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lunedì 22 febbraio 2016

Il caso Spotlight

Regia: Tom McCarthy
Origine: USA, Canada
Anno: 2015
Durata:
128'








La trama (con parole mie): siamo all'inizio degli Anni Zero quando la redazione investigativa di Spotlight, che fa capo al quotidiano Boston Globe, spinta dal nuovo redattore capo Marty Baron, si muove per scoprire la verità celata da un caso di molestie denunciate all'indirizzo di un prete locale.
Quando, indizio dopo indizio, i giornalisti di Spotlight si trovano a comporre un mosaico che pare decisamente più grande ed inquietante di quello che si erano immaginati in partenza, l'indagine assume una portata enorme, finendo per porre il Globe ed i suoi reporter nel mirino dell'ostruzionismo della Chiesa dell'Arcidiocesi di Boston: quello che infatti pare, è che gli ordini per i religiosi scoperti in comportamenti di questo tipo siano quelli di insabbiare le vicende, impedire le denunce e spostare gli stessi "uomini di dio" in un'altra parrocchia come se nulla fosse, e che le vittime - e di conseguenza i molestatori in abito talare - siano molti più di quanti non si sarebbero aspettati.
La redazione di Spotlight, a questo punto, ha in mano tutte le carte per realizzare un servizio destinato a fare la Storia.








Per quanto abbia sempre adorato scrivere, ed adori il giornalismo investigativo, non ho mai coltivato il sogno di tentare una strada come quella del reporter d'assalto: eppure, l'idea di lavorare con la testa e la penna soprattutto per mettere all'angolo chi pensa di averla fatta franca anche e soprattutto agli occhi della società è una delle cose più esaltanti che possa immaginare.
Se, poi, chi pensa di averla fatta franca è la Chiesa, e l'oggetto della discordia sono molestie operate dai religiosi su bambini e bambine, allora dalle mie parti si sfonda una porta aperta.
Personalmente, ho sempre trovato l'argomento pedofilia molto delicato, specialmente se legato a figure apparentemente autorevoli pronte a sfruttare la loro posizione ed il loro status - ed il senso di colpa radicato nella cultura cattolica - per approfittare di vittime troppo giovani per poter avere gli strumenti effettivi per affrontarli: onestamente, quando penso a determinate situazioni, finisco spesso a pensare che, forse, occorrerebbero misure decisamente più drastiche di una pena detentiva, per chi si macchia di reati simili.
Ma questa è un'opinione personale, ed un'altra storia.
Quella, al contrario, narrata da Il caso Spotlight, portato sullo schermo con il piglio dei grandi film d'inchiesta della New Hollywood anni settanta - su tutti il Capolavoro Tutti gli uomini del Presidente di Pakula, un vero gioiello - da Tom McCarthy, uno dei protetti del Saloon in materia di Cinema indie americano fin dal suo esordio con il piacevolissimo The station agent con un Peter Dinklage che ancora nessuno conosceva, passando poi per l'ottimo L'ospite inatteso e l'altrettanto efficace Win win - Mosse vincenti, è una vittoria civile e professionale contro il Sistema - per dirla come il redattore capo Marty Baron - di quelle indimenticabili, che portò alla ribalta il Boston Globe ed a galla una sequela di schifezze perpetrate nel nome della Chiesa per decenni.
Affidandosi ad un taglio che ricorda quasi più l'inchiesta documentaristica e ad un gruppo di attori affiatato, affidabile ed in gran forma - ottimi tutti, da Ruffalo a Tucci, passando per la McAdams e Slattery, con una menzione particolare per Keaton e soprattutto Liev Schreiber, lontano anni luce dall'apparenza che, di norma, è "costretto" anche fisicamente a dare ai suoi personaggi - McCarthy porta a casa un risultato convincente e solido, che forse non farà gridare molti al miracolo considerata la forse eccessiva uniformità - pare di stare a bordo di un treno comandato elettronicamente, di quelli che partono e arrivano in perfetto orario e non hanno sbavature di alcun tipo - ma che delinea alla grande quella che è una delle incarnazioni migliori del Cinema di denuncia americano, la stessa che non esagera con le stelle e strisce - concedendo soltanto un paio di sequenze alle suddette come il confronto tra Keaton e la sua fonte e la presa di coscienza dello stesso ex Birdman nella riunione di redazione nel finale - ma punta a sensibilizzare il pubblico senza ruffianerie e colpi bassi.
Certo, non è la Boston spietata di Mystic River, ma vedere questi uomini e donne assolutamente normali, armati solo della propria coscienza sociale e professionale - molto efficaci, in questo senso, il faccia a faccia tra Ruffalo e Keaton a proposito dei tempi di pubblicazione dell'inchiesta, e la crisi di D'Arcy James alla scoperta che la residenza di uno dei preti della loro lista risieda nel suo stesso quartiere - lottare tra documenti, ostacoli burocratici, intimidazioni più o meno celate, chiusura di chi è stato vittima delle violenze o chi quelle violenze ha colpevolmente nascosto è un esempio di Cinema civile come non ne passavano sul grande schermo da parecchio tempo, almeno per quanto riguarda la grande distribuzione.
Potrà dunque non essere uno scoop assoluto, un fulmine a ciel sereno, qualcosa di particolarmente geniale o innovativo: ma Il caso Spotlight è un film appartenente ad un genere che, forse, in una società pericolosa come la nostra, finisce per essere addirittura più importante.
Quello dei film necessari.






