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lunedì 17 settembre 2018

Sulla mia pelle (Alessio Cremonini, Italia, 2018, 100')





- Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, tratto dalla storia di Stefano Cucchi, uno dei casi giudiziari più sconvolgenti della storia italiana recente, è stato il primo film da mesi a questa parte che mi abbia fatto venire voglia di scrivere un post fordiano come quelli dei bei tempi.

- Cremonini, partendo da una delle più nere vicende della Giustizia italiana, è riuscito nella non facile impresa di evitare la retorica e mostrare luci ed ombre sia da una parte che dall'altra, portando sullo schermo gli errori di un ragazzo problematico, le assurdità della macchina burocratica e la crudeltà umana.

- Per molti aspetti la vicenda di Cucchi mi ha ricordato un'altra pagina amara del Nostro Paese, quella di Carlo Giuliani, che ha incontrato un destino ingiusto lastricato da scelte sbagliate anche e soprattutto sue. Ma non per questo in grado di giustificare quello che è tristemente accaduto.

- Strepitoso Alessandro Borghi, che si conferma uno dei talenti più importanti del panorama attoriale italiano, e che mi piacerebbe vedere, ora, al di fuori del contesto romano che l'ha consacrato: se una prova come questa l'avesse fornita un attore hollywoodiano, saremmo già a parlare di nomination all'Oscar.

- Mi prudono le mani, all'idea ed al pensiero di lanciarmi in un post fiume dedicato a questa storia, al dramma di una famiglia che aveva già avuto il suo bagaglio di sofferenza da portare in spalla gentilmente offerto dalla vita, all'assurdità di certi atteggiamenti e regole, ma fortunatamente questo film riesce a parlare ampiamente da solo.

- Sono più che felice che Netflix, una delle realtà ormai più importanti del piccolo e anche grande schermo, si sia presa in carico la distribuzione parallela alle sale di quest'opera, testimonianza di quanto importante stia diventando la rete rispetto al Cinema come alla Musica. Peccato che questo avvenga in un periodo di morte lenta di un organo importante come la blogosfera.

- A prescindere dalle mie parole, scritte o solo pensate, a proposito di Sulla mia pelle, il consiglio è di guardare, sentire, vivere questo film sulla pelle: è una vicenda che riguarda tutti noi - e i nostri figli -, di grande importanza sociale, raccontata con equilibrio e maturità: dove finisce il controllo ed inizia l'ingiustizia?



MrFord



mercoledì 12 settembre 2018

Resta con me (Baltasar Kormakur, USA/ Hong Kong/Islanda, 2018, 96')




- Personalmente, adoro i film che ricostruiscono e raccontano imprese memorabili compiute dall'Uomo, a prescindere dalla loro fattura: da Alive a Kon Tiki, passando per La morte sospesa, sono molte le storie di sopravvivenza ben oltre i confini della realtà che la settima arte ha portato sullo schermo negli anni.

- Kormakur, mestierante efficace cui ho voluto bene fin dai tempi del sottovalutato Contraband, mi ha sempre piacevolmente intrattenuto perfino con i suoi lavori a mio parere meno riusciti, come l'ultimo e sempre ascritto a questo genere Everest.

- Nonostante i film che l'hanno vista protagonista mi abbiano spesso fatto cagare, ho da sempre un debole per la Woodley, che porta sullo schermo argomenti molto interessanti e in questo film, capezzoli a parte, mette spesso e volentieri in primo piano forse la mia sua parte preferita: le mani.

- Resta con me, benchè presentato dai distributori come un drammone romantico smielato e hollywoodiano, racconta in realtà un'impresa incredibile portata a termine da una giovane donna nei primi anni ottanta, quando condusse la barca che con il fidanzato stava traghettando in California travolta dall'uragano Raymond in salvo dopo una deriva di oltre due mesi.

- Non siamo di fronte di certo ad un film destinato a rimanere negli annali neppure del suo genere, o davvero in grado di stupire, eppure Resta con me, al contrario delle previsioni che io stesso avevo fatto alla vigilia, si lascia guardare senza troppi problemi, tiene bene la tensione e traghetta lo spettatore dal primo all'ultimo minuto con buon ritmo.

- Certo, il brodo è allungato di un buon quarto d'ora per evitare anche alla lontana l'effetto che un lavoro più autoriale come All is lost produsse in una buona fetta di pubblico, ed alcuni passaggi sono senza dubbio forzati ad uso e consumo dell'audience - così come la scelta dei protagonisti -, ma se approcciato come una produzione a largo consumo può perfino fare la sua onesta figura.

- La sequenza del naufragio a causa dell'uragano è di grande impatto, forse la migliore della pellicola, e probabilmente in grado di mettere profonda agitazione in tutti coloro i quali temono la navigazione in mare aperto che non sia a bordo di un'immensa nave da crociera: in questo senso la presenza schiacciante della forza della Natura ha saputo mescolare il realismo del Cinema d'essai e passaggi come l'incidente aereo di Cast away.

- Forse le donzelle attratte dall'aura da storia d'amore eterno resteranno, a conti fatti, un pò deluse, ma Resta con me resta un'alternativa romantica o quasi in grado di convincere l'altra metà del cielo ad affrontare l'uscita in sala sicure che l'ominide che accompagna ognuna di loro e siede nel sedile accanto avrà comunque pane per i suoi denti. O le aspirazioni da lupo di mare.



MrFord



venerdì 30 marzo 2018

Ray Donovan - Stagione 5 (Showtime, USA, 2017)




Esistono alcuni casi in cui un film, un libro o una serie, più che dalle storie che raccontano, vengono resi quello che sono grazie ad un personaggio: ad esempio, se la saga di Rocky non fosse stata poggiata sulle spalle del mitico Balboa e di uno Stallone che aveva scritto il personaggio sulla propria pelle probabilmente nessuno la ricorderebbe se non come l'ennesimo racconto del comeback del loser, e difficilmente lavori come Aguirre furore di dio o Fitzcarraldo avrebbero assunto le dimensioni che hanno ora agli occhi di molti appassionati se non fosse stato Kinski ad interpretare i due protagonisti.
Ray Donovan può tranquillamente essere ascritto a questa categoria.
Fatta eccezione, infatti, per il padre e rivale di Ray, il mitico Mickey dell'altrettanto mitico Jon Voight - che continua a gareggiare con Frank Gallagher per il titolo di peggior genitore del piccolo schermo -, tutti i personaggi e le storie raccontate anno dopo anno in questa produzione paiono infrangersi sull'ostinata graniticità del problem solver cui presta gran presenza Liev Schrieber, e perfino in una stagione come questa, segnata dal "lungo addio" al personaggio di Abbie, moglie di Ray, ogni tentativo di far prendere il volo a qualcosa o qualcuno che non sia lui continua a scomparire nel momento in cui il roccioso main characther entra in campo anche in punta di piedi.
Una premessa come questa - specie se legata alla quinta stagione di una serie - potrebbe suonare come negativa, e invece mi ritrovo per l'ennesima volta ad applaudire una qualità che continua a mantenersi costante e alta nonostante inesorabilmente Raycentrica e con qualche sbavatura in fase di scrittura - ho trovato, ad esempio, piuttosto vergognosa la gestione della figlia di pochi mesi di Bunchy, comparsa solo quando le esigenze di copione prevedevano e dimenticata neanche fosse una borsa il resto del tempo -, lasciando gli spettatori con un finale apparentemente "definitivo" - ma tutti sappiamo che non sarà così, essendo appena iniziata la sesta negli States - e la promessa di un rinverdirsi della faida tra Ray e suo padre, unico a tenere testa, in termini di carisma e magnetismo, al protagonista, riportando indietro l'orologio agli esordi di questo titolo, quando tra i due infuriava la tempesta.
La scelta, ad ogni modo, di chiudere la quinta stagione come è stata chiusa rappresenta anche una discreta scommessa per gli autori, che a questo punto potrebbero decidere di rilanciare il prodotto salutando alcune storylines e personaggi secondari e concentrarsi su un nuovo corso per Ray Donovan, che potrebbe portare l'intero prodotto ad un livello ancora più alto o far capire a spettatori e sceneggiatori che, come tutte le ottime serie, andrebbe salutata quando ancora si trova in cima.
In casa Ford, comunque, rimaniamo sintonizzati ed in attesa di scoprire che ne sarà della banda dei Donovan, considerato che il personaggio di Ray ed i suoi "sogni ad occhi aperti" - riferimento alle apparizioni della moglie defunta - sono riusciti nell'impresa di colpire anche il Fordino nonostante questo titolo non possa contare su una sigla accattivante - fattore molto importante per il piccolo Ford - ed i suoi due preferiti continuino ad essere House e, neanche a dirlo, Frank Gallagher.
Alzo dunque i calici neppure appartenessi alla scombinata e combattente famiglia Donovan - e ne scorre di alcool, da quelle parti -, e spero che il futuro, per loro, pur tra sangue e battaglie reiterate, continui ad essere potente come il personaggio cardine della storia.



