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martedì 12 settembre 2017

American Honey (Andrea Arnold, UK/USA, 2016, 163')




Nel corso di questi anni nella blogosfera, il tam tam legato ad alcuni titoli non distribuiti in Italia e considerati - a ragione o a torto - dei potenziali cult ha portato su questi schermi alcune delle visioni più stimolanti - che si trattasse di stroncature o promozioni - che ricordi, pronte a scatenare discussioni e confronti come dovrebbe sempre essere quando si parla di Cinema o di Arte in generale.
American Honey, produzione indie che pare un incontro tra Spring Breakers ed il Van Sant di Belli e dannati, ha bussato alla mia porta con insistenza per mesi prima che riuscissi a trovare il tempo - considerato il minutaggio - e le energie necessarie per affrontarlo, alimentando un hype che alcune critiche entusiastiche non avevano fatto altro che ingigantire: e come spesso accade in questi casi, il risultato è stato, purtroppo, una parziale delusione.
Con ogni probabilità, se avessi incrociato il lavoro di Andrea Arnold una ventina d'anni fa, sarei rimasto molto più colpito perchè più vicino per età ed inquietudine ai suoi protagonisti, mentre ora mi pare di aver assistito ad un tentativo di fotografare la crisi che qualche anno fa aveva colpito gli States e che continua a farsi sentire senza la profondità necessaria per poter toccare davvero il cuore, affidandosi invece spesso e volentieri alla bellezza selvaggia dei ragazzi capitanati da Shia LeBeouf senza riuscire a raggiungere i vertici del lavoro di Korine citato poco sopra.
Quantomeno non pesano durata e ritmo - che erano gli spauracchi maggiori della "vigilia" -, ed alcune immagini risultano incredibilmente potenti, eppure il tira e molla sentimentale tra Star e Jake finisce, più che permettere allo spettatore di empatizzare con i due ragazzi, per considerarli al contrario odiosi e supponenti, stuzzicando il desiderio di grandi calci in culo rifilati fino al sopraggiungere di un'agognata maturità: un vero peccato, perchè l'idea dell'on the road sfruttato per mostrare il benessere di alcune città o fasce di popolazione e l'estremo disagio e povertà di altre, o lo straniamento di chi vive in più di un senso "al confine" - come i lavoranti delle piattaforme - aveva potenzialità enormi che riescono ad esplodere davvero soltanto a sprazzi - si veda la sequenza da brividi del canto di gruppo di American Honey nel furgone, che per me avrebbe dovuto chiudere la pellicola - e finiscono per relegare il titolo in questione al grande bacino di tutti quei potenziali e chiacchierati cult che nel giro di una stagione finiranno per essere inevitabilmente dimenticati e sostituiti da altri pronti a percorrere le stesse orme.
Restano comunque un ottimo approccio da narratrice della regista, una fotografia spettacolare, un'ottima colonna sonora e senza dubbio la volontà di realizzare qualcosa che avrebbe voluto e potuto essere grandioso: il fatto che non ci sia riuscito è un'altra storia, ma del resto American Honey è come un adolescente che vuole tutto il mondo ma per orgoglio non ammetterebbe mai questo bisogno irrefrenabile, o che recita la parte del cattivo anche quando basterebbero uno sguardo ed un bacio, o tenta di stupire uscendo dal seminato anche se la sua bellezza sta nella semplicità dei piccoli gesti.
Chissà se, crescendo, le cose potranno cambiare.
Sinceramente lo spero, per tutti gli American Honey e le Star e i Jake ai quali, se non presi a calci in culo nel modo giusto o sostenuti o forti abbastanza, non resta alternativa se non il perdersi su una via senza ritorno.




MrFord




martedì 22 settembre 2015

Fuga in tacchi a spillo

Regia: Anne Fletcher
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 87'





La trama (con parole mie): Cooper, volenterosa ma decisamente goffa poliziotta figlia di una vera e propria leggenda delle forze dell'ordine, confinata dietro una scrivania a seguito di un incidente che ha coinvolto il figlio del sindaco della sua città, è richiamata in servizio dal suo capo in modo da affiancare un ranger esperto nello scortare uno dei banchieri dei trafficanti colombiani e sua moglie al processo affinchè possano testimoniare contro il boss accusato.
Peccato che, all'arrivo nella villa della coppia, Cooper si ritrovi in mezzo ad una sparatoria che vede come uniche sopravvissute proprio lei e la signora Riva, esplosiva e decisamente allergica alle stesse regole rispetto all'applicazione delle quali la tutrice dell'ordine si trova così a proprio agio.
Le due improbabili alleate, a quel punto, dovranno trovare il modo di sopravvivere e risolvere un caso decisamente più complicato di quanto non possa sembrare.










