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domenica 29 dicembre 2019

Ford Awards 2019: le serie


Ed eccoci giunti al momento di uno dei premi che, nel corso dell'ultima decade, ha assunto un'importanza sempre maggiore: quello delle serie televisive.
Se ripenso a quando, ormai quasi sedici anni or sono, Lost cambiò radicalmente il modo di autori e pubblico di concepire i serial, il panorama è decisamente cambiato: l'offerta è numericamente impressionante, così come la varietà di generi e l'impegno profuso dalle case di produzione, e ogni anno ci si ritrova di fronte a conferme di prodotti importanti o alla nascita di nuovi, con in mezzo il consueto ventaglio di mancate conferme o delusioni.
Ma quali saranno stati i dieci protagonisti del duemiladiciannove da piccolo schermo del Saloon?


N°10: MINDHUNTER

Mindhunter Poster

Alla sua seconda stagione il serial fincheriano Mindhunter, tratto da una delle autobiografie di riferimento del genere - quella di John Douglas, uno dei primi profiler FBI -, conferma la validità del progetto e dei protagonisti, della scrittura e del percorso che pare si intenda fare.
Non sarà un titolo per tutti, o quello che ci si aspetterebbe da un thriller, ma resta un'alternativa importante ad un genere che, per anni, è caduto nel clichè e nell'abitudine.


N°9: THE OA

The OA Poster

A distanza di tre anni dalla prima stagione, torna il delirante - in senso positivo - viaggio di Prairie con una seconda che, a tratti, mi ha convinto addirittura più della precedente.
Nonostante passaggi che paiono scritti sotto acido pieno, The OA è stato uno dei prodotti più interessanti che Netflix abbia proposto nel corso delle ultime stagioni, ed è davvero un peccato che si sia deciso di chiuderla dopo sole due delle cinque stagioni previste. Una perdita davvero importante.


N°8: GOMORRA

Gomorra: La serie Poster

Prosegue dritta come un treno la corsa di Genny Savastano e di Gomorra, una delle certezze del panorama televisivo made in Italy degli ultimi anni, pur se orfana in questa stagione del personaggio cardine della serie fin dagli inizi, quello di Ciro Di Marzio detto l'Immortale, dirottato per l'occasione al Cinema in quello che dovrebbe essere il raccordo tra questa e la prossima stagione.
Nonostante quest'assenza, comunque, il buon Genny compie un ulteriore cambiamento su se stesso provando dapprima a ripulire il suo nome per poi capire che, una volta nato come è nato lui, è sempre difficile pensare di poter modificare destino e natura.


N°7: STRANGER THINGS

Stranger Things Poster

Altra produzione Netflix che scombinò le classifiche ai tempi della prima stagione, arrancò con la seconda e con questa terza pare aver trovato la quadratura perfetta per il suo equilibrio, finendo per risultare, almeno dal mio punto di vista, la migliore realizzata ad oggi.
Come se non bastasse, il finale e l'addio (?) di uno dei protagonisti condisce di emozioni forti per chiunque sia un padre una chiusura da brividi, e ne apre di nuove per una quarta annata che promette di essere protagonista anche nella classifica del duemilaventi.


N°6: BILLIONS

Billions Poster

Stagione dopo stagione, sono pochi i serial che riescono a mantenere uno standard qualitativo e di narrazione elevato, evitando la comune trappola del calo inevitabile che colpisce la maggior parte delle produzioni anno dopo anno: uno di questo è senza dubbio Billions, dramma shakespeariano mescolato al legal thriller condito da elementi che non sfigurerebbero in The wolf of Wall Street.
La rivalità in continua evoluzione tra Chuck Roades e Bobby Axelrod, che fagocita tutto quello che i due amicinemici hanno attorno, assume nuove sfumature e si prepara a raggiungere un altro livello, confermando Billions come uno dei titoli più interessanti e vivi degli ultimi anni.


N°5: NARCOS - MEXICO

Narcos: Messico Poster

Abbandonati Pablo Escobar prima e la Colombia poi, Narcos approda in Messico per raccontare l'ascesa del Cartello di Guadalajara e la vicenda che vide la lotta al traffico di droga segnata dalla morte del primo agente della DEA fuori dal suolo statunitense, che scatenò, ai tempi, il dispiegamento di forze che caratterizzò una vera e propria guerra nel corso degli anni ottanta e novanta.
Per chi, come il sottoscritto, conosceva già le vicende e le aveva vissute nella trasposizione di Don Winslow grazie a Il potere del cane, è un ritorno a territori noti ma non per questo portati sullo schermo in modo meno drammatico e potente: gli ultimi episodi, che raccontano la fine dell'agente Camarena, sono da brividi e strette al cuore.


N°4: ORANGE IS THE NEW BLACK

Orange Is the New Black Poster

Un altro dei serial simbolo di questi ultimi anni, che ha visto protagoniste le ragazze della prigione di Litchfield, è giunto alla sua conclusione recuperando il terreno perduto nel corso delle due precedenti stagioni chiudendo davvero in bellezza, omaggiando non solo le protagoniste che negli anni hanno accompagnato il pubblico ma anche il concetto di donna in tutte le sue sfumature, alimentando inoltre una critica sociale molto aspra rispetto al sistema correzionale americano - e non solo - ed alla società occidentale, troppo spesso pronta a dimenticarsi di chi sta ai margini, per colpa o per destino.
Una chiusura come dovrebbero essere sempre quelle delle produzioni televisive, sensata e sentita.


N°3: TRUE DETECTIVE

True Detective Poster

La creatura di Nic Pizzolatto, alle spalle una prima stagione divenuta un instant cult ed una seconda ingiustamente sottovalutata, torna con una terza poggiata sulle spalle del Premio Oscar - e bravissimo - Mahershala Ali, che racconta un'indagine non solo investigativa, ma sociale, attraverso un arco di tempo di decenni.
Scrittura eccellente, una grandissima interpretazione del protagonista, un prodotto di altissimo livello sotto tutti i punti di vista: non avrà portato una rivoluzione, ma ci sarebbe da baciarsi i gomiti quando di fronte, accendendo la tv, ci si trova di fronte a cose di questo genere.


N°2: WHEN THEY SEE US

When They See Us Poster

Ricordo ancora benissimo quando affrontammo, la scorsa estate, il primo episodio di questa miniserie tratta da una storia vera che sconvolse New York ed ebbe una conclusione legale soltanto pochi anni fa: provai talmente tanto sconcerto e rabbia che dubitai di poter sostenere emotivamente l'intera produzione, da quanto mi sentii toccato.
Fatta scorta di coraggio, proseguimmo nella visione scoprendo uno dei tesori del piccolo schermo non solo di questo che volge alla conclusione, ma degli ultimi anni, un lavoro prezioso ed importante che racconta la cronaca senza risultare fazioso e che ad un tempo risulta essere una bomba emotiva pazzesca - sfido chiunque a non venire toccato dalla storia degli Harlem Five, e da un episodio conclusivo di fronte al quale trattenere le lacrime è un'impresa quasi impossibile.


