di JCVD interpretato dallo stesso attore belga ed accreditato come fosse il fratello di quest'ultimo, innalzandolo immediatamente a volto di riferimento delle serie che guardiamo al Saloon insieme a Frank Gallagher, "l'altro Frank" (Underwood) e il buon vecchio House.
Un plebiscito, dunque, per una proposta freschissima ed intelligente, oltre che tamarra oltre misura e divertentissima, già destinata a diventare un cult di questo duemiladiciotto sul piccolo schermo e della carriera del mitico Jean Claude che, vorrà perdonarmi, nel corso dell'adolescenza ho snobbato tanto da non affrontare mai la visione di quello che è stato il suo film di maggior successo, Timecop, che a suo dire dovrebbe essere la versione bella di Looper.
A questo punto, come fosse un fioretto nella speranza di vedere una season two di Jean Claude Van Johnson, prometto che rimedierò il più presto possibile.
O comunque, prima che qualcuno venga a prendermi da un futuro che potrebbe non essere così roseo.
O ricco di spaccate e calci rotanti.




MrFord




 

domenica 30 aprile 2017

Lui è tornato (David Wnendt, Germania, 2015, 116')





Penso che, senza ombra di dubbio, una delle rappresentazioni del Male più significative della Storia e della cultura popolare abbia il volto di Adolf Hitler.
Il responsabile dell'ascesa del Reich e di tutto quello che accadde tra gli anni trenta e quaranta in Germania ed in Europa, per quanto terrificante al pari di tanti altri dittatori assolutisti - da Pinochet a Duvalier, passando per i fin troppo numerosi casi in Africa ed in Oriente -, è divenuto un simbolo di quanto agghiacciante possa essere l'opera dell'Uomo a questo mondo, e rappresenta per la Germania una ferita ancora aperta, un personaggio pericolosissimo con il quale confrontarsi anche e forse soprattutto quando lo si fa in chiave grottesca o ironica.
Lui è tornato, giunto sugli schermi del Saloon in ritardo rispetto all'uscita in sala, rientra nel novero degli esperimenti coraggiosi tentati sul grande schermo a proposito della figura del Fuhrer, e senza dubbio finisce per rappresentare una visione "sul filo", a metà tra la genialità e la classica cagata fuori dal vaso, tra le risate e l'inquietudine che alcune riflessioni possano generare.
In tutta onestà, infatti, non solo non saprei dare una collocazione precisa ad un film come questo, che passa dalle suggestioni di critica sociale di uno dei Von Trier a mio parere più interessanti, Il grande capo, alla sfrontatezza nera di cult come Le mele di Adamo fino ad arrivare all'attualità sfrenata - per quanto folle possa suonare, se Hitler o uno come lui dovesse fare ritorno in un contesto storico delicato come quello in cui viviamo, rischierebbe davvero di fare molti proseliti, si veda ad esempio, pur se non comparabile, l'ascesa di Trump negli States come cartina tornasole per gli effetti del terrore sul mondo e la società -, ma anche nella mera valutazione, che si scontra con la bizzarra natura del prodotto, la sua apparente povertà tecnica associata ad idee metacinematografiche e profonde ed una sensazione di quasi disagio che giunge al termine della visione, legata a doppio filo alla presa di coscienza di quel "Hitler è dentro tutti noi" che rappresenta non tanto un'ammissione di colpa da parte della Germania, ma dell'Umanità intera, che quando guarda dentro l'abisso, spesso e volentieri non ricorda che l'abisso ricambia, ed influenza non poco.
E per quanto, dunque, mi sia divertito ad osservare le gesta dell'Hitler trapiantato nel nostro tempo mentre chiama i suoi seguaci "negri" imitando il gergo dei rappers che ribaltano l'appellativo dispregiativo per indicare i loro amici più stretti o manifesta la propria preferenza per il partito dei Verdi, d'altra parte sono rimasto agghiacciato rispetto alle risate che susciterebbe nelle vesti di "comico", o ai proseliti che raccoglierebbe soprattutto in strada, considerata la crescente psicosi da attentati, immigrazione, crimine e via discorrendo.
Una produzione, dunque, quella di Wnendt, che potrebbe essere considerata quasi horror, e che porta alla luce molti nervi scoperti della società anche a quasi un secolo dagli inizi dell'ascesa di Hitler: il terrore, la manipolazione, la strumentalizzazione sono mezzi usati allo stesso modo ancora oggi, pur se attraverso canali differenti.
E se dovesse arrivare, purtroppo per noi, un nuovo Hitler - o chi per lui - e sapesse usarli, allora ci sarebbe davvero ben poco da ridere.




MrFord




 

lunedì 6 marzo 2017

The Lego Batman Movie (Chris McKay, Danimarca/USA, 2017, 104')