E' vero, l'estate è sempre veicolo di visioni di svago e svagate, post non troppo impegnati quasi ci si dovesse ricaricare in vista dell'autunno e della parte conclusiva della corsa verso le classifiche ed i premi di fine anno, eppure a volte viene perfino a me il dubbio di aver esagerato, e di aver voluto necessariamente cercare guai: con Fuga in tacchi a spillo è andata esattamente così.
In attesa del ritorno dal mare di Julez e del Fordino di qualche settimana fa, infatti, conscio della necessità di qualcosa che avrei potuto seguire anche senza prestare troppa attenzione e dal minutaggio abbordabile - almeno quello è un punto a favore del lavoro della pessima Anne Fletcher, che aveva già regalato a noi tutti schifezzuole come 27 volte in bianco o il primo Step up - ho affrontato questa commedia on the road senza alcuna pretesa finendo per scoprirla perfino peggiore, pur se incapace di farmi davvero incazzare - e dunque divertire a scriverne male - davvero già vista e totalmente inutile, scritta male ed interpretata anche peggio da un gruppo di attori - la Whiterspoon in testa - mossi solo dal portafoglio ed assolutamente svogliati.
Discorso leggermente differente per Sofia Vergara, star di Modern Family che, di fatto, oltre ad interpretare praticamente lo stesso personaggio del serial e portare sullo schermo argomenti notevoli, si conferma una cagna maledettissima che deve sperare di aggrapparsi, seno a parte, alla continuità del successo della sit-com suddetta per evitare di finire nel dimenticatoio in fretta e furia.
Il resto, fatta eccezione per un paio di sequenze azzeccate - carino il tormentone che vede continuamente ridotta l'altezza della Whiterspoon ed aumentata l'età della Vergara - ed il confronto fisico tra due attrici così diverse tra loro, è davvero più che dimenticabile, e perde nettamente il confronto con altre proposte uscite nello stesso periodo come Spy, di fatto presentandosi come la commedia da popcorn e cervello staccato meno interessante degli ultimi mesi - e forse non solo -: la concorrenza di quest'anno per il Ford Award dedicato al peggio sarà troppo serrata per permettere a Fuga in tacchi a spillo di aspirare ad un posto d'onore in quella sede, ma i dubbi che ci si trovi di fronte ad un prodotto insulso tendono allo zero.
Come a testimoniare, poi, il livello decisamente basso dell'intera operazione, ad occupare la parte del belloccio di turno pronto a spalleggiare le protagoniste ritroviamo Robert Kazinsky, che "spiccò" nelle ultime e disastrose stagioni di True blood nel ruolo di Warlow: non vorrei neppure accanirmi troppo, però, contro questo film, anche perchè ha finito per andare giù in fretta come un cocktail annacquato e malfatto, pronto a fare spazio, più tardi la stessa notte, alla consueta visione di fine estate di Point break.
Che oltre a farmi dimenticare quasi tutto di Fuga in tacchi a spillo, mi ha ricordato - come sempre - cos'è il Cinema con la maiuscola e le palle d'acciaio: anche quando dietro la macchina da presa troviamo una donna.
Come in questo caso, ma con risultati decisamente differenti.




MrFord




"Don't you ever miss your
house in the country and your
hot little mama too?
Don't you ever miss your
house in the country and your
hot little mama too?
Don't you better get a
shot of the doctor for what the
road ladies do to you?"
Frank Zappa - "Road ladies" - 





martedì 14 aprile 2015

Wild

Regia: Jean-Marc Vallee
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 115'




La trama (con parole mie): Cheryl Strayed, alle spalle la morte prematura dell'adorata madre e la distruzione del matrimonio e di se stessa, perduta tra droga e storie di sesso occasionale, decide di ricominciare a vivere a partire dall'avventura offerta dalla Pacific Crest Trail, lunghissima tratta da percorrere a piedi in solitaria.
Comincia così un viaggio che porterà la donna a confrontarsi con il passato, il presente ed il futuro che durerà mesi e le permetterà di entrare in contatto con le realtà del viaggio, la Natura, gli altri trekkers in cammino lungo lo stesso percorso e la sensazione che, una volta giunta a destinazione, dovrà pianificare il rientro nella società ed il resto della sua vita.
Riuscirà Cheryl a non mollare e portare a termine il percorso?
E sarà il passato a prendere il sopravvento, o il futuro?






