mercoledì 31 agosto 2011

Le non recensioni di MrBertFord 2.0

La trama (con parole mie): visto il successo dell'insolita prima sperimentazione, i vostri shakeratori preferiti Bert e Ford mettono mano dietro il bancone una volta ancora, creando un cocktail ancora più forte del precedente, destreggiandosi non soltanto rispetto a pellicole non viste, ma osando anche parlando di un film che, tecnicamente, ancora non esiste se non nelle voci e nelle fantasie dei fan.
State dunque pronti a sballarvi come si conviene, accettando parecchi compromessi con una buona dose di follia, un'ironia non sempre limpida e soprattutto, una totale, completa e, chissà, addirittura più realistica rilettura dei titoli in questione.
In alto i calici, si brinda!

Una delle pietre miliari degli anni ottanta si appresta ad essere riproposta in una nuova, incredibile veste.
DIRTY DANCING - IL REMAKE -
di MrJamesFord

Dopo il successo di Transformers 3, tornano alla ribalta Megatron e i suoi fedelissimi.
Ormai da tempo si vociferava di un ritorno sugli schermi di Baby e Johnny Castle, e finalmente pare che l'attesa dei milioni e milioni di fan in tutto il mondo della coppia di ballerini più amata del grande schermo dopo Fred Astaire e Ginger Rogers sia terminata.
Sotto l'egida dei Decepticons e la produzione di Rick Rubin, prestato al Cinema dal suo grande amico Trent Reznor che pare abbia convinto il leggendario e barbuto guru rock a seguito di una sbronza terrificante a prendere parte a questo progetto, sono finalmente pronte a partire le riprese di quello che promette di essere un cult imperdibile.

Potrà Rick Rubin salvare il destino di questo remake?
La regia, dopo l'insuccesso di Michael Bay, verrà affidata a Tony Scott, mitico fratello sfigato di Ridley già più volte omaggiato al saloon, che pare abbia contrattato fino all'ultimo per avere Denzel Washington nel ruolo del dottor Houseman, modificando il personaggio in modo da renderlo un ex agente della Swat profondamente reazionario capace di autosuturarsi.
A fronteggiare l'ostico genitore della protagonista troveremo un lanciatissimo Taylor Lautner, che per interpretare il ruolo che fu del compianto Patrick Swayze ha deciso di tingersi i capelli di biondo credendo che il remake fosse quello di Point break e di buttarsi in un corso intensivo di danza classica presso l'accademia di Amici.


"Tranquillo, Denzel. Anche se stiamo girando Dirty dancing, ti faccio sparare in almeno due o tre scene."
Chiuso il cerchio a proposito di regia e produzione ed approvato il budget per le esplosioni che, da contratto, Tony Scott necessita di inserire in ogni sua pellicola, resta soltanto da definire il ruolo più ambito della Storia del Cinema: quello di Baby.
A contendersi la parte dopo una selezione durata giorni e giorni, infine, giungono cinque promettenti attrici spinte da ognuna delle personalità di spicco dietro la creazione di questo nuovo, incredibile capitolo della settima arte: Tony Scott, memore di Domino, propone Kiera Knightley; Denzel Washington, memore di un pò di curve, Beyoncè; Rick Rubin, obnubilato dall'alcool, Amy Winehouse; Taylor Lautner, incapace di pensare a seguito dello sforzo fisico sostenuto negli allenamenti di danza, Justin Bieber; e per chiudere in bellezza, i Decepticons alla carica con la loro beniamina Megan Fox, guidata dalla forza dei suoi pollici deformi.




La candidata di Tony Scott
La protetta di Denzel Washington
L'azzardo di Rick Rubin
La beniamina di Lautner


La dea ispiratrice dei Decepticons
Incapaci di risolvere la questione se non menandosi bottigliate a tutta caldara, i selezionatori giungono alla conclusione che è sempre più utile che a muovere le mani e fare tutta la fatica siano le aspiranti, che da che mondo è mondo hanno il dovere di sbattersi il più possibile per soddisfare le loro ambizioni e le richieste dei produttori.
Sfruttando l'antico e scientifico metodo della pagliuzza più corta viene dunque scelta l'antichissima pratica della lotta nel fango, che vedrà protagoniste le future Baby.

Un esempio dell'antichissima disciplina olimpica della lotta nel fango.
Appurato il forfait per motivi di salute di Amy Winehouse, il primo incontro ad andare in scena è quello tra Justin Bieber e Megan Fox: senza neppure fare troppa fatica, la protagonista idolo dei Decepticons a passo di danza rifila un paio di schiaffoni al Biberon, che caracollando con la faccia nel fango finisce per inzozzarsi il fantomatico ciuffo, entrando così in una crisi mistica che ne provoca la sconfitta.
Il secondo match, decisamente più combattuto, tra Keira Knightley e Beyoncè, prosegue con continui cambi di fronte così a lungo da provocare il coma etilico di Rick Rubin, che viene portato d'urgenza in terapia intensiva per essersi intossicato con la sua stessa barba, avendola respirata in stato d'incoscienza.
Dopo quattordici ore di lotta e danza, danza e lotta, quando anche le speranze del fango stanno per giungere al termine, ecco la zampata decisiva di Beyoncè, che con un acuto un pò troppo acuto stende la Knightley e si aggiudica la semifinale.