Quando, circa tre anni or sono, uscì in sala The Lego Movie, accolsi tiepidamente la notizia nonostante fin da bambino avessi amato moltissimo i noti mattoncini colorati pronti a diventare le fondamenta di mondi e combinazioni sempre diverse nelle mani della fantasia di più o meno piccoli "giocatori": eppure, ricordo che uscii dalla visione divertito, emozionato e soprattutto ammirato per il lavoro che gli autori avevano svolto sul charachter di Batman, forse il più riuscito della pellicola.
All'annuncio, dunque, dell'approdo in sala dello spin off dedicato proprio alle gesta dell'Uomo Pipistrello nel mondo Lego l'hype era decisamente più alto rispetto a quello della pellicola che l'aveva ispirato, e devo ammettere che, per tutta la prima parte, non solo ha trovato conferma, ma ha anche alimentato la speranza che questo secondo lungometraggio potesse superare - e neppure di poco - il primo, amplificando ulteriormente tutta la parte grottesca così come l'approccio metacinematografico, tanto da ricordarmi alcuni dei passaggi più geniali del mitico ed altrettanto geniale Spongebob, dalla caratterizzazione del protagonista alla sua voce off che accompagna il pubblico fin da prima dei titoli di testa.
L'approccio è dinamico, il ritmo tiratissimo - non c'è praticamente un attimo di pausa dal primo all'ultimo minuto -, l'utilizzo non è solo dei nemici più o meno noti del Batman fumettistico e cinematografico - Joker in primis - ma anche di alcuni "ospiti" della stessa pasta della clownesca nemesi dell'alter ego di Wayne - grandiose le versioni di Voldemort e Sauron, già cultissimi -: tutto converge rendendo The Lego Batman Movie una conferma del valore di quello che potrebbe diventare in futuro un brand di riferimento per l'intrattenimento animato per tutti - e forse un pò più per adulti -, nonostante sulla distanza finisca per perdere terreno dando ad un'evoluzione ovviamente prevedibile della trama così come all'azione supereroistica troppo spazio rispetto all'ironia assurda e scombinata della prima parte.
Peccati veniali, comunque, di un film che, come il primo della serie, da queste parti ha trovato terreno fertile ed è già considerato allo stesso modo una piccola chicca di nonsense spinto in versione animata - anche se le vette del già citato Spongebob sono irraggiungibili, va detto -, ed almeno nel sottoscritto fa già venire l'acquolina in bocca per un eventuale terzo capitolo giocato sulla rivalità tra Batman e Superman, che viene ritratto - giustamente - come un bisteccone buonista in grado di insidiare il trono di Joker di nemico numero uno del Pipistrello.
Peccato, al contrario, per il pessimo adattamento italiano, culminato con il doppiaggio da carcere a vita di Geppi Cucciari rispetto alla figlia del Commissario Gordon, una delle cose più imbarazzanti e terribili da che esiste il sonoro nel Cinema: l'idea che i distributori nostrani hanno di prendere in prestito personaggi dello spettacolo per portare ancora più spettatori in sala quando si parla di animazione è quantomeno discutibile, e finisce per rovinare visioni che, come questa, meriterebbero certo trattamenti di ben altro genere.
Meglio pensare ad uno degli sfruttamenti della figura del Cavaliere Oscuro più spassosi ed originali che il Cinema abbia concepito, e a quanto è bello, a volte, trovarsi di fronte a quei vecchi giocattoli e pensare che, forse, la macchina del tempo esiste davvero.
E non c'è cosa più goduriosa, una volta attivata, della consapevolezza di poter tornare bambini senza perdere il bagaglio dell'essere adulti.




MrFord




sabato 18 febbraio 2017

American Horror Story - Roanoke (FX, USA, 2016)




Il mio personale rapporto con il brand di American Horror Story, creatura camaleontica di Murphy e Falchuk, è stato quantomeno travagliato: la tanto incensata prima stagione, infatti, ai tempi da queste parti non andò oltre le bottigliate; con la seconda, ambientata quasi interamente in un manicomio ed a cavallo tra diversi decenni, rimasi molto, molto sorpreso in positivo; dalla terza in poi fu un lento declino, che mi portò a lasciare il titolo alle visioni da sessioni di ferro da stiro di Julez senza che mi mancasse neppure lontanamente.
Con il duemilasedici e l'ottima prova dell'antologico American Crime Story - sempre creato dal duo - a risvegliare il mio interesse per AHS sono giunte molte recensioni positive di questa sesta annata, Roanoke, che a quanto pare rinverdiva i fasti delle prime due - ed ho sperato fortemente nella seconda, ovviamente -: in questo periodo da casalingo, dunque, accanto ai recuperi delle molte serie televisive passate su questi schermi nell'ultimo periodo, è giunto anche questo.
Il risultato è stato decisamente positivo per quella che, proprio con la già citata Asylum, è senza ombra di dubbio la miglior stagione della serie, costruita sfruttando più livelli di narrazione, metacinema, stili e mezzi di ripresa, e generi: partita come un incrocio tra il thriller e la ghost story e divenuta un vero e proprio incubo mortale per i protagonisti simile ad un survival, a metà del cammino chiude un arco narrativo per aprirne un altro trasformando il tutto in un grottesco ritratto dei reality e della società "social" attuale fino a diventare una delirante mattanza conclusa con un finale quasi lirico, e con il sacrificio dell'unico charachter superstite alle due "spedizioni" a Roanoake.
Quello che, come sempre, è interessante notare quando gli horror hanno spunti interessanti, è quanto, in realtà, a prescindere dagli incubi, dalle Macellaie e dalle streghe dei boschi, l'Uomo finisca sempre per risultare la minaccia più grande e pericolosa, che si tratti di squilibri mentali - i rednecks vicini di Matt e Shelby, Agnes -, vuoti interiori - Lee - oppure avidità di potere e successo - Ryan -: se, infatti, le creature venute dall'altro mondo, sanguinarie per imposizione, condizione e status, si muovono come se seguissero una macabra routine, gli esseri umani spinti dalle loro emozioni, dall'istinto e dal terrore o dalla furia del momento finiscono per risultare ben più pericolosi ed inquietanti pur non mostrando un aspetto particolarmente agghiacciante - sinceramente, i Chang o Testa di maiale non fanno venire i brividi quanto alcuni dei passaggi che coinvolgono e vedono protagoniste quelle che dovrebbero essere solamente le vittime sacrificali -.
Il viaggio a Roanoke, in bilico tra antiche maledizioni, violenza, sospetto, gelosie, rancori e follia, è stato senza dubbio, pur non risultando certo spaventoso quanto il Twin Peaks dei tempi d'oro, una delle sorprese più interessanti dell'ultimo periodo, segno che, inventiva ed originalità a parte, quando Murphy e Falchuk si concentrano sull'animo umano più che sulla volontà di stupire a tutti i costi, riescono ad essere convincenti e decisamente inquietanti, così come macabri e divertenti ad un tempo - il personaggio di Cricket è una chicca, in questo senso -: non voglio cantare vittoria troppo presto, ma direi che, se le premesse e le idee sono queste, il viaggio di American Horror Story può tranquillamente continuare tornando a trovare uno spazio importante anche qui al Saloon.



MrFord



 

lunedì 30 novembre 2015

The final girls

Regia: Todd Strauss-Schulson
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 88'






La trama (con parole mie): Max, adolescente figlia della star di un cult slasher anni ottanta, a due anni dalla morte della madre ancora si trova a dover fare i conti con il senso di perdita.
Quando, in cambio di un aiuto scolastico, accetta di partecipare alla proiezione di un double-feature con le pellicole appartenenti al brand che aveva reso famosa la genitrice, accade l'impensabile: un incendio nella sala spinge Max ed i suoi amici alla fuga attraverso il telo, e proprio questo salto finisce per trasportare tutti loro nella "realtà" del film, dove la mamma della ragazza è solo Nancy, il personaggio che interpretò ai tempi.
Come si comporterà il gruppo di adolescenti attuali rispetto ai charachters del cult che hanno conosciuto solo sul grande schermo? Cosa cambierà nella storia di Camp Bloodbath il fatto che ognuno di loro sa cosa aspetta i personaggi ed il pazzo omicida Billy Murphy?
E come si comporterà Max rispetto alla madre "ritrovata"?










