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lunedì 16 settembre 2019

White Russian's Bulletin



Era dai bei tempi della blogosfera affollata, ribollente e super commentata che non mi capitava di scrivere in anticipo i post da pubblicare sul Saloon, i tempi in cui ogni giorno passava una recensione - e a volte di più - ed ero comunque in anticipo di oltre un mese: grazie alle vacanze e ad un rinnovato fervore rispetto a visioni e letture, mi ritrovo a vivere quella sensazione anche oggi, nonostante i tempi siano cambiati. Ecco dunque una carrellata di recuperi, titoli da grande e piccolo schermo e da pagina che hanno accompagnato il Saloon al rientro nella quotidianità in attesa dell'autunno.


MrFord



BRONX (Robert De Niro, USA, 1993, 121')

Bronx Poster


A distanza di più di dieci anni, è tornato grazie ad un'amica di Julez su questi schermi Bronx, uno dei titoli di culto delle estati in cui mio fratello ed Emiliano si ammazzavano di visioni nella vecchia casa Ford: scritto dal protagonista Chazz Palminteri e diretto da Robert De Niro, Bronx è la tipica storia di formazione solida e ben costruita perfetta per tutti gli amanti della settima arte cresciuti a pane e Scorsese ma anche per il pubblico occasionale, un titolo appartenente alla categoria dei vari Forrest Gump, Le ali della libertà o il più recente Green Book. 
Visto a così tanto tempo dall'ultima volta, oltre a portare alla luce molte similitudini con uno dei miei preferiti indie degli ultimi anni, Guida per riconoscere i tuoi santi, Bronx mi ha ricordato il passato, la crescita, e con gli occhi di oggi ha portato a galla, ovviamente, il ruolo che un padre ha nella vita dei figli: una pellicola forse senza grandi picchi, ma cui non si può non voler bene, come se fosse il quartiere in cui si è cresciuti.




BIG LITTLE LIES - STAGIONE 2 (HBO, USA, 2019)

Big Little Lies - Piccole grandi bugie Poster


Giunta in ritardo rispetto al resto della blogosfera sugli schermi di casa Ford e anticipata da una serie di opinioni non troppo entusiastiche - specie rispetto alla prima stagione -, Big Little Lies si è riuscita, contro ogni probabilità, a ritagliare uno spazio che, al termine dei primi due/tre episodi, non avrei mai pensato si sarebbe riuscita a ritagliare: la vicenda delle madri ricche o quasi di questo piccolo centro della California che tanto aveva avvinto due anni fa era partito con il freno a mano tirato, troppa isteria e analisi, quasi come se autori e regista non sapessero dove andare a parare.
E invece, passo dopo passo, grazie a performance convincenti - ho sempre detestato la Streep, ma ha reso il suo personaggio uno dei più sottilmente odiosi che ricordi degli ultimi anni, grande o piccolo schermo che sia - e ad un ultimo episodio finalmente potente dal punto di vista emotivo, ha finito per convincere, pur rimanendo un gradino più in basso rispetto al primo ciclo.
Un prodotto probabilmente troppo a metà strada, ovvero in grado in qualche modo di scontentare gli intenditori più esigenti ed apparire troppo pesante per il pubblico occasionale, ma che comunque mantiene tutto il fascino di una donna, sfumature difficili comprese.




IL CONFINE (Don Winslow, USA, 2019)


Se da un lato devo ringraziare la crescita dei Fordini, che ora giocano ed interagiscono spesso e volentieri tra loro lasciando più tempo ai vecchi di casa, dall'altro non posso che togliermi il cappello per Don Winslow, che ha risvegliato il sacro fuoco della lettura nel sottoscritto dopo anni di sonnecchiamenti e romanzi portati avanti stancamente per mesi: del resto, dalla chiusura della storia dell'agende della DEA Art Keller dopo i Capolavori Il potere del cane e Il cartello non si poteva attendere di meno.
Novecento e oltre pagine che scorrono come acqua fresca, analizzano - con la consueta profondità, competenza e stile - la situazione del mercato della droga tra Stati Uniti e Messico - anticipando anche situazioni vissute nella cronaca italiana di recente, come l'utilizzo del fentanyl -, rimandano alla politica - chi non riconoscerà nel ruolo di Dennison l'attuale Presidente Trump, probabilmente, è vissuto su un'isola deserta negli ultimi anni - e scrivono una nuova, grandissima pagina per il crime letterario, del quale Winslow è probabilmente il più alto rappresentante statunitense e non solo.
Storie che si sfiorano, incrociano e collidono, personaggi del presente e del passato di questo affresco che a volte appare così grande da chiedersi se, forse, non sarebbe stato necessario un doppio volume, un passaggio dall'altra parte che ricorda quanto importante sia, in questo conflitto, anche il lato "buono", quello ricco, che acquista e sovvenziona il mercato non solo delle sostanze stupefacenti, ma anche della violenza che le circonda.
Winslow, attraverso Keller, lancia un monito rivoluzionario e profondamente democratico, che probabilmente, purtroppo, resterà più fiction della sua fiction ispirata alla realtà.
Forse manca l'intensità emotiva dei due capitoli precedenti, ma del resto io sono un uomo della strada, e quando mi avventuro nei corridoi del potere, sento i brividi di un freddo che rifuggo come il peggiore degli inverni.




CRAWL - INTRAPPOLATI (Alexandre Aja, Francia/Serbia/USA, 2019, 87')

Crawl - Intrappolati Poster


Il mio rapporto con Aja è sempre stato conflittuale: l'ho seguito fin dai suoi esordi con Alta tensione - visto in sala con mio fratello ai tempi dell'uscita -, me lo sono goduto con il remake de Le colline hanno gli occhi e Piranha 3D, l'ho detestato con Riflessi di paura.
Il regista francese, a mio parere, ha un'ottima cultura cinematografica ed un gusto interessante per la fisicità dell'horror senza per questo rinunciare alla tensione, eppure, a distanza di più di dieci anni dalla sua ribalta, non mi pare abbia ancora fatto il vero e proprio salto di qualità, anche nel suo piccolo: Crawl, in un certo senso, mi ha ricordato Alta tensione, con i coccodrilli al posto del killer psicopatico ed un finale che fa perdere molti punti al lavoro nel suo complesso.
L'idea del survival e del setting da tornado - molto attuale -, l'utilizzo di Barry Pepper - che ho sempre trovato solido - ed il confronto tra l'Uomo ed il coccodrillo, di fatto due dei predatori più letali e pericolosi della Terra, sono tutte cose interessanti, eppure pare sempre che la leggerezza, alla fine, la spunti, quasi come se il buon Alexandre fosse troppo pigro per osare quel tanto di più.
Peccato, perchè a prescindere dalla visione estiva senza pensieri, della visione di Crawl resta davvero poco o nulla già dal giorno dopo.


venerdì 16 marzo 2018

Big (Penny Marshall, USA, 1988, 104')




Il bello di amare il Cinema e di avere ormai alle spalle una carriera di spettatore piuttosto lunga sta anche nel farsi coccolare, al bisogno, da titoli che hanno fatto parte di quella stessa carriera, che sia per affetto, meriti artistici o ricordi risvegliati in chi è seduto comodamente sul divano e si perde nelle immagini: Big pesca molto da quest'ultimo bacino, un pò per l'associazione con l'amatissimo Da grande con Pozzetto, un pò perchè, ai tempi in cui uscì in sala, mi vedeva quasi nella stessa età del suo protagonista.
In modo molto sincero, di pancia e semplice, Big rappresenta, prima ancora del trampolino di lancio della futura star Tom Hanks, tutta la magia, l'innocenza e la voglia di stupirsi tipico degli anni ottanta, e tutti quei film "di formazione" senza grosse pretese se non la voglia di meravigliarsi e di godersi una leggerezza che non significa sguaiatezza, quanto il desiderio di avere fiducia nel modo di vedere il mondo e, forse, il Cinema stesso.
Da almeno una ventina d'anni non mi capitava di rivederlo, e devo ammettere di essermelo goduto parecchio, dalle sequenze cult che ricordavo - la più nota, il piano gigante suonato da Hanks e Robert Loggia, ma anche tutte quelle che vedono il primo divertirsi in giro con il suo migliore amico rimasto dodicenne, che se pensate in un'epoca come la nostra provocherebbero più che altro sospetti e malelingue - al pensiero legato al fatto che, specialmente pensando ai giocattoli - o, più in generale, al fatto di godersi la vita - un bambino divenuto adulto in una notte potrebbe vivere l'attimo molto più di qualcuno ormai condizionato, consciamente oppure no, dalla crescita, dal mondo del lavoro o dall'esperienza in generale.
E in bilico tra i passaggi da commedia e le immagini quasi da film d'avventura come l'inquietante Zoltar il film scorre ancora oggi, in tempi certo meno ingenui di quelli, in gran scioltezza, associa ricordi ad intrattenimento, risate e riflessioni rispetto a quello che avremmo immaginato di fare da grandi all'età del protagonista e cosa faremmo ora, se avessimo la possibilità, al contrario, di tornare indietro: del resto, come Joshua scopre sulla sua pelle, avere fretta di crescere non porta troppo di buono, anche perchè l'infanzia regalerà pure delusioni e sofferenze che parranno sempre più grandi di quelle che si pensano possano vivere gli adulti, ma è senza dubbio il periodo più magico e divertente di tutta la vita, quello in cui la meraviglia esiste davvero, neanche si fosse al Cinema.
Inoltre, e non lo ricordavo da spettatore "stagionato", ho apprezzato davvero tantissimo il tono dato alla storia d'amore, non banale considerato che si tratta del confronto tra una donna adulta ed un poco più di bambino, che giustifica il finale e la scelta rispetto al fatto che le cose debbano restare come sono - quel "ci sono già passata" è un piccolo colpo magico di chi ha messo mano alla macchina da scrivere -, così come il fatto che la miccia pronta ad accendere il desiderio di tornare indietro del protagonista sia data dalla consapevolezza di stare diventando adulto, difetti che fino a poco tempo prima detestava compresi.
Una sorta di ricomposizione del puzzle che, giustamente, rimette tutti al loro posto.
Un pò come i Ford ora, sul divano, a godersi un piccolo cult come questo.