Natalie Portman nella tradizionale veste bianconera da arbitro.
Sotto pressione dei Decepticons e con l'arrivo dell'arbitro speciale per la finale - in rispetto della danza, in diretta da Black Swan, Natalie Portman - l'incontro ha inizio subito dopo, con una freschissima Megan Fox che, grazie all'esecuzione perfetta del micidiale colpo di pollice Samoan Spike appreso anni prima grazie agli insegnamenti del fu Umaga ha immediatamente la meglio su Beyoncè, aggiudicandosi la parte.

Il terrificante Samoan spike, finisher del compianto Umaga.
I Decepticons esultano proprio quando Denzel, aizzato da Jay Z, protesta a suon di pistolettate contro il risultato inficiato dalla durata del match precedente e sulla scarsa sensibilità razziale della produzione: protetta al volo Megan Fox con i loro corpi d'acciaio, i Decepticons ingaggiano così una battaglia terrificante rispondendo ai detrattori del loro idolo, il tutto mentre Taylor Lautner, con Bieber tra le braccia, si prodiga in una danza nel pieno del ring di fango in modo da evitare di essere crivellato di proiettili.
Tony Scott, vecchio volpone, approfittando della situazione filma il tutto decidendo di tenerlo per il montaggio finale, o al massimo per una director's cut in grado di fruttare milioni.
Il ring avrà pure deciso - sempre che qualcuno sopravviva -, ma lui la sua Baby l'ha trovata: e certo anche un'indimenticabile Dirty Dance.

Il voto dei Decepticons per il trionfo della loro adorata non poteva che essere il massimo possibile!
 ACCERCHIATO
di Bert

Le Olimpiadi ormai sono un ricordo, ma noi siamo rimasti molto legati a Pechino.
Estremo centro periferico di Pechino. 
Un mezzogiorno di un giorno a caso diun mese caldo a caso.
Un fievole boato squarcia il caotico rumore ordinato della savana pechinese. 
La folla, che si era radunata lì pensando che fosse la notte di capodanno, viene improvvisamente accecata da un insolito intenso bagliore: il sole; segue un'altrettanto intensa sensazione di calore e un rapido mulinare di vento. E nulla più. 
Nell'oscuro miscuglio di smog e polvere prodotto dal rapido turbinare dell'aria, si inizia a notare la sagoma di un uomo...

Quello che pareva un Capodanno come tutti si trasformerà in un incontro ai confini della realtà...
- Oh, c'è Maurizio Costanzo!
- No, guarda che ti sbagli, non è lui.
- Secondo me è Maurizio Costanzo.
- Ti dico di no, non lo vedi che questo ha il collo!? 
- Allora è Maria de Filippi, sicuro!
- No, non è nemmeno lui, ehm... lei, i capelli sono diversi.
- Hmmm... la salma di Mike? 
- Sai che dall'accento potrebbe quasi sembrare... però... no, è impossibile: non ha ancora detto "allegriazombie!".
- Ma allora chi cacchio è?
- Aspetta, aspetta, aspetta. Ce l'ho: è Paola Barale che ha lasciato Raz Degan e si è rimessa con Gianni Sperti.
- Sì, certo. E Buona Domenica era un programma di approfondimento
culturale! Ma ti rendi conto di quello che dici?!?
- Allora, visto che sei tanto bravo, dimmelo tu chi è.
- Sento, io non lo riconosco, ma adesso glielo chiedo.
- Scusiiii, lei in mezzo all'oscuro miscuglio di smog e polvere prodotto
dal rapido turbinare dell'aria, mi potrebbe dire il suo nome?
- Jean Claude. 
- Che ha detto?
- Jean Claude.
- Ma quello di Mai dire...?
- Dici che è lui? Allora è vero che la telecamera ingrassa almeno di duetaglie.
- Qual è il suo vero nome?
- Mica me lo ricordo, però un autografo glielo vado a chiedere, tu che fai,
vieni?
- Eccccerto! Ogni volta che lo vedo, mi piscio sotto dalle risate; adesso che ce l'ho a portata di mano almeno autografo e foto glieli chiedo. Mica sono scemo!

Ed ecco i due simpatici curiosi alla scoperta dell'uomo misterioso.
Wham! Slash! Sbam! Tonk-tumb.
Un calcio volante aveva atterrato i due uomini; dalla polvere, ormai poco turbinante, comparve finalmente lui Jean Claude van Damme.

Mai e poi mai sfidare la potenza dei calci di JCVD.
Come un cioccolatino di quelli buoni, il calciante Jean era appena arrivato dal Belgio con l'intento di ritrovare la più sacra reliquia per qualunque combattente calcioso: il cappello di Chuck Norris in Walker Texas
ranger.La ricerca e la conseguente conquista furono piuttosto facili, perché il cappello era stato messo all'asta, ma, a causa della ben nota maledizione di Chuck, non si era presentato alcun compratore eccetto il nostro eroe Claude.
Ottenuta la sacra reliquia, Van la indossò e si rese conto che la mitica leggenda della maledizione era vera: in un istante si manifestò un terribile cerchio alla testa, il cappello era stretto e ormai Damme era
definitivamente e indissolubilmente "accerchiato".

