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lunedì 15 aprile 2019

White Russian's Bulletin



Agli archivi la trasferta newyorkese che, per la gioia del Cannibale, quest'anno risparmia agli avventori del Saloon il resoconto di Wrestlemania 35 - spettacolo pazzesco dal vivo un evento del genere vissuto sulla pelle negli States -, torna il Bulletin con il resoconto delle visioni che hanno accompagnato i viaggi di andata e ritorno dalla Grande Mela e quella che ci ha suggerito di salutarla dall'Italia.


MrFord


LA FAVORITA (Yorgos Lanthimos, Irlanda/UK/USA, 2018, 119')

La favorita Poster


Una delle pellicole più chiacchierate ed incensate dell'ultima Notte degli Oscar ha dovuto aspettare il volo di andata per New York per passare anche dalle parti del vecchio cowboy: avevo lasciato Lanthimos anni fa, con il geniale ma profondamente irritante Dogtooth, e lo ritrovo in una veste stilistica quasi kubrickiana - e per uno come me che adora il Maestro dei Maestri è un grande complimento - raccontare la Guerra come concetto andando ad incastrare in una storia in cui una Guerra fa da cornice la guerra tra due donne più una, o quantomeno per le attenzioni e la posizione che quell'una può garantire.
Strepitose le tre protagoniste, una linea sottile che passa tra la commedia nerissima ed il dramma leggero, la lotta selvaggia ed il soft porno: è preferibile un'amara verità o una piacevole menzogna? Questa è la domanda più difficile alla quale si può tentare di rispondere nel corso della visione rispetto all'amore. 
Perchè rispetto alla guerra, la risposta è una e praticamente certa: si perde sempre, e si perde tutti.




IL RAPPORTO PELICAN (ALAN J. PAKULA, USA, 1993, 141')

Il rapporto Pelican Poster


Di ritorno da New York, con una selezione di titoli decisamente più rosicata - Delta batte nettamente Alitalia sotto tutti i punti di vista -, ho ripiegato prima di dormire non troppo bene per la maggior parte del viaggio su un Classico degli anni novanta che ancora mi mancava, un legal thriller in cui il Denzellone di noi tutti unisce le forze con una Julia Roberts allora agli inizi della sua carriera senza neppure regalare l'emozione della consueta notte di passione tipica dei film del periodo.
La struttura è abbastanza classica, la cornice decisamente nineties ad oggi forse un pò ingenua e datata, la risoluzione forse un pò frettolosa rispetto a quanto potrebbe essere nel romanzo firmato da Grisham - che, però, non ho letto, dunque si rimane nel campo delle teorie -: il risultato, ad ogni modo, è un prodotto solido girato da un vecchio leone - del resto Pakula ci ha regalato quel gioiello di Tutti gli uomini del Presidente -, di quelli che, quando si incontrano in tv, una visione finiscono per assicurarsela sempre.




BOY ERASED - VITE CANCELLATE (Joel Edgerton, Australia/USA, 2018, 115')

Boy Erased - Vite cancellate Poster

Accolto con un certo scetticismo ed una sana dose di jetlag la sera successiva al rientro in Italia, il lavoro di Joel Edgerton come regista e attore legato ad una storia vera e alla riprogrammazione sessuale - raramente ho considerato talmente assurda un'idea quanto questa - è stato una vera e propria sorpresa: non è perfetto, la Kidman e Crowe sono un pò troppo imbrigliati in trucco e parrucco, la risoluzione piuttosto facile e in parte furbetta, eppure sono stato molto toccato come da tutte le pellicole che trattano, in un modo o nell'altro, il tema della paternità.
Ammetto, infatti, che il confronto tra il giovane Lucas Hedges ed il già citato Crowe nella parte finale alla ricerca di un modo per recuperare un rapporto che pare quasi definitivamente compromesso è valso tutta la visione, è riuscito ad emozionarmi e a pensare a quanto profondo è e resta il legame con i propri figli, che siano come li hai sognati, come vorresti o, come più probabile, simili a loro stessi e magari assolutamente diversi da te.