MrFord



 

mercoledì 7 marzo 2018

Lady Bird (Greta Gerwig, USA, 2017, 94')




E' diventata quasi una tradizione, nella grande corsa agli Oscar, i premi più noti ed ambiti - anche da tutti quegli autori radical che fingono di no - del Cinema, che nel novero delle pellicole in lizza per la statuetta del Miglior Film, compaia ormai un titolo proveniente dal bacino indie, in grado di regalare grandi soddisfazioni così come stuzzicare le bottigliate più selvagge: Lady Bird, esordio alla regia dell'attrice Greta Gerwig - che da queste parti, nonostante l'aura alternativa, piace molto -, ha rappresentato proprio la "quota Sundance" alla kermesse losangelina, forte di una narrazione diretta e di pancia come la sua protagonista e di un'ottima performance fornita dall'attrice che le presta il volto, Saoirse Ronan.
Questo lavoro sentito e piacevole, pronto a regalare almeno un paio di sequenze da brividi sulla pelle - finale stupendo - che pure non avrà avuto alcuna possibilità di vittoria, ha finito comunque per rappresentare, nel corso della visione, una sorta di versione adolescenziale di uno dei miei cult totali figli di questo "genere", quel Little Miss Sunshine che ancora oggi è uno dei film del cuore di questo vecchio cowboy.
Il racconto di formazione che vede protagonista Lady Bird - ribattezzatasi in questo modo per ribellarsi alle convenzioni di una scuola troppo puritana e ad una madre presente ma spesso in conflitto con lei - ha la capacità di riportare lo spettatore al traumatico periodo dell'adolescenza, quando la fine di una storia significa abbandonare per sempre l'idea dell'amore, un'amicizia può cambiare la vita, i propri sogni e quello che si desidera per il futuro una strada tracciata nella propria testa che nessuno sarà mai in grado di deviare.
Lady Bird non è un film particolarmente originale, e rispecchia in questo la sua main charachter, che come tutti gli adolescenti ha l'impressione di sentirsi unica e al di sopra di tutto prima di scoprire sulla propria pelle che sì, tutti siamo unici, ma nessuno al di sopra degli altri, che si parli di problemi, patimenti o sogni: la sua forza è proprio questa, l'umanità che viene mostrata e si dimostra pronta ad esplodere nel percorso del rapporto tra l'inquieta ragazza e la sua migliore amica o quello con sua madre, vera e propria antagonista nonchè centro di gravità della pellicola - non avrebbe sfigurato, la brava Laurie Metcalf, con l'Oscar -, simbolo di tutto quello che a quell'età non vorremmo essere ma che, senza che sia possibile rendersene conto, ci forma e prepara a quelle che saranno le vere battaglie, quelle dell'età adulta.
In questo senso non ho trovato il lavoro della Gerwig all'altezza delle entusiastiche recensioni che l'hanno accolto e sospinto nelle ultime settimane, ma ammetto di avergli davvero voluto bene per la sua onestà, ed essere arrivato al termine della visione con una sensazione di familiarità piacevole e quasi magica, neanche la ragazza fosse una sorella minore, o ancora di più una figlia da accompagnare coprendole le spalle silenziosamente - molto affascinante e sentita la figura del padre -: tutti noi, del resto, abbiamo attraversato giorni in cui farsi spezzare il cuore pareva fondamentale, rinunciare al proprio nome per inseguire quello che avremmo voluto appariva come la cosa giusta, trovare la propria strada, dalla scuola, alla vita, al futuro una cosa fondamentale.
Il bello di Lady Bird è la spontaneità di una rigidità magica che si vive soltanto da adolescenti, e che si impara ad amare davvero prendendola a calci in culo quando siamo adulti, come un serpente che si morde la coda e non troverà mai il vero segreto dell'equilibrio.
Ma in fondo, è giusto così.
E scoprire che il nostro nome non è così male, che prima di viaggiare, o fuggire lontano, dobbiamo imparare ad affrontare noi stessi, altrettanto.



MrFord



 

martedì 19 settembre 2017

Cars 3 (Brian Fee, USA, 2017, 102')




Evidentemente il numero tre deve avere una certa importanza, quando associo il Cinema al Fordino.
Ricordo come fosse ieri quando, con Julez, lo accompagnammo per la prima volta in sala, in occasione dell'uscita di Kung Fu Panda 3, pochi giorni prima che nascesse la Fordina, e l'idolo dell'allora più piccolo del Saloon lasciò tutti quanti a bocca aperta.
A questo giro, con gli impegni domestici, i primi malanni di stagione e le incombenze, per l'uscita in sala del terzo capitolo della saga di Saetta McQueen io e il Fordino abbiamo avuto la nostra prima volta al Cinema da padre e figlio in solitaria: e penso che nessun film d'animazione, quest'anno, sarebbe stato azzeccato quanto Cars 3.
Personalmente, ai tempi adorai il primo capitolo di questo brand, forse non originalissimo ma perfetto nel ricreare l'atmosfera da grande film classico da riscatto made in USA, uno dei miei preferiti "del cuore" quando si parla di Pixar: peccato che, all'uscita del numero due, rimasi deluso per quello che, al contrario, ad oggi è il punto più basso della produzione dello Studio nato da Mamma Disney, una pellicola nata ad uso e consumo del merchandising e delle marchette da titolo per famiglie.
Con questo numero tre l'atmosfera e lo spirito, fortunatamente, tornano ad essere quelli degli esordi, tanto da solleticare emozioni forti in chi, come me, ha vissuto una vita alla massima velocità che la stessa permetteva e ad un certo punto si è ritrovato ad avere di fronte qualcuno che potrebbe andare ancora oltre, e non riuscire ad essere altro che felice per lui.
Il percorso di maturazione di Saetta, iniziato nel primo capitolo e messo in stand by a favore del successo commerciale nel secondo, esplode e raggiunge il suo senso più compiuto in questo terzo, che con saggezza, pancia ed onestà racconta l'adattarsi al Tempo e descrive in modo sincero il ruolo migliore di chi si ritrova, da promessa, ad essere insegnante, cambiando la propria prospettiva e scoprendo grazie ad essa il bello di avere qualcuno pronto ad entrare nella corsia di sorpasso, e fare meglio di quanto abbia mai fatto.
Questioni tecniche a parte - ormai è indiscutibile la maestria raggiunta dalla Pixar in termini di messa in scena - e corto antecedente la visione come sempre splendido ed educativo - per il Fordino, alle prese con le prime relazioni sociali da percorso scolastico, è stato perfetto -, dunque, non posso che togliermi il cappello di fronte al ritorno di un brand che pareva destinato alla commercializzazione spietata ed ora, piccole concessioni a parte - il doppiaggio, comunque divertente, da parte di Sebastian Vettel del navigatore di una delle protagoniste e la presenza di grandi brand come Bose - finisce per veicolare un messaggio positivo prima per il pubblico adulto e, di conseguenza, per i più piccoli, e raccontare il trascorrere del Tempo e la naturale evoluzione che ognuno di noi - chi più, chi meno, ovviamente - subisce nel corso della vita, specialmente quando ha l'occasione di "nascere un'altra volta", per godermi come al solito la citazione di Stallone in Rocky V.
Poi, certo, probabilmente il Fordino comprenderà le sfumature di titoli come questo soltanto quando, tra una trentina d'anni, si troverà nella mia stessa situazione oggi, ma poco importa: in fondo ogni pilota ha bisogno dei suoi tempi, per trovare lo stile che gli - o le - si addice, ed il modo giusto per affrontare circuiti ed avversari.
La cosa importante sarà avere qualcuno che possa guardare le spalle ed indicare la via in base a quello che ha vissuto, e sperare sempre e comunque che per il nuovo pilota ci sia un pezzo di strada in più: tutti, in fondo, siamo figli del Tempo.
Tutti cresciamo, superiamo chi è venuto prima di noi e veniamo superati da chi è giunto dopo.
E' facile correre, non altrettanto viaggiare ad un'altra velocità.
Eppure, quando quella velocità si trova, non si hanno davvero rivali.