MrFord



 

mercoledì 28 febbraio 2018

Mudbound (Dee Rees, USA, 2017, 134')




Un altro dei grandi temi legati al periodo degli Oscar è senza dubbio quello dei film "etici", titoli pronti a puntare molto sulle sensazioni provocate negli spettatori e sulla sensibilizzazione a temi molto importanti, che nel corso dei decenni ha fruttato - più o meno meritatamente - statuette in quasi tutte le categorie principali.
Curioso quanto nell'anno in cui a farla da padrone per quanto riguarda ruffianeria, retorica e strizzate d'occhio ai sentimenti sia un film d'autore - il sopravvalutatissimo The shape of water di Del Toro - un film passato in sordina ed accolto senza troppi entusiasmi come Mudbound sia riuscito, al contrario, a colpirmi positivamente e con tutta la forza dei titoli che non potranno certo ambire allo status dei grandi cult che faranno la Storia della settima arte ma che riescono in modo molto semplice a farsi voler bene.
Mudbound pare il ritratto di questo tipo di pellicola: prodotto con onestà da Netflix, ambientato nei decisamente poco ospitali e difficili Stati del Sud nel periodo a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, il lavoro di Dee Rees è dritto come un pugno in pieno viso, pronto a toccare corde sensibili di ogni persona civile ma non per questo smielato o troppo carico, e attraverso la storia di due famiglie mostra le diversità razziali, le difficoltà di fronte alla Natura e al Destino, i desideri, i sogni, la sofferenza e tutto quello che si può immaginare di trovare in vite che paiono vere e vive nel racconto.
Partito come un curioso incrocio di voci off con i personaggi principali pronti a dare la propria versione della storia - o a raccontare la parte di cui si sentivano protagonisti - e pronto a diventare palcoscenico per il duetto di characthers di ritorno dalla guerra in Europa - con tutti gli strascichi che ne conseguono - forse potrà a tratti spiazzare, o non convincere appieno in alcuni passaggi, ma rimane una storia cruda e di grande forza emotiva, ottima nel raccontare l'evoluzione di un'amicizia che nasce dalla diversità, trova terreno fertile nel tentativo di superare un orrore e lotta strenuamente per sopravvivere ad un altro: il legame tra Jamie e Ronsel, il primo bianco e tornato dal fronte con una medaglia ed i ricordi della guerra dal cielo, i gradi e le domande a proposito del perchè soltanto lui si fosse salvato del suo equipaggio, il secondo nero, carrista, che ha visto i compagni perdere la vita allo stesso modo davanti ai suoi occhi ed avanti è andato, aprendo la strada al resto dell'esercito e lasciandosi dietro un figlio avuto da una ragazza tedesca, è quello dei sopravvissuti, di chi si chiede per quale motivo il Destino abbia riservato la salvezza a loro e non a chi, invece, non ce l'ha fatta, e di chi, guardato l'abisso, pensa non valga più la pena di rovinarsi la vita quando non se ne avrebbe motivo, e se non per scelta, non riesce più ad abbassare la testa.
Ed è sconvolgente e triste e fa incazzare, a prescindere dal fatto che al sottoscritto non freghi nulla di guerre ed eserciti, osservare come due ragazzi, per dirla come Ronsel, "accolti in Europa come salvatori", assumano i connotati di emarginati nel loro Paese, costretti a dimenticare la sofferenza con l'alcool e fare i conti con ignoranza, razzismo, vite buttate.
In questo, per quanto mi riguarda, sta il bello di film come Mudbound.
Film che non sono ricattatori nel risvegliare le emozioni.
Che non cercano storie d'amore dalla lacrima facile, e hanno comunque il coraggio di finire a testa alta, in barba alla sofferenza, con l'amore.
Perchè un lieto fine è possibile anche senza comprarselo.
Ed è decisamente più bello e goduto se ce lo si è sudato lottando.



MrFord



 

martedì 20 giugno 2017

Grey's Anatomy - Stagione 13 (ABC, USA, 2016)





Fin dai primi tempi della convivenza con Julez, nonostante sulla carta non fosse certo materia da vecchio cowboy, Grey's Anatomy è divenuto uno dei guilty pleasures da piccolo schermo più goduriosi di casa Ford, una sorta di simbolo dell'estate incombente - l'abbiamo sempre visto "in differita" rispetto alla programmazione americana e di Sky qui da noi - che, a prescindere dalla qualità o dalle stagioni più o meno riuscite, viene divorato a colpi di quattro o cinque episodi al giorno.
Certo, la creatura principe di Shonda Rhimes è poco plausibile, eccessiva ed eccessivamente sentimentale, eppure qui al Saloon non si riesce davvero a non volerle bene, anche quando, come nel caso di questa season numero tredici, le cose non vanno affatto come si sarebbe sperato: troppa carne al fuoco per essere gestita bene dagli sceneggiatori - le due storylines principali, quella che vede protagonista il mio favorito Karev ed i suoi guai professionali e giudiziari dopo aver aggredito lo specializzando DeLuca e quella della "ristrutturazione aziendale" passata attraverso l'inserimento della Minnick, uno dei personaggi più insopportabili che ricordi, si mangiano moltissimo spazio per poi essere risolte come bolle di sapone, e le secondarie appaiono tutte inconsistenti, da quella legata alla pessima coppia Hunt/Sheperd all'episodio conclusivo, sprecato considerato il passato di drama di questo titolo -, tensione sentimentale a zero - ma questa è una lamentela principalmente della signora Ford, che adora il mitico "struggio" -, charachters non all'altezza e poche certezze a portare avanti quello che è ormai uno dei titoli storici della grande stagione del rilancio delle serie televisive che fece seguito all'esplosione del fenomeno di Lost ormai tredici anni fa.
Un vero peccato, perchè l'impressione con quest'annata è decisamente quella dell'occasione sprecata sia per consolidare situazioni e personaggi cardine della serie, sia per inserire o valorizzarne di nuovi - uno scempio, a livello di scrittura, quello che è stato fatto con DeLuca, o l'idea di buttare nel calderone idee e situazioni poi accantonate strada facendo, soprattutto riguardo agli specializzandi che dovrebbero rappresentare la "nuova generazione" del titolo -, e più in generale dare una scossa ad un serial che, senza dubbio, può contare su un consolidato zoccolo duro di fan della prima ora, ma che a distanza di così tanti anni, privo dell'attrattiva che forniva il personaggio di Derek Sheperd e della sua storia con Meredith, di molti dei protagonisti che avevano reso questa serie quello che è diventata e sempre sul filo per quanto riguarda lo spingere sull'acceleratore con morti, ritorni, catastrofi e simili rischia di diventare uno di quelli che si guardano per affezione, ma quasi stancamente.
Qui in casa Ford non siamo ovviamente ancora giunti a quel punto, ed ogni anno il ritorno al Grey Sloane Memorial è un vero piacere, ma onestamente vorrei che si potesse ingranare una marcia in grado se non altro di ricordare annate magiche come la seconda o la quinta, che nel genere non dovevano davvero temere rivali.
Anche perchè da questi medici così sopra le righe, io mi aspetto sempre l'intervento miracoloso.
E non la visita di routine da certificato e due o tre giorni di riposo.



MrFord



mercoledì 10 maggio 2017

Famiglia all'improvviso - Istruzioni non incluse (Hugo Gèlin, Francia/UK, 2016, 118')