Da grande sostenitore della vita vissuta e dell'esperienza, ho sempre avuto un debole per i road movies di formazione.
Eppure, in parte per pregiudizio ed in parte per la recensione positiva del mio rivale di sempre Cannibal Kid, nutrivo ben più di un dubbio, rispetto a Wild.
Fortunatamente, più che una cosa finta alternativa in stile Into the wild - paragone più utilizzato rispetto a quest'ultimo lavoro di Vallee - ho rivisto in queste quasi due ore di visione la passione e l'energia de I diari della motocicletta, il desiderio di raccontare una storia onesta, di pancia, che costasse una fatica emotiva più che fisica o di resistenza cinematografica - personalmente, non ho patito per nulla il ritmo apparentemente lento del film, che ho trovato al contrario molto dinamico - e riuscisse a narrare il percorso di un essere umano pronto a ricominciare, ripartire, viaggiare, nel senso più profondo ed importante del termine.
Dopo Dallas Buyers Club, pur rimanendo su binari che non lo portano oltre il buon prodotto, Vallee mostra una propensione notevole per la realizzazione di film coinvolgenti, emozionanti e decisamente efficaci tecnicamente - davvero ottimo l'utilizzo del montaggio e dei flashback "schizofrenici" -, in questo caso descrivendo nel modo migliore possibile la sofferenza e l'importanza della stessa all'interno di un percorso - che sia geografico o personale, poco importa -, la varia umanità con la quale si finisce per confrontarsi all'interno dello stesso e l'evoluzione cui conduce.
Cheryl, che nel corso della sua crescita ha subito ed amato come poche volte si ha la possibilità di subire ed amare nella vita, trova nel confronto con se stessa l'unico modo per affrontare il mondo, anche quando lo stesso modo è assolutamente distruttivo: in questo senso la capisco bene, considerato che nei miei anni più wild l'approccio alla vita che tenevo era sostanzialmente lo stesso - pur non avendo mai avuto, di fatto, un vero contatto con le droghe, ho sempre ritenuto il sesso e l'alcool rifugi occasionali come quelli mostrati dalla protagonista di questo film -, e che proprio con il viaggio ho iniziato a porre le basi per quello che sarei stato dopo - anche se non ho certo compiuto un'impresa fisica e mentale come quella di questa giovane donna -.
Eppure, dai tempi di Barcellona in solitaria all'Irlanda, ricordo bene sulla pelle la sensazione e la volontà di ritrovare se stessi, scrivere, conoscere, condividere quasi fosse un mezzo per acquisire maggiore consapevolezza o coraggio per improvvisare rispetto al futuro: perchè il vero viaggio non finisce mai, se non con la morte, e fino a quando non si è davvero pronti, non ha senso pensare a quell'eventualità.
In questo senso, la conclusione dell'impresa di Cheryl è assolutamente perfetta, ed ha rischiato, parlando in termini molto più materialistici e "critici", di portare Wild ad un livello superiore di valutazione: quella riflessione nata sul ponte, in bilico tra passato, presente e futuro, è la testimonianza di quanto perennemente in movimento viviamo, di quanto elastici di fronte al Tempo e all'esperienza stessa siamo, così come quanto, nel bene o nel male, sempre e comunque, risieda la bellezza di intraprendere un percorso.
Lo spirito di Wild, da questo punto di vista, è assolutamente centrato: fermarsi, nel corso della vita, finisce per essere dannoso e controproducente per noi e per chi ci sta intorno, e a volte scegliere di partire è senza dubbio più utile che rimanere fermi ed attendere che qualcuno o qualcosa ci scuota.
Allo stesso modo, eventi che ci hanno definito come persone finiscono per legarsi ad altri che ancora devono venire, e che viviamo a breve distanza, anche quando si tratta di anni - ed epoche - differenti.
Wild fotografa bene momenti come questi.
Momenti che sono il sale di una vita.
E malgrado l'apparenza e la valutazione critica pura e semplice, Vallee dovrebbe esserne fiero.
Perchè Wild è un grande film.
Un grande viaggio.
Un ritratto di vita vissuta che fa respirare a pieni polmoni.



MrFord



"I've looked at clouds from both sides now,
from up and down, and still somehow
it's cloud illusions I recall.
I really don't know clouds at all."
Joni Mitchell - "Both sides now" - 




sabato 28 marzo 2015

Missing New York

Autore: Don Winslow
Origine: USA
Anno: 2014
Editore: Einaudi




La trama (con parole mie): Frank Decker è un detective della polizia di Lincoln, in Nebraska, ha trentacinque anni, una carriera promettente ad attenderlo - si dice sia il candidato più probabile per la successione nel ruolo di Capo della Polizia locale - ed un matrimonio che, se non fosse per i figli che non arrivano, prosegue senza alcun problema apparente.
E' un uomo tutto d'un pezzo, vecchia scuola, reduce dell'Iraq, legato all'istinto ma anche ad una solida etica morale.
Quando la piccola Hayley Hansen scompare, la sua vita cambia: la promessa fatta alla madre della bambina di ritrovarla a tutti i costi, infatti, diviene la miccia pronta a far esplodere la sua intera impalcatura sociale: mollato il lavoro e lasciato naufragare il matrimonio, con i risparmi del padre da sempre messi da parte per una casetta da pesca sul lago Deck comincia un viaggio per le strade degli USA che lo porterà, in oltre un anno di ricerche, sulle tracce di chi, forse, sa dove la piccola può essere finita.
Sempre che sia ancora viva.