Ed ecco un'immagine della Santa Reliquia.
La ricerca della misteriosa Molly (divoratrice di capsule molli), il rapporto conflittuale tra JCVD e la sua madre adottiva Cinese - magistralmente interpretata dell'indimenticabile Po, deceduta sotto due tonnellate di prugne secche della California (lasciate cadere su di lei dalsuo arcinemico di sempre: il sole) a una sola settimana dalla fine delle riprese -, il temibile Armando ed il suo cane purulento che cercheranno di ostacolare  Van Damme con tutte le loro forze, vi terranno incollati allo schermoper tutti e 3 i minuti del film.

Mai sottovalutare le prugne della California!
L'inespressività facciale di JCVD accompagnerà dolcemente lo spettatore in questo dramma adolescenziale senza adolescenti, e nessuno potrà evitare di chiedersi:"Ma dov'è Dawson Leery quando c'è il disperato bisogno di qualcuno da prendere a calci in faccia?"
E ve lo chiederete almeno fino alla scena topica in cui si scoprirà che Roberto Giacobbo è il nuovo compagno di Elisabetta Canalis*, la quale, a sua volta, si paleserà finalmente come l'ultimo dei cavalieri templari, nonchéla prima delle zocc... incapac... mezze troiett... bagasc... showgirl.
Alla parola showgirl irromperanno sulla scena Elizabeth Berkley e Valeria Marini, che, con una magistrale interpretazione di "I wanna be loved by you", richiamerà in vita Mike Bongiorno, pronto a ricostituire, insieme al Chiambretti di turno, il mortifero terzetto sanremese.

Altro che Van Damme! I nostri eroi sono pronti per una nuova, entusiasmante battaglia!
Sarà proprio il redivivo Mike a concludere il racconto ponendo allo spettatore la fatidica domanda: "La uno, la due o la trè?"
Questo finale aperto, che ci lascia presagire la possibilità - certezza? - di un prossimo episodio chiarificatore, ci concede ben trè possibili interpretazioni, e starà allo spettatore scegliere quale parte dell'intera e complessa opera prendere in considerazione: il primo, il secondo o il terzo minuto? 
Possiamo finalmente dire di trovarci di fronte al primo film totalmente interattivo della storia; altro che HD, altro che 3d, altro che 4d, altro che altro! 
Questo è l’unico film in cui lo spettatore, per la prima volta, assume il ruolo definitivo di concorrente di TeleMike. Personalmente la mia via è la terza, e voi cosa farete: lasciate o raddoppiate?

Quale risposta sceglierete, voi?

*della quale probabilmente ci siamo definitivamente liberati a discapito dei cittadini USA. 
George for president! È riuscito a realizzare un mio sogno, io lo voto.

Voto finale: tre Chiquite e un asso di bastoni su una confezione di ananas Del Monte.

martedì 30 agosto 2011

Come ammazzare il capo... E vivere felici

Regia: Seth Gordon
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 98'


La trama (con parole mie): Kenny, Nick e Dale sono tre amici dai tempi del liceo con un problema in comune: tutti vivono situazioni frustranti e al limite della sopportazione con i loro capi, tre individui che non presenterebbero neppure al loro peggiore nemico. Anche perchè sarebbe come presentarli a se stessi.
Dave Harken - direttore di Nick -, è uno sfruttatore che porta le frustrazioni della sua vita privata in ufficio vessando continuamente i suoi dipendenti e facendo passare il tutto come un favore; Julia - capo di Kenny - è una ninfomane mangiauomini che sogna di approfittare di lui sul corpo inerte della sua fidanzata anestetizzata, e Bobby Pellit - principale di Dale - ha ereditato l'azienda dal padre solo per usarla come portafoglio personale e risorsa per l'acquisto di ingenti quantità di cocaina.
Quando, dunque, il limite viene superato per l'ennesima volta, i nostri decidono di assumere un professionista che si incarichi di eliminare gli scomodi superiori in modo da poter vivere una vita più serena: ma i guai inizieranno non appena "Motherfucker" Jones prenderà in carico l'insolito compito di consulente in omicidi.



