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lunedì 17 giugno 2019

White Russian's Bulletin



Settimana particolare, per il Saloon, che tra lavoro e primi assaggi di vacanze riesce non solo ad essere puntuale nelle pubblicazioni dei post, ma anche a recuperare titoli più impegnati ed impegnativi, in barba alla stagione che, per eccellenza, richiede una bella pausa ai nostri neuroni provati dalla quotidianità.
Una settimana dunque non ricca in termini numerici - del resto, ormai, i sette/dieci film di qualche anno fa me li scordo - ma decisamente stimolante.


MrFord



THE PERFECTION (Richard Shepard, USA, 2018, 90')

The Perfection Poster

Ogni giorno di più Netflix consolida non solo la sua presenza in termini di bacino di utenza, ma anche l'impatto che, nel tempo, ha avuto e sta avendo sul Cinema come lo abbiamo sempre inteso: da parecchio, infatti, penso che il futuro della settima arte vada cercato non tanto - purtroppo - nella realtà delle sale ma in quello dell'on demand fatto esplodere proprio da Netflix stesso, allo stato attuale una realtà con la quale fare i conti non solo pensando alle serie tv ma anche ai titoli che, fino al suo avvento, sarebbero stati esclusivamente destinati alla distribuzione "tradizionale".
Diretto da Richard Shepard, che si era fatto volere gran bene da queste parti per Dom Hemingway, questo The Perfection, giunto sugli schermi di casa Ford spinto dal tam tam della blogosfera, si è rivelato una visione non perfetta ma senza dubbio in grado di rimanere impressa per argomenti alti - i continui plot twists, le differenti vedute e ribaltamenti del revenge movie - e bassi - il trash molto anni novanta stile Boxing Helena, una gran bella sequenza lesbo che fa sempre la sua figura, un'altro passaggio divenuto subito argomento di discussione che non è così clamoroso ma senza dubbio un esperimento mai o raramente provato -, poco plausibile ma guardabilissimo, un buon modo per avere conferma che il Cinema, quando ci sono idee, può essere sempre stimolante anche quando, tornando sul titolo, la perfezione resta ben lontana.




BILLIONS - STAGIONE 3 (Showtime, USA, 2018)

Billions Poster

Quando si parla di serie tv, una delle cose più difficili che si possa immaginare è trovare quei titoli in grado di mantenere alto lo standard stagione dopo stagione, senza banalizzare i personaggi principali o le situazioni, cadere nel troppo melodrammatico o nello scontato, cominciare a non giustificare più nulla o quasi.
Billions, partito e sviluppatosi in sordina rispetto ad altri titoli saliti alla ribalta delle cronache negli ultimi anni, al terzo giro di giostra può senza troppi patemi dichiararsi parte della categoria: attorno al rapporto in continua evoluzione - e che evoluzione! - tra Chuck Rhoades e Bobby Axelrod gli autori hanno predisposto un'architettura complessa di situazioni e comprimari profondi e credibili, giustificando ogni colpo di scena, lasciando che i due main charachters prendessero binari diversi e apparentemente di direzioni opposte per poi riportarli drasticamente vicini, e in un modo che non ci si sarebbe potuti aspettare tornando alle due stagioni precedenti e ad una parte di questa, pur spesa con Chuck e Axe alle prese con nemici diversi da loro stessi.
Come sempre grande lavoro attoriale di Giamatti e Lewis, solida la scrittura ed avvincente il prodotto, anche per chi, come questo vecchio cowboy, di borsa e legislazione capisce più o meno quanto di danza classica: inutile dire che l'hype per la season four partita in primavera è già altissimo.




IL TRADITORE (Marco Bellocchio, Italia/Francia/Brasile/Germania, 2019, 135')

Il traditore Poster

Ricordo bene, ai tempi delle medie - parliamo dei primi anni novanta -, quando a scuola qualcuno "la cantava" e veniva additato come un "Buscetta", una spia, una persona che andava e doveva essere emarginata. Nella logica di ragazzini spesso insensibili per età e spessore culturale, si seguiva la moda ispirata dalle vicende del più noto tra i collaboratori di giustizia in anni in cui la Mafia insanguinava l'Italia simbolicamente come non aveva mai fatto prima, gli anni di Falcone e Borsellino, due dei più grandi personaggi pubblici che il nostro Paese abbia mai conosciuto nella sua Storia.
Bellocchio, regista inossidabile in pieno stile Clint - per quanto, politicamente, i due non potrebbero essere più diversi -, autore di film grandiosi come I pugni in tasca, L'ora di religione, Buongiorno notte, Vincere, mostra uno dei personaggi più controversi di quel periodo da un lato che non ci aspetteremmo, il più terribile, naturale, sfaccettato di tutti: quello umano.
Tommaso Buscetta era un criminale, eppure nel corso di oltre due ore serratissime per piglio e ritmo, nel suo rapporto con Cosa Nostra ed i suoi esponenti - mostrati nella banalità terribile del loro male e dell'ignoranza che circondava figure come quelle di Riina - e soprattutto con il già citato Falcone - la scena più bella della pellicola, il loro ultimo saluto, è da brividi - quella che emerge dalla pellicola è la sua componente umana, la stessa che rende l'Uomo l'animale più pericoloso che esista ma anche quello in cui, in una misura o nell'altra, da appartenenti alla specie ci riconosciamo.
E così, pur essendo assolutamente dalla parte di Falcone, pur essendo contrario al concetto di "spione" non per omertà ma per correttezza, ho finito a passare ogni minuto della visione mettendomi dal lato della barricata di Buscetta, osservando le scelte che, in situazioni estreme, è necessario compiere per tutelare se stessi ed i propri figli, osservando uno Stato spesso e volentieri più criminale dei criminali - clamorose le apparizioni di Andreotti -, il degrado morale che colpisce non solo la società ma anche le associazioni a delinquere, mi sono ritrovato in lui quando dichiara sempre a Falcone "Riina ha sempre preferito esercitare il potere che fottere, io no. Io ho sempre amato le donne". E a conti fatti, ho riflettuto che, se fossi stato l'ultimo di diciassette figli in una famiglia povera della Palermo degli anni venti e trenta, se fossi cresciuto in un ambiente che lasciava ben poche possibilità di scelta, da uomo che ama più le donne e la famiglia che non il potere, forse sarei finito esattamente come lui.
Avrei stimato Falcone perchè avrei invidiato il suo coraggio e la sua integrità, mentre io sarei stato banalmente un peccatore, per dirla alla vecchia maniera.
Essere umani è sfaccettato, ma anche clamorosamente semplice.
Raccontarlo, però, è una cosa da Maestri. Come Bellocchio.


venerdì 2 febbraio 2018

Billions - Stagione 2 (Showtime, USA, 2017)