Eccolo, già direte. Cannibal in primis.
Ford che si lancia in un altro dei suoi post da genitore.
Ma che ci posso fare? E' più forte di me.
Da quando i Fordini sono entrati nella mia vita, del resto - come penso sia per chiunque abbia un figlio e non sia proprio uno stronzo senza cuore -, sono diventato molto più sensibile rispetto a tutti quei titoli che, furbescamente oppure no, toccano corde che riguardano uno dei rapporti più complessi ed intensi - forse il più complesso ed intenso - della vita, quello con i figli.
Da titoli destinati a restare nella mia memoria come Alabama Monroe fino a prodotti più alla mano ma ugualmente efficaci - La famiglia Belier su tutti -, passando attraverso cose pop come Tutta colpa di Freud, non c'è più una pellicola che sfiori anche soltanto la questione che non riesca a farmi sentire vulnerabile e sentimentale, anche quando, come nel caso di questo Famiglia all'improvviso - Istruzioni non incluse, agghiacciante adattamento italiano dell'originale Demain tout commence, non ci troviamo di fronte, almeno per tutta la prima parte - quella di fatto dedicata alla commedia -, a qualcosa di particolarmente interessante, originale o coinvolgente, ad interpretazioni ormai stereotipate - Omar Sy ringrazierà pure Quasi amici, ma il suo successo continuerà ad essere frutto di una sorta di prigione dorata all'interno della quale sarà costretto ad interpretare praticamente per sempre lo stesso charachter neanche fosse in un girone dantesco - e ad una sceneggiatura che rende tutto troppo facile, anche nelle difficoltà.
In questo senso, ero già abbastanza convinto a ridimensionare tutto il lavoro di Hugo Gèlin quando la piega drammatica - pur prevedibile e telefonata - ha finito per stringermi un nodo in gola nel corso di tutta la parte finale, mettendo da parte i conflitti tra Sam e la madre di Gloria - una vera stronza, a mio modesto parere - per concentrarmi sulla lezione che, proprio da Alabama Monroe in poi, e da genitore, si spera sempre di non dover mai e poi mai imparare sulla propria pelle: quel domani in cui tutto comincia che da un senso al titolo originale, infatti, cerca di fare da paracadute a tutti coloro i quali hanno dovuto affrontare quello che è indiscutibilmente uno dei drammi più terribili che possano accadere, o più probabilmente il più terribile, ovvero sopravvivere ad un figlio.
La Natura agisce in modo imperscrutabile e totalmente super partes, è vero, e forse dovremmo imparare a comprendere anche questo suo distacco, ma personalmente trovo che, in un caso come quello, si sia liberi di sentirsi non solo devastati dal dolore, ma anche e soprattutto incazzati per qualcosa che incarna indubbiamente il concetto di ingiustizia nella vita.
Ed ecco che entra in gioco la parte più bella di questo film: Samuel, ricordando la bambina che gli ha cambiato l'esistenza, apprende quanto sia importante vivere non solo la giornata, il momento presente, "l'attimo fuggente", ma anche e soprattutto considerare una festa l'occasione che abbiamo, perchè a meno di clamorose smentite sarà l'unica, ed è fantastico pensare di poterla vivere accanto a chi amiamo.
E signori, senza menarsela o mettersi su un piedistallo, che si vogliano avere oppure no - perchè nulla è obbligatorio e dovuto, nel bene e nel male, e la propria felicità si costruisce in miliardi di modi diversi -, non ci sarà mai nessuno che ameremo o amerete più dei vostri figli.
Poi, certo, siamo umani ed imperfetti, non esisteranno favole, lieti fini, mondi in cui non troveremo lacrime e dolori, ma vaffanculo: meglio vivere, sempre.
E il più possibile fino in fondo.
Un pò come è stato guardando questo film.




MrFord




 

lunedì 3 aprile 2017

Collateral beauty (David Frankel, USA, 2016, 97')




Il giorno della visione di Collateral beauty, pur essendo una domenica, ero a casa da solo - cosa assolutamente rara, considerato che nel weekend io e Julez siamo ostaggi dei bimbi e delle incombenze come spesa, stiro e faccende varie -: ricordo bene, dovendo affrontare il pranzo e fare al contempo una cernita delle possibilità di titoli da affrontare, di aver optato per quello che meno avrebbe interessato la signora Ford ed al contempo che mi avrebbe dato davvero una gran gioia massacrare.
Nonostante, infatti, abbia sempre voluto bene a Will Smith dai tempi del Principe di Bel Air fino alla scazzottata con l'alieno in Independence Day e Gettin' jiggy with it, dallo scempio di Io sono leggenda alle varianti mucciniane, ho sviluppato un'avversione profonda per la sua versione spiritual-buonista da bravo ragazzone americano che mi fa sempre sperare che un giorno gli venga assegnato un ruolo complesso e sfaccettato come quello di Sei gradi di separazione.
Ed è proprio il prodotto che tira fuori a Will Smith il suo peggio, che mi sarei aspettato, da Collateral Beauty: una merda ammeregana della più infima categoria con attori superstar pronti solo ad ingrassarsi il portafoglio ed una vicenda strappalacrime da incazzatura feroce.
Ora, ammetto che il lavoro di David Frankel porti in dote alcuni dei difetti di un certo tipo di produzioni mainstream a stelle e strisce che cercano di cavalcare l'onda del primo Inarritu in versione molto pop, e che non si tratti certo del filmone dell'anno, eppure devo ammettere di essere rimasto quasi piacevolmente sorpreso da un titolo di grana grossa e discretamente prevedibile - i due twist principali sono stati beccati praticamente subito dal sottoscritto per quanto riguarda il primo e da Julez appena rientrata a casa senza aver visto tre quarti della pellicola il secondo - che riesce comunque ad essere emozionante senza lucrare troppo sul fazzoletto facile e ad avere un senso nonostante rappresenti, da più di un'angolazione, il tipico prodotto new age finto alternativo da Nuovo Millennio.
In un certo senso, potrebbe essere considerato come un piccolo atto di Fede - la stessa di cui sono sprovvisto, anche se mi piace sempre rimanere piacevolmente sorpreso - compiuto dallo spettatore meno esperto così come da quello che mastica Cinema dalla mattina alla sera, quasi fossero lo specchio dei protagonisti che, a seguito di un dramma che non augurerei a nessuno, neppure al mio peggior nemico, finiscono per incrociare senza volerlo ognuno le proprie miserie, e prenderne coscienza in modo da poter costruire la propria vita anche a partire dalle stesse.
Bellezza collaterale, per l'appunto.
Che in questo caso, funziona anche come definizione per un titolo che almeno per quanto mi riguarda non ha alcuna pretesa di diventare un cult o uno dei film più importanti della stagione ma che, con una certa onestà, lavora su quello che ha con impegno ed una certa carica.
Considerato che probabilmente mi sarei divertito molto di più a scrivere un pezzo massacro e che invece mi ritrovo quasi a promuovere - nel suo piccolo, ovviamente - un film che pensavo sarebbe entrato senza problemi nella decina del peggio dell'anno, direi che il mio atto di Fede per la stagione l'ho fatto.
E non mi ci sento neppure troppo male.




MrFord




mercoledì 15 marzo 2017

La luce sugli oceani (Derek Cianfrance, UK/Nuova Zelanda/USA, 2016, 133')




Devo ammettere che mi piace proprio, essere smentito da un film, nei - rari, occorre sottolinearlo - casi in cui, aspettandomi le bottigliate delle grandi occasioni, mi ritrovo di fronte a qualcosa che, al contrario, è in grado di stupirmi ed emozionarmi.
Ho sempre considerato Derek Cianfrance - idolo di una certa schiera di critici radical della rete - come un talento in una certa misura incompiuto, nonostante a conti fatti mi siano piaciuti sia Blue Valentine che Come un tuono, e questo The light between oceans non prometteva davvero nulla di buono: confezione patinatissima e quasi malickiana - almeno dal trailer -, presenza della coppia Fassbender/Vikander, atmosfera da presunto drammone stracciamaroni parevano quasi supplicare per una stroncatura, e considerati minutaggio - quasi due ore e un quarto - e premesse, pensavo davvero sarebbe stato così.
Fortunatamente, mi sono dovuto ricredere.
Toccando temi molto simili - la famiglia, il rapporto tra genitori e figli, la colpa - ai suoi lavori precedenti, Cianfrance sfrutta la vicenda di Tom e Isabel per regalare al pubblico quello che, a mio parere, è ad oggi il suo film più completo e maturo, emozionante come un romanzo del pieno Romanticismo eppure non per questo troppo pesante o carico, o peggio, pretenzioso: la vicenda del guardiano del faro reduce dal primo conflitto mondiale e di sua moglie, giovane che ha perduto due fratelli in guerra ansiosa di riscattarsi rispetto alla vita, è profonda, umana e travolgente, guidata dal cuore e dalla pancia come i lavori precedenti del regista - nonostante una tecnica sicuramente "alta" - ma pronta a compiere un passo oltre, ad immedesimarsi e rappresentare al meglio le emozioni e le prove della condizione di genitori.
In fondo, per quanto possa suonare paternalistico scriverne o parlarne, diventare genitore cambia inesorabilmente prospettive, a prescindere dalle difficoltà che ogni giorno della propria vita si affronteranno in quel ruolo: sentimentalmente, non esisterà mai nulla che potrà eguagliare il legame con i propri figli, la sensazione unica di averli tra le braccia, vederli crescere, sapere che, prima o poi, prenderanno una loro strada.
Cambia prospettive anche perdere un figlio, che si parli di gravidanza - e qui in casa Ford ne sappiamo qualcosa, putroppo per noi - o, ancor peggio, con il passare degli anni.
Cambia prospettive anche non riuscire ad avere un figlio, o desiderarlo senza poter realizzare il proprio sogno.
Cambia tutto.
Il nostro ruolo di guardiani, le responsabilità, le scelte.
Da qualche parte, una volta, ho letto "esistono tanti padri e madri, ma pochi genitori".
Ed è assolutamente vero che, spesso, abbiano l'immensa fortuna di avere figli persone che non meriterebbero neppure di badare alla loro stessa vita.
Ma, per citare un personaggio "invisibile" eppure cardine di questo film, "per vivere nell'odio e nel rancore occorre lottare contro se stessi e gli altri ogni giorno per tutta la vita, mentre io voglio essere felice".
Tutti noi ben sappiamo quanto, purtroppo, non basti desiderare di essere felici per riuscire ad esserlo.
Eppure, sono convinto che quando un gesto è mosso da passioni profonde, finirà per restare in noi come in chi abbiamo accanto ed attorno, finendo, un giorno o l'altro, per tornare a dire: "Grazie, perchè senza di te non ce l'avrei fatta".
Un pò come un figlio.
Ed il bello, quello vero, è che fino a quando non sarà anche lui - o lei, ovviamente - dall'altra parte della barricata, non saprà che quell'affermazione è vera senza riserve da entrambe le parti.
Chi vuole essere genitore, chi vuole amare un figlio - o amare, in generale -, sa bene che non basterà isolarsi dal mondo, per avere qualche speranza di salvarsi da esso.
E ci sarà sempre quella luce, all'orizzonte: una sedia vuota che vuota non è, un nuovo essere vivente da sollevare con delicatezza, un legame che non si è mai spezzato.
Una pace da guardiani.
Da genitori e da figli.