Credo che - e sono piuttosto sicuro vi siano pochi dubbi in proposito - almeno una volta nella vita ognuno di noi abbia pensato che tutto, dall'ufficio al mondo intero, sarebbe migliorato se il capo di turno fosse scomparso dalla circolazione, possibilmente soffrendo tutte le pene che lo stesso doveva aver inflitto nel corso della sua carriera ai malcapitati sottoposti di turno in una sorta di contrappasso dantesco di matrice quasi fantozziana.
Personalmente, spesso e volentieri ho immaginato cruentissimi match di pugilato a senso unico o cicloni di bottigliate in pieno viso di alcuni dei capi che ho avuto nel corso del mio percorso lavorativo, e ancora oggi non disdegno di dedicare almeno un momento della giornata a pensieri ricreativi ed antistress come questo: l'approccio a questa commedia nera, dunque, non poteva essere che di un'empatica partecipazione, nel pieno rispetto delle situazioni che vive la maggior parte della gente che non possa permettersi di stare al vertice della catena alimentare lavorativa o - ancora meglio - possa svolgere un lavoro completamente autogestito.
E devo ammettere che, nonostante un livello certo non altissimo, questa divertente commedia tutto sommato si merita l'empatia di partenza, riuscendo nell'intento di proporsi come una buona soluzione da weekend rigenerativo dopo la settimana passata sul posto di lavoro: i tre protagonisti, che paiono un incrocio dei tipici sfigati Apatow-style e degli sciamannati di Una notte da leoni, giocano con le fantasie di ogni lavoratore dipendente regalando spesso e volentieri momenti di divertimento basso ma profondamente godurioso, aiutati da grossi nomi come Kevin Spacey, Donald Sutherland, Jamie Foxx e Colin Farrell a portare a casa il risultato con il sorriso sulle labbra e senza neppure sforzarsi troppo.
Proprio l'utilizzo delle star affermate si rivela l'idea vincente di Gordon, che sfrutta al meglio un'inedita Jennifer Aniston mangiauomini, un "Motherfucker" sotto le righe e soprattutto uno spassosissimo Bobby Perrit/Colin Farrell, che con i nunchaku ed una casa che pare uscita dall'incrocio tra l'Hemingway cacciatore sbronzo e Tamarreide si aggiudica la mia personale preferenza tra i boss che i nostri si troveranno ad eliminare.
Curioso invece il ruolo di Kevin Spacey, che si ritrova in una situazione all'opposto di quella che lo vide come dipendente represso anni fa in American Beauty, e porta a casa la pagnotta senza sforzarsi neppure troppo, shakerando la sua versione psicopatico con quella vista in Americani.
Certo non stiamo parlando di una pellicola destinata a fare storia, dunque, ma che si lascia guardare dignitosamente intrattenendo e strappando ben più di una risata - la scena della cocaina sul tappeto ed il faccia a faccia tra Harken e Pellit sono momenti degni dei migliori seguaci di McLovin -, fornendo l'intrattenimento necessario per un giorno ben lontani - fisicamente e mentalmente - dal posto di lavoro e sicuramente molto migliore di quanto non potesse sembrare sulla carta, o leggendone il consueto pessimo adattamento italiano del titolo.
Inutile dire, inoltre, che se l'escalation dei guai che i protagonisti collezioneranno come figurine con il passare dei minuti porterà ad un finale che per certi versi potrà risultare telefonato, i nostri sapranno sorprendere lo spettatore in ben più di un'occasione, dal whisky alle otto del mattino alla sequenza dell'iniezione antiallergica per giungere a quella della confessione di Harken, e arriveranno alla conclusione con il tifo dell'audience tutto per loro, benchè si tratti, a ben guardare, di tre cazzoni da record che, forse, nessuno di noi vorrebbe come colleghi.
E, chissà, neppure come "sottoposti".
Ma questo non lo si ammetterà mai, perchè tra noi che apriamo gli ombrelli quando piove merda e non possiamo permetterci di guardare verso l'alto, esiste da sempre un tacito accordo di solidarizzazione.
O almeno, questo è quello che si spera sempre.

MrFord

"Monday, you can hold your head
Tuesday, Wednesday stay in bed
or Thursday - watch the walls instead
it's Friday, I'm in love."
The Cure - "Friday I'm in love" -

lunedì 29 agosto 2011

Super 8

Regia: J. J. Abrams
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 112'



La trama (con parole mie): siamo nel pieno dell'estate del 1979, ed un gruppo di amici tra le scuole medie e le superiori decide di aiutare il convintissimo Charles a realizzare un film da iscrivere ad un festival locale. Tra loro spiccano Joe, che soltanto pochi mesi prima ha perso la madre a seguito di un incidente sul lavoro, ed Alice, tormentata figlia dell'alcolista Louis e miraggio sentimentale di tutto il gruppo. 
Durante una ripresa in notturna, i ragazzi assistono ad uno spaventoso incidente ferroviario che pare essere legato ad alcuni misteriosi affari dell'esercito e ad un insegnante della loro scuola, cui fanno seguito episodi sempre più inquietanti, dalla fuga di tutti i cani della città alla sparizione di molti tra i suoi abitanti.
Gli improvvisati cineasti, dapprima decisi a non fare parola dell'accaduto, finiscono coinvolti in quella che è una vera e propria caccia all'alieno, rischiando le proprie vite per crescere insieme, portare tutti a casa la pelle e scoprire come arrivare a superare il dolore di una perdita.