In tutta onestà, in termini pratici credo ci siano davvero poche cose lontane dalla mia essenza come l'economia e la finanza: per dirla in toni da Saloon, non mi è mai fregato e non ci ho mai capito un gran bel cazzo di niente.
Eppure, nel corso degli anni, alcuni titoli - film o serie, poco importa - sono riusciti nella non facile impresa non solo di farmi apparire questo mondo così lontano come comprensibile ed affascinante, ma anche di seguire gli stessi con un'intensità da thriller da fiato sospeso: uno di questi è senza dubbio Billions, proposta sorretta dalle performance notevoli dei due protagonisti e rivali Damian Lewis e Paul Giamatti - il primo nei panni di Bob Axelrod, giocatore d'azzardo della borsa multimiliardario nato povero e divenuto squalo, ed il secondo di Chuck Rhoades, procuratore newyorkese di famiglia altolocata che dello squalo aveva il corredo genetico - che trasforma il mondo dell'alta finanza e delle scorrettezze ad esso annesse in una quasi tragedia shakespeariana senza morti ammazzati all'interno della quale non si risparmiano colpi bassi, vendette, giochi di potere e voltafaccia, mentre i due protagonisti si convincono passo dopo passo ad essere disposti a sacrificare qualsiasi cosa pur di avere l'ultima parola in una rivalità che li rende ad un tempo uguali ed agli antipodi.
Proprio considerata la materia trattata, era davvero un'impresa non da poco pensare di riuscire a bissare la qualità della prima stagione, una delle sorprese positive del Saloon a cavallo tra duemilasedici e diciassette, e sono contento di affermare che la produzione Showtime ci è riuscita, e alla grande: tensione mai calante, ritmo serrato, ottimi comprimari, un nuovo charachter perfetto e potenzialmente esplosivo per il futuro - la giovane ed androgina Taylor, spettacolare protegè di Axelrod - ed un episodio, per l'esattezza l'undicesimo, tra i meglio scritti che abbia incontrato sul piccolo schermo negli ultimi anni, pronto ad incastrare e far specchiare i due nemici giurati uno nelle azioni dell'altro, e a prepararli ad un faccia a faccia che prosegue il discorso rimasto in sospeso al termine della prima stagione e proietta dritti dritti alla terza, consapevoli che nessuno dei due mollerà mai davvero la presa fino ad aver raggiunto la totale distruzione dell'avversario, o la propria.
In questo senso, una delle riflessioni più importanti legati alle vicende di Bob e Chuck è proprio questa: vale davvero la pena, in nome della vittoria su un nemico, sacrificare tutto quello che è possibile immaginare, posizione, carriera, potere, denaro e soprattutto di rimanere soli soltanto per il gusto di godersi una risata da soli, in un appartamento in affitto vuoto di qualsiasi affetto? Vale la pena continuare a scommettere anche quando si hanno le tasche piene, soltanto per il gusto di vincere una mano in più?
In questo senso, sarebbe molto interessante poter entrare ancora più a fondo nelle teste di Axelrod e Rhoades, e cercare di comprendere quanto sottile sia il confine tra ossessione e rivalità, tra l'importanza di una battaglia ed il gusto quasi ossessivo di fare la guerra, tra esercizio di potere ed esibizione di potere: confini che tutti noi, in quanto umani, conosciamo bene, a prescindere dal fatto che tutto si giochi in campi ed ambiti che, come per me la finanza e l'economia, appaiano lontani anni luce dal proprio piccolo pianeta.



MrFord



 

venerdì 17 febbraio 2017

Ballers - Stagione 2 (HBO, USA, 2016)





Quando, lo scorso anno, approcciai la prima stagione di Ballers, lo feci solo ed esclusivamente per il marchio HBO posto su un prodotto che aveva Dwayne Johnson, alias The Rock, uno dei wrestlers più amati ed importanti della Storia dello sport entertainment, come protagonista.
In tutta onestà, non mi aspettavo davvero niente di che.
Al contrario, invece, scoprii che Ballers non era solo una tamarrata pronta a strizzare l'occhio al football americano ed ai suoi ragazzoni, ma anche e soprattutto una sorta di sorellina minore di Californication, con molto meno sesso - purtroppo - ma la stessa concezione di malinconica ironia che rendeva la saga di Hank Moody sempre così dannatamente piacevole da gustarsi.
Al secondo giro di giostra, dunque, Ballers era chiamata ad un compito sicuramente più arduo, qui al Saloon, ovvero confermare tutte le buone impressioni raccolte con il primo: compito, devo ammettere, portato a termine con successo nonostante un'atmosfera più cupa, se vogliamo, rispetto a quella molto easy e molto yeah dell'annata d'esordio, che vede il grande e grosso Spencer Strasmore - il già citato The Rock - alle prese con una serie di problemi che lo porteranno progressivamente non solo in difficoltà, ma anche a chiudere il season finale apparentemente solo e sconfitto, in barba ai tentativi disperati fatti per affermarsi nel suo lavoro post-ritiro dal football ed alla sua incrollabile determinazione.
Lo stesso Joe, spalla perfetta del protagonista nonchè ai miei occhi incarnazione dell'inarrivabile Charlie Runkle, appare più serio e costretto a fare i conti con una realtà - quella degli agenti e delle mediazioni finanziarie - senza dubbio popolata da squali ben più pericolosi rispetto a quelli che il suo amicone Spencer era abituato ad affrontare in campo: in questo senso, altrettanto bene se la cava il superospite Andy Garcia, nemesi proveniente dal passato di Strasmore pronta a rendere all'ex giocatore la vita impossibile, così come gli "incidenti di percorso" - se così possiamo chiamare i problemi fisici e quelli con la compagna - che, come ogni sfiga che si rispetti, cercano il più possibile di essere puntuali ed arrivare rigorosamente insieme come ospiti sgraditi autoinvitatisi ad una festa pianificata e preparata per mesi.
Ad ogni modo, non pensiate che Ballers sia diventata di colpo una serie drammatica: parliamo, infatti, di una proposta fresca e scorrevolissima, che è un peccato gustarsi in inverno ed in Italia e non in piena estate a Miami con i piedi in piscina ed un bel mojito in mano, goduriosa da vedere e così pane e salame da finire divorata dal sottoscritto in un paio di giorni - vero, il format prevede episodi tra i venticinque e i trenta minuti sempre in stile Californication, ma se fosse stato costruito allo stesso modo Mr. Robot sarebbe stato impossibile seguirlo comuque, data la noia che suscita - maledicendo il fatto che per la terza stagione dovrò quantomeno aspettare l'estate prossima - nel caso in cui volessi vederla sottotitolata -.
Come se non bastasse, il fatto che l'HBO, da sempre sinonimo di qualità assoluta quando si tratta di serial, rinnovi una volta ancora una proposta dall'anima tamarra, con The Rock protagonista quasi assoluto, incentrata sul football americano e sulle intemperanze delle sue star, è quantomeno un miracolo.
Un miracolo che mi piace avere la possibilità di continuare a vivere, e di farlo accanto al People's Champion.