MrFord






"If the heavens ever did speak
she's the last true mouthpiece
every Sunday's getting more bleak
a fresh poison each week."
Hozier - "Take me to the Church" -












domenica 20 dicembre 2015

The missing - Stagione 1

Produzione: Starz
Origine: UK, USA, Belgio
Anno: 2014
Episodi: 8






La trama (con parole mie): nel corso dell'estate del duemilasei Tony ed Emily Hughes con il loro figlio di cinque anni Oliver trascorrono una felice vacanza in Francia, quando a seguito di un guasto alla macchina finiscono per fermarsi per qualche giorno in una piccola cittadina della provincia. 
Al termine di una giornata passata in piscina con il padre, però, il piccolo Oliver scompare: le indagini partono da subito, e coinvolgono anche un detective leggendario arrivato da Parigi, Julien Baptiste, ed un inviato dalla polizia inglese, Mark Walsh.
Otto anni dopo ancora il caso non è stato risolto, Emily si è rifatta una vita proprio con Walsh, Baptiste è in pensione a seguito di un incidente occorsogli proprio nel corso di quell'estate duemilasei e Tony non si è ancora rassegnato: la sua missione e l'unico scopo della sua vita è ormai la scoperta della verità sul destino di suo figlio.
Quando una foto ritrovata online finisce per diventare la prima traccia concreta che il padre del piccolo Oliver ha la possibilità di seguire, le indagini ripartono: quale sarà il segreto celato dietro la scomparsa del bambino?










Credo che diventare genitori, con tutte le responsabilità, l'impegno e la fatica che il ruolo comportano, sia indiscutibilmente una delle gioie più grandi che si possa provare nel corso della vita: dal momento in cui cominciai a desiderare, un giorno, di esserlo a quando Julez rimase incinta del Fordino, davanti ai miei occhi passarono le immagini di gioia di cult come Little Miss Sunshine e quelle di dolore di Barry Lyndon - che, ricordo, ai tempi della prima visione quasi mi costrinse a spegnere il videoregistratore sulla sequenza della morte del figlio del protagonista, tanto era intensa l'emozione che provavo, e non ero neppure lontanamente pronto o vicino ad essere padre -, e compresi che niente sarebbe stato più lo stesso.
Del resto, per quanta gioia possa rappresentare il fatto di avere dei figli, ogni giorno, dalle piccole alle grandi cose, essere genitori porta con se anche il peso del timore che possa loro succedere qualsiasi cosa brutta, che possano stare male o soffrire: il principio dietro questo tipo di terribili eventi era stato ben esplorato dall'ottima Broadchurch, e torna a colpire dritto al cuore grazie ad una proposta giunta in sordina sugli schermi di casa Ford divenuta una delle sorprese più interessanti dell'autunno, e forse dell'anno, The Missing.
Narrata sfruttando una serie di sovrapposizioni temporali a cavallo tra duemilasei, duemilanove e duemilaquattordici a partire dalla scomparsa del piccolo Oliver Hughes sfruttando una struttura che ricorda la prima, mitica stagione di True Detective, la succitata The Missing esplora i lati più oscuri dell'animo umano sia dal loro punto di vista "positivo" - la lotta e le speranze dei genitori del piccolo, l'investigatore Baptiste, la determinazione di poter raggiungere la verità e la voglia, in un modo o nell'altro, di ricominciare - che negativo - la pedofilia, i tradimenti, la giungla selvaggia che, anche quando si cela tra le pieghe delle comunità apparentemente placide e tranquille o della criminalità di città, finisce per fare inevitabilmente parte del mondo con il quale ci confrontiamo e con il quale si confronteranno anche i nostri figli.
La scrittura a più livelli - punto forte, insieme al realismo estremo, del titolo - permette, inoltre, agli autori, di analizzare le vicende legate al piccolo Oliver - e non solo - da più angolazioni e punti di vista, finendo per portare sullo schermo anche storie personali che sfiorano soltanto la direttrice dell'opera, così come permettersi di mischiare le carte come nei più riusciti tra i crime contemporanei: e da figure come quella di Ian Garrett, pronta a dominare la prima parte della stagione, a quelle dei protagonisti più o meno volontari della verità che circonda la tragica serata in cui scomparve Oliver il mosaico portato alla luce nell'episodio conclusivo raggiunge vette di drammaticità e disperazione sorprendenti, condite da un finale da brividi, che quasi ribalta il punto di vista espresso inizialmente dalla serie.
Le stesse reazioni a fronte dell'avvenimento destinato a cambiare il corso delle loro vite dei genitori di Oliver risultano credibili, umane, complesse e stratificate: dal desiderio di tentare di superare un dolore troppo grande della madre all'ossessione del padre assistiamo ad un confronto sempre in bilico tra il desiderio di ricostruire e quello di distruggere, sacrificando tutto il possibile - e anche di più - per poter ritrovare quello che ogni genitore prega ogni giorno di non perdere.
The Missing, di fatto, non rappresenta solo una delle migliori proposte che il genere abbia offerto nel passato recente, una sorella della già citata Broadchurch o di The Killing, ma anche uno specchio attraverso il quale chiunque sia genitore, o figlio, prima o poi finisce per comprendere se stesso, il mondo e tutto quello che lo stesso ha da offrire.
"Il mondo è un bel posto, e vale la pena lottare per esso", afferma citando Hemingway il Somerset di Se7en, asserendo di essere d'accordo con la seconda parte, come mi è già capitato di recente di sottolineare in occasione del post dedicato a La isla minima.
Hemingway si suicidò, Somerset, nella sua "realtà" di fiction, decise di lottare.
Io resto convinto che, per quanto brutto possa essere, il mondo mi permette ogni giorno di lottare per i miei figli.
E questo mi basta.