Inutile fare troppi giri di parole: quel volpone di J. J. Abrams ce l'ha fatta un'altra volta.
L'autore di Alias, Lost e del prequel di Star trek - ottimo, peraltro -, stupisce senza se e senza ma grazie ad una delle pellicole più coinvolgenti dell'estate, nonchè tra le più interessanti di un'annata piuttosto altalenante - almeno fino ad ora - rispetto alle uscite in sala.
Pronti via e ci troviamo immersi in un'atmosfera da amarcord e malinconia selvaggia quando il regista e sceneggiatore ci porta nel pieno dell'estate del 1979 - anno cui non posso non essere legato - circondando lo spettatore con un'aura legata a doppio filo allo spirito di cult dell'epoca come I Goonies e Stand by me, azzeccando i protagonisti, i loro interpreti e l'approccio con l'intera operazione neanche lo schermo fosse una sorta di nuova DeLorean.
Giusto il tempo di godersi quello che pare a tutti gli effetti un viaggio coinvolgente e piacevolmente naif nei ricordi e nello spirito che permeava le pellicole del periodo, e l'incidente ferroviario che mette in moto la vicenda centrale dello script riporta l'audience alla tensione tipica del thriller di complotto, rispolverando alcune situazioni classiche del genere come il ruolo dell'esercito ed i suoi insabbiamenti - in pieno stile The Mist o 28 giorni dopo - ed il sacro terrore delle invasioni russe tipico degli anni della cortina di ferro.
A questo punto la piega d'azione della pellicola, spinta da quella che pare l'ispirazione dello Spielberg degli anni d'oro, assume i connotati del film catastrofico che muta Incontri ravvicinati del terzo tipo in una sorta di Cloverfield senza mai dimenticare l'epoca di narrazione, rispettando pienamente il contesto e dando ad un tempo profondità e libertà d'azione ai giovanissimi protagonisti, i cui personaggi scritti con affetto, partecipazione e profondità finiscono per conquistare come fossimo tornati anche noi indietro ai tempi "dei migliori amici mai avuti".
Ma la realtà dei fatti, per quanto si possa discutere a proposito della trama - e, perchè no, anche di alcune ingenuità di sceneggiatura, così ben calibrate da parere quasi poste ad arte -, della regia - Abrams e Spielberg insieme producono questi effetti? Ben venga un nuovo progetto! - e delle interpretazioni, del setting e dell'ambientazione clamorosamente azzeccati, la cosa che colpisce davvero resta il percorso compiuto da Joe, Alice ed i loro padri nell'affrontare il dolore legato a doppio filo all'incidente che provocò la morte della madre del ragazzo: il confronto con la creatura fuggita proprio grazie all'incidente ferroviario all'origine delle vicissitudini del gruppo di avventurieri in erba diviene, dunque, più che il tipico "toccata e fuga" o survival, una sorta di nuova versione di quello che fu il rapporto tra Elliott ed E. T., pur se differente in quanto significativo passaggio verso un'età più adulta e concentrato, come già sottolineato, sull'accettazione del dolore e della perdita.
Ed il gesto di lasciare andare qualcuno che non c'è più, benchè presente nei nostri ricordi, si fonde alla perfezione con un finale che ricorda District 9, e pone Super 8 come uno dei migliori film di genere degli ultimi anni, un vero e proprio ritorno allo spirito guidato dalla meraviglia che fece la fortuna di tante pellicole dei tempi in grado, ancora oggi, di stupire quelli che, allora, erano solo ragazzi, proprio come Joe, ed ora si ritrovano cresciuti neanche fossero il protagonista del già citato Stand by me, proiettati verso il futuro eppure per sempre legati ad un'estate, ad un gruppo di amici, al ricordo di momenti che non saranno mai, mai così incredibili.
Ed è un piacere, per noi che stiamo crescendo e per il Cinema che durerà senz'altro più di chi lo costruisce, lo porta sugli schermi, o lo ama profondamente da spettatore, che ogni generazione possa avere pellicole come questa cui appuntare i ricordi.
Un pò come accadrà a Joe rispetto ad Alice.
Il primo amore non si scorda proprio mai.


MrFord

"Shakedown 1979
cool kids never have the time
on a live wire right up off the street
you and I should meet
junebug skipping like a stone
with the headlights pointed at the dawn
we were sure we'd never see an end to it all."
Smashing Pumpkins - "1979" -


domenica 28 agosto 2011

I gemelli

Regia: Ivan Reitman
Origine: Usa
Anno: 1988
Durata: 105'


La trama (con parole mie): Julius Benedict è intelligente, fisicamente imponente, clamorosamente ingenuo e cresciuto su un'isola tropicale da uno dei responsabili dell'esperimento genetico che vide mescolare il patrimonio biologico di sette uomini selezionatissimi prima della fecondazione della sua defunta madre.
Vincent Benedict è furbo, fisicamente non troppo dotato, un irresistibile seduttore ed un truffatore incallito, cresciuto a Los Angeles a partire dall'orfanotrofio ed educato dalla non sempre limpida legge della strada.
E' il fratello gemello di Julius, ma questo Vincent ancora non lo sa.
Almeno fino a quando, per il loro quarantesimo compleanno, Julius decide di lasciare il paradiso in cui è cresciuto per incontrare il fratello e scoprire, in questo modo, origini e famiglia.
Ma Vincent si porta dietro un buon numero di guai, così i due si troveranno costretti, nel corso della ricerca dei loro padri, a fare i conti anche con il sicario di un pezzo grosso che comincia a considerare scomodi i ricatti del Benedict meno limpido.