MrFord




sabato 7 gennaio 2017

Billions - Stagione 1 (Showtime, USA, 2016)




Se esistono due mondi che senza alcun dubbio - fatta eccezione, ovviamente, per tutto quello che è radical chic o espressione di una certa ignoranza - appartengono poco o nulla al sottoscritto sono quelli dei numeri e della finanza: non sono mai stato attratto dalla ricchezza o dall'inseguimento a tutti i costi della stessa in stile Gordon Gekko - anche se certo non fa schifo a nessuno il pensiero di avere qualche bel milione pronto a garantire una bella vita vissuta esclusivamente facendo quello che si vuole -, nonostante, negli anni da cinefilo, sia rimasto più volte colpito da titoli nati proprio in questo calderone, da Americani e Margin Call fino al magistrale The Wolf of Wall Street.
Eppure, nonostante questi precedenti, di fronte alle proposte di questo genere tendo ad andare sempre molto cauto, conscio non solo del mio disinteresse per la materia ma anche della mia ignoranza a proposito della stessa, temendo la comparsa della noia ad ogni sequenza: Billions, grande produzione Showtime con un cast di prim'ordine - Paul Giamatti, Damian Lewis, Maggie Siff tra i più noti -, non è stata esente da questo tipo di scetticismi, qui al Saloon, nonostante arrivasse sui nostri schermi forte di recensioni lusinghiere.
Fortunatamente per me e per i Ford tutti, si può tranquillamente affermare che questa nuova proposta seriale si possa inserire nel novero dei titoli citati in apertura di post, e che la lotta per la supremazia tra il Procuratore Chuck Rhoades ed il multimilionario e squalo della borsa Bobby "Axe" Axelrod, self made man divenuto una sorta di Citizen Kane - bellissima la citazione del Capolavoro di Welles - dell'area di New York, pronto a calpestare morale e persone ed ugualmente in grado di mostrarsi leale e più umano, per molti versi, dei rappresentanti della Legge pronti a dargli battaglia, sia una delle lotte tra charachters più intense e shakespeariane del passato recente del piccolo come del grande schermo, dalle scaramucce appena suggerite nei primi episodi al faccia a faccia del season finale, una dichiarazione di guerra in pompa magna con tutti i crismi pronta a fare da traino alla già attesissima - almeno da queste parti - seconda stagione.
Vedere, ad ogni modo, due personaggi con più ombre che luci pronti a giocare sporco o a sacrificare anche se stessi in modo da vedere l'altro sconfitto apre a riflessioni profonde, legate non tanto e non solo all'empatizzazione con l'uno o l'altro, quanto allo spirito che li muove: probabilmente, infatti, tra il Bobby Axelrod che si è costruito una fortuna con le proprie mani, e che può permettersi di andare a vedere i Metallica in Canada sfruttando un jet privato portandosi dietro gli amici di lungo corso, e praticamente comprare ciò che vuole, ma che di fatto non fa altro che vivere godendosi tutto quello che ha come farebbe la maggior parte di noi ed il Chuck Rhoades uomo di Legge e del Governo, più retto del suo nemico ma non per questo più pulito - e non parlo dei gusti in termini di pratiche sessuali -, disposto a tutto per perseguire il rivale più per acredine ed invidia malcelata che non per una vera passione per la Legge stessa, le differenze non sono poi così tante.
E sinceramente, nel corso di questi dodici episodi, sono stati molti i momenti in cui mi sono chiesto se esista, in un conflitto del genere, una parte davvero "giusta", e non, più semplicemente, una lotta da giungla tra due animali diversi per estrazione e costruzione pronti in egual misura a distruggere l'altro, in modo che possa ricordarsi per sempre non tanto il fatto di aver commesso dei crimini o aver dato la caccia ad un idolo, prima ancora che ad un criminale, ma che la supremazia passa dalle sue mani.
E soldi e potere certo alimentano questo aspetto, ma non possono cancellare il fatto che il desiderio che fa da benzina ad un fuoco del genere nasce e cresce nel cuore dell'Uomo.
E non c'è modo per riuscire a sfuggire al suo controllo.



MrFord




lunedì 26 dicembre 2016

Ford Awards 2016: le serie (dalla 20 alla 11)


Negli ultimi dieci anni, l'importanza e la qualità del prodotto seriale televisivo sono cresciute a dismisura, finendo spesso e volentieri per insidiare gli "avversari" della settima arte.
A testimonianza di ciò, per la prima volta nella Storia del Saloon, la classifica delle migliori serie televisive passate su questi schermi da gennaio ad oggi - e non necessariamente uscite quest'anno, dunque - passa da dieci a venti nomi divisi in due giornate, che incoroneranno quella che è la miglior serie degli ultimi dodici mesi per questo vecchio cowboy.




N°20: SHAMELESS

 

Ai Gallagher, da queste parti, si vuole sempre un gran bene.
A testimonianza di ciò, non solo la scelta del Fordino - Shameless è una delle sue serie preferite -, ma anche la presenza in questa classifica, pur se in una posizione sacrificata, nonostante quella che, ad oggi, resta la stagione meno brillante della famiglia più scombinata di Chicago.
Io resto, e sono, decisamente un Gallagher. E non posso che esserne fiero.



Complice una seconda stagione a mio parere superiore alla già ottima prima, resa ancora più tosta da un Punisher fordianissimo ed indimenticabile, la serie bandiera della divisione Marvel targata Netflix si conferma come una delle proposte più interessanti del mondo dei supereroi.
In attesa di scoprire cosa accadrà al prossimo giro di giostra, scendere per le strade di Hell's Kitchen accanto al Diavolo Rosso resta una delle esperienze più interessanti che il piccolo e grande schermo possano regalare ad un fan dei Fumetti. E non solo.


 

Chiunque sia cresciuto a cavallo tra gli anni ottanta e novanta ed abbia amato l'horror, ha un debito d'onore e d'amore verso Sam Raimi e Bruce Campbell: i due La casa e L'armata delle tenebre, infatti, oltre a reinventare un genere, hanno regalato a noi tutti uno dei personaggi più buzzurri, sboccati ed irresistibili di sempre, Ash Williams.
A trenta e più anni dal suo esordio cinematografico, il losco figuro armato di motosega torna a far parlare di sè con una serie che è un tripudio di "sangue e merda", divertentissima e splatterissima, che se non fosse confezionata ad uso e consumo dei fan hardcore si sarebbe trovata decisamente più in alto in classifica. Non è detto, comunque, che nel duemiladiciassette e con la seconda stagione ancora in corso di visione non possa essere così.

N°17: VINYL

 Vinyl Poster

Prodotta da Scorsese e Mick Jagger, cult immediato per moltissimi fan della Musica e non solo, confezionata da dio e cancellata per i costi di produzione troppo alti, è stata una delle sorprese della mia annata da piccolo schermo: quasi detestata per una buona metà pur riconoscendone il valore, è stata protagonista di un'escalation da urlo che mi ha portato ad essere profondamente dispiaciuto per il suo destino da oblìo delle serie.
Finestra, comunque, rimarrà nei nostri cuori.