MrFord



 

mercoledì 9 agosto 2017

Raw (Julia Ducournau, Francia/Belgio/Italia, 2016, 99')




Di norma, quando approccio un film per il quale l'hype è cresciuto grazie alle numerose recensioni rimbalzate in rete, le due cose che mantengono la mia guarda molto alta sono il fatto che spesso e volentieri venga identificato come titolo radical ed il gradimento dello stesso da parte del mio antagonista Cannibal Kid.
Nel caso di Raw, produzione franco/belga firmata da Julia Ducournau, le premesse suonavano campanelli d'allarme decisamente preoccupanti, essendo la stessa inserita nel filone più che radical da molti colleghi bloggers ed avendo colpito la mia già citata nemesi.
Armato dunque di gin tonic e della quasi certezza di massacrarlo, ho addentato Raw in una serata di calura di questo inizio agosto solo per scoprire quanto potente, ipnotico ed affascinante sia il lavoro di questa regista praticamente esordiente: un viaggio allucinato, disturbante, a tratti macabro, a tratti quasi divertente, che non ha nulla da invidiare alle idee del Polanski anni settanta così come alle produzioni di rottura dell'horror francese figlie degli Anni Zero - riuscite o no, poco importa -.
La discesa nell'oscurità e nella voracità della giovane Justine, che quasi fa da contrappasso alla favola buonista di Okja, è tutto quello che mi piace trovare in un film giunto su questi schermi a scatola quasi chiusa e legato esclusivamente al passaparola: tensione, idee, passione, pancia, voglia di raccontare e di osare, un talento ed un ego da misurare, imperfezioni, eccessi, eppure bellezza estrema nel mostrare il fianco agli stessi.
Ci sono molte sfumature, nascoste in questa produzione, non tutte piacevoli e non tutte immediate, ma senza dubbio, e mi sento di affermarlo nonostante si tratti di un titolo sulla carta molto lontano dai miei gusti ed inclinazioni, in grado di rimanere impresse nella memoria, o ancor più di sedimentare nel cuore e nella pancia pronte come bestie in agguato ad uscire, assetate di sangue, quando meno ce lo aspettiamo.
Il motivo per il quale Raw ha finito per entrarmi fin sotto l'ultimo strato di pelle, è principalmente legato al fatto che, a prescindere dall'evoluzione della storia, dalla rappresentazione di una famiglia che non ha nulla da invidiare a Lanthimos, dallo scontro e dall'incontro - perchè è questo che accade, con i legami di sangue di un certo tipo - tra sorelle, dall'escalation di voracità - che un predatore del mio stampo ben comprende - di Justine - nonostante io le preferisca senza ombra di dubbio la Alexia di Ella Rumpf -, l'opera di Julia Ducournau è viva, vibrante, ha il potere di far sentire il Cinema come vorrei si potesse percepire ad ogni visione, di quei poteri che ti lasciano steso dopo una scopata che ti ricorderai dopo anni e anni, o una mangiata goduriosa e senza ritegno.
Questo perchè, a prescindere dai sottotesti, o dalle possibili letture alle quali la pellicola si presta, Raw è un film profondamente umano, che racconta senza ombra di dubbio e peli sulla lingua la natura affamata che mostriamo, il desiderio che si fa strada nel cuore e nel ventre di ognuno di noi, a prescindere dal fatto che si sia disposti ad accettarlo, o anche solo ad ammetterlo.
Personalmente, ho fatto coming out sulla mia natura da parecchio tempo, ormai.
E la cosa non ha fatto altro che farmi sentire bene. E anche di più.
Perchè è senza dubbio vero che siamo crudeli, affamati, terribili, senza freni, e che quasi sempre dobbiamo muoverci nel mondo come se avessimo il freno a mano tirato: eppure, quando lo vogliamo, lo desideriamo, lo bramiamo, siamo presenti, furiosi, caldi, selvaggi, affamati.
E quella è la condizione che mi si addice di più.
Quella che mi piace vivere.
Quella che Raw ha tradotto in immagini.




MrFord




martedì 1 agosto 2017

Karate Kid, once again



E' questo, il bello dell'estate.
Arrivare alla fine di una giornata densa e stancante, pensare di programmare una serata e poi vedere tutto ribaltato a causa delle incombenze quotidiane e domestiche, e poi, di colpo, in televisione, quasi la settima arte volesse fare un regalo, Karate Kid.
Il primo, l'inimitabile, originale, nato per essere una versione per ragazzi di Rocky, e come quest'ultimo diretto da John Avildsen.
Un altro pezzo della mia infanzia, e di quegli anni ottanta che hanno sfornato un cult dietro l'altro.
Un film che, a prescindere dal valore - comunque effettivo -, dai personaggi - tutti riuscitissimi - e dalla morale - molto positiva - passerà alla storia per quel "dai la cera, togli la cera" che avranno citato tutti almeno una volta - perfino chi di Cinema non mastica un cazzo di niente - e quel colpo della gru che, allo stesso modo, chi era bambino - e non solo - avrà tentato di replicare in barba all'esito e ai risultati, o al fatto di trovarsi ad un torneo di arti marziali oppure da solo nella propria camera.
Non ricordo quante volte ho visto questo film, dai tempi delle elementari ad oggi.
Eppure, non c'è stata una sola volta in cui mi abbia stancato, e con il passare del tempo ha finito addirittura per rivelare sfumature sempre più interessanti - Daniel, protagonista della pellicola, non è un eroe completamente positivo, testimonianza di questo il fatto che a sua volta alimenti con i mezzi che possiede la guerra contro i bulli del Cobra Kai, il dojo dalle divise più belle mai realizzate per un film di arti marziali - oltre a delineare sempre meglio il rapporto a metà tra quello di amicizia e di paternità tra Miyagi - che perse un figlio e la moglie a cause delle complicanze nel corso del parto di quest'ultima - e lo stesso Daniel, che inizia con quel "dopo, dopo!" in casa Ford più che mitico e termina con il sorriso sardonico di quello che rappresenta forse il maestro per antonomasia nelle storie di formazione dagli anni ottanta in avanti - e che caratterizzerà le chiusure di tutti e tre i film che lo vedranno protagonista assieme al suo allievo prediletto -.
Un gran bel modo di festeggiare il giro di boa dell'estate, ricordare i tempi in cui sognavo di essere Daniel e trovare un maestro come Miyagi e quelli in cui attendo di poter vedere il Fordino - comunque conquistato dai primi minuti di visione prima di interrompere la stessa per sopraggiunti limiti di orario per la nanna - sperando di poter diventare per lui una guida come questo curioso tuttofare venuto da Okinawa è stato per un ragazzino del Jersey trasferitosi a Los Angeles e ritrovatosi a partire da zero, in tutti i sensi.
E sulle note di "You're the best", farmi trasportare come fosse la prima volta, con il potere che solo alcuni film magici hanno avuto e continuano ad avere, facendomi massaggiare dalla malinconia positiva e dalla stessa voglia di vivere ed imparare di Miyagi, che alla domanda di Daniel "Ne ha mai presa una?" riferendosi al gioco delle bacchette e della mosca, replica "Non ancora".
Non ancora, Miyagi-San.
Eppure sempre.
Arigato.