Finalmente è accaduto.
Il Cinema, dopo essersi goduto - un pò come qualsiasi campo, artistico o no - gli anni ottanta ed averli ripudiati per quasi un ventennio bollandoli come una sorta di tentativo mal riuscito di chiudere gli occhi divertendosi rispetto a tutto quello che poteva andare male, pare essere arrivato a comprendere la fondamentale importanza che quel decennio ha avuto non solo nella formazione della generazione di registi più o meno coetanei del sottoscritto, ma anche del tipo di approccio alla vita destinato a farci più coraggio nel momento in cui affrontiamo i momenti peggiori della stessa, invece che seppellirci nella disperazione come insegnarono - e noi adolescenti di allora lo sappiamo bene - i successivi novanta.
In questo senso, il duemilaquindici che volge alla conclusione è stato senza dubbio l'anno che più ha sottolineato questa nuova - e da queste parti caldamente sponsorizzata - tendenza, dal sorprendente Kung Fury a prodotti di grana grossa ma dallo spirito clamorosamente eighties nello spirito come Fast 7, Jurassic World e Terminator: Genysis, fino a giungere a The final girls: proiettato da queste parti spinto da recensioni entusiastiche raccolte praticamente ovunque nella blogosfera, il lavoro del mio quasi coscritto Todd Strauss-Schulson è un vero e proprio trionfo di ironia, intelligenza, divertimento, metacinema ed una dichiarazione d'amore alle atmosfere di cult come Nightmare, Venerdì 13, Halloween e tutto quello che possa tornare a galla nella vostra memoria rispetto ai tempi mai dimenticati di Notte Horror.
Come se non bastasse, poi, il sentito omaggio a quello che è il mio decennio del cuore, The final girls è anche un ottimo esempio di tecnica, dall'ottima fotografia - splendide le sequenze dell'inseguimento conclusivo di Billy Murphy rispetto ai protagonisti - ad una colonna sonora rigorosamente figlia dei tempi raccontati, passando per un look piacevolmente vintage che ricorda non solo il Cinema, ma anche i videogiochi, un cast perfetto nel mostrare le ingenuità di allora e l'approccio attuale - per chi ha vissuto entrambe le epoche, esilarante il rapporto della svampita Tina con gli smartphone - ed una profondità che, a tratti, solletica e non poco la nostalgia per il tempo che fu e l'ineluttabilità di alcuni avvenimenti destinati, nel bene o nel male, a cambiare la nostra vita.
Ma a prescindere dagli aspetti tecnici, dai dettagli e dalle critiche vere e proprie, la cosa che più mi soddisfa rispetto ad una visione di questo tipo è data dal fatto che The final girls è un film straordinariamente bello, ottimamente riuscito, intelligente, in grado di tradurre in immagini l'amore che ha sempre guidato il sottoscritto davanti ad uno schermo, e dai momenti peggiori - in termini di qualità delle pellicole - a quelli più esaltanti ha continuato a sostenermi, e continua a farlo ogni volta che siedo ed attendo la partenza di un nuovo viaggio sullo schermo, ancora oggi.
Dalla televisione al primo videoregistratore, dalla meraviglia della rivoluzione dei dvd all'alta definizione dei bluray, da quella volta in cui non mi fecero entrare in sala per Intervista col vampiro perchè ero senza documenti e non credevano che avessi davvero quattordici anni indietro fino a La storia infinita visto all'aperto con mio nonno, o Rocky IV con mio padre, quando mi coprii il volto per non vedere Apollo ucciso sul ring dai colpi di Drago, fino a quando porterò il Fordino per la prima volta in sala, o a quella sera, nelle ultime file per vedere Le ferie di Licu, che avrei dovuto recensire, con Julez ci dedicammo a tutt'altro che non fosse la visione, il Cinema è stato ed è una delle passioni più grandi della mia vita.
Ed è un vero piacere scoprire, rivedendosi nelle immagini girate e pensate da qualcuno che potrebbe avere avuto un percorso simile al mio, che non sono il solo.
E' un piacere confortante scoprire che c'è stata, c'è e ci sarà sempre una "final girl" che sconfiggerà il mostro.
Soprattutto quando il mostro sei tu.




MrFord




"And she'll tease you
she'll unease you
all the better just to please you
she's precocious and she knows just
what it takes to make a pro blush
she got Greta Garbo stand off sighs
she's got Bette Davis eyes."
Kim Carnes - "Bette Davis eyes" - 






domenica 9 agosto 2015

Spongebob - Il film

Regia: Stephen Hillenburg, Mark Osborne
Origine:
USA
Anno: 2004
Durata: 87'






La trama (con parole mie): nel cuore dell'oceano, a Bikini Bottom, Mr. Krabs, uomo d'affari responsabile del successo dei Krubby Patty, è in procinto di aprire un secondo fast food interamente dedicato ai suoi irresistibili panini proprio accanto all'originale, suscitando le invidie di Plankton, pronto a ricorrere ad un famigerato "Piano Z" per distruggere il suo rivale in affari.
Spongebob, giovane spugna, invece, sogna di diventare il manager del nuovo locale aperto da Krabs: quando la delusione per non essere stato scelto lo farà rifugiare nel gelato e la tristezza parrà una condizione senza più ritorno, proprio la lotta tra il suo capo e Plankton tornerà ad alimentare le speranze di riscatto e successo del giallo abitante delle profondità dell'oceano.
Spongebob ed il suo migliore amico Patrick la stella marina, infatti, si offriranno di partire per una missione apparentemente impossibile in modo da scagionare Krabs agli occhi del Re Nettuno, in modo da non essere più considerati ragazzini e trovare il loro posto nella società di Bikini Botton.
Riusciranno a compiere l'impresa?