N°16: MARCO POLO


Da sempre affascinato dalle antiche civiltà, non potevo che restare folgorato dall'ennesima proposta di qualità targata Netflix, Marco Polo, che in bilico tra battaglie ed intrighi di potere mostra la Cina delle grandi dinastie attraverso gli occhi del mercante ed avventuriero veneziano che fu tra i primi a vivere sulla pelle l'avventura e la scommessa di un'esistenza da "emigrato" lontano dal proprio mondo e dalla propria cultura.

N°15: VIKINGS

 Vikings Poster

Pur se in ritardo, qui al Saloon, rispetto alla programmazione attuale - sono infatti fermo alla terza stagione - Vikings resta una delle serie più amate dal sottoscritto, quasi fosse una sorta di versione dei tempi che furono di Sons of anarchy.
Ragnar ed i suoi uomini - e donne, non dimentichiamolo mai -, tra battaglie, lotte all'ultimo sangue e tradimenti, rappresentano l'unica alternativa al vuoto lasciato, anni fa, dalla mitica Spartacus.



La premiata ditta Falchuck/Murphy, quasi fosse un regalo per farmi dimenticare l'evoluzione pessima di American Horror Story, confeziona un procedurale da manuale portando sullo schermo la vicenda che sconvolse l'America nei primi anni novanta, ovvero il processo che vide sul banco dei testimoni l'ex star del football ed attore O. J. Simpson, praticamente l'equivalente dei tempi dell'attuale The Rock.
I botta e risposta in aula fecero eco ad una serie di strumentalizzazioni mediatiche pronte a sconvolgere il pubblico almeno quanto l'esito del processo.

N°13: BILLIONS

Billions Poster 

L'alta finanza non si può certo definire il mio habitat naturale.
Eppure, all'interno di quella che pare quasi una tragedia non ancora tragedia shakesperiana, Billions, mi sono sentito quasi a casa: la rivalità tra due uomini ai vertici dei loro rispettivi campi pronti a darsi battaglia con tutti i mezzi pur di mettere in ginocchio l'avversario è un saggio di tecnica, pulizia, recitazione, confezione.
Una sorta di Vinyl dal destino più favorevole inserito in una cornice da Wall Street.


N°12: BLACK MIRROR

 

Con la terza stagione ancora in corso di visione - e sono certo sarà protagonista di questa stessa classifica il prossimo anno - ed il bellissimo special White Christmas, Black Mirror, ereditata dall'ormai onnipresente Netflix, è senza dubbio una delle realtà più profonde ed interessanti del panorama televisivo attuale: se esiste un titolo di Sci-fi da recuperare quando si parla di televisione, è senza dubbio questo.


Orange Is the New Black Poster 

Nonostante si tratti di un prodotto di indubbio valore, Orange is the new black non è mai stata tra le mie serie preferite, e di norma, all'inizio di ogni nuova stagione, finisco sempre per dover carburare almeno quattro o cinque episodi prima di acclimatarmi come si deve: ma con la terza e, soprattutto, la quarta season questo serial ha assunto una nuova e più clamorosa dimensione, divenendo il riferimento per i drammi carcerari attualmente più importante sul piccolo come sul grande schermo.
L'escalation che ha portato al finale incredibile dell'annata numero quattro - ne parlerò con il nuovo anno - ha settato senza dubbio un nuovo, ed altissimo, standard.



To be continued...



domenica 29 maggio 2016

Money monster - L'altra faccia del denaro

Regia: Jodie Foster
Origine: USA
Anno:
2016
Durata:
95'






La trama (con parole mie): Lee Gates, spigliato e senza scrupoli presentatore di uno show televisivo dedicato alla finanza, di settimana in settimana intrattiene e suggerisce al suo pubblico il modo migliore per fare soldi.
Quando Kyle Budwell, che seguendo il consiglio di Gates ha investito i suoi risparmi in un potenziale affare perdendo tutto, in diretta televisiva prende in ostaggio programma ed anchorman giurando vendetta ad un sistema che l'ha privato di ogni cosa, le regole del gioco cambiano, e Gates si ritrova costretto a lottare per la propria sopravvivenza nella speranza che la producer Patty Fenn possa riuscire ad essere determinante come sempre dietro le quinte.
Ma quale verità si nasconde dietro Money monster ed il desiderio di vendetta di Budwell?










Per quanto non lo si voglia mai ammettere apertamente, o non regali la felicità, o la vita eterna, il denaro influenza gran parte della nostra società, costringendoci a fare i conti con i conti, le preoccupazioni, le aspettative, gli status symbol e la voglia di apparire: se non esistesse, o non ne fossimo in una certa misura dipendenti, potremmo essere liberi dai condizionamenti, dalle costrizioni del lavoro, da molte delle regole che, da secoli, sono alla base della civiltà, giuste o sbagliate che siano.
Jodie Foster, attrice dotatissima ma regista non particolarmente brillante, con il suo quarto lungometraggio realizza forse il suo lavoro più interessante, appoggiandosi proprio sull'analisi di questo nodo fondamentale facendo leva da un lato ai riferimenti alla crisi economica che ha attraversato il mondo negli ultimi anni e dall'altro sul ritmo e la leggerezza di un thriller d'azione, o una commedia nera, sfruttando un George Clooney cui pare sia stato chiesto espressamente di restare il più sopra le righe possibile in modo, con ogni probabilità, da rappresentare al meglio il lato predatorio di questo oceano che continuerà a portare il flusso di denaro lungo le stesse correnti mentre i pesci piccoli fanno la fame con gli scarti.
Il confronto tra il presentatore televisivo interpretato dal succitato Clooney ed il ragazzone arrabbiato Kyle Budwell, cui presta volto Jack O'Connell, promettente attore anglosassone già protagonista di prodotti ottimi come '71 e Starred Up, è di fatto quello che ognuno di noi - a meno che chi legge non sia dall'altra parte della barricata - vive sulla pelle ogni giorno, dalle notizie al telegiornale ai conti di fine mese, dagli standard imposti dalla società "social" - agghiaccianti le sequenze in strada con tanto di riprese fatte con gli smartphones ed i conseguenti video da milioni di visualizzazioni su Youtube - alle false speranze date non solo ai giovani, ma anche a tutti coloro i quali desiderano solamente fare tesoro dei propri risparmi e trasformarli in qualcosa che sia più di una promessa per il futuro.
In questo senso, le accuse di Kyle rivolte ai "veri criminali" pongono l'accento allo stesso modo di altri titoli - comunque più validi - come il recente La grande scommessa o in precedenza Margin Call, Wall Street o Americani sul conflitto sotterraneo che probabilmente sempre esisterà tra chi possiede ed amministra il denaro e chi lavora per ottenere una parte irrisoria dello stesso, finendo spesso fagocitato con i propri averi dalle creature dei burattinai di banche, società d'investimento e televisioni: una condizione, quella di Kyle, fuori dalla Legge e sbagliata ma paradossalmente comprensibile, con la quale si finisce per empatizzare nonostante l'innegabile carisma di Clooney e del suo Lee Gates, gigione e oltre misura.
Il film nel complesso, probabilmente, non resterà nella memoria a differenza di cult come quelli già citati, ma ha il pregio di scorrere rapido come un thriller, e di far riflettere lo spettatore da un nuovo punto di vista nonostante la problematica del rapporto tra società e denaro sia più vecchia del Cinema stesso.
E quando la polvere si è depositata, e l'unica domanda che resta è "Cosa dovremo inventarci lunedì prossimo?", l'inquietudine aumenta: quale prezzo la società e noi che ne costituiamo le fondamenta dovremo pagare affinchè il grande spettacolo possa proseguire?
E soprattutto, fino a quando saremo disposti a pagarlo?