MrFord





"It's years since you've been there
now you've disappeared somewhere
like outer space
you've found some better place
and I miss you
like the deserts miss the rain."
Everything but the girl - "Missing" - 





sabato 19 dicembre 2015

Scarafaggi

Autore: Jo Nesbo
Origine: Norvegia
Anno:
1998 (2015)
Editore:
Einaudi







La trama (con parole mie): Harry Hole, scomodo detective della Omicidi di Oslo divenuto celebre a causa della risoluzione del caso di un serial killer in Australia l'anno precedente, è chiamato dagli alti papaveri ed assegnato ad una missione molto particolare. A Bangkok, infatti, è stato ritrovato senza vita, probabilmente assassinato, in un motel a ore Atle Molnes, ambasciatore norvegese in Tailandia: l'importanza di chiudere in fretta e con il minor clamore possibile il caso ha fatto ricadere la scelta su Hole, che si ritroverà proiettato sotto la cappa di umidità e calore di una delle città più brulicanti al mondo, per le strade della quale si mescolano miseria e ricchezza, crimine e sogni, cultura thai ed influenze di chiunque, per fuggire o ritrovare se stesso, abbia finito per mettere radici giungendo da ogni angolo del globo.
Preso contatto con le autorità locali, Hole scoprirà che la prima e più probabile pista è quella della pedofilia, argomento in grado di creare scompiglio a Bangkok come in Norvegia, ma il sospetto sarà solo l'inizio di una lunga serie di scoperte che condurranno il detective in una direzione inaspettata ed ovviamente ad un caos che i suoi capi non potrebbero neppure immaginare.










E così, a distanza di più di cinque anni, il cerchio si è chiuso.
Ammetto che mi fa davvero strano, pensare di avere finalmente letto tutti i romanzi fino ad ora pubblicati da Jo Nesbo dedicati al detective Harry Hole, senza dubbio uno dei personaggi letterari che più ho amato nella vita.
Fa anche strano che questo, così come il precedente Il pipistrello, siano giunti in casa Ford praticamente come fossero prequel, considerato che si tratta dei primi due titoli dedicati alla saga di Hole che, ai tempi - parliamo della fine degli anni novanta, quando ancora la febbre per il thriller scandinavo non era scoppiata - non furono pubblicati in Italia.
Senza dubbio, rispetto ai successivi titoli della serie - in particolare quelli da La ragazza senza volto, vero punto di svolta nella qualità del prodotto, in poi - lo stile da illusionista di Nesbo risulta ancora acerbo e spigoloso, per quanto la mente di questo sorprendente scrittore appaia ogni volta che lo leggo come una macchina praticamente perfetta, alimentando il dubbio che lo stesso in realtà scriva i suoi romanzi al contrario, avendo bene chiara la conclusione incastrando neanche fosse in Memento tutti i pezzi che portano alla stessa un pezzo alla volta fino al principio, e Scarafaggi non rappresenta certo il titolo più rappresentativo nella saga dell'investigatore alcolista, eppure ancora una volta mi sono goduto la prosa del vecchio Jo, il suo straordinario main charachter ed una vicenda fosca e complessa inserita nella cornice appiccicosa e magica di Bangkok come fosse un film non troppo impegnato ugualmente capace di sorprendere con un almeno un paio di sequenze di grande effetto.
A prescindere, comunque, dalla trama e dalla palestra che, di fatto, Nesbo fece con i primi romanzi dedicati a Harry Hole, una delle cose più interessanti insieme all'evocazione di immagini decisamente potenti - lo stesso Harry e la giovane Runa affacciati sul traffico di Bangkok con le mani tese per catturare l'energia della città che scorre, per citare quella che mi ha colpito maggiormente - restano, come sempre, i comprimari: dalla particolare Liz, poliziotta per metà thai e per metà americana, all'appena citata Runa, che pare uscita dritta dalle adolescenze turbolente degli anni novanta, passando per Jens Brekke, Woo e soprattutto Ivar Loken, la galleria di umanità più o meno oscure con le quali incrocia il suo cammino Hole colpisce dritta al bersaglio grosso.
In particolare l'ultimo citato, con il suo passato militare ed un'aura di mistero che pare essergli cucita addosso, una scorza da Clint Eastwood in Gunny ed un sorriso sornione da Pacino, è divenuto passo dopo passo uno dei personaggi che ricorderò maggiormente dell'intera saga di Hole, in grado di prendere progressivamente vita e spessore rubando spesso e volentieri la scena perfino al protagonista, che non perderà comunque occasione di mostrare tutto il suo valore - la ricostruzione dell'intero caso nella stanza del karaoke è da antologia, così come la scelta finale rispetto al responsabile degli omicidi -.
Un cerchio che si chiude, per l'appunto.
Un pò come il mio con Harry Hole.
Anche se già so che, tra qualche anno, non resisterò alla tentazione di rileggerli tutti, questa volta in ordine cronologico.
Anche se già so che mi piacerebbe vederli, un giorno, tra le mani del Fordino una volta cresciuto, magari curioso di scoprire cosa fece tanto impazzire il suo vecchio delle vicende di un poliziotto caotico, anarchico ed alcolista che pare essere un perdente nato eppure, nonostante le cicatrici, finisce per alzarsi e vincere sempre, alla fine.
E dunque, prima o poi, mi ritroverò faccia a faccia con Nesbo, Hole, e un bicchiere.
O magari due.





MrFord





"We're on the train to Bangkok
aboard the Thailand Express
we'll hit the stops along the way
we only stop for the best."
Rush - "A passage to Bangkok" -





sabato 28 marzo 2015

Missing New York

Autore: Don Winslow
Origine: USA
Anno: 2014
Editore: Einaudi




La trama (con parole mie): Frank Decker è un detective della polizia di Lincoln, in Nebraska, ha trentacinque anni, una carriera promettente ad attenderlo - si dice sia il candidato più probabile per la successione nel ruolo di Capo della Polizia locale - ed un matrimonio che, se non fosse per i figli che non arrivano, prosegue senza alcun problema apparente.
E' un uomo tutto d'un pezzo, vecchia scuola, reduce dell'Iraq, legato all'istinto ma anche ad una solida etica morale.
Quando la piccola Hayley Hansen scompare, la sua vita cambia: la promessa fatta alla madre della bambina di ritrovarla a tutti i costi, infatti, diviene la miccia pronta a far esplodere la sua intera impalcatura sociale: mollato il lavoro e lasciato naufragare il matrimonio, con i risparmi del padre da sempre messi da parte per una casetta da pesca sul lago Deck comincia un viaggio per le strade degli USA che lo porterà, in oltre un anno di ricerche, sulle tracce di chi, forse, sa dove la piccola può essere finita.
Sempre che sia ancora viva.