MrFord




lunedì 24 luglio 2017

Mommy (Xavier Dolan, Canada, 2014, 139')





Si può dire che Mommy, in un certo senso, rappresentasse in qualche modo la Moby Dick di Dolan, giovanissimo e fenomenale regista incensato dalla critica di tutto il mondo, e la mia come spettatore dei suoi lavori, quando tempo fa ho dato inizio al recupero della sua filmografia in ordine cronologico.
Se, dunque, potevo aver paura in una certa misura di approcciare il suo lavoro al principio, Mommy rappresentava quella stessa paura nella sua versione più mostruosa e titanica, considerato il suo status sin dai tempi dell’uscita in sala ed ai riconoscimenti a Cannes.
Dunque, considerato tutto, devo togliermi questo peso dal cuore: Mommy è un film strepitoso, realizzato con un talento visivo pazzesco, emotivamente d’impatto, come sempre per i lavori del giovane Xavier costruito in modo sublime attorno alla Musica – la scena cult sulle note di Wonderwall, ma anche i passaggi su Colorblind dei Counting Crows o Celine Dion sono da brividi -, destinato a rappresentare uno standard difficilmente superabile dai cineasti delle prossime generazioni, iniziato prendendosi il tempo e chiuso in modo pazzesco, quasi fosse una versione del Nuovo Millennio del fu I 400 colpi.
Eppure, lo ammetto, non è e non sarà il preferito, il film del cuore di Dolan, per quanto mi riguarda.
Forse, il fatto di esserci arrivato un gradino alla volta, ed avendo visto a breve distanza anche i quattro film precedenti del ragazzo, ha tolto in parte l’entusiasmo che una visione così sconvolgente provocherebbe a mente sgombra, senza sapere che Mommy è in realtà il culmine di un percorso iniziato con J'ai tuè ma mere, proseguito con Les amours imaginaires, LawrenceAnyways e Tom a la ferme.
In Mommy tutti i temi cari al regista canadese trovano forma e perfezione – forse perfino troppa -, e così come fu per quello che io considero il Maestro dei Maestri – il signor Kubrick, per intenderci – quello che è oggettivamente il suo film migliore ha finito per segnarmi dentro in misura minore rispetto ad altri meno potenti e perfetti ma più spontanei.
Certo, sto fancendo le pulci a quello che, con ogni probabilità sarà ricordato come uno dei film simbolo di questa seconda decina degli Anni Zero, dall’uso del formato – che potrà apparire un po’ pretenzioso, ma che risulta perfetto se applicato alle emozioni dei personaggi – ad un protagonista sopra le righe, rabbioso e commovente, un “rebel without a cause” che raccoglie il testimone dei Jimmy Dean e lo porta ad un livello ancora più alto, alimentando il fuoco di quello che è uno dei rapporti più complicati e profondi che ognuno di noi vive nel corso dell’intera esistenza: quello con la propria madre.
I conflitti, i momenti d’amore e confidenza, la sensazione di dipendenza ed allo stesso modo la necessità del distacco, l’escalation di un legame che finisce per influenzare chiunque in positivo come in negativo, nella formazione e nella crescita, in amore ed una volta ritrovatisi genitori: il rapporto di Steve con Die è senza dubbio uno dei più intensi e complessi passati sul grande schermo, erede della tradizione che va da Psyco a Tutto su mia madre, ed indaga senza snaturare nulla, dagli insulti agli abbracci, dalla posizione egoistica di Die a quella di Steve, dai piccoli gesti di generosità di una e dell’altro in un mare in tempesta come è giusto che la vita sia.
In un certo senso, Mommy è un film di guerra, il fratello maggiore e cresciuto di J'ai tuè ma mere, la lotta di due entità indivisibili che iniziano la loro esistenza insieme, in simbiosi, la proseguono in battaglie alternate da periodi di pace vissuti con trasporto e tornano a combattersi pur sapendo che fughe, tradimenti, ferite e lacrime non potranno mai intaccare il nodo che tiene insieme i reciproci cuori.
Come ogni guerra che si rispetti, non ci sono veri vincitori, né vinti.
E forse, solo un ultimo salto potrà liberare davvero tutti.
E portarli dove nessun muro, interno ed esterno, potrà più separare quegli stessi cuori.




MrFord




 

mercoledì 8 marzo 2017

Land of mine - Sotto la sabbia (Martin Zandvliet, Danimarca/Germania, 2015, 100')




Il bello del Cinema - e dell'Arte in generale, a prescindere dal campo in cui ci si muove -, almeno a mio parere, è la capacità di raccontare storie trasformandole da qualcosa di lontano e "sentito dire" in altro decisamente più vicino, interiore, quasi vero per chi ne è soltanto spettatore.
Non avevo mai sentito o letto, ad esempio, neppure ai tempi della scuola, della credenza degli alti papaveri della Germania nazista che quello che è passato alla Storia come lo sbarco in Normandia sarebbe dovuto avvenire sulle coste danesi, e che le stesse per questa ragione furono costellate di mine, tanto da rappresentare un pericolo anche a guerra conclusa.
Allo stesso modo, non avevo idea che molti dei soldati tedeschi superstiti, per la maggior parte ragazzini, vennero "arruolati" a resa della Germania compiuta per mettere in sicurezza tutte le aree giudicate pericolose proprio a causa delle mine in tutto il paese, fungendo, di fatto, da carne da macello per l'esercito danese.
La vicenda di Land of mine, uno tra i candidati all'Oscar per il miglior film straniero assegnato a Il cliente di Fahradi, racconta la drammatica, piccola epopea di un gruppo di giovanissimi tedeschi divenuti la squadra di lavoro di un durissimo sergente danese cui è stata promessa la libertà - e con essa il ritorno a casa - a lavoro terminato, senza possibilità di poter rifiutare l'incombenza.
Il lavoro di Martin Zandvliet, che sulla carta temevo molto per il rischio potenziale di retorica, si è rivelato al contrario una piacevolissima sorpresa, ripescando atmosfere come quelle di cult legati alla Seconda Guerra Mondiale in modo "trasversale" come Arrivederci, ragazzi! di Malle e trovando nel charachter del sergente Rasmussen un pilastro sul quale poggiare non solo l'ossatura della vicenda e l'evoluzione dei protagonisti, ma anche la figura paterna inesorabilmente assente, considerati i tempi, dei giovani soldati assegnatigli e soprattutto la cartina tornasole delle emozioni umane pronte a scatenarsi in questi scenari decisamente al limite.
Se, infatti, per certi versi si può considerare il lavoro di Zandvliet - erroneamente, a mio parere - convenzionale e forse troppo concentrato - per una volta, non mi sarebbe dispiaciuto un minutaggio maggiore con un approfondimento ed un'evoluzione meno rapida della vicenda -, dall'altro assistiamo non solo alla terribile formazione di giovanissimi ancora lontani dall'essere e diventare uomini già segnati dalla guerra, ma anche e soprattutto al ribaltamento delle parti, ritrovando i soldati danesi nel ruolo di oppressori e quasi "bulli" all'indirizzo di quelli che, per buona parte del conflitto, erano stati esattamente le stesse cose - e peggio - per le popolazioni di mezza Europa.
Lo stesso Rasmussen, in molti sensi la figura cardine e "positiva" dell'opera, mostra spesso e volentieri il suo lato violento e terribile, quello per mezzo del quale ogni uomo, soprattutto in situazioni estreme, mostra la propria Natura, che, continuo ad esserne convinto, è predatoria e feroce: dal pestaggio che apre la pellicola all'umiliazione "canina" di uno dei ragazzi, fino alle dimostrazioni di amore, se così si può definire, per la propria squadra, e quelli divenuti in una certa misura suoi figli, il pubblico finisce per trovarsi di fronte l'intero spettro di umanità che si potrebbe aspettare da ognuno, dalla crudeltà agli atti d'amore in grado di mettere a rischio chi li commette.
In questo senso, Land of mine è un film piccolo e non perfetto, ispirato da fatti rimasti in ombra rispetto alle grandi pagine della Storia di quel periodo, ma non per questo meno umano, intenso, sentito: in questo duemiladiciassette, mi pare di essere alla ricerca proprio di questo.
Di film che abbiano cuore.
Anche quando è nascosto dietro crudeltà e sofferenza.
Sotto la sabbia.
Del resto, siamo umani.