N°1: CHERNOBYL

Chernobyl Poster

Altra miniserie, altra storia vera, altra produzione destinata a restare negli annali delle più potenti mai realizzate.
Per chi è in giro su questo pianeta da più di trent'anni l'evento che sconvolse il mondo nella primavera dell'ottantasei resta probabilmente un ricordo di risonanza globale quanto in seguito fu soltanto il crollo del World Trade Center: l'esplosione del reattore della centrale di Chernobyl provocò un disastro ecologico come pochi altri nella Storia dell'Umanità, costando la vita non solo a chi sfortunatamente si trovò sul posto, ma anche a tanti altri nel corso degli anni.
La vicenda, narrata e diretta splendidamente, passa, nonostante la cronaca, da atmosfere drammatiche ad altre quasi horror, e mette lo spettatore di fronte all'analisi del prezzo che l'Uomo debba considerare di dover pagare a fronte di determinate scelte, comportamenti, progressi.
Un affresco potente e dolente, ed uno dei punti più alti mai raggiunti dal piccolo schermo, di quelli che lo portano addirittura oltre il Cinema.


I PREMI

Preferito fordiano: Korey Wise, When they see us


Miglior personaggio: Bobby Axelrod, Billions

Miglior sigla: True Detective

Uomo dell'anno: Jared Harris, Chernobyl

Donna dell'anno: il cast di Orange is the new black, Orange is the new black

Scena cult: l'arrivo dei pompieri a Chernobyl dopo il disastro, Chernobyl

Migliore episodio: Vichnaya Pamyat, Chernobyl

Premio ammazzacristiani: il disastro nucleare, Chernobyl

Miglior coppia: Bobby Axelrod e Chuck Roades, Billions


Cazzone dell'anno: Wags, Billions

Cattivo dell'anno: Linda Fairstein, When they see us

mercoledì 2 agosto 2017

The Handmaid's Tale - Stagione 1 (Hulu, USA, 2017)




Nonostante io sia una persona molto tranquilla e tendenzialmente - pur se solo in superficie - equilibrata, fin dai tempi in cui la timidezza mi schiacciava come un macigno che non ero in grado di sollevare penso di essere stato più incline alla ribellione che non all'esercizio del potere.
Negli anni, oltre a cambiare, imparare, sbagliare, costruire, crescere, mi sono commosso tra le pagine di 1984 e V per vendetta, ho patito sconfitte e lottato per arrivare a vittorie sul lavoro, sentito la necessità di essere libero - di pensare, di vivere, di esprimere me stesso - sempre più impellente, e goduto della sensazione di poter condividere queste passioni e desideri con chi, per un breve tratto o spero per sempre, è stato o è al mio fianco in questo viaggio.
Nel corso della prima stagione di Handmaid's Tale ho pensato principalmente a questo.
La Libertà.
Una Libertà che per una donna significa potersi gettare nell'esperienza probabilmente più totalizzante ed intensa che si possa immaginare: quella di regalare al mondo una vita nuova.
Allo stesso modo, pur se sempre dall'esterno, mi è capitato di pensare a quale non Libertà possa essere peggiore: quella di non riuscire ad avere figli, o di doverli avere per qualcun'altro.
A prescindere dagli intrighi, dall'atmosfera, dall'evoluzione della trama, dai personaggi e quant'altro si voglia gettare nel calderone, la cosa che ha finito per colpirmi più nel profondo in questa produzione targata Hulu che si ripromette di essere una delle protagoniste delle classifiche di fine anno dedicate ai serial è la tenacia mostrata dal "sesso debole" in barba alla credenza maschile di ritenersi al di sopra dello stesso, che si parli delle Ancelle o delle Mogli, nel pieno di un mondo in cui gli Stati Uniti rappresentano un nuovo "ritorno al passato" costruito sulla Fede cieca ed il bigottismo che maschera, in realtà, tutte le debolezze umane che continueranno ad essere impossibili non tanto da nascondere, quanto da tacere.
Come fossero tante mani che rifiutano di scagliare pietre - prime oppure no che siano - di quello che, episodio dopo episodio, assume i connotati di un esercito di ribelli da fare invidia a Spartacus, costruito sottovoce ma guidato da una forza che noi bestie dall'altra parte della barricata non potremo mai e poi mai neppure immaginarci.
"Non lasciare che i bastardi ti schiaccino", recita come un mantra June, mentre la seguiamo nel suo percorso fatto di vendetta, violenza, umiliazione, riscatto, amore, desiderio: un percorso di crescita che diviene simbolo di una lotta sotterranea e dirompente, in grado di mescolare generi e stili ma soprattutto di toccare corde che, in chi è sensibile a determinati temi come la suddetta Libertà, diventano lo strumento più efficace nel pezzo più travolgente che abbiate mai potuto ascoltare nel corso della vostra vita.
E a prescindere dalla struttura - che, da Lost in poi, è diventata uno dei cardini negli script delle produzioni destinate al piccolo schermo, in un gioco ad incastro tra flashback e presente di narrazione - la progressiva presa di coscienza di June diviene il simbolo delle battaglie di molti di noi, uomini o donne poco importa, in grado di alimentare curiosità e tensione, e stimolare l'anelito dello spettatore per quella Libertà che spesso, anche nella realtà "non distopica" che viviamo quotidianamente, viene soffocata attraverso mezzi ben più morbidi - almeno all'apparenza - di quelli usati da Galaad e dal suo governo.
Proprio per questo - e perchè, se fossimo uomini, ammetteremmo senza riserve la forza irrefrenabile delle nostre "altre metà del cielo", ben superiore a quella che pensiamo di mostrare -, finisce per essere impossibile, in quanto umani, rimanere sordi al richiamo di June, a quel mayday che più che una richiesta d'aiuto è un richiamo alle armi, alla raccolta, al grido di un'indipendenza dal bigottismo e dalla dittatura culturale fondamentale oggi, allora ed in un futuro prossimo, distopico oppure no.
In fondo, diretti verso il peggio, o il meglio, l'importante è essere in movimento verso qualcosa, ed aver compiuto ogni passo seguendo l'esigenza che, in quanto vivi, abbiamo di essere liberi.
E non sotto l'occhio di qualcuno.