A prescindere dal fatto che ora sia padre, ci sono argomenti che mi sono sempre stati a cuore: uno di questi, e forse uno di quelli cui sono maggiormente sensibile, è la violenza o l'abuso rispetto ai minori.
Parallelamente, e considerando materie decisamente più leggere, trovo che il fascino del "lone rider" legato alla strada, agli errori e disequilibri tanto quanto agli slanci irrefrenabili e passionali sia uno dei più irresistibili presenti nella realtà così come nella finzione.
Don Winslow, uno degli autori che ho più amato nel corso degli ultimi dieci anni, con questa sua ultima fatica è riuscito alla perfezione ad unire i due elementi appena citati: una storia crime dal ritmo serrato del thriller d'alta scuola unita ad un main charachter destinato a rimanere nel cuore del lettore per lungo tempo, umano e vivo come piacciono da impazzire da queste parti.
Perchè Frank Decker, o Deck, come perfino sua moglie Laura ama chiamarlo, è un tipo old school, tutto d'un pezzo, abituato a battersi ma non per questo incline a farlo, deciso quanto delicato, generoso quanto profondamente egoista: del resto, salvare qualcuno - specialmente quando il qualcuno in questione è l'emblema dell'innocenza e della meraviglia -, è un pò come salvare se stessi.
Era dai tempi dell'Harry Hole di Nesbo o degli Hap e Leonard di Lansdale - e non sto certo parlando di piccoli calibri - che non mi capitava di imbattermi in un protagonista con il quale empatizzare così tanto: la scommessa di Deck nel mettersi alla ricerca della piccola Hailey Hansen, il suo viaggio attraverso un'America lontana e distaccata quanto partecipe e viva sulle note del più che proletario Springsteen trasformano Missing in un romanzo on the road tra i più appassionanti che il genere possa offrire, lontano senza dubbio dai fasti de Il potere del cane ma non per questo non in grado di tracciare solchi profondi nel cuore di chi lo affronta.
Ma non voglio trasformare il post di questo lavoro che ho sentito profondamente nelle budella in una recensione nuda e cruda: voglio sia chiaro il brivido provato nel seguire pagina dopo pagina le imprese di un uomo comune, che potrebbe essere un amico, il vicino, un fratello, o un genitore - non se la prenda male il vecchio Deck - deciso a rendere il luogo in cui viviamo un posto migliore, fosse anche solo per l'innocenza probabilmente perduta ma ugualmente e profondamente cercata di Hailey.
Tutti noi sappiamo bene che seguire il valzer dei giorni ponendosi domande ed affrontandole non è il più facile dei modi in cui vivere, tanto quanto sia più semplice scoprire come essere indifferenti - o lasciarsi catturare dal fascino di un ruolo "limitato" - che non tentare a tutti i costi di cambiare le regole, sovvertire il Destino, portare chi non l'avrebbe mai sospettato davanti ad un banco dei testimoni, a prescindere dalla posizione sociale, il conto in banca, il numero di favori che in questi casi si finisce per essere pronti a chiedere, pur se a malincuore.
C'è chi va a caccia di nuovi "talenti", senza alcun obbligo fisico o remora morale, e chi, al contrario, lotta per mantenere una parvenza di normalità ed equilibrio al cospetto degli individui di tale risma, quasi potesse sospendere il giudizio nonostante si augurerebbe per loro le più atroci sofferenze.
Probabilmente non sarò mai stupido, coriaceo o anche soltanto pronto quanto il personaggio creato da Winslow, in grado di risvegliarsi dal torpore modaiolo di Le Belve e I re del mondo finendo per confezionare la sua opera più matura dai tempi di Satori: la vicenda di Deck è quella di molti spiriti indomiti, coraggiosi o semplicemente cacciatori di gloria in attesa dell'occasione di una vita, quella fornita dallo sguardo di una madre che sarà eternamente riconoscente al salvatore della sua piccola, il suo amore, il suo sangue.
Ma comprendo il significato di ogni gesto, il senso di una ricerca anche senza speranza.
Quello della possibilità che Hailey ci sia, comunque vada.
Qualunque cosa resti.
E a conti fatti, è sempre sicuro che resti Frank Decker.
Perchè senza Deck, questo romanzo sarebbe solo un buon thriller.
E i sogni on the road non avrebbero la stessa forza.




 MrFord




"Licence, registration, I ain't got none,
but I got a clear conscience
'Bout the things that I done
Mister state trooper please don't stop me..."
Bruce Springsteen - "State Trooper" -












lunedì 24 marzo 2014

True detective

Produzione: HBO
Origine: USA
Anno:
2014
Episodi: 8




La trama (con parole mie): Marty Hart e Rust Cohle sono due detectives dalle vite e dai metodi diametralmente opposti, messi in coppia ed al lavoro su un terrificante caso di omicidio avvenuto in Louisiana nel 1995. Il primo, padre di due figlie pronto a concedersi ad alcool e scappatelle, è un uomo sempre in cerca di contatto e conferme, il secondo un lupo solitario metodico e maniacale proprio come un serial killer, che ha un passato di violenze legate al padre, al suo incarico di infiltrato per la narcotici e alla morte della moglie e della figlia. Quando il caso cui lavorano li porta ad una pista che apparentemente coinvolge un alto prelato della zona la vicenda si complica, comportando strascichi nelle vite private dei due investigatori ed una coda che li condurrà, diciassette anni dopo quell'incarico, ad essere interrogati da due colleghi più giovani e a tornare in pista per mettere le mani su un colpevole scampato alla cattura ai tempi.