MrFord




 

martedì 21 febbraio 2017

Moonlight (Barry Jenkins, USA, 2016, 111')




Quanti dolori, piccoli e grandi, nasconde una crescita? Una vita?
Quanto momenti e situazioni ci paiono insormontabili ad un'età per apparire quasi uno scherzo ad un'altra? E quanto di come siamo stati o siamo diventati è influenzato da quello che abbiamo vissuto, dalla strada che abbiamo percorso?
Di norma, associamo i nostri ricordi o i momenti più importanti ad un momento, una canzone, un film, una fotografia, un colore che ci riportino a quando quella ragazza ci appariva il potenziale amore imperituro, o quello con cui passavamo i pomeriggi al parco a far finta di realizzare grandi sogni come il migliore amico di sempre e per sempre.
Eppure, ogni giorno che passa, pur rimanendo noi stessi, finiamo per essere sempre diversi, non tanto perchè cambiamo, quanto perchè, come cantava Bowie, "Time may change me".
O meglio, quello che il tempo ci porta.
Ai tempi dei primi due anni delle superiori - credo i peggiori che abbia vissuto nella vita, in termini intimi e personali - ero timoroso, chiuso e timido, reagivo solo lasciando trapelare in parte la rabbia che provavo dentro, ero il più basso della classe ed un vero fuscello.
Ricordo quando una volta, mentre eravamo in palestra, venne a cercarmi la compagna che mi piaceva di più: i miei "amici" di allora, altri sfigati come me, si prodigarono in buffetti e complimenti, e quando fummo soli, lei non fece altro che chiedermi gli appunti di non ricordo pure quale materia, senza neppure sforzarsi troppo a farmela in qualche modo annusare.
Chi funzionava, allora - considerato lo standard della classe in cui ero -, era un ragazzo che faceva soldi presumo spacciando fumo in zona, che nei tre anni che condivisi con lui mi regalò solo due quasi magie, consigliando ad una ragazza che mi piaceva di mettersi con me - e pensare che io lo detestavo, e cercavo di parlarci il meno possibile - ed una testata in faccia al leccaculo della classe, al terzo anno.
Ricordo anche che, proprio in quel periodo, ebbe un terribile incidente in motorino: stampelle per mesi, denti rotti, diverse fratture. E ricordo che non fui dispiaciuto. Anzi.
Qualche anno fa, per caso, ci incontrammo a Milano la vigilia di natale.
Era imbolsito, aveva perso i capelli, zoppicava ancora e di sicuro non era diventato il boss della droga neppure di una qualche zona di periferia.
Chi mi conosce ora, invece, quasi non crede che io sia ancora quel ragazzino.
Ora che cerco di trasformare la rabbia che avevo in pazienza nello spiegare ai Fordini tutto quello che posso in modo che possano pensare di aver ricevuto qualcosa da me, ed evitarsi almeno qualcuno tra quei momenti in cui ti senti così profondamente sbagliato.
Ora che ho venticinque centimetri e trenta chili in più, i tatuaggi, un certo look, e finisco per risultare, almeno per chi non mi conosce, l'apparente spacciatore.
Nel corso della visione di Moonlight mi sono specchiato in Chiron e ritrovato in Juan, ho odiato Paula e pensato che, fossi stato proprio Chiron, non mi sarei limitato - SPOILER - ad aggredire il bullo che mi perseguitava: l'avrei ammazzato, quel sacco di merda, non avendo niente da perdere.
Nel corso della visione di Moonlight ho visto un "giovane" regista - siamo praticamente coetanei - raccontare una storia con una passione straripante, che prescinde lo stile jazz della narrazione, la fotografia ed i colori.
Nel corso della visione di Moonlight, ho rivisto e sentito tutto il carico da novanta di cose come Guida per riconoscere i tuoi santi.
Le cose che conoscono tutti quelli che si sono dovuti guadagnare, a prescindere dai drammi, ogni pezzetto minuscolo di ciò che sono, anche quando, per farlo, hanno dovuto diventare "cattivi".
Nel corso della visione di Moonlight ho pensato, per un attimo, che non ci sarà gara tra un titolo come questo e cose enormi come Arrival e La La Land.
Eppure, cazzo.
Questo film ha i muscoli.
E se li è tutti guadagnati.
Ed è giusto coccolarlo, abbracciarlo, toccarlo, sentirlo.
Perchè sono cose che chi ha fatto un certo percorso non lascia fare a quasi nessuno.




MrFord




mercoledì 18 gennaio 2017

Il GGG - Il grande gigante gentile (Steven Spielberg, USA/India, 2016, 117')




Voglio sia chiaro a tutti che, come molti della mia generazione, voglio un bene sconfinato a Steven Spielberg: grazie a lui e ad alcuni film come E.T., Indiana Jones, Incontri ravvicinati del terzo tipo ma anche Duel, Lo squalo, L'impero del sole ho avuto le prime esperienze sulla pelle della meraviglia del Cinema, consolidate, nonostante qualche scivolone, in tempi più recenti con Schindler's List, Munich o Prova a prendermi.
Ad oggi, posso contare davvero sulle dita di una mano le opere del regista che ancora non ho affrontato da spettatore.
Eppure, con il Nuovo Millennio, qualcosa tra me ed il vecchio Steven si è rotto: La guerra dei mondi, War Horse e Lincoln, nello specifico, hanno messo così a dura prova la pazienza da farmi dubitare di molto di quel bene, e soltanto il recente e più che discreto Il ponte delle spie aveva riacceso la speranza.
Ma evidentemente anche Spielberg non deve volermi troppo bene, perchè con questo Il GGG ce l'ha messa davvero tutta per farsi detestare come nei momenti peggiori delle tre rotture di coglioni quantomeno di ottavo livello - per dirla come Rocco Schiavone - citate poco sopra: a prescindere, infatti, dall'aspetto tecnico - come sempre curatissimo e lavorato ad uso e consumo dell'hd e del 3D neanche fossimo in un parco tematico da Universal Studios -, e dal romanzo per ragazzi che l'ha ispirato - e che, occorre ammetterlo, non ho mai particolarmente amato -, Il grande gigante gentile è la favoletta per bambini buonista e noiosa per eccellenza, una sorta di Hugo Cabret - altro titolo che avevo detestato con tutte le mie forze - all'ennesima potenza, resa ancora più insopportabile da una piccola protagonista saccente e fastidiosa - ed io adoro i bambini - ed un modo di parlare dei giganti - ma questa, va detto, non è certo colpa del regista - assolutamente insopportabile ed adattato neanche tutti gli spettatori fossero un pò indietro di cottura, per dirla in termini metaforici ed edulcorati.
In buona sostanza, Il GGG ha tutte le carte in regola per essere il tipico film da sabato pomeriggio su Italia Uno, di quelli che perfino i piccoli - ormai tutti troppo svegli ed esposti a molte delle visioni non solo degli adulti, ma anche più adulte dei film d'animazione di nuova generazione - snobbano vinti dalla noia dopo qualche minuto, figurarsi dopo un paio d'ore.
Non basta, dunque, la sola perizia tecnica o meraviglia di effetti - la sequenza della caccia ai sogni è sicuramente una gran cosa, visivamente parlando -, se le stesse mascherano semplicemente carenza di idee e coinvolgimento: in questo senso Spielberg dovrebbe imparare da se stesso, quando con Hook riuscì nell'impresa certo non facile - seppur confezionando un prodotto imperfetto - di unire la magia della favola con l'epicità del titolo ad ampio respiro, portando gli spettatori adulti a riscoprirsi bambini ed i bambini a sentirsi un pò più "grandi".
Nel caso del GGG, tutto pare, semplicemente, una presa per il culo.
Adulti o bambini, conta poco.
E sinceramente, dopo aver amato incondizionatamente Swiss Army Man, ho vissuto la sequenza dedicata alle scoregge verdi degna della volgarità del peggior Cinepanettone.
E del peggior Cinema.
Cinema di cui, tristemente, Il GGG fa senza dubbio parte.




MrFord



lunedì 2 gennaio 2017

Oceania (Ron Clements&John Musker, USA, 2016, 107')