MrFord



 

lunedì 10 aprile 2017

La pazza gioia (Paolo Virzì, Italia/Francia, 2016, 118')






Ricordo quando, lo scorso anno poco prima dell’inizio della primavera, affrontai la visione dell’ottimo The end of the tour, che a partire dalle vicende di David Foster Wallace riuscì, in una particolare sequenza, non solo a toccarmi nel profondo, ma a rendere più chiara – per quanto non condivisibile dal sottoscritto - la scelta del mio amico Emiliano, che poco più di due anni fa decise di suicidarsi senza che nessuno, dai suoi più stretti conoscenti a sua madre, dai colleghi a noi compari “di vecchia data” si accorgesse o sospettasse anche solo minimamente.
Wallace, in un passaggio della pellicola appena citata, suggerisce per spiegare la situazione all’amico giornalista, di immaginarsi di essere all’interno di un palazzo in fiamme, in una condizione di sofferenza e terrore così terribili da far apparire un gesto estremo come quello di gettarsi nel vuoto come una liberazione.
Del resto, nessuno di noi si conosce quanto noi stessi, e a volte il dolore che si porta dentro finisce per risultare così profondo ed insanabile da sfociare in gesti definitivi o, in alternativa, nella “follia”: ma cosa sarà mai, esattamente, questa follia?
E’ una fuga? Un modo che ha la nostra mente di rifugiarsi in un suo mondo simile al coma per il corpo? Un tentativo di isolarsi in modo da poter sperare di riparare al danno prima di riprendere a vivere?
Ma soprattutto, essere “folli”, o disperati, o feriti dentro, dove nessuno potrà vedere all’infuori di noi, esclude la gioia dalla e della vita?
Personalmente, penso di no.
In fondo, la condizione in cui viviamo, per quanto drammatica possa essere, e fisica o mentale che sia, è lo specchio del nostro carattere, della forza che ci permette di uscire fuori, ricominciare, alzare la testa, prendere una decisione oppure un’altra.
Paolo Virzì, che da queste parti resta amatissimo per piccoli cult come Ovosodo o grandi film classici come La prima cosa bella – che resta il lavoro che preferisco del regista livornese – fornisce una sua risposta con questo La pazza gioia, appoggiandosi a due interpretazioni di straripante cuore fornite da due attrici in grandissima forma – Micaela Ramazzotti, già protagonista dell’appena citato La prima cosa bella, e soprattutto Valeria Bruni Tedeschi, che si mangia pellicola, spettatori e chi più ne ha, più ne metta -, regalando all’audience momenti di grande emozione ed una storia sentita e profonda, disperata eppure straripante di speranza.
  Certo, come molti degli ottimi prodotti italiani usciti negli ultimi due anni almeno qui nella Terra dei cachi ha finito per essere sopravvalutato – non è certo una novità, se pensiamo cos’è accaduto al Cinema da Qualcuno volò sul nido del cuculo in poi, l’utilizzo della follia e del suo ruolo in chi la vive sulla pelle e spera un giorno di reinserirsi nella società – dalla critica più giovane – nella blogosfera ho letto recensioni che ne parlavano come di qualcosa di enorme, mentre come ho già sottolineato, a mio parere Virzì ha saputo fare anche di meglio in passato – così come da quella storica – assurdo e campanilista pensare, ad esempio, che per gente come Mereghetti questo film sia uno dei più belli degli ultimi anni salvo poi bocciare cose come Alabama Monroe accusandole di sfruttare il dolore per raccontare una storia -, ma sarebbe ingiusto nei confronti del grande lavoro del regista e delle due protagoniste non dare credito a quello che, senza dubbio, rappresenta uno dei capitoli più intensi e profondi del Cinema italiano recente, che resta per me ancora qualche passo indietro rispetto ad Europa, Oriente ed USA ma che ha mostrato, anche grazie a quelli che sono destinati a diventare cult negli anni come La pazza gioia segnali di una ripresa che, lo spero sempre, possa riportare la produzione nostrana ai livelli degli anni sessanta e settanta, quando al mondo non c’era nessun Paese che poteva vantare una formazione di registi e produzione di Capolavori come la Nostra.
In attesa di quel momento, ringrazio e mi godo storie come questa, raccontate con il cuore e con il cuore portate sullo schermo, pronte a regalare emozioni profonde e mostrare un altro 

pezzo del grande mondo che abbiamo dentro, anche quando pare perfino peggio di quello che ci attende ogni giorno al varco fuori.
L’importante sarà affrontarlo a testa alta e con un po’ di sana follia.




MrFord



 

mercoledì 11 gennaio 2017

Orange is the new black - Stagione 4 (Netflix, USA, 2016)

Risultati immagini per orange is the new black season 4




Ricordo bene quando, qualche anno fa, nel pieno di uno dei miei periodi più tumultuosi, lavorativamente parlando, davo fuoco ad ogni atomo della mia parte ribelle ascoltando alcuni brani tratti da Storia di un impiegato di De Andrè, ed in particolare Nella mia ora di libertà, che in un passaggio recita così: "Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni".
Fin dalla prima stagione, ho amato con diverse riserve Orange is the new black, partendo scettico ad ogni annata per poi ritrovarmi travolto da un crescendo, partendo dallo scontro tra Chapman e Pensatucky che chiuse il primo ciclo di episodi fino al fantastico Don't fear the reaper che accompagno la fine di Vee, passando attraverso il tentativo di cambiamento della stessa Piper al termine della season three: quello che non mi aspettavo, però, era l'effetto devastante che avrebbe avuto l'escalation di questa numero quattro.
Partita in sordina, quasi in fase di stanca, inserendo nuovi personaggi nella geografia di Lichfield, Orange is the new black a questo giro è letteralmente decollata costruendo alla perfezione il progressivo montare della tensione tra detenute e nuove guardie, tra piccoli soprusi e vendette a due episodi - quelli conclusivi - da antologia, tra i più belli non solo di questa serie ma quantomeno dell'anno appena trascorso, culminati con l'addio e la morte di uno dei personaggi storici e forse più amati ed un paio di passaggi in cui l'animo ribelle del sottoscritto non ha potuto che avvampare di fronte alla lotta delle ragazze di Lichfield, dal tutte in piedi sui tavoli neanche fossimo ne L'attimo fuggente a quella pistola lasciata in sospeso, e quanto, quanto sarebbe difficile non premere il grilletto.
Johnny Cash, altro mio mito musicale, in San Quentin ricorda quanto la prigione possa rendere freddo il cuore di un uomo, e rivolge allo stesso istituto una domanda semplice quanto terribile: "Cosa pensi di aver fatto di buono?".
Questo è quello che ci si chiede al termine della stagione migliore di Orange is the new black: in un'epoca in cui viene mercificato tutto, perfino la sanità, quanto potranno mai contare le vite di chi finisce dietro le sbarre? 
Nessuno giustifica il crimine o il fatto di scontare una pena, ma come Edward Bunker ben racconta - anche e soprattutto per esperienza - nei suoi romanzi, la vita dietro le sbarre finisce per alimentare il lato peggiore di chi è costretto a viverla, decisamente più che quello pronto a condurre ad una "riabilitazione": mascherando tutto questo dietro un'atmosfera spesso e volentieri quasi giocosa, Orange is the new black si consacra non solo come una grande serie, ma anche come riferimento per il genere carcerario degli Anni Zero, tenendo ora con il fiato sospeso ed il cuore in gola tutti quelli che, come me, di fronte ad un certo tipo di battaglie, finiscono sempre per trovarsi dal lato degli outsiders, dei perdenti, dei cattivi - veri o finti che siano -.
E mentre vedevo le detenute sfidare il potere delle guardie con un atto dimostrativo sentivo il brivido che mi avevano dato Spartacus ed i suoi ai tempi della visione della serie dedicata al trace ribelle che alzò la testa e la spada contro Roma, e quando la tragedia ed il dolore hanno preso il posto di qualsiasi lontana ed umana speranza, mi sono detto, "cazzo, premi quel grilletto, pareggia il conto".
Poi, come una visione, un sorriso sullo sfondo dello skyline di New York, apice di una nottata semplice, strana e magica, come quelle che si ricordano tutta la vita.
Ed è stato allora che mi sono fermato.
Ed ho pensato: si sono presi tutto, si possono prendere tutto.
Non la libertà di pensare. Di decidere. Di vivere.
La libertà di non premere il grilletto.
E sperare, una volta fuori, di poter trascorrere una notte come quella.