MrFord





"Money, get away
get a good job with more pay and you're O.K.
money, it's a gas
grab that cash with both hands and make a stash
new car, caviar, four star daydream,
think I'll buy me a football team."
Pink Floyd - "Money" -







sabato 9 gennaio 2016

Ballers - Stagione 1

Produzione: HBO
Origine: USA
Anno:
2015
Episodi:
10






La trama (con parole mie): Spencer Strasmore è un ex stella dei Miami Dolphins, storico franchise NFL, leggenda del suo sport e rispettato praticamente da tutti nell'ambiente. Dopo il ritiro dai campi di gioco, che si fanno ancora sentire grazie ad incubi ricorrenti e crisi che paiono quelle da stress post-traumatico, l'atleta ha deciso di reinventarsi consulente finanziario, lavorando in una delle più prestigiose agenzie del settore della Florida accanto allo scombinato ma esperto Joe, nella speranza che la sua sola presenza possa portare il gruppo alle stelle più importanti del football.
Proprio dietro alle bravate ed alle vite spesso caotiche di questi colossali campioni Spencer passa la maggior parte delle sue giornate, investendo tempo e soldi, spazi ed emotività nel cercare di mantenere sulla via più retta e redditizia possibile campioni come Ricky Jerret e Vernon Littlefield.
Peccato che l'impresa sia molto più ardua di quanto non sembri.










Dwayne Johnson, alias The Rock, non è mai stato tra i miei wrestlers preferiti.
Un fenomeno al microfono, un personaggio unico ed un carisma pazzesco, un grande professionista, eppure forse troppo "in linea" per entrarmi davvero nel cuore - in fondo, tutti i miei numeri uno sono stati personaggi decisamente instabili e poco governabili, da Ultimate Warrior a Stone Cold, passando attraverso Shawn Michaels e CM Punk -.
Al di fuori, però, del quadrato, l'ho sempre considerato un vero spasso, ed al Cinema è uno degli eredi più credibili della generazione di action heroes che mi ha cresciuto, forse l'unico con Jason Statham ad avere lo spessore per raccogliere il testimone dei vari Stallone, Schwarzenegger e Willis.
Se qualcuno, però, mi avesse profetizzato un suo approdo di successo nel mondo del piccolo schermo come protagonista di una produzione HBO, sarei rimasto decisamente perplesso.
Prima stagione alle spalle ed una seconda confermata, invece, posso dire che effettivamente Ballers è stato un esperimento decisamente riuscito: la prestigiosa casa di produzione di Game of thrones, Six feet under, Oz e compagnia bella, infatti, appoggiandosi ai produttori esecutivi Peter Berg - che torna al mondo del football dopo la splendida Friday Night Lights -, Mark Wahlberg e, ovviamente, Dwayne Johnson stesso, confeziona un prodotto che riesce a mescolare come nel migliore dei cocktails che potreste sorseggiare a bordo piscina in un hotel in Florida - esperienza molto gratificante, posso garantirlo - minutaggi e tempi da comedy, sport ed eccessi senza cercare troppo di indagare sui massimi sistemi.
Le vicende di Spencer Strasmore, ex stella dell'NFL pronto, dopo il ritiro dal campo da gioco, a reinventarsi consulente finanziario, paiono un ibrido tra uno show sopra le righe di DMAX e Californication - il già mitico Joe, mentore di Spence all'interno dell'agenzia, è a tutti gli effetti il nuovo Charlie Runkle -, e i dieci episodi - letteralmente divorati in pochi giorni dal sottoscritto - scorrono in grande scioltezza mostrando gli alti e i bassi di giovani atleti multimilionari in grado di sperperare i propri soldi come se nulla fosse tra uscite, ristoranti, famiglie pronte ad attaccarsi come cozze allo scoglio, spogliarelliste, macchine sportive e chi più ne ha, più ne metta.
Ottima l'alchimia tra il protagonista - che, essendo interpretato da The Rock, non poteva certo esimersi dall'essere tutto d'un pezzo e quasi sempre corretto all'inverosimile, tanto dal giungere all'ultimo episodio con il desiderio di averlo non tanto come agente finanziario, quanto come amico - e la sua spalla - il suddetto Joe interpretato da Rob Corddry -, interessanti - per quanto lontane dalla nostrana cultura sportiva, ma perfettamente associabili a quelle dei calciatori nella vecchia Europa tanto pagati ed idolatrati - le figure dei giocatori - dal totalmente disequilibrato Ricky Jerret, forse il mio preferito per la capacità di combinare cazzate in serie, al ragazzone pronto ad essere manovrato e sfruttato Vernon Littlefield -, clamorosamente divertente ed al contempo quasi spaventosa realtà distorta all'interno della quale queste superstar si muovono, dalle regole dello spogliatoio alla pazienza delle loro compagne, costrette fondamentalmente a convivere con quasi scontate scappatelle dei loro uomini e le risonanze pubblicitarie delle stesse: insomma, un prodotto sulla carta "povero" pronto a rivelarsi una scommessa vincente almeno quanto il suo protagonista nel ruolo di consulente finanziario e problem solver, e senza dubbio uno dei prodotti da piccolo schermo che più mi sono goduto nell'appena trascorso duemilaquindici.
La speranza, a questo punto, è che con la seconda stagione si possa correre incontro a tutta velocità come nel più duro dei tackle ad un miglioramento che potrebbe portare Ballers ad essere uno dei guilty pleasures più attesi dal sottoscritto, e se il nostro Rocky continuerà a sfoderare sorrisi e bicipiti e gli autori che lo sostengono episodi come il bellissimo Head on, penultimo della stagione dedicato ad uno scontro di gioco che costò la carriera al giocatore che Spencer infortunò per l'occasione, allora posso dire di essere in una botte di ferro.
Del resto, con il buon Dwayne a guardarmi le spalle, non potrebbe essere altrimenti.