Il lato oscuro dell'Uomo è da sempre una delle tematiche rispetto alle quali il sottoscritto mostra più sensibilità, che si parli di romanzi, film o serie tv: ai tempi in cui fu annunciata True detective, proposta di lusso - a partire dal cast - targata HBO - già di suo una sorta di garanzia di qualità - l'impressione che mi sarei trovato di fronte ad uno dei cult del piccolo schermo di questo duemilaquattordici ha finito per alzare l'hype di parecchio, tanto da rimandare la visione del primo episodio quasi avessi timore di un flop in pieno stile The following.
Fortunatamente, siano ringraziati Nic Pizzolatto, McConaughey - fresco di Oscar e sempre più bravo, in grado di regalare uno dei charachers più importanti della Storia recente della televisione, Rust Cohle - e Harrelson, True detective ha finito per rivelarsi una delle cose migliori che il Saloon abbia approcciato negli ultimi mesi, in grado di mescolare ad un'ambientazione southern di quelle tanto gradite al sottoscritto elementi che corrono da Mystic river a Se7en, senza dimenticare chicche come Memories of murder o Twin Peaks - i riferimenti all'uomo con le cicatrici sono stati talmente agghiaccianti da ricordarmi i tempi in cui Bob riusciva a scatenare puro terrore nell'allora piccolo Ford -.
Ma scrivere in modo assolutamente freddo delle interpretazioni di qualità decisamente cinematografica dei protagonisti, della sceneggiatura curata sotto ogni aspetto, della regia pulitissima ed autoriale di Fukunaga, della resa del prodotto finale mi pare decisamente limitante per qualcosa di notevole come True detective: poche volte, che si tratti di tv o settima arte, infatti, si è deciso di esplorare con lo stesso coraggio il lato oscuro dell'anima umana, capace di portare noi che ci conviviamo nei recessi più profondi che la Natura abbia mai disegnato per le sue creature con la stessa facilità con la quale si affronta la quotidianità all'apparenza più banale, e che inevitabilmente finisce per salvarci proprio grazie alla sua semplicità da tutto quello che rappresenta la disperata voracità del lato oltre il confine.
Rust e Marty, così diversi eppure entrambi inesorabilmente attratti dal conflitto tra stelle e buio profondo, divengono episodio dopo episodio alfieri (im)perfetti della lotta che l'Uomo intraprende contro se stesso prima ancora che contro gli esponenti più terrificanti della sua specie: i due investigatori sono antieroi sempre al limite, peccatori passionali e profondi, esploratori di un mondo selvaggio e senza perdono, dalle paludi del bayou ai salotti di un'elite religiosa e politica quasi più mostruosa della selvaggia nemesi che chiuderà questo capitolo delle vite dei protagonisti - ed una prima stagione che spero vivamente possa essere seguita da una seconda altrettanto sorprendente -, uno psicopatico imponente ed ipnotico che è riuscito a ricordarmi addirittura due casi illustri, il Giudice Holden di Meridiano di sangue ed il Colonnello Kurtz di Apocalypse now.
Ed opposti all'orrore - e tutti noi ben sappiamo che la violenza sui bambini è il peggiore che si possa immaginare - questi due uomini segnati dalla vita, dall'aura di dannazione simile a quella dell'Hole di Nesbo: Marty, con i doveri di padre ed i peccati dell'uomo, il gregario pronto a diventare protagonista, e Rust, dal piglio da Uomo e lo sguardo tagliente, la follia da visioni e l'impermeabilità apparente al mondo.
Due di quelli che paiono non farcela e ai quali affideresti comunque la vita.
Due che ci sono. Nel senso fisico e non solo.
Perchè nonostante tutto quel buio attorno, non è detto che non siano le stelle, quelle che stanno vincendo la partita.



MrFord



"Well, you're my friend, and can you see?
Many times, we've been out drinking;
many times we shared our thoughts.
But did you ever, ever notice, the kind of thoughts I got?
Well, you know I have a love; a love for everyone I know.
And you know I have a drive, to live I won't let go.
But can you see its opposition, comes rising up sometimes?
That its dreadful imposition, comes blacking in my mind?"
Johnny Cash - "I see a darkness" - 



mercoledì 8 maggio 2013

Il sospetto

Regia: Thomas Vinterberg
Origine: Danimarca
Anno: 2012
Durata:
115'




La trama (con parole mie): Lucas ha quarantadue anni, è divorziato e lavora in un asilo, combattendo ogni giorno una battaglia a distanza con la ex moglie per la custodia di suo figlio Marcus. I bambini lo adorano, e lui è un membro assolutamente rispettato della piccola comunità in cui vive, fatta di persone che si conoscono da talmente tanto tempo da averci perso la memoria.
Un giorno, la piccola Klara, figlia del suo migliore amico Theo che vede in Lucas tutta la pace che non vive in casa propria, si avvicina così tanto all'uomo da costringere lo stesso a mettere una distanza tra loro: la bambina, sentitasi respinta, racconta una bugia che sconvolgerà la vita dell'amico suo e di famiglia.
Accusato dalla comunità di essere un pedofilo, Lucas verrà licenziato ed indagato dalla polizia, finendo per diventare il bersaglio di soprusi, violenze, accuse ed un moltiplicarsi di voci sul suo conto tanto pressanti da condizionare anche chi gli è più vicino.