MrFord




 

lunedì 2 gennaio 2017

Oceania (Ron Clements&John Musker, USA, 2016, 107')




Una delle prime cose che ricordo dei tempi dell'amicizia con Julez fu il suo dichiarato amore per il mare, almeno quanto del profumo di una chioma che pareva una criniera ed una lingua lunga che era quasi impossibile mettere a tacere: quando, una volta iniziato il nostro viaggio insieme, affrontammo le prime vacanze, ed i viaggi, potei sperimentare sulla pelle quell'amore.
In tutta onestà, non ho mai conosciuto nessuno a suo agio quanto lei in acqua, quasi fosse un ambiente più confortevole e consono della terra sulla quale camminiamo ogni giorno della nostra vita: io nuoto e mi arrangio senza nessun timore, posso sperare di vantare una certa tenuta atletica, eppure se mi immergo e devo fare i conti con l'apnea o la respirazione, vado in corto circuito.
Tendenzialmente, non tengo neppure troppo gli occhi aperti, una volta in immersione.
Ricordo le risate che - sue, soprattutto - giunsero quando, in Australia, sulla barriera corallina di Green Island, tentai una goffa esperienza di snorkeling - e non parliamo di spedizioni negli abissi, sia chiaro -, o sempre nel continente down under cercai con altri di salire controcorrente una cascata in un fiume nel Kakadu National Park - fallendo dopo aver bevuto un paio di litrazzi d'acqua -.
Il tutto mentre lei pareva, come spesso si definisce, una sirena.
La visione di Oceania è stato in parte come rivivere quei momenti, ora che gli anni mi hanno reso sensibilmente più grosso di quando ci siamo conosciuti ed i nostri battibecchi, ancora oggi, paiono gli stessi di Maui e Vaiana - modificato per l'occasione dall'originale Moana, effettivamente poco vendibile qui in Italia -, il primo istintivo e pasticcione, la seconda volitiva e decisa a trovare e percorrere la sua strada: ma la bellezza dell'ultimo lavoro della premiata ditta Musker e Clemons non si limita alla capacità di evocare ricordi ed emozioni in questo vecchio cowboy.
Perchè Oceania, oltre a vantare un comparto tecnico pazzesco - ormai anche in casa Disney possiamo ritrovare la meraviglia dell'animazione offerta dagli standard Pixar -, un gran bell'adattamento - per una volta - ed una bellissima colonna sonora, è un viaggio che tocca corde di modernità e riconoscimento del ruolo della donna nella società e nel mondo che porta ad un altro livello quello già analizzato negli ultimi anni - Ribelle e Frozen sono forse i due esempi più importanti - dalla grande D, un'avventura di formazione che coinvolge e colpisce a qualsiasi età, commuove con la figura - splendida - della nonna di Vaiana e strappa sorrisi grazie ai botta e risposta tra i due protagonisti, fino a regalare un crescendo finale visivamente strepitoso grazie alla battaglia con Teitani ed alla risoluzione della stessa, quasi una lezione di umanità ed ecologia, ed un monito al rispetto non solo del nostro pianeta ma anche e soprattutto della figura della Madre e della Donna, divinità che, come la Terra, è creatrice di vita, e se privata del suo cuore finisce per diventare una potenza distruttrice che nessun uomo da solo potrà mai affrontare.
E sono stato molto fortunato, a poter godere di un'esperienza di visione come questa accanto a Julez ed ai Fordini - nonostante sia curioso che il momento più apprezzato dal Fordino sia stato quello del "mondo dei mostri", unica parentesi a mio parere davvero stonata con la liricità del resto del film aggiunta probabilmente proprio per intrattenere il pubblico più piccolo - in una sala praticamente deserta - "Che bello vedere i film solo noi!" ha sentenziato AleLeo - il pomeriggio della vigilia di natale: perchè ho potuto solleticare lo spirito di viaggiatore dentro di me, immaginarmi bambino, uomo ed un giorno vecchio, sperando di poter essere un esempio come quello della nonna di Vaiana per i miei nipoti, vedere i miei bambini accanto a me e commuovermi anche per quelle scene che loro comprenderanno soltanto tra molti anni, e vedere la magia negli occhi e nei capelli di quella sirena che è entrata nella mia vita ormai quasi undici anni fa e destinata, in un modo o nell'altro, risate da snorkeling o scontri all'ultima parola, a restarci per sempre.
Oceania definisce, una volta ancora e con una profondità oceanica, il concetto di donna e di madre.
Ed avere la fortuna di viverlo accanto ad una Donna ed una Madre, rende tutto ancora più magico.




MrFord




 

lunedì 26 dicembre 2016

Ford Awards 2016: le serie (dalla 20 alla 11)


Negli ultimi dieci anni, l'importanza e la qualità del prodotto seriale televisivo sono cresciute a dismisura, finendo spesso e volentieri per insidiare gli "avversari" della settima arte.
A testimonianza di ciò, per la prima volta nella Storia del Saloon, la classifica delle migliori serie televisive passate su questi schermi da gennaio ad oggi - e non necessariamente uscite quest'anno, dunque - passa da dieci a venti nomi divisi in due giornate, che incoroneranno quella che è la miglior serie degli ultimi dodici mesi per questo vecchio cowboy.




N°20: SHAMELESS

 

Ai Gallagher, da queste parti, si vuole sempre un gran bene.
A testimonianza di ciò, non solo la scelta del Fordino - Shameless è una delle sue serie preferite -, ma anche la presenza in questa classifica, pur se in una posizione sacrificata, nonostante quella che, ad oggi, resta la stagione meno brillante della famiglia più scombinata di Chicago.
Io resto, e sono, decisamente un Gallagher. E non posso che esserne fiero.



Complice una seconda stagione a mio parere superiore alla già ottima prima, resa ancora più tosta da un Punisher fordianissimo ed indimenticabile, la serie bandiera della divisione Marvel targata Netflix si conferma come una delle proposte più interessanti del mondo dei supereroi.
In attesa di scoprire cosa accadrà al prossimo giro di giostra, scendere per le strade di Hell's Kitchen accanto al Diavolo Rosso resta una delle esperienze più interessanti che il piccolo e grande schermo possano regalare ad un fan dei Fumetti. E non solo.