Una delle prime cose che ricordo dei tempi dell'amicizia con Julez fu il suo dichiarato amore per il mare, almeno quanto del profumo di una chioma che pareva una criniera ed una lingua lunga che era quasi impossibile mettere a tacere: quando, una volta iniziato il nostro viaggio insieme, affrontammo le prime vacanze, ed i viaggi, potei sperimentare sulla pelle quell'amore.
In tutta onestà, non ho mai conosciuto nessuno a suo agio quanto lei in acqua, quasi fosse un ambiente più confortevole e consono della terra sulla quale camminiamo ogni giorno della nostra vita: io nuoto e mi arrangio senza nessun timore, posso sperare di vantare una certa tenuta atletica, eppure se mi immergo e devo fare i conti con l'apnea o la respirazione, vado in corto circuito.
Tendenzialmente, non tengo neppure troppo gli occhi aperti, una volta in immersione.
Ricordo le risate che - sue, soprattutto - giunsero quando, in Australia, sulla barriera corallina di Green Island, tentai una goffa esperienza di snorkeling - e non parliamo di spedizioni negli abissi, sia chiaro -, o sempre nel continente down under cercai con altri di salire controcorrente una cascata in un fiume nel Kakadu National Park - fallendo dopo aver bevuto un paio di litrazzi d'acqua -.
Il tutto mentre lei pareva, come spesso si definisce, una sirena.
La visione di Oceania è stato in parte come rivivere quei momenti, ora che gli anni mi hanno reso sensibilmente più grosso di quando ci siamo conosciuti ed i nostri battibecchi, ancora oggi, paiono gli stessi di Maui e Vaiana - modificato per l'occasione dall'originale Moana, effettivamente poco vendibile qui in Italia -, il primo istintivo e pasticcione, la seconda volitiva e decisa a trovare e percorrere la sua strada: ma la bellezza dell'ultimo lavoro della premiata ditta Musker e Clemons non si limita alla capacità di evocare ricordi ed emozioni in questo vecchio cowboy.
Perchè Oceania, oltre a vantare un comparto tecnico pazzesco - ormai anche in casa Disney possiamo ritrovare la meraviglia dell'animazione offerta dagli standard Pixar -, un gran bell'adattamento - per una volta - ed una bellissima colonna sonora, è un viaggio che tocca corde di modernità e riconoscimento del ruolo della donna nella società e nel mondo che porta ad un altro livello quello già analizzato negli ultimi anni - Ribelle e Frozen sono forse i due esempi più importanti - dalla grande D, un'avventura di formazione che coinvolge e colpisce a qualsiasi età, commuove con la figura - splendida - della nonna di Vaiana e strappa sorrisi grazie ai botta e risposta tra i due protagonisti, fino a regalare un crescendo finale visivamente strepitoso grazie alla battaglia con Teitani ed alla risoluzione della stessa, quasi una lezione di umanità ed ecologia, ed un monito al rispetto non solo del nostro pianeta ma anche e soprattutto della figura della Madre e della Donna, divinità che, come la Terra, è creatrice di vita, e se privata del suo cuore finisce per diventare una potenza distruttrice che nessun uomo da solo potrà mai affrontare.
E sono stato molto fortunato, a poter godere di un'esperienza di visione come questa accanto a Julez ed ai Fordini - nonostante sia curioso che il momento più apprezzato dal Fordino sia stato quello del "mondo dei mostri", unica parentesi a mio parere davvero stonata con la liricità del resto del film aggiunta probabilmente proprio per intrattenere il pubblico più piccolo - in una sala praticamente deserta - "Che bello vedere i film solo noi!" ha sentenziato AleLeo - il pomeriggio della vigilia di natale: perchè ho potuto solleticare lo spirito di viaggiatore dentro di me, immaginarmi bambino, uomo ed un giorno vecchio, sperando di poter essere un esempio come quello della nonna di Vaiana per i miei nipoti, vedere i miei bambini accanto a me e commuovermi anche per quelle scene che loro comprenderanno soltanto tra molti anni, e vedere la magia negli occhi e nei capelli di quella sirena che è entrata nella mia vita ormai quasi undici anni fa e destinata, in un modo o nell'altro, risate da snorkeling o scontri all'ultima parola, a restarci per sempre.
Oceania definisce, una volta ancora e con una profondità oceanica, il concetto di donna e di madre.
Ed avere la fortuna di viverlo accanto ad una Donna ed una Madre, rende tutto ancora più magico.




MrFord




 

martedì 29 novembre 2016

Kubo e la spada magica (Travis Knight, USA, 2016, 101')




E' curioso come e quanto, a volte, il Cinema d'animazione di qualità - fatta eccezione per realtà ormai consolidate come Pixar o Ghibli - viaggi in direzione diametralmente opposta a quella della distribuzione: di recente, ho felicemente massacrato quell'obbrobrio ipercommerciale di Trolls, merdina gommosa targata Dreamworks che ha letteralmente invaso la Penisola, mentre più o meno negli stessi giorni passava praticamente sotto silenzio Kubo e la spada magica, produzione ben più valida e profonda ma con un appeal commerciale decisamente più scarso - almeno agli occhi di chi decide questo tipo di cose -.
Il lavoro di Travis Knight, infatti, pescando a piene mani dalle fiabe orientali - ma non solo, si noti l'ispirazione al magnifico La fortezza nascosta di Kurosawa - e dall'approccio visivo della stop motion, riesce a presentarsi come un mix perfetto di classicità vecchio stampo ed ironia moderna, tenuto vivo da personaggi che funzionano dal primo all'ultimo, un importante sottotesto legato al valore dei ricordi e della vita vissuta con chi amiamo e ci ama - leggasi principalmente Famiglia - ed un ritmo piacevole che permette al prodotto di risultare non banale ad una prima occhiata prettamente estetica: personalmente, malgrado il Fordino non ne sia stato particolarmente conquistato se non nelle fasi in cui entravano in gioco gli animali antropomorfizzati della storia di Kubo, ho trovato il tutto emozionante e ben costruito, in grado di ricordare in qualche modo il primo Kung Fu Panda e tutta la filosofia dell'outsider guidato dall'amore che ha fatto la fortuna dei film d'avventura figli degli anni ottanta da Karate Kid ai Goonies, senza per questo, per l'appunto, risultare un'operazione di mero amarcord o troppo "vecchia" - gli scambi tra Scimmia e Scarabeo sono uno spasso, ed in particolare la primate vince a mani basse nella categoria "personaggio dell'anno" per quanto riguarda i cari, vecchi "cartoni animati" -.
L'utilizzo, inoltre, di due strumenti narrativi come il viaggio ed il sogno rendono il film solido quanto piacevole da vedere a prescindere dalla vostra età anagrafica, segno che il bersaglio è stato centrato e che, in fase di sviluppo, non si è pensato solo ed esclusivamente a merchandise e doppi giochi da multisala nel weekend per famiglie senza la minima idea di come intrattenere i propri figli: e dall'utilizzo delle zie di Kubo come nemiche giurate di sua madre - una cosa quasi shakespeariana anche come rappresentazione delle due "streghe" una volta tre, e di nuovo un rimando ad un altro gioiello di Kurosawa, Il trono di sangue - a quello del nonno pronto a fagocitare il nipote e tutta la sua eredità fino ad un finale che richiama, ed è un altro richiamo alla saga di Po, quello splendido di Kung Fu Panda 3, viene da chiedersi come sia possibile che un prodotto di questo tipo resti una chicca da appassionati quasi tutti entusiasti e non un prodotto sul quale investire guardando per una volta alla qualità e non alla quantità.
Purtroppo per noi tutti, ho l'impressione che quest'ultimo quesito resterà un mistero anche per chi riesce a vedere oltre come Kubo, che porta comunque fiero lo stendardo degli outsiders regalando anche ai bimbi di questa generazione un personaggio in cui identificarsi imparando che farsi il culo aiuta sempre, e avere qualcuno che ci copre le spalle mentre ce lo facciamo aiuta ancora di più.




MrFord




 

venerdì 27 maggio 2016

Le cinque leggende

Regia: Peter Ramsey
Origine: USA
Anno:
2012
Durata: 97'









La trama (con parole mie): Jack Frost, legato a poteri nati dal freddo e dalla Luna, dopo secoli e secoli di solitudine ed incapacità di comunicare con il mondo mortale, viene convocato da Babbo Natale al Polo Nord perchè selezionato come nuovo Guardiano del mondo e delle speranze dei bambini a fronte di un'iniziativa dell'Uomo Nero volta a minare qualsiasi speranza dei giovani terrestri rispetto ai miti ed alle leggende del pianeta.
Inizialmente scettico, lo spirito troverà proprio grazie al sostegno dei suoi riluttanti "colleghi" e di un gruppo di bambini pronti ad aggrapparsi proprio alla sua presenza la forza di reagire e far scattare la scintilla necessaria per debellare il Male ed iniziare un nuovo percorso di speranza e magia legato ai sogni, alle passioni ed alla capacità di non vergognarsi di ciò in cui si crede.
Basterà questo, a fermare l'Uomo Nero?