Alle spalle l'esperienza illuminante del recente Fuori dall'acqua e recuperato quello che dagli appassionati viene considerato il supercult totale dedicato al personaggio, posso affermare di essermi completamente ricreduto: Spongebob è inequivocabilmente, inesorabilmente, incondizionatamente un idolo del Saloon e del sottoscritto.
Un charachter assurdo che avevo sempre giudicato inutile è riuscito, con due pellicole tanto semplici quanto geniali, a cambiare radicalmente il punto di vista storico del sottoscritto rispetto a questa spugna dai molteplici talenti, orchestrata in pieno equilibrio tra metacinema e grottesco in stile Monty Python dai suoi creatori: fin dall'apertura dedicata ai pirati in cerca del biglietto per la proiezione del film l'impressione è quella di avere tra le mani una scheggia impazzita della settima arte - e non solo dell'animazione -, il cui unico limite, forse, è quello di essere talmente oltre da rischiare di spiazzare completamente i non avvezzi e tutti i poco propensi a mantenere la mente elastica neanche ci si trovasse nel pieno di un trip allucinogeno.
In un certo senso, e con il senno di poi, ho trovato questo Spongebob - Il film un equivalente scombinato ed animato del recente e decisamente autoriale Vizio di forma: un'esperienza visiva e sensoriale - nel mio caso, è stato un continuo sghignazzare - neanche si fosse fatta indigestione di Space Cake o funghetti ad Amsterdam, resa ancora più grandiosa da uno dei momenti trash più incredibili dai tempi del primo Sharknado, concretizzatosi con l'apparizione di David Hasselhoff, uno tra i volti più importanti - ed improbabili - del piccolo schermo tra gli anni ottanta e novanta, da Supercar a Baywatch.
Per il resto, la brigata Spongebob - che verrà ulteriormente approfondita nel già citato Fuori dall'acqua - regala momenti di assoluto nonsense e divertimento, e l'intera opera si rivela un intelligente road trip che mescola reminiscenze di Guerre stellari ai Classici Disney, passando per un gusto assolutamente sopra le righe in grado, più che di mostrare un'attitudine finto radical o una critica al sistema gratuita, sprazzi di assoluto talento e grande occhio nell'analizzare Bikini Bottom come se fosse una parte del mondo, e di noi stessi.
In realtà il segreto di un prodotto come questo è quello di viverlo senza ritegno e fino in fondo, accettando qualsiasi sua intemperanza, dagli scambi di battute in stile Apatow di Spongebob e Patrick ai momenti in stile musical - stupefacente la canzone sulla crescita dei baffi, e memorabile la sequenza sulle note di I want to rock nel finale -, passando per una rappresentazione solo ad una prima vista - molto superficiale - nonsense ed assurda, perchè Spongebob - Il film è una chicca degna di essere considerata cult movie, una sfida lanciata non solo all'animazione, ma al Cinema in generale.
In fondo, ci vuole coraggio da vendere di autori e registi, per lanciare sul mercato e consegnare al pubblico un protagonista assolutamente fuori dagli schemi - esteticamente e per approccio - contornato da ambientazioni e comprimari che lo sono altrettanto: e Spongebob, con o senza baffi, è quanto di più irriverente, assurdo e solo apparentemente improvvisato e trash possa capitare in questo senso.
Dai botta e risposta con Patrick al confronto con il mondo dei "grandi" nel corso del loro viaggio, tutto funziona, anche quando il risultato, ad un'occhiata superficiale, parrebbe gridare ferocemente al contrario: la verità è che il film dedicato a Spongebob è una fucina di idee, trovate irriverenti, personaggi destinati a diventare un must assoluto per gli amanti del genere.
Da un certo punto di vista potrebbe suonare strano e riduttivo il fatto che non tutti possono gradire un prodotto anarchico come questo, ma trovo che, in fondo, sia irrilevante: Spongebob è un salto nel vuoto, un atto di fede, neanche si trattasse di cose enormi come Lost o Twin Peaks.
Credete nella spugna, e lei crederà sempre in voi.
E sempre per voi sarà disposta a viaggiare ben oltre i confini del mondo da lei conosciuto affinchè possiate invecchiare senza il dispiacere di perdervi i fantomatici Krabby Patty.





MrFord





"TURN IT DOWN YOU SAY,
WELL ALL I GOT TO SAY TO YOU IS TIME AND TIME AGAIN I SAY, "NO!"
NO! NO, NO, NO, NO, NO!
TELL ME NOT TO PLAY
WELL, ALL I GOT TO SAY TO YOU WHEN YOU TELL ME NOT TO PLAY,
I SAY, "NO!"
NO! NO, NO, NO, NO, NO!
SO, IF YOU ASK ME WHY I LIKE THE WAY I PLAY IT
THERE'S ONLY ONE THING I CAN SAY TO YOU."
Twisted Sister - "I wanna rock" - 





mercoledì 3 giugno 2015

Mia madre

Regia: Nanni Moretti
Origine: Italia
Anno: 2015
Durata:
106'






La trama (con parole mie): Margherita, una regista alle prese con la realizzazione del suo ultimo lavoro, la separazione dal compagno, il rapporto con la figlia ed il fratello Giovanni, a sua volta in crisi rispetto alla carriera, si trova a doversi confrontare con la malattia ed il sopraggiungere della morte della madre, Ada, insegnante di latino amata da suoi studenti, donna piena di vita anche bloccata in un letto d'ospedale.
Nel continuo altalenarsi tra il set e la terapia intensiva, l'energia che scema della genitrice e quella che fiorisce della figlia, Margherita si trova a dover gestire l'ingombrante attore americano chiamato ad interpretare l'antagonista nel suo film, a confrontare il passato ed il futuro, l'idea di essere sola e quella, di fatto, di non esserlo.
Come giungerà, dunque, l'ultimo giorno?
E cosa accadrà quando il sipario sarà calato, le riprese terminate, l'ultimo respiro esalato?