 

Chiunque sia cresciuto a cavallo tra gli anni ottanta e novanta ed abbia amato l'horror, ha un debito d'onore e d'amore verso Sam Raimi e Bruce Campbell: i due La casa e L'armata delle tenebre, infatti, oltre a reinventare un genere, hanno regalato a noi tutti uno dei personaggi più buzzurri, sboccati ed irresistibili di sempre, Ash Williams.
A trenta e più anni dal suo esordio cinematografico, il losco figuro armato di motosega torna a far parlare di sè con una serie che è un tripudio di "sangue e merda", divertentissima e splatterissima, che se non fosse confezionata ad uso e consumo dei fan hardcore si sarebbe trovata decisamente più in alto in classifica. Non è detto, comunque, che nel duemiladiciassette e con la seconda stagione ancora in corso di visione non possa essere così.

N°17: VINYL

 Vinyl Poster

Prodotta da Scorsese e Mick Jagger, cult immediato per moltissimi fan della Musica e non solo, confezionata da dio e cancellata per i costi di produzione troppo alti, è stata una delle sorprese della mia annata da piccolo schermo: quasi detestata per una buona metà pur riconoscendone il valore, è stata protagonista di un'escalation da urlo che mi ha portato ad essere profondamente dispiaciuto per il suo destino da oblìo delle serie.
Finestra, comunque, rimarrà nei nostri cuori.

N°16: MARCO POLO


Da sempre affascinato dalle antiche civiltà, non potevo che restare folgorato dall'ennesima proposta di qualità targata Netflix, Marco Polo, che in bilico tra battaglie ed intrighi di potere mostra la Cina delle grandi dinastie attraverso gli occhi del mercante ed avventuriero veneziano che fu tra i primi a vivere sulla pelle l'avventura e la scommessa di un'esistenza da "emigrato" lontano dal proprio mondo e dalla propria cultura.

N°15: VIKINGS

 Vikings Poster

Pur se in ritardo, qui al Saloon, rispetto alla programmazione attuale - sono infatti fermo alla terza stagione - Vikings resta una delle serie più amate dal sottoscritto, quasi fosse una sorta di versione dei tempi che furono di Sons of anarchy.
Ragnar ed i suoi uomini - e donne, non dimentichiamolo mai -, tra battaglie, lotte all'ultimo sangue e tradimenti, rappresentano l'unica alternativa al vuoto lasciato, anni fa, dalla mitica Spartacus.



La premiata ditta Falchuck/Murphy, quasi fosse un regalo per farmi dimenticare l'evoluzione pessima di American Horror Story, confeziona un procedurale da manuale portando sullo schermo la vicenda che sconvolse l'America nei primi anni novanta, ovvero il processo che vide sul banco dei testimoni l'ex star del football ed attore O. J. Simpson, praticamente l'equivalente dei tempi dell'attuale The Rock.
I botta e risposta in aula fecero eco ad una serie di strumentalizzazioni mediatiche pronte a sconvolgere il pubblico almeno quanto l'esito del processo.

N°13: BILLIONS

Billions Poster 

L'alta finanza non si può certo definire il mio habitat naturale.
Eppure, all'interno di quella che pare quasi una tragedia non ancora tragedia shakesperiana, Billions, mi sono sentito quasi a casa: la rivalità tra due uomini ai vertici dei loro rispettivi campi pronti a darsi battaglia con tutti i mezzi pur di mettere in ginocchio l'avversario è un saggio di tecnica, pulizia, recitazione, confezione.
Una sorta di Vinyl dal destino più favorevole inserito in una cornice da Wall Street.


N°12: BLACK MIRROR

 

Con la terza stagione ancora in corso di visione - e sono certo sarà protagonista di questa stessa classifica il prossimo anno - ed il bellissimo special White Christmas, Black Mirror, ereditata dall'ormai onnipresente Netflix, è senza dubbio una delle realtà più profonde ed interessanti del panorama televisivo attuale: se esiste un titolo di Sci-fi da recuperare quando si parla di televisione, è senza dubbio questo.


Orange Is the New Black Poster 

Nonostante si tratti di un prodotto di indubbio valore, Orange is the new black non è mai stata tra le mie serie preferite, e di norma, all'inizio di ogni nuova stagione, finisco sempre per dover carburare almeno quattro o cinque episodi prima di acclimatarmi come si deve: ma con la terza e, soprattutto, la quarta season questo serial ha assunto una nuova e più clamorosa dimensione, divenendo il riferimento per i drammi carcerari attualmente più importante sul piccolo come sul grande schermo.
L'escalation che ha portato al finale incredibile dell'annata numero quattro - ne parlerò con il nuovo anno - ha settato senza dubbio un nuovo, ed altissimo, standard.



To be continued...



lunedì 24 ottobre 2016

Bad moms - Mamme molto cattive (Jon Lucas/Scott Moore, USA, 2016, 100')