Ai post legati alle pellicole con protagonista l'inossidabile e sempre poco espressivo Schwarzy mancava un altro dei grandi cult della mia infanzia, uno dei primi film concepiti quasi più come commedie che non come le consuete tamarrate d'azione con protagonista il Terminator del grande schermo: I gemelli.
Così come Un poliziotto alle elementari, questo film - diretto dal "ghostbuster" Ivan Reitman - fu prodotto, ai tempi, in modo di sdoganare una nuova immagine del futuro e molto poco sostenibile Governatore della California, mostrando il lato umano di uno dei miti più glaciali del Cinema action dell'epoca, tentando anche la strada dei buoni sentimenti.
Onestamente, il risultato non fu certo memorabile, e questa pellicola rientra a pieno titolo nel gruppo degli assolutamente trascurabili - per essere gentili - a livello cinematografico che, per affetto o effetto amarcord, riescono sempre a tenermi incollato alla poltrona quando, per scelta o per caso, li ritrovo proiettati sullo schermo.
L'arrivo di Julius a Los Angeles, l'irresistibile verve di Vincent, la spesa al supermercato, la telefonata a McKinley e la discussione a proposito della cifra per la consegna della merce erroneamente rubata dal personaggio interpretato da DeVito, il viaggio alla ricerca dei padri e della madre creduta morta e dunque ritrovata, la serata danzante con la prima volta di Julius e tutto il confronto finale con il sicario Webster sono ormai impresse nella mia memoria di spettatore, e pur non ripensandoci se non al momento della visione, tornano ancora prepotentemente a galla con tanto di consueta replica esatta durante la visione, come spesso accade con i film che, ai tempi, finivano nel videoregistratore di casa Ford almeno una volta a settimana, ormai protagonisti di un'estate che è parsa quasi un pieno recupero dell'atmosfera di ormai quasi una ventina d'anni fa.
Si sta proprio invecchiando, ragazzi.
Certo, senza averne avuto esperienza allora, una cosa come I gemelli ad una prima visione mi parrebbe ora ridicola ed assolutamente fuori tempo massimo, dunque ringrazio l'infanzia con le sue pietre miliari che mi permette di godere della camminata/balletto di Schwarzy e DeVito agghindati con completi identici senza rimanere a bocca aperta per l'orrore, riuscendo ad assaporare il momento con quel piacevole misto di divertimento e malinconia tipico della fine delle vacanze e degli sguardi al passato e all'età dell'innocenza - cinematografica o no, che fosse -.
Non mi sentirei di consigliare a chi di voi lo mancò allora una visione oggi, ma per chi, come me, non si perdeva neanche un film dei cicli dedicati all'Arnold internazionale o a Sly e al suo labbro, un recupero da vecchia rimpatriata, magari con tanto di amici e birra, ci sta proprio tutto: risate e rutti liberi sono di certo assicurati.

MrFord

"Controlling again
unseparated twins
you’d rather be
come gentle, slowly,
down to earth."
Muse - "Twin" -

sabato 27 agosto 2011

Howard e il destino del mondo

Regia: Willard Huyck
Origine: Usa
Anno: 1986
Durata: 110’


La trama (con parole mie): Howard, pubblicitario di successo che non disdegna di sfoggiare un’aria da duro e donnaiolo, a seguito di un esperimento viene catturato da un raggio e portato dal pianeta dei paperi fin sulla Terra, dove è raccolto da Beverly, una giovane musicista in rampa di lancio che, quasi da subito, si prende per il nostro una sonora cotta.
Ma i piani di Howard di trovare il modo di essere rispedito a casa si complicheranno quando Phil, giovane assistente di laboratorio amico di Beverly metterà i due in contatto con il responsabile dell’esperimento che ha portato il pennuto dalle nostre parti: il dottor Jenning.
Quest’ultimo, nel tentativo di aiutare il papero, si ritroverà posseduto da una terrificante entità aliena con mire di conquista che Howard ed i suoi amici si troveranno ad affrontare per salvare le penne, e chissà, magari anche il mondo.


Mi sento praticamente in colpa a pensare che, in quasi un anno e mezzo di vita di questo blog, un post dedicato ad uno dei supercult della mia infanzia ancora non avesse fatto capolino tra queste pagine. 
Howard e il destino del mondo, nonostante la sua pessima qualità cinematografica, è rimasto uno dei punti di riferimento nell’ambito fantasy per tutto il periodo delle mie scuole elementari, negli anni del primo videoregistratore di casa Ford continuamente messo alla prova con i film consigliati dal mio riferimento dei tempi Paolo, gestore con la sua famiglia di una videoteca di quartiere che ancora oggi, quando torno dalle parti dei miei, rimpiango neanche fosse una sorta di luogo sacro simbolo dei tempi andati.
Delle mie visioni di allora rispetto a questo vero e proprio gioiello del trash ricordo le parti dedicate al gruppo rock di Beverly e compagne – già da bambino sognavo di essere parte, o manager, come finirà lo stesso Howard, di una band di sole fanciulle -, la nerditudine selvaggia di Phil – interpretato da un giovanissimo Tim Robbins –, il crescendo di inquietudine che seguiva i cambiamenti nel dottor Jenning mutato dal suo ospite e culminati con la clamorosa sequenza della lotta nella caffetteria ed il fantastico viaggio sul piccolo aereo a due posti di Howard e Phil per volare a salvare Beverly e il mondo dalle grinfie dei mostri compagni dell’ospite di Jenning, tutti in arrivo per direttissima dall'altro capo dello spazio conosciuto.
Ancora oggi la sequenza del tubo della benzina staccato e delle acrobazie di Phil per rimetterlo al suo posto, o il rauco lamento di Jenning “due milioni di kilowatt di energia” scuotono la mia spina dorsale quasi come fossi tornato bambino e vivessi quelle sequenze come a trovarmici all'interno, nel tipico gioco che allora, con mio fratello, toccava ogni pellicola e ruotava tutto attorno al “io sono questo, tu sei quell’altro” tipico dei bambocci in cerca di modelli – giusti o sbagliati che fossero – dai quali partire per cominciare a cercare di capire chi si era, o più semplicemente giocare senza troppi dilemmi e preoccupazioni fino a crollare, una volta arrivata la sera.
Prodotto da George Lucas ed ispirato ad una serie a fumetti Marvel, probabilmente sarebbe dovuto diventare una sorta di Indiana Jones surreale, ma i problemi di budget, un regista assolutamente inadeguato e diverse traversie nel corso della realizzazione ne fecero uno dei più grandi flop della Storia del Cinema d’avventura, senza contare il totale stravolgimento delle idee iniziali – decisamente adulte e grottesche – che gli sceneggiatori coltivavano per la pellicola e del personaggio originale, diametralmente opposto – se non per la sua natura di papero – dalla versione proposta sul grande schermo.
A suo modo – e oltre che per il sottoscritto – divenne quasi mitico per essere stato accolto malissimo sia dal pubblico che dalla critica – un caso quasi unico nell’ambito trash -, e ancora oggi fa la sua porca figura tra i peggiori film della sua decade e non solo.
Eppure non riesco, neppure sforzandomi, a non voler bene a questo film: una piccola perla con difetti abissali eppure traboccante di quel senso di meraviglia che soltanto nella magica cornice degli eighties pareva trovare lo spazio adeguato sugli schermi e nelle pellicole prettamente d’intrattenimento come questa, dando un senso alle rassegne televisive – quando ancora le emittenti si preoccupavano di trasmettere film ad ore decenti e con una certa passione – come “Fantastica avventura”, che allora facevano la gioia di grandi e piccini.