A prescindere dal fatto che ora sia padre, ci sono argomenti che mi sono sempre stati a cuore: uno di questi, e forse uno di quelli cui sono maggiormente sensibile, è la violenza o l'abuso rispetto ai minori.
Parallelamente, e considerando materie decisamente più leggere, trovo che il fascino del "lone rider" legato alla strada, agli errori e disequilibri tanto quanto agli slanci irrefrenabili e passionali sia uno dei più irresistibili presenti nella realtà così come nella finzione.
Don Winslow, uno degli autori che ho più amato nel corso degli ultimi dieci anni, con questa sua ultima fatica è riuscito alla perfezione ad unire i due elementi appena citati: una storia crime dal ritmo serrato del thriller d'alta scuola unita ad un main charachter destinato a rimanere nel cuore del lettore per lungo tempo, umano e vivo come piacciono da impazzire da queste parti.
Perchè Frank Decker, o Deck, come perfino sua moglie Laura ama chiamarlo, è un tipo old school, tutto d'un pezzo, abituato a battersi ma non per questo incline a farlo, deciso quanto delicato, generoso quanto profondamente egoista: del resto, salvare qualcuno - specialmente quando il qualcuno in questione è l'emblema dell'innocenza e della meraviglia -, è un pò come salvare se stessi.
Era dai tempi dell'Harry Hole di Nesbo o degli Hap e Leonard di Lansdale - e non sto certo parlando di piccoli calibri - che non mi capitava di imbattermi in un protagonista con il quale empatizzare così tanto: la scommessa di Deck nel mettersi alla ricerca della piccola Hailey Hansen, il suo viaggio attraverso un'America lontana e distaccata quanto partecipe e viva sulle note del più che proletario Springsteen trasformano Missing in un romanzo on the road tra i più appassionanti che il genere possa offrire, lontano senza dubbio dai fasti de Il potere del cane ma non per questo non in grado di tracciare solchi profondi nel cuore di chi lo affronta.
Ma non voglio trasformare il post di questo lavoro che ho sentito profondamente nelle budella in una recensione nuda e cruda: voglio sia chiaro il brivido provato nel seguire pagina dopo pagina le imprese di un uomo comune, che potrebbe essere un amico, il vicino, un fratello, o un genitore - non se la prenda male il vecchio Deck - deciso a rendere il luogo in cui viviamo un posto migliore, fosse anche solo per l'innocenza probabilmente perduta ma ugualmente e profondamente cercata di Hailey.
Tutti noi sappiamo bene che seguire il valzer dei giorni ponendosi domande ed affrontandole non è il più facile dei modi in cui vivere, tanto quanto sia più semplice scoprire come essere indifferenti - o lasciarsi catturare dal fascino di un ruolo "limitato" - che non tentare a tutti i costi di cambiare le regole, sovvertire il Destino, portare chi non l'avrebbe mai sospettato davanti ad un banco dei testimoni, a prescindere dalla posizione sociale, il conto in banca, il numero di favori che in questi casi si finisce per essere pronti a chiedere, pur se a malincuore.
C'è chi va a caccia di nuovi "talenti", senza alcun obbligo fisico o remora morale, e chi, al contrario, lotta per mantenere una parvenza di normalità ed equilibrio al cospetto degli individui di tale risma, quasi potesse sospendere il giudizio nonostante si augurerebbe per loro le più atroci sofferenze.
Probabilmente non sarò mai stupido, coriaceo o anche soltanto pronto quanto il personaggio creato da Winslow, in grado di risvegliarsi dal torpore modaiolo di Le Belve e I re del mondo finendo per confezionare la sua opera più matura dai tempi di Satori: la vicenda di Deck è quella di molti spiriti indomiti, coraggiosi o semplicemente cacciatori di gloria in attesa dell'occasione di una vita, quella fornita dallo sguardo di una madre che sarà eternamente riconoscente al salvatore della sua piccola, il suo amore, il suo sangue.
Ma comprendo il significato di ogni gesto, il senso di una ricerca anche senza speranza.
Quello della possibilità che Hailey ci sia, comunque vada.
Qualunque cosa resti.
E a conti fatti, è sempre sicuro che resti Frank Decker.
Perchè senza Deck, questo romanzo sarebbe solo un buon thriller.
E i sogni on the road non avrebbero la stessa forza.




 MrFord




"Licence, registration, I ain't got none,
but I got a clear conscience
'Bout the things that I done
Mister state trooper please don't stop me..."
Bruce Springsteen - "State Trooper" -












mercoledì 27 marzo 2013

Altri libertini

Autore: Pier Vittorio Tondelli
Origine: Italia
Anno: 1980
Editore: Feltrinelli




La trama (con parole mie): sei racconti che, dal cuore pulsante dell'Emilia, guardano a Bologna, Milano, l'Europa negli anni delle contestazioni, gioventù ribelli e ribollenti che si forgiano in bilico tra amori, sesso, droga, viaggi, gioie e dolori.
Il ritratto naif e passionale di una generazione che si gioca tutto giorno per giorno ed esprime il suo sapere attraverso la sete di esperienza più che di nozioni, e prende forma grazie ai protagonisti di storie che si incrociano e rimbalzano e pulsano neanche fossero le nostre.
Dagli sperduti posti ristoro della Bassa a Bruxelles, da Piazza Grande a Correggio, stagioni irripetibili come soltanto quelle della nostra formazione sanno e possono essere: la primavera e l'estate della vita nella loro massima espressione di desiderio.