Considerato il tipo che sono e mi dipingo pare assurdo, Fordino a parte, che possa concedere una possibilità anche remota ad un recupero come questo, legato a doppio filo al mondo delle favole ed al concetto di non mollare, a prescindere dalla condizione in cui ci si trovi.
Eppure, lo ammetto, erano anni che lo meditavo.
Prima di tutto perchè, per questioni lavorative, mi sono ritrovato, ai tempi dell'edizione in bluray di questo titolo, a dover ritrattare l'opinione maturata a scatola chiusa legata all'uscita del lavoro firmato da Peter Ramsey a seguito di una serie reiterata di visioni pronte a riconoscere, quantomeno, lo sforzo contenutistico e produttivo dei suoi autori, e dunque spinto, attualmente, dalla curiosità del Fordino a proposito di un film in cui figuravano Babbo Natale, il Coniglio di Pasqua - anche se, da queste parti, più che un rito cristiano appare come una sorta di festività del cioccolato - ed altre figure mitiche ad essi associate pronte a "dare le botte" all'Uomo Nero, famigerata nemesi nota praticamente a tutti i bambini del mondo.
La visione complessiva de Le cinque leggende, dunque, lo posso confermare a scapito della mia eventuale reputazione, è stata decisamente positiva, nonchè distante, in termini di qualità, messaggio trasmesso e perizia, anni luce da molti titoli dello stesso genere spinti anche oltre misura nel corso delle ultime stagioni cinematografiche: grande merito di questo pur non clamoroso successo è legata alla resa grafica dei main charachters, dalla versione tatuata di Babbo Natale a quella australiana del già citato Coniglio, senza contare l'impatto notevole delle evoluzioni del ghiaccio di Jack Frost, delle ombre dell'Uomo Nero e della sabbia di Sandman, per la prima volta proposto sul grande schermo in una versione in grado di dare un'alternativa all'immagine dello stesso personaggio legata ai fumetti firmati negli anni novanta da Neil Gaiman.
Per il resto, la vicenda ed il suo svolgimento non inventano certo nulla di nuovo, ma portano sullo schermo una storia piacevole e coinvolgente, che si lascia guardare più che volentieri a qualsiasi età, rimbalzando, nel mio caso, dalle domande a raffica del Fordino - che nel corso di qualsiasi visione, ormai, vuole sapere i perchè di tutto e di più - al piacevole intrattenimento per i vecchi della casa, pronti a tornare bambini per un'ora e mezza immaginando quale tra i Guardiani sarebbe stato, ai tempi, il preferito.
Come sempre in questi casi, si è inoltre optato per un finale che chiude la vicenda ma non le porte ad un eventuale sequel che, al momento, non mi pare sia stato progettato o annunciato, ma che non vedrei affatto male se realizzato con lo stesso piglio di questo primo capitolo: e se Jack Frost con la sua aura da outsider destinato a diventare un riferimento per gli altri Guardiani pare un mix dei vecchi cartoni giapponesi e dei nuovi idoli delle teenager - divertenti, in questo senso, i siparietti con le fatine dei denti pronte ad andare in brodo di giuggiole neanche fosse una specie di Justin Bieber -, personalmente le potenzialità ancora da esprimere dimorano tutte nel muto Sandman, che tra l'altro sarebbe ora fosse conosciuto di più anche qui in Italia, dove la tradizione legata ai sogni ha sempre snobbato quello che, nei paesi anglosassoni, è considerato il loro signore.
Ad ogni modo, dovesse capitarvi, in televisione o in una qualche sezione di offerte per l'home video online o in un negozio, date una possibilità a Peter Ramsey ed al suo lavoro: in fondo, basta poco per cominciare - o ricominciare - a credere, e la magia tornerà a farsi sentire.





MrFord




"The story ends, as stories do
reality steps into view
no longer living life in paradise - of fairy tales - uh
no, uh - huh - mmm - mmm."
Anita Baker - "Fairy tales" -









mercoledì 20 aprile 2016

Il libro della giungla

Regia: Jon Favreau
Origine: USA
Anno: 2016
Durata:
105'







La trama (con parole mie): il cucciolo d'uomo Mowgli, trovato solo nella giungla ed affidato ai lupi guidati da Akela dalla pantera Bagheera, è costretto ad abbandonare la sua famiglia adottiva a causa della minaccia rappresentata dalla tigre Shere Khan, predatore conscio della natura umana del bambino e deciso ad ucciderlo prima che possa crescere e diventare quello che lo stesso felino si aspetta.
Scortato proprio da Bagheera, Mowgli scoprirà, nel corso del suo viaggio attraverso la giungla, quanto le sue radici umane saranno fondamentali non solo per affrontare la nemesi felina, ma per guadagnare un posto unico all'interno del mondo animale una volta superate le difficoltà rappresentate dall'infido Kaa e del dispotico ed ambizioso re delle scimmie.
Le Legge della giungla, dunque, varrà anche per chi alla giungla, per natura, non appartiene?













Ai tempi delle scuole elementari e della mitica videoteca dell'altrettanto mitico Paolo, due Classici Disney si contendevano il primato delle visioni nell'allora casa Ford e la preferenza assoluta del sottoscritto: Robin Hood ed Il libro della giungla.
Alla notizia di una trasposizione cinematografica tutta effetti ed "umanizzazione" di quest'ultimo, ammetto di avere storto il naso - e non poco -, all'idea che i ricordi e l'affetto per quello stesso Classico potessero essere in qualche misura intaccati da questo esperimento, tra l'altro targato Jon Favreau, un mestierante di Hollywood che personalmente ho sempre particolarmente apprezzato, con le dovute proporzioni.
Devo ammettere, in questo senso, di aver recuperato il titolo in prima istanza solo ed esclusivamente in favore del Fordino, che con la sua fervente passione per gli animali sta di fatto definendo la direzione delle visioni pomeridiane di casa Ford quando sono lontano dal lavoro, tra documentari, cartoni animati o pellicole che richiamino in qualche modo la fauna terrestre, senza troppi pensieri a proposito di quello che potrebbe apparire ai miei occhi: il risultato, invece, occorre ammetterlo, è stato decisamente meno peggio del previsto, con una trasposizione dell'opera di Rudyard Kipling più adulta e meno effervescente del cult animato - che, musicalmente, continua a fare la differenza -, quasi "dark" - per quanto il termine possa passare, in questo contesto -, un buon ritmo ed una caratterizzazione da film di formazione quasi pre adolescenziale in grado quantomeno di tentare un difficile aggancio tra l'epoca in cui si è ancora bambini e quella in cui si pensa di essere già adulti.
Del resto, Il libro della giungla è, di fatto, un lavoro di costruzione, la descrizione del percorso di emancipazione di Mowgli che può essere considerato una rappresentazione di quello che ognuno di noi vive proprio a cavallo dell'adolescenza, e che ha ispirato altri cult di tempi recenti come Vita di Pi, a prescindere dalla questione "felina" del racconto.
Favreau, dal canto suo, conosce bene il mestiere ed i segreti grazie ai quali unire l'approccio mainsteam a quello più ricercato, di fatto limitando quello che l'egida Disney pone rispetto al pubblico più esigente - ed inutilmente pretenzioso, occorre dirlo - senza dimenticare l'impatto empatico sul pubblico che, al contrario, una pellicola finisce per volersela vivere, più giovani in primis - la lotta con Shere Khan in chiusura di pellicola richiama a gran voce l'ottima parte finale di Kung Fu Panda 3, amatissimo da queste parti -: per il resto, è una caccia alla citazione del film d'ispirazione ed alle differenze dallo stesso - ottima l'idea di sostituire il Kaa maschile alla versione femminile doppiata in originale da Scarlett Johansson - così come una cavalcata accanto ad un Mowgli irriverente ed istintivo ma non bambinesco, sostenuto da un mondo animale molto più umano di quanto potremo mai essere noi custodi e fruitori del rosso arbitro del destino della fauna del pianeta.
L'ideale approccio per questo Il libro della giungla è quello di un prodotto d'intrattenimento in grado di smuovere istinti primordiali in ciascuno di noi grazie ad una galleria di personaggi indimenticabili - e non parlo di influenze hollywoodiane, quando di Letteratura - sfruttati ottimamente, ed in grado di reggere il confronto con un precedente che ha fatto la Storia di almeno un paio di generazioni: forse non si tratterà della visione del periodo, o tantomeno dell'anno, ma di una più che discreta lezione su quello che può diventare il Cinema mainstream se poggiato su basi solide e portato in scena con grande professionalità ed empatia.
Onestamente, non saprei se la parte autoriale a tutti i costi della settima arte saprebbe fare altrettanto.





MrFord




"What am I supposed to do after we done everything that we've done?
Who is your replacement?
Are we still good? Are we still good?
Are we still good? Are we still good?"
Drake - "Jungle"- 





martedì 15 dicembre 2015

Il viaggio di Arlo

Regia: Peter Sohn
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 93'







La trama (con parole mie): in una realtà cambiata da una deviazione del meteorite che si presume possa aver causato l'estinzione dei dinosauri, gli enormi rettili vivono ancora la Terra come avrebbero fatto in loro vece gli uomini, rimasti ad uno stato brado di quasi bestie. Arlo e la sua famiglia, che si occupano principalmente di agricoltura nella loro fattoria, vivono giorno per giorno e stagione per stagione preoccupandosi del raccolto e di avere cibo sufficiente per l'inverno.
Quando, a causa delle continue intrusioni di un cucciolo d'uomo, Arlo e suo padre finiscono al di fuori dei confini della loro terra ed il genitore del timoroso dinosauro perde la vita per salvarlo, lo stesso Arlo, schiacciato dal senso di colpa, finisce per tentare di catturare l'intruso finendo per perdersi con lui nelle terre selvagge: il loro viaggio di ritorno sarà un modo per entrambi di crescere e conoscersi, costruendo un legame che nessuno dei due dimenticherà.