Avete presente quello strano fenomeno secondo il quale le casalinghe disperate e represse per trecentosessantaquattro giorni all'anno decidono di organizzarsi con le amiche per uscire e darsi "alla pazza gioia" la sera dell'otto marzo, quasi come se la festa della donna fosse una ricorrenza per celebrare quello che dovrebbe essere ovvio ogni giorno, ovvero che non dovrebbero esistere sessi forti o deboli, ma semplicemente persone che si confrontano, con i loro pregi ed i loro difetti, e le differenze che rendono così divertente - almeno certe volte - il rapporto che passa tra le due metà del cielo?
Bad moms è l'espressione inequivocabile ed assoluta di quel fenomeno.
La cosa triste, tra l'altro, e pronta a farmi sentire in colpa in quanto non donna, è che a dirigere e scrivere quello che è senza dubbio uno dei film più inutili, brutti e volgari dell'anno siano due uomini, quasi a dimostrazione del fatto che gli stessi ritengano il "gentil sesso" come un gruppo di povere perdenti sciroccate con il disperato bisogno di rivincite, finte trasgressioni e principi azzurri - badate bene, signore mie, non ne esistono - mascherando il tutto come una sorta di inno alla rivolta - come se ne avessero bisogno, considerato che sono loro a governare il mondo, anche quando non sembra così -.
Nel corso della visione, fortemente voluta da una Julez pentitasi credo al decimo minuto, mi sono tornate in mente più volte le critiche mosse di recente in occasione del mio post ad una robaccia di grana grossa - ma comunque estremamente divertente - come Nonno scatenato, o quelle di un paio d'anni fa a Cattivi vicini rispetto alla presunta volgarità delle stesse, quando in questo Bad moms assistiamo ad una carrellata di battute di lega bassissima pronunciate a nastro dalle protagoniste neanche fossimo nel peggiore dei Cinepanettoni - e badate bene, in casa Ford di parolacce ed espressioni colorite se ne usano a milioni, e lo sforzo di contenersi ora che ci sono i bambini è titanico - come se il film qui presente fosse lo sfigato di turno che, incontrati i tipi fighi in un locale, crede che buttando un cazzo qui ed una figa là possa apparire tosto quanto gli altri.
Ma non è così che funziona il mondo, bello mio.
Nel corso della mia vita di spettatore mi sono goduto e stragoduto film in cui il linguaggio era, per usare un termine dei nostri tempi, piuttosto colorito, da Quei bravi ragazzi a Il grande Lebowski, passando per i vari Strafumati o SuXbad, fino al già citato Nonno scatenato, e non ho mai avuto l'impressione di una forzatura, di qualcosa che scadeva passando dal divertente al volgare, quantomeno nell'accezione più profonda del termine: non in questo caso.
Bad moms è pura spazzatura commerciale pronta ad inghiottirsi anche una tipa giusta come Mila Kunis, completamente fuori parte ed assolutamente insulsa come tutto il resto del cast, e ad inebetire gli spettatori occasionali o quelli accorsi in sala solo ed esclusivamente per la sua protagonista.
Ovviamente il successo al botteghino è stato stratosferico, e perfino qualche radical avrà finto di abbassarsi al livello del grande pubblico per quella che è una sagra del luogo comune, o quello che si vorrebbe fosse un luogo comune, e questa, purtroppo, è una vergogna per la settima arte tutta.
Peccato, perchè pur non aspettandomi granchè, quantomeno speravo in un paio di risate da neuroni spenti, e invece ho finito quasi per indispettirmi neanche fosse un otto marzo qualsiasi di una decina d'anni fa e non potessi uscire per infilarmi nel primo locale zeppo di casalinghe disperate di tutte le età con la voglia di bere fino allo sfinimento e scoparsi il primo che fa loro due complimenti neanche fosse l'ultima occasione della loro vita.
E adesso che ci penso, se davvero ritengono che sia così, un pò se lo meritano, un film vomitevole come questo.




MrFord




domenica 23 ottobre 2016

Lila dice (Ziad Doueiri, Francia/UK, 2004, 89')



Quando, non troppo tempo fa, lessi parecchio bene di questo film dalle parti del mio antagonista Cannibal Kid, la spinta a recuperarlo fu legata più all'eventuale curiosità di alimentare la nostra rivalità con una bella stroncatura che non altro, complice il fatto che, nonostante ne ammiri le sfumature e molti titoli, il Cinema francese finirà sempre per ricordare al sottoscritto l'antipatia che provo per i cugini d'oltralpe.
E sulla carta, le caratteristiche c'erano tutte: una storia d'amore insolita tra due ragazzi poco più che adolescenti, un piglio da pseudo Nouvelle Vague Anni Zero, una protagonista femminile antipatica come poche.
Praticamente come chiedere un'acqua naturale senza neppure ghiaccio e fettina di limone qui al Saloon.
E invece, ecco la sorpresa.
Lila dice non solo mi è piaciuto, e molto, ma è anche ed indiscutibilmente un bellissimo film d'autore, di quelli destinati a diventare piccoli, grandi cult per chi ha la fortuna di incrociarne il cammino e farsi rapire senza troppi pensieri: partito come una sorta di ibrido tra le atmosfere anni novanta di cose come Prima dell'alba o degli esordi di Wong Kar Wai, pronto a scorrere leggero come una giornata di primavera per poi esplodere letteralmente in un finale drammatico e terribile senza comunque perdere la speranza, il lavoro di Ziad Doueiri è un colpo di fulmine vero e proprio, forse uno dei più sorprendenti e piacevoli che abbia provato nel corso di un duemilasedici cinematografico davvero poco memorabile.
Il rapporto tra Lila ed il suo giovane innamorato Chimo, che pare passare tra le strofe di Bocca di rosa di De Andrè e l'importanza e la profondità della riflessione sull'apparenza e su quello che vogliamo credere di chi abbiamo di fronte ha rappresentato, oltre ad una folgorazione, uno dei migliori esempi di scrittura degli ultimi mesi, mai troppo carico eppure tosto, sensuale eppure non volgare neppure a fronte delle palesi provocazioni della sua giovane diva: in un periodo, inoltre, in cui la posizione della donna e la sensibilizzazione rispetto ai fenomeni di violenza legati alla stessa sono legate a doppio filo alla cronaca ed all'evoluzione sociale, un prodotto ormai non più recentissimo come questo pare assumere un'importanza davvero notevole, oltre a mostrare dinamiche che, purtroppo, sono all'ordine del giorno a qualsiasi latitudine.
Tutto questo, però, senza che il film si renda ostico a causa di un certo piglio, per l'appunto, troppo "radical" o di tematiche scomode e senza dubbio serie affrontate anche quando non pare affatto che sia così, o possa esserlo: Lila dice è un inno alla leggerezza ed alla voglia di vivere, innamorarsi, lasciare alle spalle quello che non va nella nostra vita e gettarsi a capofitto nel futuro, nelle nuove occasioni, in tutto quello che scuote il cuore nel profondo.
Non sono più un adolescente da parecchio tempo, e continuo a pensare che quello sia indiscutibilmente uno dei periodi più assurdi e scombinati delle nostre vite, eppure quando guardo e "sento" film come questo come se fossero sottopelle, quei brividi e quella primavera tornano a bussare di prepotenza alla mia porta: e, per usare una citazione che probabilmente avrei usato molto, molto volentieri allora, "naufragar m'è dolce, in questo mare".





MrFord




 

lunedì 6 giugno 2016

Orange is the new black - Stagione 3

Produzione: Netflix
Origine: USA
Anno: 2015
Episodi: 13







La trama (con parole mie): la vita per Piper Chapman continua all'interno del penitenziario di Litchfield, e mentre dopo la "caduta" a causa di Vee e delle latine torna alla ribalta Red all'interno delle gerarchie delle detenute, un'azienda privata entra prepotentemente nell'organizzazione della struttura a seguito dei finanziamenti che, di fatto, hanno permesso allo stesso carcere di rimanere aperto.
Proprio l'introduzione di nuove possibilità lavorative nel corso della propria detenzione porta Piper ad ideare un nuovo business che non solo l'allontanerà da Vause, ma che porterà a galla il suo "lato oscuro", cominciando a trasformarla in una criminale professionista lontana dalla spaurita ragazza entrata tempo addietro per la prima volta in un carcere.