A volte capita che si incroci il cammino di un autore in grado, fin da subito – o quasi – di apparirci come familiare, vicino, quasi avessimo condiviso con lui grandi bevute, mangiate, nottate, o uno di quei viaggi della perdizione – o del ritrovamento di se stessi – tipici dei periodi della vita in cui abbiamo bisogno, in qualche modo, di ricominciare.
Avevo già sentito parlare di Pier Vittorio Tondelli, uno dei “ragazzi perduti” della generazione di grandi artisti che il fermento degli anni settanta produsse attorno a Bologna – un po’ come Andrea Pazienza, per citarne un altro dalla genialità e dal destino simili a quelli dello scrittore di Correggio – sia nella blogosfera – Zio Scriba ne è l’esempio più clamoroso – che tra amici, ma è stato mio fratello ad introdurmi nel suo mondo: da anni, infatti, per il Ford più giovane il buon Tondelli è un idolo consolidato ed indiscusso, una specie di Rino Gaetano della letteratura che, partendo dal naif, riesce ad aprire un mondo al lettore fatto di viaggi e sogni radicati profondamente nel quotidiano.
Con questo Altri libertini è iniziata dunque la mia scoperta di un vero e proprio spirito affine, un compagno di brindisi che, come il sottoscritto, crede profondamente nell’esperienza come maestra di vita nonché modo migliore per mettere a frutto quelli che possono essere stati gli insegnamenti raccolti nel corso dei nostri anni e della strada percorsa fino ad ora.
Se, infatti, con i primi due racconti l’impressione avuta era quella di una sorta di antologia un po’ nostalgica di un periodo sicuramente più caotico di questo ma anche più sanguigno e magico – una sorta di Amarcord felliniano da strafatti -, con il terzo – chiamato proprio Il viaggio – l’intero lavoro assume una dimensione ed uno spessore clamorosamente grandi, riuscendo a parlare direttamente al cuore di quel momento della vita in cui tutto è ancora da scrivere, e se non finisci male può anche darsi che alla fine lo scriverai, in un modo o nell’altro, quanto e più di romanzi generazionali come Il giovane Holden o Siddartha.
Le peripezie vissute dal protagonista accanto al quasi inseparabile amico Gigi tra Bruxelles, Milano e Correggio, o la storia con Dilo, studente romano conosciuto a Bologna suonano non tanto come i manifesti dell’epoca delle grandi contestazioni, quanto come la fotografia di un’esistenza che prende forma, semplice e magica come soltanto la vita vissuta può e deve essere: in uno dei passaggi fondamentali del racconto, proprio in un confronto con Gigi, l’alter ego dell’autore confessa “la scuola si sistemerà solo quando non ci sarà più: ho imparato più da un pompino che da vent’anni di esami”.
Lo spirito di Tondelli è tutto qui.
Vivi, a fondo e il più possibile, annusando l’aria in cerca del tuo odore e viaggiando veloce per scappare dagli scoramenti – come nel meraviglioso racconto di chiusura, Autobahn, che ricorda l’altrettanto stupendo pezzo dei Kraftwerk – che il mondo riserva e riserverà sempre: in questo modo anche il destino, a volte, ti verrà incontro allungandoti una mano, e non per piazzare uno schiaffo. Anzi, potrebbe essere che ci scappi un colpo di fortuna, dei soldi piovuti nel parcheggio di un posto di ristoro o una scopata liberatoria, o la forza di tutta quella magia della Bassa che rese grande il già citato Fellini e avrebbe fatto la fortuna di un altro noto abitante di Correggio qualche anno dopo, Luciano Ligabue, che pare aver costruito i suoi primi dischi – quelli belli, per intenderci – proprio su figure come quella del troppo presto scomparso Pier Vittorio.
Perché troppo presto se n’è andato davvero, questo ragazzaccio assetato di vita.
Eppure di una cosa sono certo, nonostante abbia affrontato soltanto uno dei suoi lavori: lo scoramento non l’ha raggiunto neppure con la morte sicuramente prematura, ed il suo odore ancora pervade pagine che sono una vera festa per lo stomaco, gli occhi, il sesso e tutti quegli organi che fanno dei giorni, degli amori, dell’andare oltre o cercare di stare dentro la fortuna loro e di quelli che li portano e li seguono.
Certo, a volte può capitare che la corsa non conduca a nulla di buono, o che il nostro Ronzinante a motore finisca per spiaccicarsi da qualche parte con noi dentro, ma la posta è troppo alta per rinunciare, e da ogni riga di Altri libertini è evidente che questo Tondelli lo sapeva bene: succhiare tutto il midollo della vita, che sia dalla strada, da una bottiglia, da un cazzo o da una vagina.
O da un bacio di quelli che tolgono il respiro e si ricordano finchè si campa.
Ed è sempre un piacere incontrare qualcuno che sente la vita sulla pelle proprio come te.
“E ti vedi con una che fa il tuo stesso giro, e ti senti in diritto di sentirti leggero”, cantava Ligabue.
Ed è così che mi sono sentito tra queste pagine.
E non è affatto roba da poco.
Pier Vittorio, devo ringraziare mio fratello per avermene fatto trovare un altro.
E devo ringraziare anche te.
Perché quando sulla pelle passa il brivido del capirsi al volo non si può fare proprio altro.