Da mesi leggevo in lungo e in largo di questo film, che fosse dalle parti di Dae o del Cannibale.
Prima di poterne parlare come se fosse una recensione di tutti i giorni, però, lascerò che una digressione di vita vissuta si faccia carico di alcuni dei temi trattati dal lavoro di Vinterberg: non troppi giorni fa parlavo con un collega a proposito della mia recente condizione di paternità, che insieme ad una serie di sentimenti positivi e fortissimi - mi basta guardare il Fordino appena torno a casa perchè tutto possa cambiare, a prescindere da quello che accade all'esterno - ha portato nella vita del sottoscritto una sorta di aumento dell'aggressività atta a proteggere quello che consideriamo il nostro territorio, il nostro mondo, la nostra Famiglia.
Raccontando dell'episodio che citai ai tempi in cui parlai di Polisse, ricordo di aver affermato in tutta onestà che se dovesse capitare una cosa del genere a mio figlio, se anche dovessi nutrire soltanto il dubbio che un suo insegnante, un estraneo, un amico, un tizio qualsiasi potesse avere una qualsiasi mira nei suoi confronti, probabilmente andrei a cercarlo in modo da ricordare fisicamente che quello non è il genere di intendimento gradito dal sottoscritto.
Altrettanto onestamente, da ex obiettore e da democratico, ammetto che non mi scandalizzerebbe l'idea della pena di morte per i pedofili.
I bambini sono il nostro futuro, e spesso sono il ritratto di un'innocenza totalmente disarmata di fronte ad un mondo di adulti e di cose abiette come le violenze su di loro.
Il sospetto, uno dei titoli più potenti che abbia avuto occasione di veder passare dal Saloon negli ultimi mesi, è in questo senso una sfida: il pubblico, fin dal principio, sa bene, infatti, che il protagonista Lucas è innocente, e che il dramma della sua accusa e delle violenze ad essa conseguite sono legate alla bugia di una bambina che ha l'unica colpa di sentirsi rifiutata, a partire dalla sua stessa casa. Una bambina che continua ad essere innocente quanto il suo "persecutore" anche quando appare chiaro lo spirito per il quale la sua menzogna nasce e si sviluppa.
A ben guardare, e minuto dopo minuto, appare evidente che questo saggio di bravura del regista di Festen - felicemente bottigliato dal sottoscritto - e del suo protagonista - uno straordinario Mads Mikkelsen, premiato con la Palma d'oro per la migliore interpretazione maschile all'ultimo Festival di Cannes - non tocchi, in realtà, il tema della pedofilia quanto Million dollar baby non toccava di quello dell'eutanasia: l'associazione più vicina, infatti, è quella di lavori come Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti o The Village di Shyamalan, legati a doppio filo al potere della comunità e delle dicerie, dei sussurri e di una società pronta a stare zitta in coro in una chiesa la notte di natale - perchè, si sa, davanti a Dio è bene non alzare la voce - ed al contempo sempre al posto e al momento giusto quando si tratta di lasciare che il giustizialismo, la frustrazione, la violenza repressa ed il desiderio di dispensare una giustizia sommaria facciano il loro corso.
Certamente l'essere consci del fatto che Lucas sia innocente facilita in qualche modo - e non di poco - noi spettatori, eppure i meccanismi messi in moto dal crescendo di quest'opera assolutamente toccante sono ben più complessi di quanto si possa pensare, e più che nella vittima cui presta volto e cuore il fordiano Mikkelsen si finisce per immedesimarsi in Theo, padre della piccola Klara nonchè migliore amico di Lucas, o Marcus, figlio del "mostro" costretto a difendere il padre anche di fronte all'ignoranza e ad una violenza fin troppo simile a quella per cui il suo genitore finisce per scontare una pena insormontabile per qualsiasi uomo.
Perchè il peso della diceria, degli sguardi, del sospetto - per l'appunto - è qualcosa che va ben oltre ogni standard umano, e mette a nudo di fronte ad una società incapace di ascoltare e cercare ragioni che trascendano la pura e semplice manifestazione di vendetta - esemplare, in questo senso, il dignitoso e terribile ritorno al supermercato di Lucas dopo il pestaggio - anche quando mossa da legittimi dubbi e situazioni - come già detto, credo che io stesso reagirei scompostamente se mi trovassi con il Fordino al posto dei genitori dei bambini dell'asilo -.
A dare forza, inoltre, ad un'evoluzione clamorosa, un finale da brividi da ben due punti di vista: da un lato la stessa e già tanto criticata società, che dopo aver sdoganato - e a carissimo prezzo, si vedano la sequenza della chiesa già citata ed il confronto tra Theo e Lucas nella notte di natale - il presunto colpevole si dichiara pronta a salvare le apparenze ed accettarlo di nuovo come membro rispettabile di un distorto cerchio della fiducia - lampante l'esempio fornito dalla fidanzata di Lucas -, dall'altro la battuta di caccia, con quel colpo ad un soffio dal bersaglio grosso ed una sagoma stagliata contro il sole che potrebbe avere mille volti, compresi i più terribili per Lucas stesso: quello di se stesso, o di Marcus.
Perchè Lucas non conoscerà mai la pace.
Perchè un genitore non accetterà mai davvero l'idea che qualcuno possa aver approfittato di suo figlio in quel modo.
Perchè il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre, perché egli è in verità il pastore di suo fratello ed il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te.
Forse Lucas è l'uomo timorato, la comunità la tirannia degli uomini malvagi, e la violenza il pastore.
O forse è Klara a dover aver paura, perchè gli uomini malvagi potranno sempre approfittare di lei, e non ci saranno bugie o genitori o presunti tali a proteggerla come pastori.
Il sospetto, però, è che in questo mondo malvagio non esistano pastori, e si finisca a vivere da uomini timorati in attesa che giunga un'ombra stagliata nel sole, senza volto, a lasciare che la nostra fine appaia soltanto un incidente di percorso nella grande caccia della vita.