In tutta onestà, non ho mai pensato al momento in cui dovrò affrontare la morte di mia madre.
Ricordo però molto bene quando lei perse la sua.
Era l'inizio di marzo del novantuno, io mi avviavo a chiudere il mio primo anno alle medie, e mia nonna, che si era ammalata la primavera precedente e aveva dato segni di grande miglioramento in estate, dal periodo delle feste natalizie non aveva fatto altro che peggiorare.
Quella mattina, come al solito, io e mio fratello facevamo colazione in sala, latte e biscotti con la videocassetta di uno dei tanti film che già vedevamo a ripetizione, quando suonò il telefono, e mia madre uscì correndo.
Pensai a cosa sarebbe potuto accadere per tutta la mattina, a scuola, e quando mi affacciai al suono della campanella vidi mio padre, che, considerato il lavoro, non aveva mai la possibilità di venirmi a prendere durante la settimana.
Il mio primo pensiero, paradossalmente, fu che era morto mio nonno, magari per lo spavento: in fondo era più vecchio, aveva avuto già problemi di salute, era quello che avevo sempre immaginato se ne sarebbe andato per primo.
Quando scesi e mio padre mi disse che invece era stata la nonna, a morire, rimasi in silenzio, come avvolto da un guscio, fino alla porta di casa: mi aprì mia madre, con gli occhi gonfi di lacrime. Il tempo di buttare lo sguardo in cucina, con mio nonno seduto al tavolo, e su di lei, e scoppiai a piangere.
Ricordo quei momenti come se fosse ieri, ancora oggi.
Allo stesso modo, non ho mai pensato neppure al momento in cui sarà il Fordino, a doverci dire addio. A quale sensazione si proverà ad essere chi se ne va, e non chi resta. In parte perchè, da fervente appassionato ed ingordo di vita, vorrei rimandare quel momento il più a lungo possibile, in parte perchè, in qualche modo, non credo sia giusto affrontare questo tipo di cose in anticipo.
Dal canto suo, dato che questo post dovrebbe parlare anche del suo lavoro, Nanni Moretti deve aver pensato che uno dei momenti più drammatici ed importanti delle nostre vite - considerando il ciclo naturale delle cose - valeva un tentativo, quantomeno, di confronto.
E nonostante il ritmo eccessivamente dilatato, alcune sbavature - volute o no - del montaggio, una Margherita Buy come sempre poco sopportabile, sento di pensare che il tentativo sia valso ogni pena, ogni lacrima, ogni momento di sconforto che questo tipo di percorsi inevitabilmente portano in dono.
In un certo senso, Mia madre rappresenta, per Moretti, quello che per Virzì era stato La prima cosa bella: una dichiarazione d'amore, un ricordo affettuoso, un omaggio al legame che stabiliamo con la persona che ci ha dato la vita, e che a prescindere dalle differenze, dall'esperienza e dalla strada che si decide di percorrere, resta un riferimento dall'istante in cui nasciamo a quello in cui ci ritroviamo a dover abbandonare il palcoscenico, e sperare in una chiusura dignitosa.
E poi si potrebbe parlare dei pregi e dei difetti del film, della partecipazione a Cannes accanto agli altri due moschettieri del Cinema d'autore italiano Sorrentino e Garrone, dello stesso Moretti - che avrà ottime intuizioni dietro la macchina da presa, ma che davanti alla stessa, per me, resta sempre un cane maledetto - e della sua più o meno velata antipatia, del gigioneggiante ma ugualmente interessante John Turturro, della misurata e bravissima Giulia Lazzarini, della semplicità disarmante di alcuni passaggi - la lezione di motorino alla figlia - e del significato dell'intera pellicola, ma poco importerebbe.
Mia madre racconta un dramma ed un'emozione, un passaggio fondamentale della crescita come individui che tutti, amanti del Cinema oppure no, in grado di sopportare Moretti ed il suo modo di raccontare oppure no, o quasi, finiremo un giorno o l'altro per affrontare.
In fondo, è questa la Natura.
Queste le regole del viaggio.
Questa la passione di una storia.
La propensione al domani.
Sempre e comunque.
Anche quando un domani non ci sarà.




MrFord




"I could be right, I could be wrong
it hurts so bad it's been so long
mama, I'm comin' home."
Ozzy Osbourne - "Mama I'm comin' home" - 





lunedì 9 febbraio 2015

Birdman

Regia: Alejandro Gonzales Inarritu
Origine: USA, Canada, Messico
Anno:
2014
Durata: 119'






La trama (con parole mie): Riggan Thomson è una superstar. O quantomeno, lo è stata.
Vent'anni or sono, ai tempi in cui impersonò il supereroe Birdman in tre blockbuster dal successo clamoroso. Archiviata l'epoca del costume e della maschera, più nulla, o quasi, se non crisi d'identità, un matrimonio fallito, una figlia ribelle e tutte le speranze - ed il denaro - investiti in uno spettacolo teatrale messo in scena nel cuore di Broadway tratto da Carver.
Ossessionato dal voler realizzare un'opera in grado di rimanere impressa nella mente di pubblico e critica e soprattutto dall'idea di volersi emancipare dalla maschera di Birdman, Riggan lotterà con ogni fibra del suo essere affinchè il lavoro possa non solo essere portato a termine, ma definirlo come attore, artista, performer e Uomo.
Ma è davvero questo, quello che cerca? E cosa suggerisce davvero la sua voce interiore?
Quale ruolo giocherà, in tutto questo, la figlia Sam? 
O tutti i personaggi della sua personale commedia?