MrFord


"Ci han concesso solo una vita
soddisfatti o no qua non rimborsano mai
e calendari a chiederci se
stiamo prendendo abbastanza abbastanza
se per ogni sbaglio avessi mille lire
che vecchiaia che passerei
strade troppo strette e diritte
per chi vuol cambiar rotta oppure sdraiarsi un po'
che andare va bene però
a volte serve un motivo, un motivo
certi giorni ci chiediamo e' tutto qui?
E la risposta e' sempre sì."
Ligabue - "Non è tempo per noi" -


lunedì 31 ottobre 2011

This must be the place

Regia: Paolo Sorrentino
Origine: Italia, Irlanda, Usa
Anno: 2011
Durata: 118'



La trama (con parole mie): Cheyenne, una rockstar figlia degli anni del dark e della new wave, si è da tempo ritirata in una sorta di esilio dorato a Dublino, dove vive in compagnia della moglie e quasi galleggia, etereo, in bilico tra le passeggiate al centro commerciale con la giovane Mary e le partite di pelota con la compagna Jane, ancora turbato dal suicidio di due suoi giovani fan avvenuto vent'anni prima, causa principale del suo allontanarsi dal palcoscenico.
Quando suo padre muore, Cheyenne fa ritorno negli Stati Uniti ed inizia un viaggio che diviene iniziatico alla ricerca dell'uomo che, ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, fu carceriere del genitore dell'ex rockstar: lungo la strada farà degli incontri che porranno le basi per un cambiamento radicale della sua vita.



Questo dev'essere proprio l'anno delle delusioni.
Dopo Malick, Polanski, Almodovar e Cronenberg anche Paolo Sorrentino - il mio favorito, con Giorgio Diritti, nel panorama italiano attuale - confeziona un'opera tanto perfetta nella forma quanto profondamente svuotata di sostanza.
Nonostante una regia impeccabile, movimenti di macchina da capogiro, una colonna sonora da urlo firmata da David Byrne e Bonnie "Prince" Billy, la fotografia d'impatto di Luca Bigazzi e tutti i pregi - e i difetti - di una grande produzione internazionale patinatissima, la resa ed il lascito di quest'ultima opera del regista partenopeo manca della potenza emotiva che aveva caratterizzato tutto il suo Cinema precedente, in particolare i miei titoli favoriti L'uomo in più e lo splendido Il divo.
Certo, non siamo di fronte ad una pellicola completamente sbagliata, o incapace di affascinare: i momenti magici non mancano, sia dal punto di vista tecnico - la sequenza del concerto di David Byrne riesce a rendere tutta la carica che pensavo solo un "live" potesse trasmettere allo spettatore - che emotivo - il confronto tra il protagonista ed il figlio della cameriera Rachel proprio in merito alla canzone dei Talking heads che da titolo al film -, ed il fascino del road movie autoriale made in Usa pervade l'intera opera, mescolando abilmente il Wenders di Paris, Texas e i Coen di Arizona Junior, eppure proprio in questo suo essere artisticamente convenzionale l'opera di Sorrentino perde la freschezza se vogliamo casereccia che aveva sempre contraddistinto il suo lavoro, togliendo cuore a quella che è sempre stata una sorta di macchina perfetta.
Dalla sua This must be the place ha comunque un crescendo convincente che - pur se molto lentamente - cattura l'attenzione ed il cuore dello spettatore aprendolo ad una crescita simile a quella del suo protagonista, che nonostante l'età, l'apatia ed i rimorsi attraversa la pellicola neanche fosse un adolescente ancora alla ricerca di se stesso - per quanto lo stesso possa negarlo -, riuscendo, soprattutto con il finale, ad innescare una reazione sotterranea eppure dirompente a livello sentimentale, tracciando una linea nell'esistenza di Cheyenne e, in una certa misura, nella visione dello spettatore.
In questo senso, Sean Penn - che già tutti sapevamo essere un attore assolutamente dotato - incede e conquista con il passare dei minuti, anche se la sua interpretazione risulta essere talmente sopra le righe da sfiorare - soprattutto nella parte ambientata a Dublino - quella gigioneria da bottigliate tanto osteggiata in casa Ford: lo sbuffo sul ciuffo è un esempio perfetto.
Cosa resta, dunque, di This must be the place?
Sorrentino ha iniziato a percorrere l'inevitabile - o quasi - parabola discendente delle talentuose promesse non in grado di reggere la pressione delle ribalte importanti?
O ha soltanto cominciato a prendere le misure - come fu per Nolan con Insomnia - in modo da essere pronto al vero salto di qualità con il suo prossimo lavoro?
Di certo, rispetto agli altri registi citati all'inizio del post, in questo caso la delusione è stemperata dalla voglia dell'autore - che traspare anche nei momenti meno riusciti della pellicola - di raccontare e portare sullo schermo un percorso che pare sempre profondamente personale - anche quando le sbavature dello script si fanno notare, come in questo caso - e che, soprattutto, dopo una fase centrale a rischio di perdizione tutta citazioni, gente strana degli Usa da profonda e grottesca provincia ed un autoriale sensazione di deja-vù, riesce a riprendere il filo conduttore della narrazione regalando un ottima chiusura, quasi a dirci che il Sorrentino internazionale diventerà grande, ed il futuro che lo aspetta è nuovo e, in qualche modo, privo delle "zone d'ombra" di questo suo lavoro.
Io continuo a sperarci.
Anche perchè, se dovessi proprio fare il cinico, direi che se "this must be the place", sarebbe meglio che il buon Paolo torni dalle nostre parti, perchè "il luogo" a stelle e strisce non sembra proprio giovargli.