I GUERRIERI DELLA NOTTE (Walter Hill, USA, 1979, 92')

I guerrieri della notte Poster

Ne avevo già parlato, qui al Saloon, qualche anno fa, ma non ho resistito: anche perchè rivedere questo supercult totale firmato da Walter Hill ad un paio di giorni dal ritorno da New York, mappa della metro alla mano e ricordi freschi delle camminate tra Manhattan, Brooklyn e Coney Island è stato come assaporarlo una volta ancora dal principio.
Una lezione quasi senza pari di ritmo, tensione, gestione dei personaggi, irriverenza - per i tempi fu davvero "oltre", tanto da avere il bollino di vietato ai minori -, un mix tra il passato di Arancia meccanica ed il futuro di Tarantino: e la New York della strada e della metro, vissuta con il fiato corto e sempre in corsa, ha tutto il fascino che le luci della Manhattan bene, per quanto ipnotiche, possono solo immaginare di avere.
E' lo stomaco di una delle città più grandi, sognate, filmate e vissute al mondo, nonchè di un Cinema che, nonostante quarant'anni sulle spalle, è ancora pronto a dare lezione al futuro, e ad apparire sempre pronto a battersi: questi Guerrieri non mollano mai.
Neanche quando, finalmente, giungono all'alba della loro Coney.


mercoledì 7 marzo 2018

Lady Bird (Greta Gerwig, USA, 2017, 94')




E' diventata quasi una tradizione, nella grande corsa agli Oscar, i premi più noti ed ambiti - anche da tutti quegli autori radical che fingono di no - del Cinema, che nel novero delle pellicole in lizza per la statuetta del Miglior Film, compaia ormai un titolo proveniente dal bacino indie, in grado di regalare grandi soddisfazioni così come stuzzicare le bottigliate più selvagge: Lady Bird, esordio alla regia dell'attrice Greta Gerwig - che da queste parti, nonostante l'aura alternativa, piace molto -, ha rappresentato proprio la "quota Sundance" alla kermesse losangelina, forte di una narrazione diretta e di pancia come la sua protagonista e di un'ottima performance fornita dall'attrice che le presta il volto, Saoirse Ronan.
Questo lavoro sentito e piacevole, pronto a regalare almeno un paio di sequenze da brividi sulla pelle - finale stupendo - che pure non avrà avuto alcuna possibilità di vittoria, ha finito comunque per rappresentare, nel corso della visione, una sorta di versione adolescenziale di uno dei miei cult totali figli di questo "genere", quel Little Miss Sunshine che ancora oggi è uno dei film del cuore di questo vecchio cowboy.
Il racconto di formazione che vede protagonista Lady Bird - ribattezzatasi in questo modo per ribellarsi alle convenzioni di una scuola troppo puritana e ad una madre presente ma spesso in conflitto con lei - ha la capacità di riportare lo spettatore al traumatico periodo dell'adolescenza, quando la fine di una storia significa abbandonare per sempre l'idea dell'amore, un'amicizia può cambiare la vita, i propri sogni e quello che si desidera per il futuro una strada tracciata nella propria testa che nessuno sarà mai in grado di deviare.
Lady Bird non è un film particolarmente originale, e rispecchia in questo la sua main charachter, che come tutti gli adolescenti ha l'impressione di sentirsi unica e al di sopra di tutto prima di scoprire sulla propria pelle che sì, tutti siamo unici, ma nessuno al di sopra degli altri, che si parli di problemi, patimenti o sogni: la sua forza è proprio questa, l'umanità che viene mostrata e si dimostra pronta ad esplodere nel percorso del rapporto tra l'inquieta ragazza e la sua migliore amica o quello con sua madre, vera e propria antagonista nonchè centro di gravità della pellicola - non avrebbe sfigurato, la brava Laurie Metcalf, con l'Oscar -, simbolo di tutto quello che a quell'età non vorremmo essere ma che, senza che sia possibile rendersene conto, ci forma e prepara a quelle che saranno le vere battaglie, quelle dell'età adulta.
In questo senso non ho trovato il lavoro della Gerwig all'altezza delle entusiastiche recensioni che l'hanno accolto e sospinto nelle ultime settimane, ma ammetto di avergli davvero voluto bene per la sua onestà, ed essere arrivato al termine della visione con una sensazione di familiarità piacevole e quasi magica, neanche la ragazza fosse una sorella minore, o ancora di più una figlia da accompagnare coprendole le spalle silenziosamente - molto affascinante e sentita la figura del padre -: tutti noi, del resto, abbiamo attraversato giorni in cui farsi spezzare il cuore pareva fondamentale, rinunciare al proprio nome per inseguire quello che avremmo voluto appariva come la cosa giusta, trovare la propria strada, dalla scuola, alla vita, al futuro una cosa fondamentale.
Il bello di Lady Bird è la spontaneità di una rigidità magica che si vive soltanto da adolescenti, e che si impara ad amare davvero prendendola a calci in culo quando siamo adulti, come un serpente che si morde la coda e non troverà mai il vero segreto dell'equilibrio.
Ma in fondo, è giusto così.
E scoprire che il nostro nome non è così male, che prima di viaggiare, o fuggire lontano, dobbiamo imparare ad affrontare noi stessi, altrettanto.