MrFord




 

venerdì 18 novembre 2016

Julieta (Pedro Almodovar, Spagna, 2016, 99')





Il mio nuovo periodo da "casalingo", per quanto impegnativo e minacciato all'orizzonte dall'ombra della disoccupazione, si sta rivelando una manna dal cielo per tutto quello che riguarda l'arricchimento emotivo e culturale: una bella pila di libri in attesa - per quando si può, come nel corso dell'ora di lezione di ginnastica artistica del Fordino del venerdì, ad esempio -, molte più serie tv, un ritorno al Cinema d'autore che negli ultimi mesi di lavoro era stato decisamente sacrificato in modo da avere serate più distensive e non a rischio di coma sul divano nel corso della visione.
Dunque, da Larraìn a Loach, ho potuto colmare alcune lacune accumulate nel corso della stagione, come l'ultima fatica di Pedro Almodovar, Julieta.
Per chi non lo sapesse, ho sempre amato il regista iberico, lontano come stile dai miei standard eppure in grado di riportare sul grande schermo quel pizzico di grottesco che la grande tradizione di un Maestro come Bunuel - uno dei registi più grandi di tutti i tempi - ha regalato alla settima arte: ci sono molte pellicole del Pedrone che nel corso degli anni hanno segnato profondamente il cuore di questo vecchio cowboy, da Carne tremula a Parla con lei, pronte a liberare il lato drammatico di un autore spesso legato anche alla commedia - esempio perfetto, lo splendido Donne sull'orlo di una crisi di nervi -.
Negli ultimi tempi, però, anche lui pareva essere caduto in quello stato di bollitura che coglie i registi nel momento in cui la necessità di raccontare una storia viene soppiantata da quella di essere necessariamente in sala come un nome su una locandina, e devo ammettere di aver avuto più di un dubbio rispetto alla visione di questo Julieta.
Fortunatamente per me, l'Almodovar qui presente è molto più simile a quello "classico", dei suoi film più riusciti ed intensi, e nonostante non ne raggiunga le vette, così come fu per La mala educacion porta sullo schermo una vicenda forte, calda, vibrante come l'emotività di un autore che trasuda passione come la terra dalla quale proviene: il racconto di Julieta, donna e madre, coraggiosa e fragile, ribelle ed arrendevole, è un altro tassello importante nella filmografia del regista, un altro percorso verso la rinascita che passa, inevitabilmente, attraverso una caduta, sesso liberatorio e prigioni sentimentali, sogni di vita ed incubi da provare sulla pelle, la provincia e la città, quello che eravamo e quello che siamo diventati.
Onestamente, sono stato davvero felice di farmi massaggiare ancora una volta dall'Almodovar più puro, dimenticando in questo modo scivoloni come Gli amanti passeggeri o La pelle che abito, e ricordando invece quelle che sono le certezze della sua produzione: certo, i vecchi fan come il sottoscritto non potranno considerare Julieta più di un gran bell'amarcord dei tempi andati, ma per chi non conosce ancora questo nome importante per il Cinema europeo potrebbe essere un ottimo inizio ed un veicolo niente male per solleticare la curiosità di ripercorrere la carriera del Pedrito, tornato a dimostrare di avere ancora qualcosa da raccontare e di saperlo raccontare con l'intensità che solo le più struggenti storie d'amore - e quella tra genitori e figli lo è, indubbiamente - possono garantire anche ai cuori più aridi.
E se la via che conduce a quello che potrebbe essere un nuovo inizio passa attraverso cadute, risalite, impennate e ferite, poco male: in fondo, è questo che accade nella vita.
E da queste parti, si è sempre pronti ad afferrarla e stringerla.
In questo senso, spero che possa essere lo stesso anche per Julieta.
E penso lo speri anche Almodovar.




MrFord



 

sabato 11 giugno 2016

La città dei ladri

Autore: David Benioff
Origine: USA
Anno: 2008
Editore: Neri Pozza







La trama (con parole mie): Lev ha diciassette anni, e vive sulla pelle l'assedio di San Pietroburgo operato dai tedeschi nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. E' una vedetta che con gli amici più stretti ha il compito di controllare i rischi di bombardamento notte dopo notte dal tetto del condominio in cui vive: quando un paracadutista tedesco giunge a terra poco lontano morto per il freddo e Lev si impadronisce di un coltello appartenuto allo stesso, viene arrestato dalla polizia militare russa ed accusato di tradimento. In cella conosce Kolja, di pochi anni più grande di lui, ciarliero e sbruffone, più alto, bello e biondo, il prototipo del cosacco lontano dai tratti di origine ebraica che, al contrario, definiscono lui.
Convinti di essere destinati alla fucilazione, i due ragazzi verranno incaricati invece da un alto papavero dei corpi speciali di recuperare entro pochi giorni dodici uova per la torta nuziale di sua figlia, che si sposerà in barba all'assedio ed agli stenti dei pochi rimasti in città senza badare a spese o restrizioni: il loro destino, dunque, sarà deciso dalla riuscita in quell'impresa.
La ricerca di quelle uova diverrà non solo un'occasione di crescita e di confronto con la dura realtà della guerra, ma anche la possibilità di costruire un'amicizia destinata a durare per sempre.











Ho letto l'incipit de La città dei ladri il giorno successivo all'abbandono senza ritegno di Infinite Jest.
David Foster Wallace, genio riconosciuto della Letteratura, contro David Benioff, sceneggiatore di indubbia furbizia e talento autore de La 25ma ora - script e romanzo - e Game of thrones ma anche di schifezzone come Troy e Wolverine: le origini.
Salotti radical contro supereroi mutanti.
Cultura enciclopedica e citazioni sterminate contro una versione di Stand by me vissuta durante l'assedio di Leningrado - o Stalingrado, o San Pietroburgo, o Piter - attraverso una mescolanza di ricordi e fiction da scrittore.
E mi sono sentito grato e felice.
Perchè tra le righe scorrevoli e semplici di Benioff ho percepito il desiderio di vivere di chi è mosso dalla voglia di raccontare una storia, ma ancor più di provarla sulla pelle, invece che solo ed esclusivamente in testa.
Ed ancora oggi, non solo penso di aver avuto ragione, ma che il mondo sarebbe un posto migliore, se gli artisti o presunti tali di tutti i campi fossero in grado di trasmettere senzazioni in questo modo, come se fossimo ancora sulle ginocchia del nonno, davanti ad un camino acceso, con gli occhi che brillano per quegli scampoli di vita che assumono i connotati di imprese mitiche ed indimenticabili.
Uno dei più grandi rimpianti che ho, ad esempio, rispetto al mio nonno materno - quello dei Western, del wrestling e delle serate passate davanti ai vecchi film -, è di non aver avuto il tempo di potergli chiedere di raccontarmi dell'esperienza nella Seconda Guerra Mondiale, della quale ho testimonianze solo parziali rispetto al naufragio cui sopravvisse e la prigionia, per comprendere cosa fosse stata, per la sua generazione, l'esperienza diretta della guerra.
Questo è uno dei più grandi pregi di questo piccolo, grande racconto ironico e drammatico ad un tempo: Benioff porta sulla pagina la vita, quella che era, è e potrebbe essere in condizioni come quelle vissute dagli abitanti di San Pietroburgo dal quarantuno al quarantaquattro, nell'assedio che fu simbolo dello stoicismo sovietico e delle prime crepe nell'apparentemente invincibile macchina tedesca.
Ma a prescindere dal contesto storico, La città dei ladri è soprattutto un grande romanzo di amicizia e formazione: le figure di Lev e Kolja, nelle quali è impossibile non identificarsi, divengono assoluti protagonisti di un'avventura tanto inquietante quanto magica ed elettrizzante, vissuta attraverso le paure di Lev, non bello, timido e timoroso e Kolja, prestante, sciupafemmine, dalla lingua lunga ed apparentemente pronto a ridere in faccia alla morte in qualsiasi incarnazione possa la stessa presentarsi.
Un'impresa nata dalla richiesta di un privilegiato dal passato ben lungi dall'esserlo, e destinata ad una sorta di beffa anticamera di una vittoria che significa molto più di qualsiasi carriera o successo archiviato nel corso di una vita: e dalle verità rivelate di una città messa in ginocchio da un assedio ai cruenti dettagli del racconto delle ragazze costrette, in campagna, a prostituirsi con gli ufficiali tedeschi, dall'esilarante passaggio legato alla verità sull'arresto per diserzione di Kolja - non sapete quanto mi ci sia ritrovato, in quella fuga dalle trincee alla ricerca di una ragazza da scopare - all'amara rivelazione legata a quelle dodici uova costate così tanti sacrifici, fatica, sudore e sangue, tutto conduce alla cosa più bella che l'Arte possa regalare al mondo, la sensazione di essere stati noi, a vivere quello che è proposto sulla pagina, sullo schermo, su una tela.
Io non sono mai stato - e posso solo ringraziare, per questo - in guerra, non ho dovuto patire la fame o contare i giorni in cui, per denutrizione, sono stato senza cagare, non ho mai ucciso un uomo o trovato costretto a farlo per sopravvivere io stesso, o per portare a termine una missione impartitami.
Non sono mai stato a San Pietroburgo, o in Russia.
Eppure ho sentito Lev e Kolja sulla pelle come se ogni passo in quella neve l'avessi fatto con loro.
Ogni risata, ogni battuta, ogni sogno, ogni amara realtà.
Sono sopravvissuto all'assedio e sono morto al loro fianco.
A Lev e Kolja ho voluto bene come fossero stati amici miei.
E questa è una cosa che non va mai sottovalutata.
In tempi buoni ed in tempi cattivi.
E David Benioff ha reso loro onore, verità o finzione, nel migliore dei modi.