Ai tempi dell'uscita di Amores Perros, dovevamo essere in quattro, in sala.
Ricordo benissimo i brividi, le emozioni, la sensazione di essere di fronte ad un futuro cult, all'esperimento più riuscito del post-Tarantino in termini di destrutturazione della storia portata sullo schermo.
Inarritu, allora un nuovo volto per la settima arte, finì per fare il botto e venne di colpo catapultato nel dorato mondo di Hollywood: ricordo quando uscì 9/11/01, insieme di cortometraggi firmati da registi provenienti da qualsiasi latitudine realizzato per ricordare i fatti del World Trade Center, e quanto attesi il momento di godermi quello firmato dal cineasta messicano, che si rivelò, al contrario, uno dei più autocompiaciuti e deludenti della selezione.
Sperai in un incidente di percorso, ed invece il peggio accadde: Inarritu collezionò, da quel momento, solo ed esclusivamente bottigliate con i fin troppo sopravvalutati 21 grammi e Babel, tanto da indurmi a non visionare neppure Biutiful, nonostante ottime recensioni lette anche qui nella blogosfera.
Ma il discorso con Birdman era diverso.
Recensioni entusiastiche, grandi aspettative, un Michael Keaton assoluto protagonista rendevano questo titolo uno dei must see della prima parte di questo duemilaquindici: ed effettivamente, per due terzi del film il mio unico pensiero è stato "WOW", che liberamente tradotto nella lingua fordiana significa "porca puttana e santo cazzo, che film enorme ha tirato fuori Inarritu".
Tecnica pazzesca, un cast in forma smagliante - perfino Zack Galifianakis sembra un bravo attore -, un turbinio di parole e sentimenti che non solo travolge, ma mette all'angolo ed induce ad abbassare la guardia in modo da avere una sorta di autostrada per una scarica di cazzotti emotivi ed intellettuali da lasciare più che KO, e come se tutto questo non bastasse, metacinema ed una graffiante ironia indirizzata a tutto il mondo della recitazione e della regia, dai teatri di Broadway al Cinema, senza risparmiare la critica.
E dunque, fino a poco più di un'ora e mezza di visione, mi sono sentito frastornato dai colpi di Inarritu - aiutato e non poco da Carver e dal suo strepitoso protagonista -, pensando già a come scrivere questo post, ad un nuovo header, all'esaltazione che si prova quando capita di vedere un film che già pare proiettato nella top ten dell'anno: poi, proprio nel momento migliore - la prima apparizione dell'alter ego mascherato di Riggan e la sequenza che lo vede finalmente e fisicamente protagonista -, il film, che per novanta minuti abbondanti aveva volato alto, finisce per cavalcare la corrente ascensionale sbagliata ed avvitarsi su se stesso, incappando in una serie noiosissima di finali in pieno stile Il ritorno del re diventando forzato e poco naturale, quasi il regista e gli autori avessero superato la linea che separa il suggerito dall'imposto.
Un vero peccato, perchè senza dubbio questo Birdman è il miglior Inarritu proprio dai tempi di Amores Perros: un film denso, divertente e drammatico, ricco di citazioni e girato davvero da dio - a tratti è riuscito quasi a scomodare paragoni con cose enormi come Enter the void o Arca russa, grazie all'utilizzo massiccio del piano sequenza -, eppure rispetto a titoli che toccano temi simili come Synecdoche, New York o Holy Motors il confronto è nettamente perso, e proprio a causa di quel troppo che stroppia.
Personalmente, con una mezzora in meno il finale con il tassista che rincorre Riggan in teatro avrebbe consegnato a Birdman le chiavi del Paradiso dei bicchierini, ma quel crescendo "al contrario" sul finale è stato davvero un colpo basso, invece che un diretto vincente.
E così come con il Wolf di Scorsese - anche citato - ero partito dal divano per finire seduto per terra davanti allo schermo, con Birdman ho iniziato pronto a volare nella stessa posizione ed ho finito proprio sul divano stesso, sdraiato in posizione da letto in attesa trepidante della fine.
E forse, ora, Birdman se la prenderà anche con me, che da critico che non crea come un artista mi rifugio in parole e giudizi per tarpare le ali di un'opera complessa e stratificata: ma sapete che vi dico?
Non me ne importa un cazzo.
Dovrebbe già ringraziare proprio il mio lato critico che non gli siano arrivate per indiscutibili meriti tecnici delle prepotenti e sonore bottigliate da una parte e dall'altra della maschera.



MrFord




"Like a bird on a wire
like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free
like a fish on a hook
like a knight in some old fashioned book
I have saved all my ribbons for thee."
Johnny Cash - "Bird on a wire" - 





venerdì 11 luglio 2014

Nightmare - Nuovo incubo

Regia: Wes Craven
Origine: USA
Anno: 1994
Durata: 112'





La trama (con parole mie): a distanza di dieci anni dalla realizzazione del primo Nightmare, Heather Langenkamp, che ai tempi interpretò la protagonista Nancy, comincia ad essere perseguitata da incubi che vedono il ritorno di Freddy Krueger, cui prestò volto e fisicità il collega della donna Robert Englund. Parallelamente Wes Craven, creatore del personaggio, comincia a lavorare su un nuovo copione per un film che dovrebbe vedere il grande ritorno del cast dell'originale sul grande schermo. Purtroppo per la Langenkamp, il terribile spauracchio dominatore degli incubi che pare essere l'incarnazione di un'entità decisamente più antica del personaggio ha deciso non solo di mantenere l'aspetto di Krueger, ma di minacciare la sua incolumità e quella di suo figlio Dylan.





La revisione della saga di Nightmare ha portato più dolori che gioie, qui dalle parti del Saloon, e tolto il sempre mitico ed indimenticabile primo capitolo, il resto delle avventure di Freddy Krueger si è rivelato decisamente vulnerabile alla prova del Tempo, oltre che qualitativamente ancora più basso di quanto non lo ricordassi: inutile sottolineare quanto attendessi, per riprendermi almeno in parte dalla delusione, il capitolo numero sette, firmato a dieci anni esatti dalla realizzazione del primo proprio dal creatore del brand, Wes Craven, uno che di horror ha sempre masticato a dismisura.
Ed è inutile sottolineare quanto la mano di un veterano del genere si senta in Nightmare - Nuovo incubo, realizzato come una sorta di omaggio alla saga stessa giocato per la maggior parte attorno al concetto di metacinema, che quando è ben orchestrato - come in questo caso - è sempre in grado di portare soddisfazioni allo spettatore: l'idea del vecchio Wes, infatti, di rinverdire i fasti della sua creatura più fortunata - anche al botteghino - partendo dai protagonisti che l'avevano resa grande attorno alla metà degli anni ottanta - Robert Englund, che ormai deve la sua fama anche futura alla rappresentazione dell'artigliato boogeyman, e Heather Langenkamp, prima vera antagonista del serial killer dei sogni - per raccontare l'orrore da un punto di vista decisamente più vicino alla "realtà" non solo è interessante, ma anche divertente ed ironica al punto giusto, soprattutto perchè, dopo sei film grazie ai quali Freddy è divenuto un'icona più amata che temuta, puntare sulla paura sarebbe stato decisamente difficile.
Dunque, ripensato il charachter design - artiglio compreso - e rilanciata l'ipotesi che il buon Krueger possa essere, di fatto, l'incarnazione di un concetto di Male più antico e radicato che ha scelto di manifestarsi sotto le sue spoglie, lo spazio dell'azione viene concesso ai protagonisti stessi della pellicola impegnati ad interpretare le loro vite, e se, da un lato, manca di fatto il momento più che cult che sarebbe stato l'incontro tra Robert Englund e Freddy Krueger, dall'altro assistiamo senza dubbio al più intelligente ed acuto tra i film a quest'ultimo dedicati, nonchè il migliore dai tempi dell'esordio di questa fortunata serie.
E nonostante il bambino scelto per interpretare il figlio della Langenkamp non renda assolutamente giustizia alla categoria dei piccoli e spaventosi interpreti dell'horror e la confezione non sia effettivamente all'altezza di una grande produzione, quanto più simile a quella di un prodotto artigianale, il risultato è divertente e ben orchestrato, dall'utilizzo di John Saxon - padre di Nancy nel primo capitolo, amico di Heather in questo - all'esplorazione del concetto secondo il quale gli spauracchi dei grandi interpreti dell'horror possano tornare a perseguitare i suoi stessi protagonisti alimentando l'ispirazione di questi ultimi così come, di riflesso, la loro fama.
Nightmare - Nuovo incubo rappresenta dunque l'ennesima dimostrazione di quanto un Autore di un certo calibro sia assolutamente necessario alle proprie creature, che in mani non adeguatamente esperte - o semplicemente non talentuose - finiscono per precipitare non solo nel macchiettismo, ma anche e soprattutto nell'appiattimento: lasciare che un'icona del Cinema d'orrore come Freddy Krueger finisse come era finito con il sesto capitolo della sua saga sarebbe stata una vera e propria ingiustizia rispetto ad un nome che ha portato incassi da record nelle casse della New Line Cinema ed attualizzato il panorama del settore dagli eighties in avanti, tanto da far sperare il sottoscritto che, per dimenticare il pessimo remake di qualche stagione fa, il buon Craven possa tornare a gestire come ben sa la sua più fortunata creatura.
I primi a guadagnarci, in questo senso, saremmo noi spettatori.
Seguiti a ruota dal vecchio, malvagio, depravato, deturpato Krueger.