I drammi carcerari, da sempre prerogativa cinematografica e letteraria esclusivamente maschile, terreno fertile per il sottoscritto e la sua formazione da Edward Bunker a Sorvegliato speciale, passando per Fuga da Alcatraz e Le ali della libertà, hanno conosciuto una nuova e moderna dimensione negli ultimi anni in casa Ford grazie ad una delle proposte più interessanti targate Netflix, Orange is the new black, dramma - ma non solo - da galera in salsa completamente - o quasi - rosa.
Partito in sordina e conquistata la fiducia del sottoscritto nel corso della prima stagione a colpi di episodi sempre più convincenti e fatto un pur appena percettibile passo indietro con la seconda, al terzo giro di giostra Orange is the new black si conferma come una delle realtà più interessanti del piccolo schermo, in grado di mostrare il lato femminile dello stesso senza per questo risultare indigesto al pubblico appartenente all'altra metà del cielo: per molti versi, infatti, mi sentirei assolutamente tranquillo nel considerare le vicende di Piper Chapman e compagne di detenzione come tra le più cazzute attualmente in circolazione.
Nel corso di questa terza stagione, rimbalzando tra abbandoni eccellenti - e permanenti? -, nuovi charachters e sviluppo di vecchie conoscenze in grado di valorizzarle sempre di più - splendida la nuova versione di Crazy Eyes scrittrice, per citarne una in particolare - il percorso della protagonista è quello che finisce per risultare più stimolante: entrata  a far parte del mondo degli istituti correzionali da pesce fuor d'acqua, Piper ormai dimostra di essere sempre più a suo agio nel suo ruolo di criminale, sviluppando una personalità che da lei non ci si sarebbe mai aspettati parallelamente al business delle mutande usate vendute in rete la cui idea nasce proprio a seguito della privatizzazione di Litchfield.
Interessanti, da questo punto di vista, anche le questioni legate proprio alla privatizzazione di enti di norma statali ed al loro sfruttamento in termini di profitto, la sindacalizzazione delle guardie della "vecchia scuola" - forse l'episodio incentrato sul Responsabile del centro, Caputo, è il migliore della stagione - e la responsabilità, effettiva o involontaria, del sistema correzionale di rappresentare una sorta di "università del crimine" per chi ne finisce prigioniero: la parabola di Piper, sempre più destinata al ruolo di piccolo "boss" del suo piccolo mondo, una volta superate le minacce di Pennsatucky - il cui personaggio ha sviluppato una significativa evoluzione nel corso delle stagioni -, di Vee - ancora negli occhi lo strepitoso ultimo episodio della seconda stagione - e del confronto emotivo e non solo con Vause, passata dall'essere la parte forte della coppia a quella più che debole, giostrata e raggirata come l'ultima delle sveltine, è esemplare: la stessa new entry Ruby Rose - nuovo idolo di Julez - alias Stella, dal fascino da bad girl, finisce per essere vittima del nuovo ed oscuro lato della Chapman, pronta a dare senso al titolo dell'ultimo episodio "Trust no bitch".
Un titolo ed un cambiamento che potrebbero segnare un nuovo corso per una serie decisamente interessante che, con l'aggiunta dei "nuovi letti", potrebbe rivelarsi ancora più esplosiva di quanto già non sia.




MrFord





"She's plagued with pain
making me insane
passionate repulsion
kiss the evil inside
that you cannot deny
smiling at your sufferings."
Amorphis - "Evil inside" - 






venerdì 29 aprile 2016

Rock the kasbah

Regia: Barry Levinson
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 106'







La trama (con parole mie): Richie Lanz è un impresario e produttore discografico californiano che ha visto decisamente giorni migliori sia in termini personali che di carriera e successo, pronto ad offrire contratti ed estorcere denaro a casi umani disposti a tutto per una speranza nel mondo delle sette note.
Quando, per caso, ha l'occasione di partecipare ad un tour che prevede tappe in tutti i principali campi dei soldati americani di stanza in Afganisthan con la sua segretaria nonchè cantante di punta e la stessa fugge lasciandolo senza soldi e passaporto, per Richie ha inizio una vera e propria avventura che lo condurrà, tra prostitute in attesa di ritirarsi e trafficanti d'armi, ad un villaggio sperduto tra le montagne dove avrà l'occasione di far fruttare il suo fiuto di scopritore di potenziali artisti da classifica rispetto ad una ragazza educata secondo le più rigide tradizioni pashtur.
Riuscirà Lanz a dare un'occasione a se stesso ed alla sua nuova protetta, o tutto finirà nel peggiore dei modi?










Ho sempre adorato - ma non è certo un mistero - Bill Murray.
Fin dall'infanzia e da Ghostbusters, ho sempre sognato di potermi immedesimare - malgrado non si trattasse certo di un figo senza ritorno, in termini prettamente estetici - in quel guascone sciupafemmine dalla risposta sempre pronta, che rappresentava tutto quello che, da ragazzino, preda della mia timidezza senza controllo, non ero.
Sono passati gli anni, i film, le esperienze, mi sono avvicinato così tanto a quel tipo di comportamento da suscitare incredulità nelle persone che mi conoscono ora, quando mi dichiaro, per l'appunto, un "ex timido", ma è rimasto immutato l'affetto per un attore che ho sempre considerato come una zio matto, quello da prendere come modello di bad guy alla facciazza dei genitori che ho sempre pensato sarei diventato, e che ora che sono genitore, non riesco a non ammirare comunque.
Rock the kasbah è un film dell'ormai stanco Barry Levinson come ce ne sono mille altri, ritmato da una colonna sonora bella ma più che abusata - a parte la mitica Bawitaba di Kid Rock, che quasi regalava i quattro bicchieri a questo titolo, è la fiera del pur piacevole ma sempre troppo sfruttato Cat Stevens -, implausibile nella scrittura ed all'interno del quale Bill Murray fa il Bill Murray, dunque con tutti i limiti possibili ed immaginabili, eppure ho finito per godermelo dal primo all'ultimo minuto senza ritegno e particolari pretese.
L'odissea professionale, musicale ed umana di Richie Lanz, produttore discografico più simile ad un truffatore che ad uno scopritore di talenti, in un Afganisthan in bilico tra tensioni culturali, esercito statunitense, mercenari, trafficanti e signori della guerra, impreziosita dalle sempre gradite presenze di Zooey Deschanel e Kate Hudson è una giostra divertente e piacevole quanto basta per una serata senza troppo impegno ma comunque in grado di non far staccare completamente i neuroni, che si tratti di amore per il rock o di attenzione rivolta alla condizione delle donne all'interno di determinate culture - la dedica conclusiva della pellicola resta una delle idee migliori della stessa -.
Per il resto, nulla di nuovo sotto il sole e soprattutto nulla che la realtà non spazzerebbe via a colpi di sogni spezzati: ma il bello delle sette note e della settima arte è proprio regalare al proprio pubblico un'illusione magica e confortevole come una bella sbronza felice da risata facile e sonno profondo, come se non ci fosse un domani.
Dovendo compiere una scelta, migliore forse la prima parte, più spiccatamente Murraycentrica e scanzonata della seconda, senza dubbio incentrata sulla parte più sentimentale e profonda, ma a conti fatti tutto scivola via discretamente bene, e poco importa se, in un modo o nell'altro, Rock the kasbah si confonderà nella memoria sparendo di fronte a titoli simili ma ben superiori come Broken flowers, perchè sarà come aver ascoltato quella hit anni settanta già nota e stranota che, comunque, si finisce per canticchiare come se fossimo ancora presi dalla prima cotta per il pezzo.
Se, a questo cocktail forse annacquato aggiungiamo poi una riflessione sulla necessità assoluta dell'emancipazione proprio grazie all'arte, condita con un pò di ironia e buoni sentimenti, allora abbiamo il drink di sicurezza perfetto per le serate naufragate, la sega della buonanotte, il bacio in fronte per un sonno di sogni goduriosi ed il più rock possibili.
Del resto, se non si guarda in faccia ad una realtà spesso troppo triste con un pò di ironia ed un sorriso beffardo, si rischia di diventare troppo cinici o troppo tristi: e Richie Lanz non è nessuno dei due.
Lui crede, e c'è.
Una specie di piccolo Drugo.
Un pò come Bill Murray, che in questo vestito calza come nel pigiama preferito.