MrFord

"Home - is where I want to be
but I guess I'm already there
I come home she lifted up her wings
guess that this must be the place
I can't tell one from the other
did I find you, or you find me?
there was a time Before we were born
if someone asks, this where I'll be . . . where I'll be."
Talking heads - "This must be the place" -


mercoledì 27 luglio 2011

Sons of anarchy Stagione 2

La trama (con parole mie): Jax Teller, dopo aver scoperto la verità sulle morti di suo padre e di Dana, moglie del migliore amico Opie, decide di attuare un sotterraneo piano per riportare i Samcro agli affari legali progressivamente abbandonando il traffico di armi, gli omicidi ed i rapporti con gli spacciatori, esautorando al contempo dal potere il patrigno Clay Morrow, leader del club.
Ma il piano di conquista di Charming da parte del nazionalista americano Ethan Zobell, legato a doppio filo agli ariani e ai Mayans, gang rivale, creerà non pochi problemi al club, innescando una spirale di ritorsioni e vendette che porteranno all'estremo il conflitto tra Jax e Clay: soltanto con una terribile rivelazione di Gemma, madre del primo e moglie del secondo, i Sons troveranno la forza di rinsaldare i loro legami e dare battaglia ai nemici.

Lo scorso anno, quando mi capitò tra le mani la prima stagione di questa serie, approcciai scettico le avventure dei Sons of anarchy: un pò per la classica promozione irritante dei distributori - "dai creatori di The shield" campeggiava fieramente sulla locandina -, un pò per una sorta di rapporto di amore/odio con i serial legati a protagonisti negativi, sempre potenzialmente interessanti ma raramente all'altezza delle aspettative.
Rimasi, al contrario, positivamente impressionato dal lavoro svolto sui protagonisti della serie e dalla durezza dei temi trattati, nonchè dall'approccio non certo delicato dell'intero prodotto: la puntata dedicata alla morte della moglie di Opie, poi, divenne uno degli episodi cult dell'intero anno passato, pensando al piccolo schermo e alle sue proposte.
Quello che non sapevo, e che ha addirittura convinto anche Julez, detrattrice della serie fin dalla sua sigla, era che con la seconda annata la qualità si sarebbe ulteriormente alzata, andando a contribuire alla creazione di un prodotto ottimo, in grado di colmare, nel mio cuore di spettatore bisognoso di un pò di oscurità anche nell'universo delle serie, le passate ed ormai concluse Oz, I Soprano e il già citato The shield.
La realtà fittizia di Charming ed i legami presenti tra i membri dei Samcro assumono un'importanza ancora maggiore rispetto alla prima stagione, e l'introduzione di un nemico d'eccezione come il politicante Zobell permette alla solidità della serie di compiere il passo definitivo verso la consacrazione: l'idea di una famiglia criminale alle prese con i suoi panni sporchi nel corso della sua più importante battaglia per la sopravvivenza diviene il leit motiv dell'intera serie, e permette agli autori di approfondire ogni protagonista rendendo l'intero club praticamente tridimensionale agli occhi dello spettatore, dando la possibilità anche ai charachters apparentemente secondari come Juice e Chibs di ritagliarsi un ruolo decisamente definito ed interessante.
Il lavoro svolto sui protagonisti, poi, ha dell'incredibile: Jax, Clay, Tara e Gemma sono ormai eredi ufficiali dei Mackie e dei Tony Soprano, ed il consolidarsi del rapporto tra le due donne in parallelo alla crescente rivalità dei due uomini definisce lo spirito contrastato e ribollente della serie.
La volontà di Jax di emanciparsi dalla criminalità a tutti i costi di Clay naufragata nel sapore del sangue e della vendetta e la progressiva presa di coscienza del suo ruolo di "principessa" dell'impero dei Samcro di Tara fanno il paio con il percepire l'inizio del declino da parte del leader del club ed il coraggio di Gemma nel portare un fardello nato come potenziale strumento di distruzione dei Sons e divenuto, infine, il veicolo per ritrovare un'intesa che pareva impossibile da recuperare.
Non mancano gli episodi memorabili, ma più che il singolo momento, a fare la differenza è davvero il cuore messo dietro ogni personaggio, in grado di rendere anche lo squilibrato Tig qualcosa di più di un semplice schiacciasassi assatanato, o il vecchio Piney il simbolo di uno spirito cui i giovani - Jax ed Opie su tutti - dovrebbero aggrapparsi per non finire risucchiati in una spirale di violenza che pare quanto più distante possa esistere dalla filosofia che guidò i First 9 alla costituzione del club.
Dunque, quella che doveva essere un rimpiazzo in minore delle scorribande di Vic Mackie e soci è divenuta una delle serie di riferimento di casa Ford, nonchè uno spaccato lacrime e sangue dell'America on the road che un vecchio cowboy come il sottoscritto non può non sognare, fatta di amici che diventano una famiglia sempre presente, legami stretti così a fondo da dover lottare perchè non soffochino ed al contempo un anelito di libertà e paura - in pieno stile Easy rider - che lascia più di qualche brivido correre lungo la spina dorsale. Neanche guidasse una Harley.