MrFord



"Oh, life is bigger
it's bigger than you
and you are not me
the lengths that I will go to
the distance in your eyes
oh no, I've said too much
I've said it all."
R. E. M. - "Losing my religion" - 


mercoledì 31 ottobre 2012

Last action hero - L'ultimo grande eroe

Regia: John McTiernan
Origine: USA
Anno: 1993
Durata: 130'




La trama (con parole mie): Danny Madigan è un fan sfegatato di Jack Slater, protagonista di una saga action interpretato da Arnold Schwarzenegger nella migliore tradizione dei film tamarri arricchiti da esplosioni e sparatorie a ripetizione.
Quando, grazie ad un biglietto magico, il ragazzino scopre di poter entrare nella pellicola e vivere le avventure che ha sempre sognato accanto al suo eroe, pare che si realizzi il desiderio più incredibile che potesse esprimere: peccato che il nemico giurato di Jack Slater riesca a mettere le mani sull'incantato artefatto liberando nel mondo che tutti noi conosciamo i personaggi figli della settima arte.
L'eroe di Danny, catapultato in una realtà all'interno della quale può essere ferito e ucciso, dovrà scovare dentro una nuova forza e compiere la sua impresa più incredibile per ristabilire l'ordine delle cose.





Era l'inizio del 1988 quando nell'allora casa Ford comparve per la prima volta un videoregistratore: senza neppure attraversare la strada potevo facilmente raggiungere Strike!, un posto dal look acidissimo che avrebbe dovuto essere il primo di una serie di negozi in stile Blockbuster e che scomparve dopo pochissimo, giusto in tempo perchè riuscissi a noleggiare una marea di film Disney e tutti i Bud Spencer e Terence Hill.
Ma la vera manna dal cielo per la mia nascente passione cinematografica giunse con la scoperta della videoteca di Paolo - personaggio ormai mitico qui al Saloon - e della sua famiglia, luogo in cui riuscivo a passare ore scegliendo dai dettagliatissimi cataloghi divisi per generi i film che avrebbero fatto compagnia a me e mio fratello: il suddetto Paolo, che allora doveva essere più o meno attorno alla trentina, mi prese in simpatia e cominciò a consigliarmi rispetto ai titoli, permettendomi di scoprire perle quali Gremlins, Labyrinth ed un'infinità di horror.
Ovviamente, ad ogni mia scorribanda nel suo negozio, non poteva mancare la proposta action, considerato che si trattava dell'unico genere che avrebbe convinto papà Ford, perennemente irrequieto e in movimento, abituato agli allenamenti in bicicletta ogni volta che poteva, a sedersi sul divano e concedersi una visione: Last action hero fu uno dei consigli più azzeccati che, in quel periodo, il buon Paolo riuscì a darmi.
In fondo, quasi quattordicenne e ancora immerso nel mondo delle medie - qualche mese dopo sarebbe giunta la famigerata peggior sezione del liceo a procurarmi una bella doccia gelata - un film in cui il protagonista, amante del Cinema e degli action, entrava in possesso di un biglietto magico che gli permetteva di vivere incredibili avventure accanto al suo eroe preferito non poteva che fare breccia nel cuore del piccolo Ford, e nonostante già da allora preferissi Sly a Schwarzy riuscii ad accontentarmi godendomi dal primo all'ultimo minuto questa tamarrata insolitamente lunga con tutta la gioia possibile.
Non sapevo nulla di metacinema - alla base di tutto il gioco del biglietto e sfruttato con l'idea di parodizzare il buon Arnold e compagni come sarebbe riuscito a fare decisamente meglio True lies ed avrebbero portato a modello Expendables ed Expendables 2 soltanto molti anni dopo -, o avevo idea che il John McTiernan dietro la macchina da presa fosse lo stesso del primo, mitico Die hard o del mio cult personale Predator: mi bastava poter immaginare di entrare in ogni pellicola e che la nemesi di Schwarzenegger fosse Charles Dance, che ora sarà pure noto come il Tywin Lannister di Game of thrones, ma che ai tempi per me era solo ed esclusivamente il cattivo de Il bambino d'oro.
Per il resto non c'è nulla che un prodotto a cavallo tra gli anni ottanta e novanta di grana grossa non avesse, anche se le comparsate di gente come Van Damme o James Belushi nel ruolo di loro stessi o l'apparizione della Morte da Il settimo sigillo - interpretata da Ian McKellen - riescono ad apparire cult ai miei occhi anche ora.
L'interrogativo più grande resta rispetto al perchè una pellicola così tamarra e casinara non abbia riscosso, tutto sommato, il successo di altre a lei affini, di fatto entrando in un quasi dimenticatoio che ancora oggi non rende giustizia ad uno degli ultimi acuti di un genere assolutamente mitico: forse il mondo non era più lo stesso, e i decisamente meno sopra le righe nineties si preparavano a fare tabula rasa del precedente decennio da Luna Park, ma in questo periodo di revival e vintage anche un titolo "perduto" come questo meriterebbe un recupero.
In fondo, ha tutte le carte in regola per essere la gioia di grandi e piccini.