MrFord





"Went to descend to amend for a friend all the channels that have broken down.
now you bring it up, I'm gonna ring it up - just to hear you sing it out.
step from the road to the sea to the sky, and I do believe what we rely on,
when I lay it on, come get to play it on
all my life to sacrifice."
Red Hot Chili Peppers - "Snow (Hey Ho)"-




lunedì 18 gennaio 2016

Creed - Nato per combattere

Regia: Ryan Coogler
Origine: USA
Anno: 2015
Durata:
133'



La trama (con parole mie): sono ormai passati decenni dalle mitiche battaglie sul ring tra Apollo Creed ed il suo più grande rivale, Rocky Balboa.
Il giovane Adonis, nato da una scappatella dello stesso Apollo, cresciuto entrando ed uscendo dal riformatorio, vissuto cercando di non fare affidamento sul suo cognome e deciso ad intraprendere una carriera nel pugilato professionistico, finisce per chiedere consiglio e guida proprio al vecchio Rocky, ormai quasi rifugiato nel ristorante che porta il nome della sua defunta moglie, lontano dal figlio trasferitosi in Canada e perduto il cognato e migliore amico Paulie.
Il rapporto tra le vite dei due combattenti, cementato dalla voglia di riscatto e dalla sofferenza - pur se a diversi livelli - porterà entrambi a confrontarsi con se stessi, il tempo trascorso e quello che ancora andrà vissuto.










Mi capita raramente, quantomeno quando guardo un film, di mettermi alla tastiera e non sapere davvero cosa scrivere.
Di norma, soprattutto nel momento in cui mi trovo di fronte un titolo in grado di toccare le corde giuste, sento di poter recensire praticamente ad occhi chiusi.
Ma nonostante tutti gli anni di formazione tra Classici e Cinema d'autore, registi di culto e pellicole imperdibili, non avrò mai difese abbastanza forti per una pellicola come Creed, almeno quanto non le ho avute, ormai quasi dieci anni fa, per Rocky Balboa.
Questo perchè, sia per generazione, per caso o per chissà cos'altro, con la saga dello Stallone Italiano ci sono cresciuto: quando ero piccolo, un pò per l'anno di nascita, un pò per quello che vede ogni bambino rispetto al proprio genitore, identificavo in Stallone mio padre, con quella tranquillità esteriore scambiata per l'atteggiamento di qualcuno che arriva sempre un secondo in ritardo, e lo spirito di sacrificio che chiunque abbia praticato o pratichi sport ben conosce.
Con la sua bicicletta, ho "visto" cadere ed ascoltato i racconti delle cadute stesse del mio vecchio migliaia di volte, ed ogni sabato e domenica mattina, come se niente fosse, lo vedevo rimontare in sella, incurante del fatto che sarebbe potuto accadere ancora.
Ho visto estranei riportare a casa il "mezzo", lo sono andato a trovare in ospedale, ho "gioito" quando, nell'autunno dell'ottantotto, si sbriciolò la clavicola destra e rimase a casa tre mesi, e guardammo insieme tutta la prima serie di Ken il guerriero, ho ricevuto la sua chiamata nel duemilasette, poco prima di andare a vivere con Julez, tornando una mattina proprio da casa della mia futura signora, quando all'ennesimo incidente mi disse "Sono al pronto soccorso, sto bene, aspetta a dirlo alla mamma".
Negli ultimi mesi mio padre, per la prima volta, ha mostrato di stare invecchiando: il glaucoma lo sta tenendo lontano dai pedali, ed ho avuto in più di un'occasione il dubbio che possa non avere la scorza di mio nonno, che a novantadue anni ancora va avanti un passo alla volta, un round alla volta, un match alla volta.
La stessa che vorrei aver ereditato io.
E' invecchiato anche Stallone, e con lui Rocky, un eroe della mia infanzia, e non solo.
Rocky, il campione della gente comune, delle seconde possibilità, del "non fa male", del "non ho sentito la campana".
Creed, firmato dal giovane e promettente Coogler di Fruitvale Station ed interpretato dall'altrettanto giovane e promettente Michael B. Jordan, filtra i ricordi di quella straordinaria epoca attraverso la nuova mitologia del pugilato moderno, dei "Team", degli entourage, della stampa e dei "cloud" che non sono più nuvole, e lo fa con un piglio ed uno stile fantastici, da quello splendido combattimento girato in piano sequenza tra Creed e Sportino alla realtà del quartiere, che dalla folla di ragazzini di Rocky II si è tramutata in una gang dalle impennate facili.
Ma il protagonista, inutile dirlo, è sempre lui.
Quello che richiama la folla per la sola presenza all'angolo.
Che non tiene più il ring, fatica a reggere il ritmo del sacco veloce ed a salire i gradini di quell'ormai storica scalinata che, quando ancora non immaginavo niente di tutto questo, feci con mia madre nel corso dell'indimenticabile "gita" a Philadelphia: Rocky Balboa.
Per la prima volta, nonostante le goliardate con gli Expendables, la palestra e la chirurgia plastica, anche Sly mi è sembrato invecchiato.
E quando, nel faccia a faccia con Adonis, afferma di avere ormai tutto alle spalle, ed aver visto le persone che ha amato lasciarlo, una dopo l'altra, e che è invece il giovane di fronte a lui, ad avere la strada ancora tutta da percorrere, ho pensato a quanto fosse vero, e se fosse applicabile anche a me, che ho l'età che aveva Sly quando girò Rocky III - anche se sembro molto più giovane -, e la fortuna di guardare ogni giorno crescere il Fordino, e a quanto ci possa essere di autobiografico nelle frasi che pronuncia lo Stallone Italiano, specie quando viene mostrata una foto probabilmente risalente agli anni ottanta di lui con il figlio Sage - reale e sullo schermo, in Rocky V - in cui pare separarsi la realtà della narrazione - con Robert Junior trasferitosi a Vancouver dopo aver scelto una vita completamente diversa da quella del padre - da quella della vita - Sly ha perso il figlio Sage, vissuto probabilmente sempre all'ombra della fama del genitore, pochi anni fa - con due frasi da brividi, che passano dal "non ha mai amato combattere" a "non gli piaceva Philadelphia, e probabilmente gli pesava essere il figlio di Rocky".
Il Tempo è davvero un gran figlio di puttana.
Più di quanto non possa esserlo qualsiasi avversario potremo combattere nella vita.
Perchè non lascia scampo a nessuno.
Asciugamani gettati o match combattuti fino all'ultimo round, e persi ai punti, non potremo mai vincere, con lui.
Il Tempo vince anche con i nostri miti.
Vince con Rocky Balboa, che da bambino guardavo battagliare sul ring come se fosse immortale.
Vince con i nostri padri, che sono le leggende sulle quali finiamo per poggiare le fondamenta delle nostre vite.
Vince con noi, anche se non vogliamo ammetterlo, e pensiamo che lotteremo con i pugni stretti e sollevati fino all'ultimo giorno.
Ma non importa.
Siamo qui per combattere, e per vivere.
Sono qui per vedere Stallone regalare la migliore interpretazione della sua carriera.
E sperare in un assolutamente fantascientifico ed insperato Oscar come Migliore attore non protagonista dopo l'altrettanto incredibile vittoria ai Globes.
Sono qui per stare accanto a mio padre. Bicicletta o no. Sperando gli vada di pedalare il più possibile.
Sono qui per vendere cara la mia pelle.
Un passo dopo l'altro, un round dopo l'altro.
E non sono ancora pronto ad andare al tappeto.
O a smettere di emozionarmi per le imprese di Rocky sul grande schermo.
Con mio padre, da solo, o con i miei figli.
Un eredità.
Quella che ci ha lasciato Stallone.
Quella che ci continuerà a lasciare Rocky.
Quella di Creed.