MrFord



 

mercoledì 22 febbraio 2017

Manchester by the sea (Kenneth Lonergan, USA, 2016, 137')




La vita, per chi la vive e per chi, soprattutto, la riflette attraverso canzoni, romanzi, film e finisce per confrontare fiction e realtà, non è per nulla una passeggiata.
A prescindere dai lieti fini, nulla da questa parte dello schermo è regalato, e spesso e volentieri si finisce per trovarsi a fare i conti con la durezza di un'esistenza che, d'altro canto, non smette neppure nel peggiore dei momenti di regalare almeno un pizzico di speranza, fosse anche il ricordo di qualcosa di intenso che abbiamo vissuto.
Ad un certo punto di Manchester by the sea, Lee, che ha una ferita che pochi uomini potrebbero sopportare dentro ed ha appena perso il fratello maggiore, per affrontare la questione della visita in obitorio del nipote sedicenne descrive la situazione più o meno così: "Non è come se dormisse, perchè non c'è, ma non fa neppure schifo".
Ricordo quando, ormai quasi vent'anni fa, morì mio nonno Gianni, quello dei Western che spesso mi è capitato di citare da queste parti: il giorno prima del funerale feci una visita alla camera mortuaria, e rimasi dentro la cella frigorifera solo con lui.
A dire il vero, non c'era nessuno, lì con me.
Eppure, notavo una strana e dignitosa compostezza nel cadavere, che non faceva apparire fuori luogo neppure il freddo glaciale che si sentiva al tatto.
Quasi come se stesse bene.
Il bello del lavoro di Lonergan, forse, è proprio questo.
Perchè un lutto non si può superare, o dimenticare.
Si incassa, ci si rialza, si va avanti.
Perchè se così non è, si finisce seppelliti.
Per come sono oggi, animo tra il lebowskiano ed il surfista, easy ogni volta possibile, casinista e compagnone, forse dall'esterno nessuno penserebbe che non passa giorno in cui non pensi alla piccola Agnese, o al mio amico Emiliano.
I lutti ti stendono, ed i segni che ti lasciano sono più profondi di qualsiasi ferita, o tatuaggio, o qualsiasi cosa si possa immaginare.
Eppure, con il sorriso, l'energia, la rabbia, i pugni aperti o chiusi, il bello di sentirsi vivi è sapere di poter continuare a lottare.
Manchester by the sea è così.
Quasi come se Ken Loach avesse attraversato l'oceano e si fosse concesso una gita in Massachussets, o il vecchio Clint avesse dato un paio di dritte a proposito di come si racconta il dolore senza alzare la voce, pur entrando nel cuore.
Poi, a mente fredda, mi importa relativamente del fatto che mi abbia intimamente conquistato più Moonlight, o che forse Michelle Williams è stata fin troppo incensata - in carriera ha fatto sicuramente di più -: perchè questo film è uno di quelli che parla impercettibilmente, e soltanto tempo dopo la visione finisci per accorgerti di quanto sia andato in profondità, tirando fuori fantasmi che non si pensava neppure di avere.
Ma che sono presenti, e mangiano e bevono volentieri con noi.
Perchè tutti abbiamo affrontato - o affronteremo, mettetevi l'anima in pace - un lutto, tutti avremo un momento in cui quel turbinio di pensieri ed emozioni parrà troppo grande per essere gestito, in cui il mondo parrà un ingombro, in cui cadremo.
Non tutti, però, sono in grado di rialzarsi. O quantomeno di provarci.
In questo senso, Manchester by the sea, tristezza e dolore permettendo, è un film pieno di vita.
E per un ingordo di vita come il sottoscritto, non può che andare alla grande così.
Quello che resterà, al massimo, sarà una cicatrice con la quale fare i conti ogni giorno che ci resta.




MrFord




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