MrFord

"Riding through this world, all alone
god takes your soul; you're on your own
the crow flies straight, a perfect line
on the Devil's back until you die."
Curtis Stigers - "This life" -


lunedì 25 luglio 2011

Cielo di sabbia

La trama (con parole mie): siamo in Oklahoma nel pieno della Grande Depressione, e Jack ha appena perso entrambi i genitori. E' solo in una casa soffocata dalle tempeste di sabbia con poche prospettive e quasi nessuna speranza, quando il suo cammino incrocia quello di Jane e Tony, fratello e sorella di quelle parti rimasti soli al mondo come lui.
Inizia così un viaggio che li porterà fino al Texas orientale e segnerà il passaggio attraverso l'adolescenza, nonchè la prima, vera, grande avventura delle loro vite: una sorta di Stand by me in piena salsa Lansdale, tra sceriffi senza scrupoli, gangster, primi amori e un sacco di balle. A fin di bene e per rendere un pò più elettrizzante il racconto. In fondo, il viaggio conta più della destinazione, no!?

Leggere Lansdale è sempre un pò come tornare a casa.
Il vecchio Joe, alla mano di persona così come nella sua prosa scorrevole e veloce, ha il potere di trasportarmi nel pieno di un paesaggio e di vicende che sento sempre clamorosamente vicine, e come se non bastasse, riesce a raccontarle con un piglio sincero ed affettuoso, quasi fosse un vecchio amico, o lo zio che non si vede l'ora di avere seduto vicino ai raduni della famiglia, perchè è proprio un tipo tosto.
Onestamente, nonostante l'ambientazione che tanto mi ha riportato alla mente i fasti di Furore e Nemico pubblico di Mann, all'inizio ho faticato un poco a non pensare a Hap e Leonard, i personaggi simbolo dello scrittore texano nonchè vera marcia in più dei suoi lavori, ma con lo scorrere delle pagine, le avventure di Jack, Jane e Tony sono progressivamente riuscite a conquistarmi proprio per la loro natura fugace ed intensa, quanto solo quell'età in cui il futuro è un libro ancora tutto da scrivere può essere.
Dalla fuga sulla macchina presa ad un vicino inghiottito dalla tempesta di sabbia al primo incontro con Timmy e Bad Tiger, passando attraverso i vagoni merci dei treni e la vita da hoboes, la fotografia di un'epoca impietosa e durissima è filtrata attraverso le diverse sensibilità dei giovani protagonisti, dalla fame di vita quasi incontrollata della sfacciata Jane ai tumulti interiori di Jack, senza dimenticare la sensibilità e la saggezza "adulta" e silenziosa di Tony, cresciuto dalla sorella e ancora poco avvezzo alle delusioni e alle scoperte del mondo "all'avventura" che tanto pare sognare Jane.
Inoltre, a rendere interessante l'intera opera è l'approccio da toccata e fuga dato da Lansdale alle avventure dei tre ragazzi: quelle che potrebbero apparire situazioni centrali nell'economia del racconto diventano episodi quasi più importanti nella definizione progressiva dei caratteri dei protagonisti che non nello sviluppo della trama, ed i personaggi che i nostri ragazzi incontrano nel corso del loro viaggio volti destinati a divenire ricordi più o meno importanti di un album appena all'inizio: in questo senso, non passa inosservata l'apparizione di Pretty boy Floyd, celebre bandito del tempo, ritratto dall'autore come una sorta di eroe romantico della Depressione, finito a rapinare banche quasi per caso, e sempre pronto a difendere quello che ritiene giusto.
La sua uscita di scena dal romanzo, improvvisa e rapida, come un saluto fugace, rende bene la dimensione delle sfumature che Lansdale ha voluto donare a questo suo interessante lavoro: una sorta di nostalgica operazione legata ad un tempo passato e avventuroso, difficile eppure colmo di speranze e di sogni.
Un pò come la gioventù.
E se, dall'altra parte, troviamo uno Strangler che dichiara a Jack che continuerà a combattere fino a quando non troverà un giovanotto in grado di metterlo in difficoltà, dall'altra scopriamo l'amore ancora acerbo di due giovani che, chissà, forse si sposeranno, o forse non si incontreranno più.
Ma del resto, la destinazione non conta mai quanto il viaggio.

MrFord

"You can tell me all about it
on, the next Bardo
I'm sinking in the quicksand
of my thought
and I ain't got the power anymore."
David Bowie - "Quicksand" -

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