MrFord




"Time will not allow you to stand still, no
silence breaks the heart and bends the will
and things that give deep passions are your sword
rules and regulations have no meaning anymore."
John Cafferty - "Hearts on fire" -





martedì 24 novembre 2015

Accattone

Regia: Pier Paolo Pasolini
Origine: Italia
Anno: 1961
Durata: 120'






La trama (con parole mie): Vittorio Cataldi detto Accattone è un giovane ladro ed approfittatore della periferia romana che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, appoggiato alla moglie di un compare cui ha voltato le spalle finito in galera e ad una prostituta, Maddalena, sua protetta.
Quando quest'ultima finisce in galera proprio a causa di Accattone, Cataldi torna alla vita di strada ed ai piccoli raggiri, sempre pronto a salvarsi la pelle a tutti i costi, fino a quando incontra Stella, una giovane donna lontana dal mondo nel quale è abituato a sguazzare: deciso a far prostituire anche lei, l'uomo si prodiga per piegarla e convincerla delle sue ragioni solo per scoprire di essersene innamorato, e decidere di cambiare vita arrivando addirittura a cercare un impiego.
Ma il fascino che il crimine esercita su Accattone è troppo forte, e quest'ultimo non potrà fare a meno di tornare alla vecchia vita.









Questo post partecipa alle celebrazioni del Pier Paolo Pasolini Day.





Esisteva un tempo in cui il Cinema italiano era indiscutibilmente il migliore che si potesse immaginare al mondo: un tempo in cui la necessità di raccontare storie ispirate alla realtà o di pura fiction rappresentava la ricerca di un'identità che si era perduta negli anni della guerra e ritrovata a partire dal boom economico, in cui De Sica, Visconti, Fellini, Monicelli, Risi, Rosi e Pasolini lasciavano un segno indelebile nella Storia della settima arte.
Erano gli anni de Il sorpasso e La dolce vita, ma anche di Accattone, opera prima di uno degli intellettuali più poliedrici del tempo - e della cultura italiana dell'ultimo secolo -, Pier Paolo Pasolini, che di fatto, attraverso questo film disperato e dolente, ancora attuale da molti punti di vista raccontò il lato amaro proprio di quella dolce vita felliniana che si viveva negli ambienti più borghesi ed alternativi di Roma: quasi fosse un antesignano della poetica di autori come i Dardenne, Pasolini porta sullo schermo la vicenda di Accattone, giovane truffatore della periferia profonda della Capitale destinato a lottare per la sopravvivenza e la sua convinzione di vivere senza mai doversi "abbassare" al lavoro - esemplare, in questo senso, la figura del fratello del protagonista, dedito al contrario agli impegni di un'esistenza normale, regolare e regolata, e sbeffeggiato proprio per questo dagli amici di Accattone - e ad un tempo ad un Destino amaro, legato alle scelte alle quali il crimine - piccolo o grande che sia - inesorabilmente porta, e delle cadute che altrettanto inesorabilmente si succedono alle ascese.
E nonostante siano passati più di cinquant'anni, e l'Italia, almeno in apparenza, sia cambiata profondamente, la potenza delle immagini brucia negli occhi e nel cuore, e pur essendo consci del fatto che il personaggio di Vittorio sia senza dubbio alcuno sgradevole e negativo, si finisce quasi per voler bene a questo ragazzo perduto che lotta senza quartiere, destinato alla sconfitta e ad essere schiacciato non tanto dal Sistema, quanto da una vita contro la quale ha ingaggiato una battaglia persa in partenza: nelle sue ultime parole, quel "ora sto bene", c'è tutta la disperazione di chi attraversa questo mondo ai margini, e vede la parte più grande ed apparentemente bella dello stesso e la già citata "dolce vita" solo da lontano, sfiorandola solo quando, per spacconeria, sfida la sorte - le scommesse con gli amici, i tuffi dal ponte -, una presa di coscienza non gridata, quanto accolta come una liberazione, una resa pacifica che è come un lento addormentarsi.
Di fatto, dunque, non solo Accattone si afferma come uno dei film italiani più importanti dell'epoca e più in generale della Storia del nostro Cinema, ma un manifesto proletario della settima arte, un racconto viscerale delle viscere della società, una fotografia dell'uomo della strada come l'avrebbe cantata un altro grande della cultura popolare italiana, Fabrizio De Andrè, ed una testimonianza del grande Cinema che partì con i Lumiere e continua nella sua tradizione con i già citati Dardenne, Loach o Cantet.




MrFord









"Quando la morte mi chiamerà
forse qualcuno protesterà
dopo aver letto nel testamento 
quel che gli lascio in eredità
non maleditemi, non serve a niente
tanto all'Inferno ci sarò già."
Fabrizio De Andrè - "Il testamento" - 





sabato 14 novembre 2015

Ixcanul - Volcano

Regia: Jayro Bustamante
Origine: Guatemala, Francia
Anno: 2015
Durata:
93'






La trama (con parole mie): Maria, una diciassettenne Maya che vive alle pendici di un vulcano in Guatemala, è promessa sposa alla figura più importante del luogo, Ignacio, che amministra i braccianti delle piantagioni di caffè e gestisce l'emporio locale. Quando, spinta dal desiderio di andare oltre il vulcano e cercare fortuna e futuro negli Stati Uniti, viene sedotta ed abbandonata dal giovane e scapestrato contadino Pepe, partito proprio alla volta degli USA, si ritrova incinta di una bimba, rifiutata dallo stesso Ignacio e costretta a fronteggiare la situazione con i genitori.
Mentre il padre, dunque, cerca un lavoro che possa portarli ad un'altra piantagione e ad una nuova casa, la madre cerca di mettere in contatto la figlia con la spiritualità della loro cultura e di quei luoghi: ma quando un incidente legato all'incontro di questi due approcci porterà Maria a rischiare la propria vita, la famiglia scoprirà che ci sarà ben altro da temere, che non un matrimonio mancato o la superstizione.