MrFord




"Let’s play ball
shoot it down the wall
let’s play ball, baby
battin’ down the stalls
play, play, play ball."
AC/DC - "Play ball" - 





sabato 19 dicembre 2015

Scarafaggi

Autore: Jo Nesbo
Origine: Norvegia
Anno:
1998 (2015)
Editore:
Einaudi







La trama (con parole mie): Harry Hole, scomodo detective della Omicidi di Oslo divenuto celebre a causa della risoluzione del caso di un serial killer in Australia l'anno precedente, è chiamato dagli alti papaveri ed assegnato ad una missione molto particolare. A Bangkok, infatti, è stato ritrovato senza vita, probabilmente assassinato, in un motel a ore Atle Molnes, ambasciatore norvegese in Tailandia: l'importanza di chiudere in fretta e con il minor clamore possibile il caso ha fatto ricadere la scelta su Hole, che si ritroverà proiettato sotto la cappa di umidità e calore di una delle città più brulicanti al mondo, per le strade della quale si mescolano miseria e ricchezza, crimine e sogni, cultura thai ed influenze di chiunque, per fuggire o ritrovare se stesso, abbia finito per mettere radici giungendo da ogni angolo del globo.
Preso contatto con le autorità locali, Hole scoprirà che la prima e più probabile pista è quella della pedofilia, argomento in grado di creare scompiglio a Bangkok come in Norvegia, ma il sospetto sarà solo l'inizio di una lunga serie di scoperte che condurranno il detective in una direzione inaspettata ed ovviamente ad un caos che i suoi capi non potrebbero neppure immaginare.










E così, a distanza di più di cinque anni, il cerchio si è chiuso.
Ammetto che mi fa davvero strano, pensare di avere finalmente letto tutti i romanzi fino ad ora pubblicati da Jo Nesbo dedicati al detective Harry Hole, senza dubbio uno dei personaggi letterari che più ho amato nella vita.
Fa anche strano che questo, così come il precedente Il pipistrello, siano giunti in casa Ford praticamente come fossero prequel, considerato che si tratta dei primi due titoli dedicati alla saga di Hole che, ai tempi - parliamo della fine degli anni novanta, quando ancora la febbre per il thriller scandinavo non era scoppiata - non furono pubblicati in Italia.
Senza dubbio, rispetto ai successivi titoli della serie - in particolare quelli da La ragazza senza volto, vero punto di svolta nella qualità del prodotto, in poi - lo stile da illusionista di Nesbo risulta ancora acerbo e spigoloso, per quanto la mente di questo sorprendente scrittore appaia ogni volta che lo leggo come una macchina praticamente perfetta, alimentando il dubbio che lo stesso in realtà scriva i suoi romanzi al contrario, avendo bene chiara la conclusione incastrando neanche fosse in Memento tutti i pezzi che portano alla stessa un pezzo alla volta fino al principio, e Scarafaggi non rappresenta certo il titolo più rappresentativo nella saga dell'investigatore alcolista, eppure ancora una volta mi sono goduto la prosa del vecchio Jo, il suo straordinario main charachter ed una vicenda fosca e complessa inserita nella cornice appiccicosa e magica di Bangkok come fosse un film non troppo impegnato ugualmente capace di sorprendere con un almeno un paio di sequenze di grande effetto.
A prescindere, comunque, dalla trama e dalla palestra che, di fatto, Nesbo fece con i primi romanzi dedicati a Harry Hole, una delle cose più interessanti insieme all'evocazione di immagini decisamente potenti - lo stesso Harry e la giovane Runa affacciati sul traffico di Bangkok con le mani tese per catturare l'energia della città che scorre, per citare quella che mi ha colpito maggiormente - restano, come sempre, i comprimari: dalla particolare Liz, poliziotta per metà thai e per metà americana, all'appena citata Runa, che pare uscita dritta dalle adolescenze turbolente degli anni novanta, passando per Jens Brekke, Woo e soprattutto Ivar Loken, la galleria di umanità più o meno oscure con le quali incrocia il suo cammino Hole colpisce dritta al bersaglio grosso.
In particolare l'ultimo citato, con il suo passato militare ed un'aura di mistero che pare essergli cucita addosso, una scorza da Clint Eastwood in Gunny ed un sorriso sornione da Pacino, è divenuto passo dopo passo uno dei personaggi che ricorderò maggiormente dell'intera saga di Hole, in grado di prendere progressivamente vita e spessore rubando spesso e volentieri la scena perfino al protagonista, che non perderà comunque occasione di mostrare tutto il suo valore - la ricostruzione dell'intero caso nella stanza del karaoke è da antologia, così come la scelta finale rispetto al responsabile degli omicidi -.
Un cerchio che si chiude, per l'appunto.
Un pò come il mio con Harry Hole.
Anche se già so che, tra qualche anno, non resisterò alla tentazione di rileggerli tutti, questa volta in ordine cronologico.
Anche se già so che mi piacerebbe vederli, un giorno, tra le mani del Fordino una volta cresciuto, magari curioso di scoprire cosa fece tanto impazzire il suo vecchio delle vicende di un poliziotto caotico, anarchico ed alcolista che pare essere un perdente nato eppure, nonostante le cicatrici, finisce per alzarsi e vincere sempre, alla fine.
E dunque, prima o poi, mi ritroverò faccia a faccia con Nesbo, Hole, e un bicchiere.
O magari due.





MrFord





"We're on the train to Bangkok
aboard the Thailand Express
we'll hit the stops along the way
we only stop for the best."
Rush - "A passage to Bangkok" -





martedì 28 gennaio 2014

The wolf of Wall Street

Regia: Martin Scorsese
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 180'




La trama (con parole mie): Jordan Belfort è un ambizioso broker figlio di due comunissimi contabili che sul finire degli anni ottanta desidera emergere e diventare schifosamente ricco. Quando il lunedì nero delle borse che sconvolse l'autunno del 1987 lo mette all'angolo, Belfort scopre un nuovo canale per arrivare in cima alla catena alimentare: sfruttando le azioni legate a società di profilo decisamente più basso di quelle che era abituato a trattare ma con una commissione pari al cinquanta per cento della vendita diviene in breve tempo un vero e proprio fenomeno della finanza statunitense, liberando ego, lussuria, dipendenza da alcool e droghe e soprattutto dall'adrenalina che da essere i numeri uno, i vincenti, i ricchi bastardi che possono permettersi quello che vogliono quando vogliono.
Peccato che, con il progressivo aumentare dei capitali, l'FBI cominci ad interessarsi alle sue operazioni non proprio pulite, e così come era sorto, l'impero di Belfort inizia inesorabilmente quanto velocemente a sgretolarsi.