MrFord




"Now over at the temple
oh! They really pack 'em in
the in crowd say it's cool
to dig this chanting thing
but as the wind changed direction
the temple band took five
the crowd caught a wiff
of that crazy Casbah jive."
The Clash - "Rock the casbah" -






martedì 8 marzo 2016

Suffragette

Regia: Sarah Gavron
Origine: UK
Anno: 2015
Durata: 106'






La trama (con parole mie): siamo nel millenovecentododici in Inghilterra, e Maud Watts, madre di un figlio, donna da sempre attenta ad obbedire alle regole - anche scomode - ed abituata al lavoro in lavanderia fin dalla tenera età, viene a contatto casualmente con un'azione sovversiva organizzata dalle Suffragette, attiviste del movimento femminista pronte a lottare con tutte le forze affinchè il voto venga garantito alle donne ed una retribuzione equa possa essere una realtà a parità di sforzo e di lavoro.
Presa coscienza della condizione che lei stessa e molte nella sua situazione vivono ogni giorno in fabbrica o a casa, Maud decide di avvicinarsi alle sue colleghe che già militano nel movimento, dapprima come spettatrice, dunque come parte attiva alla causa: la nuova direzione politica presa dalla giovane costerà a quest'ultima la tranquillità in famiglia, il posto di lavoro e sacrifici inimmaginabili per una madre, ma tenendo fede al motto della fondatrice delle Suffragette, Emmeline Pankhurst, "mai arrendersi", la "nuova" Watts lotterà fino in fondo per i suoi diritti e quelli di milioni di donne come lei.










Chiunque mi conosca abbastanza bene, sa quanto le donne siano da sempre una delle debolezze principali del sottoscritto.
Ho sempre considerato l'altra metà del cielo decisamente più sveglia di quella dove sto io, più sfaccettata e complessa, più affascinante, senza dubbio più rompipalle ed in grado di gestire il rapporto tra ragione ed istinto meglio di quanto non si sia in grado di fare noi maschietti.
Un'altra cosa che ritengo sia sacra - e lo ritengo ancora di più da quando l'ho potuto vivere con i miei occhi ed i miei sensi dal giorno della nascita del Fordino - è il loro ruolo di madri: un ruolo che non ho mai considerato come "stai a casa e bada ai figli e se non mi stiri bene la camicia sono schiaffi che volano", quanto come un privilegio che a noi primati sarà sempre, purtroppo, negato.
Non mi è mai capitato, anche tornando indietro nel tempo, di pensare che le donne avessero qualcosa meno degli uomini, dai tempi dell'asilo - ricordo la guerra tra i maschi della classe rossa, quella del sottoscritto, e la gialla, dalla quale rimasi saggiamente fuori, unico tra gli aspiranti "gladiatori", e guadagnai una settimana di giardino circondato dalle fanciulle, in barba ai miei amici tutti confinati in castigo in classe - alle esperienze lavorative, dagli scontri ideologici a quelli verbali, dal conquistare all'essere conquistato.
Con questo non mi voglio certo ergere a paladino del mondo in rosa, che fin dall'alba dei tempi, pur messo sempre alle strette dai tentativi maschili, è riuscito non solo a tenere alta la testa, ma a cambiare la Storia e la società con le sue sole forze: una delle realtà più solide in grado di mostrare questo spirito indomito è senza dubbio quella delle Suffragette, che agli inizi del Novecento lottarono con tutti i mezzi in loro possesso in modo da spingere la società anglosassone verso decisioni epocali - e sacrosante - come il voto alle donne ed il riconoscimento dei loro diritti sui figli - emblematico il caso del bambino della protagonista di questo film, pur se solo accennato rispetto all'economia della trama principale -.
Il merito del lavoro di Sarah Gavron è proprio quello di testimoniare, attraverso fatti locali parte di un confronto e di un insieme più ampi, il coraggio e la passione che queste tostissime signorine mostrarono a tutti coloro i quali non le credevano non solo abbastanza stabili per poter votare, ma anche e soprattutto abbastanza per comparire da pari in società: Suffragette non sarà comunque un film destinato a fare la Storia della settima arte - per certi versi, resta molto convenzionale e dal taglio quasi televisivo -, ma a volte sono le piccole cose e gli avvenimenti casuali - si veda la sequenza più importante e ben riuscita della pellicola, l'incidente al Derby del giugno del millenovecentotredici, destinato a cambiare radicalmente gli equilibri in campo rispetto al voto alle donne - a dare inizio a qualcosa di molto più grande ed importante.
Dunque ben vengano lavori come questo, resi più forti dall'impegno e dalla partecipazione delle attrici - molto brava la Mulligan, e perfino meno fastidiose del solito la Bonham Carter e la Streep - e necessari come ogni pellicola ben costruita e legata ad una delle colonne portanti della società: i diritti civili.
E pensare alle Suffragette, alle mie colleghe, alle madri, a Julez - che, ai tempi, sarei sicuramente dovuto andare a recuperare in carcere più e più volte, e sarei stato fiero di farlo -, alle realtà che conosciamo anche quando la nostra predatoria ed istintiva natura di uomini non prende il sopravvento, alle signore ucraine responsabili delle pulizie del mio posto di lavoro che hanno promesso vodka per festeggiare oggi con noi e si stupiscono di ogni piccolo aiuto e gentilezza ricevuta qui quando la maggior parte dei loro stipendi finisce per mantenere mariti nullafacenti in patria, mi fa sperare che il percorso delle donne sia soltanto all'inizio.
E me lo fa sperare anche e soprattutto il fatto che il loro percorso è anche il nostro.
Perchè senza madri, senza mogli, o amiche, o amanti, non saremmo altro che un gruppo di scimmioni alla ricerca di un qualsiasi buco in un albero.
E non sarebbe una vita altrettanto bella.




MrFord




"Oh don't lean on me man
cause you can't afford the ticket
I'm back on Suffragette City
oh don't lean on me man
cause you ain't got time to check it
you know my Suffragette City
is outta sight... She's all right."
David Bowie - "Suffragette city" -






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