Devo ammetterlo, sono fuori allenamento.
Non fisicamente, o in termini pratici e sportivi, quanto di approccio.
Sono fuori allenamento rispetto ai tempi dilatati ed all'ampio respiro del Cinema d'autore.
Dieci anni fa circa, quando nel mio momento di maggior radicalchicchismo cinematografico andavo avanti a pane e proposte d'essai come se non ci fosse un domani, un lavoro come Ixcanul, potente affresco della realtà rurale guatemalteca e dello stato attuale dell'antica popolazione Maya firmato da Jayro Bustamante, l'avrei affrontato in grandissima scioltezza, senza alcun tipo di fatica.
Il ritorno ad un'apertura a trecentosessanta gradi sul Cinema tutto e del pane e salame, nonchè la passione ritrovata per le tamarrate action, ha arrugginito e non poco la tenuta del sottoscritto rispetto ad un Cinema, al contrario, giocato sulle attese, i silenzi e l'intimismo.
Tradotto, per l'appunto, in termini spicci, l'ora e mezza scarsa di questo film mi è costata fatica, eccome.
Eppure, lo ammetto senza alcun dubbio, Ixcanul è un film splendido, dolente, di grande forza sia immaginifica che emotiva.
La vicenda di Maria e della sua famiglia, campesinos che vivono di duro lavoro nelle piantagioni alle pendici di un vulcano che per alcuni è l'ultimo ostacolo prima della grande via verso il sogno degli Stati Uniti e per altri cela soltanto un deserto, uomini e donne figli di una cultura millenaria - quella dei Maya - ora confinati ai margini della società senza neppure conoscere e parlare lo spagnolo, è una delle più lucide ed avvincenti che la settima arte dei grandi Festival - il lavoro di Buscamante è stato premiato con l'Orso d'argento all'ultima Berlinale - abbia regalato al Saloon ed al sottoscritto negli ultimi mesi, in bilico tra bellezza mozzafiato - i paesaggi, fotografati alla grande, ed il vulcano, rendono perfettamente l'idea di un confronto impari tra questi uomini e donne, la società e la Natura -, momenti di grande profondità - i dialoghi tra Maria e la madre, figura tra le più interessanti che mi abbia riservato questa stagione cinematografica - ed una parte finale tesa e drammatica - la corsa verso l'ospedale dopo il morso del serpente, pur se in un contesto e con immagini assolutamente differenti, mi ha riportato alla mente Mud - pronta a mostrare uno dei grandi drammi rispetto al quale persone poverissime e limitate in termini culturali e sociali rischiano di trovarsi senza possibilità di scelta, o lotta.
In Ixcanul si mescolano realtà profonda e suggestione quasi magica, coscienza e praticità da uomini semplici e legati alla terra con superstizione ed ignoranza, accettazione del dolore e speranza che lo stesso dolore possa, in qualche modo, significare invece un futuro migliore per chi abbiamo perduto - pur se non nei termini che potrebbero sembrare, leggendo queste righe senza aver visto il film -: e se il vulcano che da il titolo alla pellicola e rappresenta, per chi vive alle sue pendici, una sorta di divinità alla quale affidarsi nei momenti di maggiore difficoltà, pur consci che le stesse potranno essere superate quasi esclusivamente allargando le spalle e rimboccandosi le maniche, allo spettatore soprattutto occidentale apparirà come il testimone muto di tanti piccoli drammi che, nel mondo, continuano a perpetrarsi giorno dopo giorno, e che finiscono per essere risvolti della felicità di qualcuno che, forse, questi stessi drammi neppure li immagina.
Il vulcano che ispira Maria, guidata da sogni troppo grandi per essere inseguiti, nella sua impresa più assurda e disperata, e che come Maria porta il fuoco dentro, pronto a riscaldare cuori e parti basse, a portare una vita, a donarla e non credere che possa essere perduta, ad esplodere, bruciare e tornare a vivere ancora una volta.
Perchè il vulcano forgia, tempra, mette alla prova.
Come la vita.
Un ciclo senza fine che la Natura, e chi la vive sulla pelle, conosce bene.
E riprende a girare, quasi svogliatamente, sulle parole di due vecchi contadini che pensano al nuovo futuro dei loro figli.





MrFord





"Volcano, you don't wanna, you don't wanna know.
Volcano
something in you wants to blow
Volcano
you don't wanna, you don't wanna know."
U2 - "Volcano" - 





venerdì 17 luglio 2015

Grey's Anatomy - Stagione 11

Produzione: ABC
Origine: USA
Anno: 2014
Episodi: 24




La trama (con parole mie): al Grey Sloane Memorial di Seattle le vite dei medici legati da amicizia ed amori dentro e fuori l'ospedale proseguono tra uno scossone e l'altro. Callie ed Arizona, in crisi di fronte alla scelta della prima di avere un altro figlio e della seconda di specializzarsi in un secondo dottorato di ricerca portano alla fine del rapporto, mentre Karev e la Bailey si contendono un posto nel Consiglio, Owen e Amelia Sheperd pongono le basi per una possibile storia, Avery ed April conoscono il dramma che nessun aspirante genitore vorrebbe vivere sulla pelle, la sostituta di Christina, Pierce, cerca di inserirsi nei meccanismi e nelle dinamiche dell'ospedale e gli specializzandi proseguono nel loro percorso formativo.
Derek e Meredith, nel frattempo, vivono la prima grande crisi dai tempi del matrimonio quando il primo decide di accettare l'incarico offertogli dal Presidente per un'importante ricerca a Washington, e proprio con il superamento dello stesso e l'espressione della volontà di avere un altro bambino si trovano, al contrario, ad affrontare un evento traumatico.








Fin dai primi mesi della convivenza tra il vecchio Ford e Julez, Grey's Anatomy è stato uno dei guilty pleasures da piccolo schermo più amati dal Saloon, complici un uragano di sentimenti smossi - soprattutto nella signora Ford, anche se non nascondo una manciata di puntate che sono state in grado di commuovere anche il sottoscritto -, una longevità invidiabile per un serial e soprattutto personaggi che sono stati in grado di farsi voler bene a prescindere dai preferiti di uno o dell'altra - per il sottoscritto il purtroppo sempre meno cattivo Karev, per Julez l'inossidabile Bailey -.
Senza dubbio la creatura di Shonda Rhimes, dai tempi dei sorprendenti esordi e dell'ottima sesta annata - la migliore in assoluto fino ad ora - è diventata, di fatto, una macchina fin troppo ben oliata in grado di sfruttare quello che ormai è noto come il "fenomeno George Martin", mantenendo un ritmo quasi scanzonato per l'intero corso della stagione prima di sferrare il colpo basso nel finale, affidandosi a cliffhanger in grado di mantenere alta l'attenzione del pubblico in vista della stagione successiva, rinnovo dopo rinnovo: così abbiamo assistito ad incidenti aerei, tempeste, separazioni, ricongiungimenti e chi più ne ha, più ne metta, comprese le morti dei charachters più importanti della serie, che hanno seguito gli abbandoni progressivi degli attori.
Eppure, non avrei mai pensato che si sarebbe arrivati all'addio perfino di uno dei cardini di questo titolo, personaggio fondamentale per l'evoluzione delle trame principali, nonostante l'abbandono dell'interprete fosse nell'aria già da anni: in questo senso, gli episodi che hanno chiuso l'annata hanno finito per emozionare e colpire - divertente il confronto a proposito dell'accanimento terapeutico che vede la Bailey discutere con il compagno Ben Warren a proposito della sua volontà, in caso di condizioni disperate, di farsi staccare la spina rispetto a quella diametralmente opposta dello stesso Warren, che rispecchiano quelle di Julez e mie rispettivamente -, nonostante, di fatto, nel corso della stagione non si sia assistito a grandi sconvolgimenti.
La fine della storia tra Callie ed Arizona era comprensibile, e mentre l'inserimento - purtroppo solo momentaneo - di una Geena Davis sempre in spolvero era molto interessante, così come l'avvicendamento - gestito non proprio al meglio - tra i due Sheperd a direzione del reparto di neurochirurgia, l'innesto della "nuova Cristina" Pierce ha prodotto gli stessi effetti, in termini di mancanza di carisma, del sempre piuttosto anonimo Avery, e la progressiva trasformazione in bravo ragazzo di Karev ha di fatto privato il serial del suo bad guy di punta.
Tolti, dunque, gli ultimi, drammatici episodi, il momento più interessante della season va ricercato probabilmente nella perdita del bambino di Avery e Kepner, dramma che soltanto chi ha provato sulla pelle può sentire nella disperata sensazione di vuoto che lascia - specie se si tratta della prima gravidanza -: comunque, per quanto di fatto non si tratti quasi più di qualcosa di rivoluzionario o di livello particolarmente alto, che sia per i personaggi, l'ambientazione o le sensazioni, Grey's Anatomy resta uno dei titoli cui qui al Saloon si vuole più bene, e che ogni anno torniamo a consumare ad un ritmo superato, ai tempi, solo da Lost.
In fondo, al cuore non si comanda, ed anche se "la giostra continua a girare", i grandi amori non si dimenticano mai.
Un pò come per Meredith e Derek.
Un pò come i Ford e Grey's Anatomy.



MrFord



"With or without you
with or without you
I can't live with or without you."
U2 - "With or without you" - 




lunedì 29 giugno 2015

Maggie - Contagious: epidemia mortale

Regia: Henry Hobson
Origine: USA, Svizzera, UK
Anno: 2015
Durata: 95'





La trama (con parole mie): siamo nella provincia rurale americana non lontani da Kansas City, in un presente straziato da un'epidemia che giorno dopo giorno rende i contagiati simili a veri e propri zombies. Il governo, attraverso la polizia e gli ospedali, si preoccupa di prelevare chi, al termine dell'incubazione, è sul punto di trasformarsi definitivamente per condurlo ai centri di quarantena, dove i soggetti vengono, di fatto, condotti alla fine.
Quando la teenager Maggie viene morsa e contrae l'infezione suo padre Wade ottiene come favore dal capo della polizia locale di portare la ragazza a casa e tenerla sotto osservazione fino a quando dovrà essere necessariamente portata in quarantena, organizzandosi in modo da trasferire a scopo precauzionale gli altri due figli, avuti da un secondo matrimonio, a casa di una zia.
Maggie e Wade, dunque, finiscono per passare insieme le ultime settimane di coscienza della ragazza.