MrFord

"And I want to conquer the world,
give all the idiots a brand new religion,
put an end to poverty, uncleanliness and toil,
promote equality in all my decisions
with a quick wink of the eye
and a "God you must be joking!"
Bad Religion - "I want to conquer the world"-

venerdì 26 agosto 2011

Green Lantern

Regia: Martin Cambell
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 114’



La trama (con parole mie): Hal Jordan è uno scapestrato pilota militare con un’inclinazione naturale agli incasinamenti ed il tipico coraggio da testa calda pronto a celare sensi di colpa e fallimenti più o meno importanti della sua vita. 
Tutto cambia quando un anello delle Lanterne Verdi, sorta di polizia interstellare investita da entità superiori del compito di sorvegliare l’universo conosciuto, lo sceglie come nuovo guardiano del nostro settore galattico a seguito della morte del suo precedente possessore per affrontare la minaccia mortale di Parallax, che detto così pare un lassativo ma in realtà altro non è che una delle suddette entità superiori travolta dall’ebbrezza di usare il potere della paura al posto di quello della volontà, motore delle Lanterne.
Toccherà ad Hal mostrare tutte le imperfezioni dell’essere umano e proprio grazie alle stesse spedire il minaccioso aspirante medicinale dritto dritto all’altro mondo.


Ammetto, nonostante sia da sempre un appassionato di fumetti, di conoscere molto poco della storia dell’ormai mitico personaggio di Lanterna Verde, uno dei capisaldi del DC Universe.
In realtà, con la stessa tranquillità confesso di avere sempre preferito le storie e gli eroi di mamma Marvel a quelli della sua antagonista per antonomasia – se si esclude Batman -, e dunque di essere tendenzialmente di parte quando si tratta di scegliere per quale squadra tifare per quanto riguarda il variegato mondo delle nuvole parlanti.
A questo si aggiunga la malcelata antipatia che nutro da tempo per Ryan Reynolds ed il gioco era praticamente fatto: per Lanterna Verde le cose si mettevano male ancor prima che schiacciassi il tasto play del telecomando del lettore.
Risultato: io ce l’ho messa tutta, per godermi un po’ di sano intrattenimento e divertirmi senza troppi patemi come fu con Thor e Captain America, ma nonostante l’interessante spunto del confronto tra paura e volontà, i poteri “creativi” del protagonista ed i tentativi – magari non perfetti, ma pur sempre presenti – di giocare la carta dell’autoironia di Hal, non ce l’ho proprio fatta a farmi piacere questo film, che pare raggruppare tutte le caratteristiche peggiori del genere, dal già visto al già sentito, dal poco ispirato a “mettiamoci tanti effettoni neppure così ben realizzati nella speranza che il pubblico possa non accorgersi che la sceneggiatura è scritta con i piedi”.
Dopo una partenza terribile condita da una voce fuoricampo fuggita dalle turbe peggiori del Malick più prolisso ed una schiera praticamente infinita di Lanterne verdi di tutti i colori e dimensioni neanche fossimo in una sorta di pubblicità anni ottanta interstellare della Benetton raccontata dall’occhio buonista della versione galattica di Studio Aperto, Campbell si concentra – fortunatamente – sulla componente umana dell’eroe, mostrando tutte le imperfezioni di Hal Jordan, il suo antagonista terrestre contaminato dal potere di Parallax – che, ribadisco, non è un lassativo – e la classica bella di turno che il nostro ha trattato male in passato ma ora che è cambiato le cose non andranno più come allora, inoltre il potere di Lanterna verde porta in dono anche un costume molto fico ed una mascherina pronta a comparire all’occorrenza – che genera la battuta migliore della pellicola: “Hal, ti ho visto nudo. Credi che coprendoti gli zigomi tu possa fingere di essere un estraneo con me?” -.
A questo punto le due anime del film convergono andando a comporre quello che dovrebbe essere il climax dell’azione e del confronto tra Hal e Parallax, ma proprio quando gli effetti e l’adrenalina dovrebbero far balzare sulla sedia tutto pare scorrere neanche fosse una copia scialba dell’ultima – e pessima – incarnazione di Superman, tanto da indurre lo spettatore in più di un’occasione a desiderare un anello in grado di cambiare la realtà come quello dell’eroe in questione per poter rimodellare il film a proprio piacimento.
Chance sprecata, dunque, per la DC Comics di insidiare il primato ormai consolidato di casa Marvel anche in ambito cinematografico, e fallimento principalmente causato dall’intenzione di produrre una pellicola nello stile fracassone e ludico dell’avversaria: sarebbe stato sicuramente più efficace – nonché rispettoso della lunghissima storia su carta del protagonista – un approccio adulto e non sempre di comodo come quello di Nolan e del suo Uomo pipistrello.
Anche perché stando così le cose, nel campo degli eroi in verde, più che a Green lantern viene da aggrapparsi a Green Hornet.