Fin dai tempi dei suoi esordi con Toy Story, sono stato un acceso sostenitore dell'operato Pixar, probabilmente una delle realtà più importanti della Storia del Cinema d'animazione insieme al Ghibli di Hayao Miyazaki: poche volte, in questi vent'anni o poco più, del resto, i geniacci di questo gruppo nato da una costola di Mamma Disney hanno finito per deludermi, ed anche in quei casi si è trattato di semplici visioni, e non del consueto filmone che ci si sarebbe potuti aspettare.
Devo ammettere, però, che all'uscita de Il viaggio di Arlo, complici le vicissitudini produttive, l'uscita a pochissimi mesi di distanza dal magnifico Inside Out, il fatto che le prime recensioni fossero tutt'altro che positive, le mie speranze di incrociare il cammino con un titolo che mi sarei comunque portato dentro erano davvero ridotte al lumicino: fortunatamente per tutti gli occupanti di casa Ford, con questo lavoro Peter Sohn non solo ha ribaltato i pronostici della vigilia, ma ha compiuto due piccoli miracoli.
Uno è stato, di fatto, costruire la prima pellicola che il Fordino abbia visto quasi per intero rapito dalle immagini - del resto, adora i dinosauri quasi quanto gli animali - superando i problemi di tenuta che hanno tutti i bambini molto piccoli ed innescando reazioni da spettatore "grande" - la richiesta di spiegazioni rispetto al momento in cui Arlo e Spot si confrontano a proposito del destino delle loro famiglie è stata esemplare, in questo senso -, e l'altro quello di riuscire - anche se non con la stessa intensità - a commuovere il sottoscritto proprio come aveva fatto il già citato Inside Out.
Certo, io sto invecchiando e la paternità ha di fatto aperto una breccia rispetto a tutti i film legati a tematiche come il rapporto tra padri e figli, la formazione e la crescita, il concetto di famiglia e via discorrendo, eppure ho trovato, per quanto assolutamente derivativo - l'ombra de Il re leone è grossa come una casa - Il viaggio di Arlo uno splendido "road movie" in salsa Western - dunque, altra porta aperta sfondata da queste parti, dai brontosauri coltivatori ai tirannosauri mandriani, è una chicca dietro l'altra - legato a doppio filo ai concetti di superamento del dolore, amicizia, senso di responsabilità e legame con le proprie radici degno delle grandi epopee non solo americane, un titolo che, cambiando l'ordine degli addendi, avrebbe tranquillamente potuto parlare ad altre epoche e generazioni, considerata l'universalità dei temi che tratta ed il grande cuore che mette nel farlo.
Come se non bastassero, poi, emotività e passione, Il viaggio di Arlo sfoggia un comparto tecnico notevole soprattutto rispetto alla cornice naturale, splendida nel rappresentare la bellezza mozzafiato tanto quanto la crudeltà "super partes" della Terra, dalle tempeste alle frane, passando per la gioia di un frutto pronto a sfamare ed un altro in grado di confondere le acque neanche fosse la più colossale delle sbronze.
Ma il vero motore, ovviamente, de Il viaggio di Arlo, è l'amicizia costruita passo dopo passo, difficoltà dopo difficoltà, tra lo stesso Arlo e Spot, cucciolo d'uomo che ricorda il Mowgli de Il libro della giungla e il Due Calzini di Balla coi lupi, divertente e commovente ad un tempo, pronto a conquistare il cuore di ogni spettatore o quasi, padre oppure no che sia: l'evoluzione del loro rapporto, che sarà pur simile a tanti altri ma non per questo appare banale, scontata o eccessivamente furba, è una delle cose più semplicemente belle di questo finale di stagione, e quell'abbraccio prima dell'addio è un tuffo al cuore di quelli che non si dimenticano, proprio perchè appartenente alla vita di ognuno di noi, che è stato da una parte e dall'altra di quel momento, che si è sentito perso e si è ritrovato, che ha potuto contare su un amico e l'ha dovuto lasciare, che ha compreso cosa significhi amare e dover trovare la propria strada da solo.
E soprattutto, quell'abbraccio appartiene a chiunque di noi si sia fatto il culo abbastanza per lasciare la propria impronta.
Un'impronta che potrà non significare nulla per chi vive oltre, ma che per noi e chi amiamo ha più valore di qualsiasi altra cosa.





MrFord





"It's so easy now, cos you got friends you can trust,
friends will be friends,
when you're in need of love they give you care and attention,
friends will be friends,
when you're through with life and all hope is lost,
hold out your hand cos friends will be friends right till the end."
The Queen - "Friends will be friends" - 






domenica 6 dicembre 2015

Il giardino delle parole

Regia: Makoto Shinkai
Origine: Giappone
Anno: 2013
Durata: 46'





La trama (con parole mie): Takao, un liceale quindicenne abituato a vivere come un adulto e che coltiva il sogno di diventare un artigiano specializzato nelle calzature, adora la pioggia e sfrutta ogni giorno di brutto tempo per entrare più tardi a scuola e soffermarsi in uno dei giardini pubblici di Tokyo a disegnare modelli e riflettere.
Quando, in una delle sue ore di "fuga" incontra nel suo luogo preferito Yukari, una donna più grande di lui intenta a leggere sorseggiando birra e mangiando cioccolata, il suo mondo segreto viene turbato dalla presenza della stessa: da quel momento in avanti, la speranza, prima di Takao e dunque anche di Yukari, è che ogni giorno piova in modo da potersi incontrare e parlare delle proprie vite e dei sogni.
Quando Takao scoprirà che Yukari è in realtà una professoressa del suo stesso liceo allontanata dall'incarico per un sospetto legame con uno studente, l'equilibrio si rompe: dove porterà il loro rapporto, e la pioggia?










Nel corso degli anni, fin da quando, ai tempi dell'esplosione della passione del sottoscritto per il Fumetto, approcciai per la prima volta l'animazione nipponica, quest'ultima ha regalato al Saloon grandissime soddisfazioni, dal rivoluzionario Akira all'oscuro Ghost in the shell, passando per i Capolavori dello Studio Ghibli ed il lavoro straordinario di un altro grande artista scomparso troppo presto, Satoshi Kon: quando, dunque, la fama finisce per precedere un titolo proveniente dalla terra del Sol Levante le aspettative in merito finiscono per essere sempre altissime.
E' stato così, ai tempi, con prodotti stupendi - per motivi diversi - come Il vento dell'amnesia o Ninja Scroll, e più di recente con questo Il giardino delle parole, mediometraggio incensato spesso e volentieri come un commovente affresco al quale è impossibile resistere.
Come è accaduto, fortunatamente, poche volte in passato - ricordo la sonora dormita su I racconti di Terramare - il risultato, visione alle spalle, è stato quello di una parziale delusione: intendiamoci, il lavoro di Makoto Shinkai è tecnicamente strepitoso, animato alla grandissima, strutturato con criterio e, probabilmente, agli occhi di un quindicenne, incredibilmente struggente: peccato che non riesca, di fatto, ad abbattere i confini che il Tempo inesorabilmente pone nello spettatore quando cresce ed invecchia, come al contrario spesso e volentieri accade con i lavori di Miyazaki, in grado di parlare a chiunque dai tre ai centotre anni, e finisca per risultare un esercizio di stile che ai più stagionati tra noi apparirà come un cuginetto molto minore dell'indimenticabile Video Girl Ai.
Non ho voglia, però, di sminuire il valore di un'opera indubbiamente interessante che andrebbe visionata anche solo per la sua strepitosa resa visiva e l'attenzione ai dettagli - in alcuni passaggi pare quasi di trovarsi di fronte ad un film di fiction, tanto reali appaiono personaggi, movenze e cornice dell'azione -, ma semplicemente di dare una misura ad aspettative che potrebbero risultare dannose per la stessa o a giudizi decisamente eccessivi in merito - ormai si finisce per spendere un pò troppo facilmente la parola Capolavoro -: la vicenda di Takao e Yukari, ad ogni modo, finirà per conquistare con la sua semplicità, il suo essere in una certa misura molto "normale", dal sapore malinconico che momenti come la fine delle vacanze o di un ciclo di studi sanno essere.
L'incertezza di fronte alla solidità del sole e della realtà per come la conosciamo nella sua quotidianità di fronte alla certezza del piacere di evadere, sognare, trovare il proprio mondo, e non il proprio posto nel mondo: non sarà nulla di particolarmente clamoroso, ma spesso e volentieri è proprio "dal molto piccolo" - e torna alla memoria l'incipit dell'indimenticabile Grosso guaio a Chinatown - che provengono le scintille destinate a far nascere i fuochi più indomabili.
Del resto, nel corso dell'adolescenza di ognuno di noi è nascosta almeno una piccola, grande cotta che, finita bene o più probabilmente male, ha segnato il momento in cui tutti abbiamo cominciato a farci le ossa del cuore preparandoci a quello che sarebbe stata la vita, con le sue stagioni, il suo sole e la sua pioggia, consci che entrambi avrebbero contribuito a costruire quello che saremmo diventati.





MrFord





"I will walk... With my hands bound
I will walk... With my face blood
I will walk... With my shadow flag
into your garden
garden of stone."

Pearl Jam - "Garden" - 






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