Spesso e volentieri, nel corso di questi quasi quattro anni di vita del Saloon, ho fatto riferimento ad un'antica frase, "homo homini lupus", quando si è trattato di parlare di pellicole che mostrassero il lato predatorio e spietato dell'Uomo, che sarà pure animale sociale ma resta altrettanto inesorabilmente il più pericoloso bastardo che la Natura abbia scatenato su questa Terra.
Decisamente meno spesso - e di norma in riferimento a Classici o pietre miliari - ho pensato di assegnare ad un titolo uscito in sala il massimo della valutazione fordiana: non ci sono riusciti neppure i migliori, i vincitori dei Ford Awards di questi anni, le sbronze più importanti che a questo bancone si poteva sperare di prendere.
Il problema, con The wolf of Wall Street, è che non si parla di una sbronza, ma di uno stramaledetto baccanale da coma etilico senza ritorno: Martin Scorsese, appoggiandosi alle spalle di un Di Caprio superlativo - vi invito ad una visione in lingua originale, da urlo in tutto e per tutto - ed un cast assolutamente ed indiscutibilmente perfetto, centra un homerun con tutte le basi occupate, consegnando al pubblico il suo lavoro più grande, dirompente, semplicemente migliore dai tempi di Quei bravi ragazzi e Casinò.
Il vecchio Marty, ispirandosi alle vicende del predatore finanziario Jordan Belfort, sradica dalla sedia di prepotenza, sbattendo in faccia all'audience tutta quintalate di sesso, volgarità, eccessi, droghe e tutto quello che è possibile concepire nel momento in cui si è così schifosamente e clamorosamente ricchi da poter decidere il proprio bello e cattivo tempo sbattendosene felicemente del resto del mondo: in questo senso il Belfort di Di Caprio, una sorta di versione sotto cocaina dell'Abagnale Jr. di Prova a prendermi, riesce ad inorridire, conquistare, lasciare sconvolti e dunque di nuovo ammirati, tanto da arrivare quasi all'empatia con questo animale da giungla - perchè è di giungla che parliamo, quando si tratta della nostra società, dalle scimmie ai suoni gutturali - che dovrebbe essere al contrario quanto di più lontano esiste da noi poveri stronzi che, come l'agente Denham, la sera torniamo a casa dal lavoro in metropolitana, e non al volante di una Ferrari bianca con superfiga in dotazione pronta a succhiarcelo senza fare domande.
Dunque per quale motivo arriviamo addirittura ad emozionarci nel momento in cui Belfort dovrebbe pronunciare il suo discorso d'addio di fronte a tutti i broker pronti a lavorare ai suoi ordini, nella pancia della balena che lui stesso ha creato, la Moby Dick che ha imparato, semplicemente vendendo una penna, ad usare i suoi Achab invece che a combatterli?
E perchè sul finale l'impressione che si sente insieme ad un brivido sulla pelle è quella che il Lupo sia sprecato di fronte ad un gregge di pecore che di quella penna non sa neppure che farsene?
Perchè, signori miei, Jordan Belfort incarna i più bassi istinti che l'Uomo in quanto predatore nutre ed alimenta nel profondo dell'anima: i miei come i vostri, senza distinzioni.
E non credete alle pecore incapaci di vendere una penna o a chi dice che non guarda una donna che non sia la sua, o non fantastica di quanto sarebbe godurioso avere talmente tanti soldi da non sapere che farsene, perchè sono bugiardi anche più dello stesso Belfort.
E non voltate mai le spalle al lupo, perchè un predatore sarà sempre e comunque guidato dal suo appetito, che cresce progressivamente fino a diventare inesauribile quante più prede riesce a mettere sotto i denti.
Credete però ai movimenti di macchina strepitosi di Scorsese, al montaggio furioso di Thelma Shoonmaker, a Leonardo Di Caprio e a The wolf of Wall Street: che non è un film sulla finanza, sul crimine, sul sesso selvaggio o sugli eccessi, ma sull'anima nera dell'Uomo.
Di qualsiasi Uomo.
Da Belfort a Denham.
Fino all'ultimo di noi.
Homo homini lupus.
E se si ha abbastanza coraggio di guardare l'abisso negli occhi, tutti possono essere lupi.
Da Belfort a Denham, per l'appunto.
Senza dimenticare Di Caprio e Scorsese.
Ma The wolf of Wall Street non è neppure un film sui lupi. Non soltanto.
E a dire il vero, non è neppure un film.
E' un fottuto, grandioso, Capolavoro.
Il coma etilico e la scopata della vita.
E' come se la settima arte tutta si mettesse in ginocchio e ve lo succhiasse per tre ore filate senza neanche prendere fiato.
Ditemi voi cosa si può chiedere di più esaltante al Cinema.



MrFord



"Release the wolves
carnage has no rules
comparison, competition
we'll bury one and all."
Machine Head - "Wolves" - 




mercoledì 20 marzo 2013

Arbitrage - La frode

Regia: Nicholas Jarecki
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 107'
 



La trama (con parole mie): Robert Miller è un magnate di successo, un milionario potente alle prese con affari che smuovono capitali da fantascienza al comando di un vero e proprio impero, un padre di famiglia spesso in ritardo ma sempre pronto a tornare a casa nei momenti che contano.
Robert Miller, però, è anche un uomo che cerca di proiettare un'immagine da vincente in modo da avere sempre le spalle in qualche modo coperte, anche quando gli affari non vanno così bene e tocca liquidare il suddetto impero grazie a trucchi da illusionista e squalo che, se portati alla luce, lo condurrebbero dritto in galera.
Il rischio maggiore però viene dall'amante di Miller, l'artista francese Julie, che una notte durante una gita in macchina muore a causa di un incidente causato da un colpo di sonno dell'uomo che, una volta in fuga, muove ogni pedina gli sia possibile affinchè tutto possa essere risolto sott'acqua, senza che le increspature turbino gli affari.
Riuscirà il capitano d'industria a far quadrare conti e questioni legali? O il detective Bryer sarà in grado di mettergli i bastoni tra le ruote?