MrFord


"Si sa che la gente dà buoni consigli
sentendosi come Gesù nel tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio."
Fabrizio De Andrè - "Bocca di rosa" -



domenica 21 ottobre 2012

Una storia americana - Capturing the Friedmans

Regia: Andrew Jarecki
Origine: USA
Anno: 2003
Durata: 107'



La trama (con parole mie): sul finire degli anni ottanta, la comunità benestante della cittadina di Great Neck, Long Island, viene turbata da un arresto effettuato dall'Unità crimini sessuali della polizia. Arthur Friedman, professore in pensione pluripremiato, ex musicista ed insegnante privato di pianoforte ed informatica, è accusato non soltanto di essere un collezionista di materiale pedopornografico, ma anche di aver abusato degli studenti delle sue lezioni private nell'improvvisata aula dotata di computer nel seminterrato di casa con l'aiuto del figlio minore Jessie, allora diciottenne.
Il processo ha inizio, e la famiglia Friedman si spacca: da un lato la madre, Elaine, che passo dopo passo si allontana da quello che è stato suo marito per più di trent'anni, e che finisce per reputare un mostro; dall'altro, i tre figli David, Seth e Jessie, schierati dalla parte del padre ma ugualmente esempio di una condotta sicuramente disfunzionale.




Da tempo speravo di portare al Saloon Capturing the Friedmans - Una storia americana, decisamente da prima che il suo regista Andrew Jarecki esordisse nell'ambito della fiction con All the good things: il tutto perchè ritengo che questo documentario sia una delle opere più clamorose degli ultimi vent'anni almeno nel suo genere, in grado di contendere a Grizzly man e L'incubo di Darwin la prima posizione nella mia classifica personale riferita all'ambito in questione.
L'occasione di mostrarlo per la prima volta a Julez rinfrescandomi la memoria ha dunque permesso il recupero del viaggio agghiacciante che il regista porta agli occhi ed ai cuori dell'audience affrontando uno dei temi più scomodi e pesanti si possano immaginare: la pedofilia.
Ma andiamo con ordine: la famiglia Friedman, sul finire degli anni ottanta, è la più classica che si potrebbe pensare nel contesto medio/alto della borghesia di provincia americana.
Arthur, il padre, dopo una gioventù passata come musicista, sposa Elaine e le da tre figli - David, Seth e Jessie -, diviene un insegnante rispettato e premiato, un importante membro della sua comunità - Great Neck, Long Island, un piccolo paradiso fatto di prati ben curati e gente senza alcun problema di soldi -, insegna privatamente pianoforte ed informatica anche dopo il suo pensionamento, i figli lo adorano, e tutto pare scorrere liscio come l'olio.
Questo fino a quando, grazie ad una segnalazione della polizia postale, il suo nome viene iscritto alle liste degli interessati a materiale pedopornografico a seguito della richiesta di spedizione di una particolare rivista dall'Olanda: l'unità che si occupa di crimini sessuali decide dunque di accertarsi se sia stato un caso isolato, quello del signor Friedman, e con un'operazione "di copertura" propone scambi di materiale allo stesso.
Friedman accetta. L'indagine ha inizio.
Quello che scoprono gli agenti, però, è ben più di quanto si potrebbero aspettare da un semplice "collezionista": controllando la lista di studenti dei suoi corsi privati e contattandoli singolarmente, infatti, cominciano a venire alla luce fatti letteralmente agghiaccianti.
Il professore, spalleggiato dal figlio minore Jessie, avrebbe in più occasioni abusato sessualmente dei membri delle classi di studio.
A questo punto Jarecki, con un equilibrio invidiabile, pone gli accenti della sua narrazione principalmente su tre binari: l'accusa della polizia, che reputa perfettamente fondate le denunce dei bambini e delle loro famiglie, e che vorrebbe sia Arthur che Jessie incarcerati con il massimo della pena, la difesa dei legali assunti dai Friedman e da una giornalista specializzata in questo genere d'inchiesta che mette in dubbio la condotta delle forze dell'ordine così come molte delle testimonianze - per quale motivo per anni nessuno avrebbe detto nulla? Come è stato possibile non riscontrare prove fisiche dei maltrattamenti subiti in nessuno degli studenti? - e soprattutto dei Friedman stessi, grazie ad un'operazione di recupero sensazionale dei filmini di famiglia che Arthur prima e David poi giravano quotidianamente tra le mura di casa, entrambi appassionati di riprese.
L'approccio del regista, razionale ed assolutamente super partes, permette allo spettatore di avere un quadro completo quanto spaventoso della vita dei Friedman, distrutti dagli eventi innescati con l'arresto di Arthur e Jessie e, di fatto, dalla progressiva presa di coscienza di Elaine, che prende le distanze da quello che è stato suo marito per più di trent'anni finendo per ritrovarsi isolata dai figli, in particolare David, che è convinto dell'innocenza di suo padre e suo fratello ed idolatra il primo in maniera quasi maniacale.
A prescindere, comunque, da quelle che furono le luci ed ombre dell'intera vicenda - da una parte e dall'altra - appare evidente il male nascosto che Arthur ha portato dentro per tutta una vita, dalla sua omosessualità venuta alla luce una volta finito in carcere - avventure che risalivano ai tempi precedenti al matrimonio, e addirittura racconti di rapporti sessuali completi con il fratello minore, che dichiara di non ricordare nulla dell'accaduto, e che, ad oggi, vive a sua volta l'omossessualità serenamente con il suo compagno - fino a dichiarazioni sconcertanti - l'avvocato di Jessie, recatosi nel penitenziario all'interno del quale scontava la pena Arthur, si vide richiedere dall'uomo il cambio di tavolo per il colloquio perchè eccitato dalla presenza di un bambino venuto a trovare il padre detenuto, proprio accanto a loro - che rendono praticamente certa la sua colpevolezza.
D'altro canto, anche David, Seth e Jessie manifestano comportamenti al limite della disfunzionalità: il primo, strenuo difensore del genitore, è al momento uno dei clown più richiesti nell'area di New York per le feste di compleanno dei bambini, il secondo - che rifiutò di prendere parte al documentario - viene descritto come un ribelle spesso e volentieri poco controllabile, mentre il più piccolo - il complice effettivo di Arthur -, dapprima afferma la propria innocenza, dunque ritratta in modo da poter sperare in una condanna meno severa, sostiene il padre prima di confessare di aver subito abusi dallo stesso in tenera età, balla e canta con i fratelli la notte prima dell'ammissione di colpa ufficiale e di fronte al tribunale si rende protagonista di discutibili filmini che provocano l'ira dei genitori delle vittime.
Ma tutto quello che si potrebbe scrivere, di questo film, pare riduttivo a confronto di una visione che lascia turbati ad ogni suo passaggio, e che merita davvero tutta l'attenzione possibile da ogni spettatore, come genitore, come figlio o più semplicemente come essere umano, perchè gli abissi oscuri che la mente può riservare alla nostra specie paiono decisamente più profondi di quanto non si sia disposti ad ammettere.