MrFord


"Un fascio di luce va dal proiettore
per un sogno da duemila lire
porti addosso qualche segno provero' a tirarteli via
posso solo questo sogno scusa per la mia fantasia
giu' in platea sedie di legno
gole secche per la sete d'eroi."
Ligabue - "Marlon Brando è sempre lui" -




domenica 2 settembre 2012

Twixt

Regia: Francis Ford Coppola
Origine: USA
Anno: 2011
Durata: 88'




La trama (con parole mie): Hall Baltimore, scrittore vicino al fallimento specializzato in romanzi legati alle streghe, giunge in una sperduta cittadina di provincia per presentare il suo nuovo lavoro pressato dalla moglie via Skype affinchè scriva una nuova ed interessante trama in modo da ottenere un anticipo dal suo editore che possa coprire alcuni dei loro debiti.
Avvicinato dall'insistente sceriffo locale che vorrebbe scrivere un romanzo con lui, Baltimore scopre che dietro un vecchio albergo ormai in disuso è celata una macabra storia legata all'omicidio di dodici bambini che pare in qualche modo rimandare al caso di una giovane impalata come fosse un vampiro sul quale sta lavorando lo stesso sceriffo.
Tra una sbronza ed un sogno in cui compaiono i fantasmi di Edgar Allan Poe e della giovane V, tredicesima potenziale vittima, mescolatasi ai sensi di colpa per la morte della figlia, Baltimore troverà pane per i suoi denti e, forse, la materia per un nuovo romanzo in grado cambiare la sua vita.




E' proprio un caso strano, quello di Francis Ford Coppola: universalmente riconosciuto come uno dei più grandi Maestri del Cinema statunitense attuale, dopo aver disseminato Capolavori come Apocalypse now, la trilogia - anche se, a guardar bene, sono i primi due a contare - de Il padrino, La conversazione e via discorrendo, il regista di Detroit qualche anno fa decise di uscire di scena e godersi la pensione, ritagliandosi un ruolo come produttore senza più fare capolino dietro la macchina da presa.
Poi, come una folgorazione, dopo dieci anni il ritorno sul grande schermo con Un'altra giovinezza: un film che ancora manca all'appello in casa Ford, ma che raccoglie giudizi altalenanti per pubblico e critica, e soprattutto agli occhi dei suoi fan hardcore. 
Ma non finisce qui: non passa molto tempo che il buon Francis raddoppia con Tetro - qui da noi Segreti di famiglia -, pellicola assolutamente valida, tecnicamente notevole e tremendamente sottovalutata praticamente ovunque, tanto da muovere la distribuzione nostrana a trattarlo neanche fosse l'ultimo degli esordienti. 
Ed arriviamo a Twixt: l'ultima fatica del regista di Rusty il selvaggio, prodotta come fosse un film indipendente dalla sua Zoetrope, nuova escursione dopo il Dracula di Bram Stoker dell'autore nel territorio dei vampiri e del gotico, non trova alcuna etichetta disposta - almeno fino ad ora - a portare anche qui nella Terra dei cachi questo interessante lavoro.
Davvero un brutto colpo per il Cinema, pensare che in uno dei paesi che più l'hanno coccolato e coltivato in passato non ci sia spazio per uno dei nomi più importanti degli ultimi trenta e più anni di settima arte.
Ma non vorrei, con la polemica, togliere anche io voce al film: Twixt non è il più riuscito dei lavori di Coppola, su questo non c'è alcun dubbio. Addirittura, dopo la visione, Julez si è detta certa che se dietro la macchina da presa non ci fosse stato lui, avrei sfoderato le bottiglie e liquidato il tutto senza neppure troppa fatica.
Sinceramente non saprei cosa avrei pensato di questo lavoro se a firmarlo fosse stato un altro, o se effettivamente la cosa avrebbe inciso oppure no sul mio giudizio: quello che so è che Twixt è riuscito ad ammaliarmi in maniera silenziosa e sotterranea, come fosse una sbronza salita piano, un dolce oblio, o un sonno arrivato durante un massaggio.
Circondato da una cornice "reale" che mi ha ricordato i Devil's rejects di Rob Zombie ed un'altra onirica dal gusto molto burtoniano, ed avvolto in un'atmosfera che recupera - pur non raggiungendo gli stessi livelli - Il seme della follia di Carpenter, questo titolo dal retrogusto decisamente metacinematografico tocca temi lontani dall'horror e richiami a quello che è stato uno dei trend più di moda degli ultimi anni - quello dei vampiri - concedendosi una sfida non certo semplice per un cineasta ormai oltre i settanta che pare avere la stessa voglia - se non di più - di molti colleghi che potrebbero essere suoi nipoti di mettersi in gioco.
L'indagine di Hall Baltimore - un ottimo e bolsissimo Val Kilmer - assume significati che possono variare a seconda dei punti di vista dello spettatore, in grado di cambiare le atmosfere dal grottesco - la cittadina che pare posta su un crocevia tra lo sperduto, il sonnecchioso ed il terrificante - al thriller passando dall'horror fino alla satira, senza dimenticare il pesante fardello del protagonista in bilico tra il ricordo della morte della figlia ed il rapporto con la giovane V, anch'ella vittima, predatrice, immagine illusoria e realtà da carne e sangue - bravissima, come sempre, Elle Fanning -.
Come se non bastasse il beffardo finale - visto da molti come una parodia del fenomeno di Twilight degli ultimi anni - e l'utilizzo dei giovani emosbandati dall'altra parte del fiume malvisti da tutta la vecchia comunità di paese pone lo spettatore di fronte a più di una riflessione: il sogno di Baltimore - e di Coppola - è una bonaria - ma neppure troppo - presa per il culo o un monito a ricordare che i vampiri - ed i predatori in genere - non possono essere cambiati da occhi luccicanti e buoni sentimenti perchè sono e resteranno cacciatori con l'istinto del sangue?
Quanto di loro c'è in un assassino? E quanto nella coscienza dello scrittore fallito Hall?
Forse tutto, forse niente.
Di sicuro, per un filmetto "di riserva", direi che Twixt ha parecchie carte da giocarsi, esteticamente e non.
E in fondo, il bello dei Maestri è proprio questo: anche quando i conigli da cappello paiono ormai un lontano ricordo, finiscono per tirare fuori qualche magia da illusionisti provetti.


MrFord


"So give them blood, blood, gallons of the stuff!
give them all that they can drink and it will never be enough.
So give them blood, blood, blood.
Grab a glass because there's going to be a flood!"
My chemical romance - "Blood" -


 
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