Film come Arbitrage tornano sempre utili, nel loro sapore Classico, un pò come un whisky di malto che si sorseggia seduti in poltrona, in tranquillità, lasciandolo scivolare fin nel profondo e ben sapendo che il suo calore difficilmente si trasformerà nel malessere del "day after": il lavoro di Nicholas Jarecki, infatti, ripercorre le orme dei legal thriller dal sapore vagamente eighties che nel corso della mia infanzia funzionavano alla grande nel weekend, quando in casa Ford si riusciva, di tanto in tanto, a raggrupare tutta la famiglia davanti a titoli che mettessero d'accordo due onnivori affamati di pellicole come me e mio fratello - allora senza whisky - e spettatori occasionali come i nostri genitori, che non sono mai stati grandi amanti della settima arte.
Come se non bastasse, considerate le aspettative pressochè assenti che nutrivo alla vigilia, devo ammettere che la riflessione sul Potere e la sua gestione è riuscita a mantenere vivo il mio interesse dal primo all'ultimo minuto con una discreta facilità evitando al contempo di perdere troppi colpi dal punto di vista della logica, sfruttando una più che buona prova di Richard Gere, che porta sullo schermo un personaggio che pare la versione "romantica" del Gordon Gekko di wallstreetiana memoria.
Certo, la vicenda di Robert Miller e la sua lotta per mantenere a galla un impero milionario proiettando sempre e comunque l'immagine del vincente infallibile non sarà una novità e neppure una visione che sconvolgerà il vostro panorama del Cinema nel corso di questo 2013, eppure il meccanismo gira senza intoppi, stimola curiosità nello spettatore e giunge alla sua conclusione sfoderando anche una chiusura quasi autoriale con una neppure troppo velata critica ad un sistema che privilegia e privilegerà sempre gli squali ed il Potere - sia esso dato dal denaro, dalla politica o dai rapporti che si creano in una coppia o in famiglia - a scapito di chi lotta e si dibatte affinchè un giusto ordine delle cose possa essere di nuovo costituito - emblematico il personaggio del detective Bryer interpretato da Tim Roth, cornuto e mazziato nonostante i tentativi di mettere alle strette Miller/Gere inchiodandolo alle sue evidenti bugie e manipolazioni -.
Restiamo comunque nell'ambito del patinatissimo prodotto hollywoodiano, ma occorre dare merito a Jarecki di aver trovato un invidiabile equilibrio nel proporre una vicenda che in mano ad altri avrebbe rischiato retorica, confusione e conseguenti copiose bottigliate come fosse un compromesso tra il gusto del grande pubblico, una strizzata d'occhio ad un genere che negli ultimi anni ha certamente perso il suo antico splendore e perfino diversi risvolti quasi "di nicchia", ovviamente ben celati probabilmente per non incorrere in tagli o modifiche da parte di una produzione che avrà voluto senza dubbio e con forza l'impostazione laccata che Arbitrage porta - volente o nolente - nel profondo di ogni suo fotogramma.
In periodi di calma cinematografica come quello del post-Oscar, prodotti di questo genere, onesti e senza troppe pretese, realizzati con professionalità nonostante la forte impronta mainstream e quasi televisiva - l'influenza delle serie tv di stampo crime è evidente - sono perfetti per accompagnarci in serate senza troppo impegno e, chissà, anche ricordare visioni che hanno fatto parte della nostra formazione di appassionati.


MrFord


"I need a dollar dollar, a dollar is what I need
hey hey
well I need a dollar dollar, a dollar is what I need
hey hey
and I said I need dollar dollar, a dollar is what I need
and if I share with you my story would you share your dollar with me."
Aloe Blacc - "I need a dollar" -


lunedì 9 gennaio 2012

Margin call

Regia: J. C. Chandor
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 107'


La trama (con parole mie): siamo nel ventre di una grande banca dedita agli investimenti in un tempo che è l'oggi, ma potrebbe anche essere ieri o domani.
Un veterano della compagnia è cordialmente invitato a farsi da parte, ma prima di fare in modo che tutto il suo lavoro scompaia, lascia in eredità a un giovane genio della finanza il lavoro sul quale da tempo stava spremendo le sue meningi: questo semplice gesto apparentemente di rivolta contro la grande azienda scopre in realtà il nervo di una crisi annunciata che i protagonisti della storia - nonchè i vertici della banca stessa - dovranno fingere di non arginare, arginandoli, prima che tutto il sistema crolli.
Una cosa già sentita? 
Certo, succede ogni giorno. E' un furto legale. E noi non ci accorgiamo quasi mai di nulla.
Tranne per il fatto di restare con le pezze al culo.




Margin call è un film ostico, e molto, molto tosto.
Sarei un vero ipocrita se non ammettessi di essermi perso più di una volta dietro ai complessi discorsi legati al mondo dell'alta finanza e alle crisi che, periodicamente, scuotono i mercati globali finendo per giocare sui destini di chi, come noi, vive ben lontano dai paradisi fiscali e dalle partite di uno sport pericolosissimo che ha sostituito, di fatto, molti dei traffici illeciti del vecchio secolo.
Eppure il senso c'è, ed è tutto lì.
E cosa ancor più importante, tende ad assumere una dimensione più seria e potente mano a mano che il tempo dalla visione passa, finendo per lasciare una cicatrice neanche fosse il più spinto ed inattaccabile dei documentari verità: Margin call è il ritratto di quello che gli yuppies anni ottanta vivevano come un modo per fare i soldi senza i rischi dell'essere gangsters e trafficanti di droga o l'esposizione di sportivi ed attori e cantanti ed ora è divenuto una sorta di oceano da camera all'interno del quale si muovono squali in grado di gestire come e più che mai i destini del mondo, conosciuto e non.
Un film a suo modo piccolo, eppure devastante ed enorme nelle implicazioni, di quelli che necessitano più visioni per essere compresi a fondo, e ad ognuna di esse rispondono con nuove riflessioni indotte nel pubblico: grazie ad un cast a dir poco perfetto ed in stato di grazia - anche rispetto ad attori ritenuti ormai universalmente sul viale del tramonto come "Polpetta" Bettany o attrici mai davvero considerate tali come Demi Moore -, una sceneggiatura ottima giocata sul tempo, il ritmo e la parola ed una regia che lascia al resto lo spazio che necessita per farsi strada sotto la pelle dello spettatore, Margin call diventa inesorabilmente il corrispettivo, più che di Wall street e decisamente in misura maggiore rispetto a Wall street - Il denaro non dorme mai di Americani per gli anni zero.
Se la pellicola di James Foley rappresentava tutti i lati oscuri del lascito degli eighties nella cultura della vendita anni novanta, Margin call ne eredita il pessimismo di fondo affidandosi ad una sorta di sinfonia da camera che ne ripropone i temi a tutti i livelli - da chi è licenziato a chi, al contrario, prospera sotto ombrelli di miliardi di dollari ai vertici della compagnia - lasciando ben poco spazio all'umanità, relegata ad un cane moribondo e alla speranza di un futuro - di coppia o riferito ai giovani che crescono nell'isolamento o nell'illusione di status symbol - che tanto roseo non è.
Anzi, tutt'altro.
Certo, le praterie della finanza e gli squali della borsa sono quanto di più lontano possa esistere dal saloon e da questo vecchio cowboy, eppure resta indiscutibile il valore di una produzione non così piccola da apparire autoriale quanto basta per essere apprezzata dai radical chic frequentatori di Festival e non abbastanza grande da fare breccia nel cuore del grande pubblico, ma clamorosamente intelligente e sorprendentemente coinvolgente sia a livello cinematografico - pare più un thriller da morti ammazzati che non una sorta di trattato semplificato sulle manovre aziendali nei mercati azionari ad alto livello - che emotivo - ogni personaggio, o quasi, ha qualcosa in grado di stuzzicare la curiosità e la partecipazione dell'audience -.
Non sarà facile approcciarlo - soprattutto nell'ambito specifico della materia trattata - eppure, con i dovuti sforzi richiesti da ogni cosa per cui vale la pena farsi un pò di culo, risulterà una visione in grado di sedimentare e tornare in superficie quando meno ve lo aspetterete, tra le più interessanti che il genere - e non solo - abbiano al momento da offrire.
E questo, in barba alla borsa e agli spot, non ha prezzo.

MrFord

"If I was a wizard of finance
speculating every day on Wall Street
my dividends would be so tremendous, baby
even Dow Jones would find it hard to believe."
Parliament - "Wizard of finance" -
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