Non troppo tempo fa, grazie al sempre mitico Bradipo, venni a sapere dell'uscita oltreoceano di un film che, sulla carta, aveva tutte le carte in regola per essere amato qui al Saloon: minutaggio più che onesto, Schwarzenegger, zombies ed Abigail Breslin, indimenticata e fin troppo cresciuta Olive di Little Miss Sunshine. Come se non bastasse, il suddetto Bradipo finiva per promuovere la pellicola, lasciando dunque che l'hype del sottoscritto in merito aumentasse a dismisura.
Visione alle spalle, ed uscita italiana clamorosamente avvenuta - con un titolo che è un vero e proprio affronto all'intelligenza umana -, non posso che trovarmi a confermare pienamente quelle che erano le migliori aspettative della vigilia: Maggie è un film di zombies atipico - chi si aspetta Schwarzy pronto a fare fuori morti viventi a frotte tra colpi d'arma da fuoco, cazzotti ed esplosioni ha sbagliato decisamente indirizzo -, la storia toccante di un lungo addio in grado di raccontare, prima ancora dell'epopea horror dei protagonisti e della cornice in cui vivono, il rapporto tra un padre ed una figlia, il superamento del dolore, la presa di coscienza rispetto alla malattia e alla morte.
Tematiche, dunque, decisamente reali e quotidiane sfruttate per dare una nuova interpretazione ad un genere che, di norma, riserva esclusivamente grandi massacri gore, ritmi forsennati e fiato sul collo: ovvero tutto quello che non troverete nel lavoro di Henry Hobson, pronto a stupire - in positivo - con tempi dilatati che trovano nella sfida rappresentata dal granitico Arnold pronto a piangere sulla scena il momento di maggior thrilling della pellicola, incentrata al contrario sui sentimenti che guidano i protagonisti verso l'inevitabile - e certo non conciliante - conclusione.
Una storia di genitori e figli - ottima l'evoluzione del rapporto tra Maggie e la sua madre acquisita, seconda compagna di Wade, e con il fratello e la sorella minori -, di teenagers - basta la manciata di minuti della gita con gli amici per descrivere le angosce ed i timori di un'età tra le più difficili della vita -, di dolore e soprattutto gestione dello stesso, dalle angosce e dalla maturazione della giovane protagonista alla presenza - non si potrebbe definire altrimenti - del padre, culminata nella sequenza - forse la più horror dell'intera pellicola, per certi versi - dell'ultimo saluto prima della scelta che conduce all'epilogo.
Per certi versi, volendo attribuire a questo film una profondità d'essai, si potrebbe quasi pensare che l'autore ed il regista abbiano scelto di sfruttare l'argomento zombie per affrontare un tema decisamente attuale e scottante  come quello dell'eutanasia, a braccetto con la morte ed i rapporti che legano indissolubilmente insieme al sangue: l'accenno alla situazione del vicino di Wade, pronto a non denunciare la malattia di moglie e figlia per tenerle accanto nonostante la loro trasformazione è emblematico, in questo senso.
La stessa Maggie, in bilico tra quello che è stato, il ricordo della madre, il rapporto con il padre, quello che avrebbe potuto essere, la coscienza di tutte le possibilità che i suoi coetanei non contagiati potranno avere pur in un mondo segnato da una pestilenza come quella che l'ha colpita, è un charachter che non si dimentica facilmente: forte e fragile, piccola piccola quanto adulta.
In un certo senso, è così che siamo tutti, di fronte alla fine.
Testardi e vulnerabili, i bambini che eravamo e gli adulti che, in una certa misura, siamo costretti a diventare.
In un anno in cui è stato incensato decisamente troppo un presunto - e finto - cult come It follows, Maggie - nonostante il giudizio e l'accoglienza tiepidi, ed alcune ingenuità nella realizzazione e nello script - rappresenta decisamente meglio del suo più illustre - almeno sulla carta - compagno di genere un'alternativa unica e potente, un nuovo modo di vedere l'horror senza dimenticare, per questo, la sua tradizione.
Perchè l'horror non è che lo specchio deformato e deformante della nostra quotidianità.
E non sempre quello che la stessa riserva fa meno paura.




MrFord




"When your lost
I am found
when you slip
I hold my ground
when I fall
please take a bow
and when you're up
just remember I am down."
The Black Crowes - "By your side" - 





venerdì 26 giugno 2015

Forza maggiore

Regia: Ruben Ostlund
Origine: Norvegia, Svezia, Francia, Danimarca
Anno: 2014
Durata: 120'





La trama (con parole mie): una famiglia benestante svedese, in vacanza per la settimana bianca in un lussuoso residence delle Alpi francesi, assiste nel corso di un pranzo sulla terrazza panoramica della stazione sciistica ad una valanga che giunge ad infrangersi proprio ai piedi della terrazza stessa, generando il panico in tutti i presenti.
Quando, all'avvicinarsi della stessa, il padre Tomas fugge prendendo con se soltanto il telefono abbandonando moglie e figli, la donna comincia a domandarsi quale potrebbe essere il destino del loro rapporto. E' l'inizio di un confronto silenzioso e terribile tra i due coniugi, che coinvolge anche una coppia di amici e, ovviamente, i due figli, entrambi sconvolti dall'accaduto e dalla tensione tra i genitori.






Dopo tutti questi anni di Saloon, bevute e bottigliate, molti di voi sapranno quanto il sottoscritto sponsorizzi il pane e salame, l'istinto, la pancia rispetto alla razionalità pura, l'algida freddezza di chi riesce, sempre e comunque - o quasi - a rimanere distaccato come un chirurgo.
Di fatto, forse perchè io sarei più un macellaio, che non un perfezionista del bisturi.
Proprio per questo, l'approccio all'opera di registi cosiddetti freddi come Haneke, Lanthimos e soci richiede al sottoscritto uno sforzo maggiore per trovare la scintilla nella pellicola che sta affrontando ed ai registi stessi un valore aggiunto che permetta di superare la diversità di approcci alla vita ed arrivare a colpire nel profondo comunque.
Forza maggiore, giunto sugli schermi del Saloon spinto proprio dagli accostamenti ai cineasti succitati e dalle critiche positive giunte nel corso di tutta l'ultima stagione, aveva di fatto lo stesso compito: Ruben Ostlund, discretamente giovane regista norvegese, riesce nell'impresa solo a metà, confezionando un prodotto molto affascinante visivamente ed in grado di colpire almeno fino al giro di boa della metà del minutaggio per poi avvitarsi su se stesso nella parte finale, quella che avrebbe dovuto essere risolutiva ed invece non trova il coraggio di inserirsi in un ambito di riscatto positivo o totale disperazione negativa.
Senza dubbio un peccato, perchè a partire dall'utilizzo della musica, dalla fotografia e dalla scelta delle inquadrature, passando per l'impressionante sequenza della valanga ed il crescendo di tensione tra Tomas ed Ebba culminato con il confronto con la coppia di amici giunta pochi giorni dopo l'incidente gli interrogativi sul concetto di amore e famiglia, così come la decostruzione degli stessi concetti, risultano assolutamente convincenti e gestiti con la forza ed il coraggio che spesso sono stati associati a grossi calibri della narrazione entomologica: a partire, però, proprio dalla separazione con gli amici nella serata della frattura più profonda tra i due protagonisti, tutto pare progressivamente perdere mordente tra sequenze assolutamente inutili - la festa selvaggia nella notte dopo il ritorno di Tomas dalla sua giornata off dalla famiglia - ed un finale assolutamente poco incisivo, che onestamente non sono riuscito a collocare come una sorta di visione di speranza rispetto al contatto umano ed alla voglia di ricominciare o un'ulteriore critica al nucleo familiare ed alla sua importanza nella società.
Nel corso della seconda parte, tolta la partecipazione del Kristofer Hivju diventato un idolo di Julez in Game of thrones, ed i paesaggi innevati mozzafiato - soprattutto le riprese del giro fuori pista di Tomas e Mats - poco resta della potenza del messaggio iniziale, del confronto tra il proprio istinto di sopravvivenza e la salvezza delle persone che amiamo, e dell'utilizzo della metafora del disastro naturale come specchio di un rapporto che si incrina, e che non è affatto semplice cercare di ricostruire dalle macerie.
Non è, dunque, una bocciatura, quella di Ostlund e di Forza maggiore, quanto più una sospensione di giudizio in attesa di scoprire, un pò come accade rispetto alla famiglia protagonista, quale direzione prenderà il futuro: valanghe o no, onestamente spero che la prossima volta si possa parlare di lui come di un potenziale grande nome del Cinema da bisturi che tanto è lontano dal mio caro pane e salame tagliato spesso con un coltellaccio da cucina.



MrFord



"And you love the little signs of life
you love it when we lose our minds
you love these little wars of words
you love it when they call your name."
Snow Patrol - "The weight of love" - 




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