MrFord


"He ate my heart, he a-a-ate my heart
(you little monster)
he ate my heart, he a-a-ate my heart out
(you amaze me)
he ate my heart, he a-a-ate my heart
he ate my heart, he a-a-ate my heart
look at him, look at me,
that boy is bad, and honestly
he's a wolf in disguise
but I can't stop staring in those evil eyes."
Lady Gaga - "Monster" -


sabato 14 gennaio 2012

Hard candy

Regia: David Slade
Origine: Usa
Anno: 2005
Durata: 104'



La trama (con parole mie): Hayley, quattordicenne acuta, sveglia ed incline alla provocazione, dopo tre settimane di chat fissa un incontro con Jeff, fotografo poco più che trentenne.
I due si incontrano al centro commerciale, e sempre in bilico tra la curiosità ed il doppio senso approfondiscono il loro appena nato rapporto rompendo il ghiaccio fino a decidere con una scusa di recarsi a casa dell'uomo, che alterna momenti da pseudo fratello maggiore ad altri in cui pare sul punto di cedere alla tentazione rappresentata dalla giovane studentessa.
Nel momento in cui l'alcool pare poter mettere la ragazzina in pericolo, i ruoli si ribaltano, e Jeff si ritrova prigioniero di Hayley, disposta a tutto pur di svelare il segreto celato dall'uomo, legato alla scomparsa di un'altra giovanissima.




Se c'è una cosa che va riconosciuta senza dubbio a David Slade in questo suo pur non riuscito tentativo di portare sullo schermo un tema certo non comodo, è il coraggio.
Ad Hard candy non mancano, oltre al suddetto, una robusta dose d'inventiva accompagnata da una buona padronanza della macchina da presa, interpretazioni importanti dei protagonisti - l'Ellen Page di Juno in versione teen letale spalleggiata da Patrick Wilson - ed una dose assolutamente consistente di riflessioni suscitate negli spettatori.
Eppure, come un incantesimo che si spezza, con il passare dei minuti si assiste ad un progressivo sgretolarsi dei propositi - o quelli che parevano tali - iniziali della pellicola sacrificati per un più sicuro climax che porti a quella che, in qualche modo, pare essere la soluzione più facile: il ribaltamento di ruoli che tanto riesce a turbare prima che Hayley cominci a scatenare il suo desiderio di vendetta su Jeff perde progressivamente di spessore a causa di tentativi non riusciti di mantenere alta la tensione - l'inutile parte affidata a Sandra Oh - e ad un gioco al massacro che si rivela assolutamente ingiustificato perchè mosso da quella che fin dal principio avrebbe potuto assumere i connotati della semplice, fredda vendetta.
Il gioco da "Cappuccetto rosso al contrario" della ragazzina, dunque, diviene sterile quanto la tortura psicologica e non inflitta alla sua vittima, sviluppata - stando alle parole e alle azioni di Hayley - per strappare una confessione a Jeff quando, a conti fatti, la stessa risulta inutile se non ai fini della provocazione da parte del regista: idee niente male come quella d'ispirazione hanekiana di non mostrare in campo l'effettiva violenza perdono consistenza rispetto ad alcune scelte discutibili dal punto di vista della sceneggiatura - i riferimenti e l'utilizzo del primo grande amore di Jeff risultano forzati quanto la scelta di far comparire la donna nel finale, presenza totalmente ingiustificata rispetto a quanto rivelato in precedenza nello script - finendo, più che creare un disturbo nello spettatore rispetto ai temi trattati, per alimentare l'irritazione legata alla mancata "sincerità artistica" dell'autore, alimentata dai dubbi che il tutto sia frutto di un'operazione studiata a tavolino e nei dettagli per fare la parte del regista figo e alternativo che ne sa sempre una più dei poveri stronzi che guardano ammirati i suoi film.
E questo, in casa Ford, non è mai un bene.
Restano il plauso per i già segnalati interpreti - ben diretti e decisamente ispirati -, la cura quasi maniacale per la messa in scena e la fotografia - ottimo l'uso dei colori nei giochi di controcampo nel pieno dei dialoghi - ed un'inquietudine di fondo sollevata dalle domande della prima - e più efficace - metà della pellicola: era Hayley a cacciare Jeff o viceversa? Dove finisce la provocazione ed inizia la vera e propria violenza - non necessariamente fisica -? Jeff ragiona solo seguendo i suoi bassi istinti o rischia il più possibile come se fosse convinto di poter resistere al proibito rappresentato da Hayley?
Se Slade avesse continuato su questi binari evitando di trasformare il suo lavoro in un più banale thriller di vendetta, forse saremmo ancora qui a chiederci fino a che punto potrebbe spingerci una Natura che spesso può essere molto più pericolosa e bassa di quanto si sia disposti ad ammettere.


MrFord


"She is standing by the water
as her smile begins to curl
in this or any other summer
she is something all together different
never just an ordinary girl."
Counting crows - "Hard candy" -



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