 
MrFord


"Letting slip in through my fingers
little rings float in your eyes
try forget who are you now
stare into space, watch the sky."
Goldfrapp - "Crystalline green" -


giovedì 25 agosto 2011

Game of thrones Stagione 1

Produzione: Hbo
Origine: Usa
Anno: 2011
Episodi: 10



La trama (con parole mie): i Sette regni sono scossi da tumulti, preoccupazioni e giochi di potere, dal profondo Nord alle terre dei selvaggi Dothraki, signori dei cavalli. 
Oltre Winterfell, lungo la grande barriera che protegge il mondo conosciuto dalle terre dei Bruti, i guardiani Nightwatch tremano all'idea della discesa delle creature che vivono oltre l'imponente frontiera, mentre il sovrano Robert propone al suo vecchio compagno d'armi Ned Stark di prendere il posto del defunto Jon Arryn come suo Primo Cavaliere.
Nel frattempo, si moltiplicano i giochi di potere orchestrati dai subdoli Lannister, mentre la dinastia caduta dei Targaryen cerca in Khal Drogo un alleato potente per tornare nel Continente e reclamare il trono che un tempo era occupato proprio dalla loro casata.


Evidentemente, Misfits era destinata a non essere la sola, grande sorpresa di questo 2011 sul piccolo schermo: quasi dal nulla, sotto l'egida di un nome non sempre altisonante come quello di David Benioff - sceneggiatore de La 25ma ora, è vero, ma anche di obbrobri come Wolverine: le origini o Troy -, è sbucata Game of thrones, tratta da una serie tuttora in corso di romanzi fantasy e destinata a rivitalizzare il genere quanto e forse più della trilogia dedicata al Signore degli anelli.
Mescolando le atmosfere dei lavori di Peter Jackson agli intrighi dei Tudors, spruzzando il tutto con litri e litri di sangue e morti a profusione neanche fossimo ben segregati nel carcere di Oz, gli autori confezionano una delle proposte più interessanti degli ultimi anni che il piccolo schermo abbia regalato agli spettatori, azzeccando personaggi, cast, caratterizzazioni ed uno stile narrativo ad un tempo classico e terribilmente moderno.
Senza perdersi in troppi giri di parole per quanto riguarda la sceneggiatura - che pare perfettamente funzionale nonostante le ovvie riduzioni dovute al legame con il romanzo e alle conseguenti sbavature del caso - e la regia, la confezione - grande produzione segnata da una visione assolutamente autoriale - e gli effetti, occorre dare credito soprattutto alla varietà di personaggi presenti - una via ideale per conquistare fette di pubblico variegate e numerose - e ad un cast semplicemente perfetto: da Sean Bean - che ricorderanno tutti i fan del suddetto Signore degli anelli nel ruolo di Boromir - a Jason Momoa - fresco fresco protagonista del remake di Conan - passando attraverso Lena Headley - la Gorgo di 300 - e l'irresistibile Peter Dinklage - visto nel piacevole The station agent e in Funeral party -, tutti, dai più a meno famosi, paiono in parte e perfettamente calati nella realtà della narrazione, aggiungendo ulteriore credibilità ad un'opera già di per sè assolutamente di valore.
Tornando ai personaggi, la varietà di caratteri, intenti e percorsi è tale da riuscire a catturare l'attenzione di un ampio spettro di utenti, mantenendola grazie ad una gestione delle numerose sottotrame equilibrata e quasi sempre tesissima, anche e soprattutto nei momenti in cui l'azione lascia il posto agli intrighi e ai confronti verbali tra i personaggi: personalmente, devo ammettere di avere trovato numerosi "preferiti" nel corso di questa prima stagione - raramente accade, di solito mi concentro su un solo protagonista -, dal già citato Ned Stark ai suoi figli Arya e Jon Snow, senza dimenticare l'acutissimo Tyrion Lannister e la selvaggia e dirompente coppia formata da Daenerys Targaryen con il suo consorte, il feroce Khal Drogo.
Quel che è sicuro è che la carne al fuoco per la seconda stagione - attesissima per la primavera 2012 - è molta, complici i massacri, le morti ed i voltafaccia avvenuti nei due episodi conclusivi di questa prima, incredibile annata: resta assolutamente incerto il destino del trono di spade, così come quello della Barriera e dei ruoli che ricopriranno gli aspiranti sovrani Robb Stark e Daenerys Targaryen, senza contare che i Lannister paiono nati per sopravvivere anche nelle condizioni più avverse.
Certamente assisteremo ad altre morti, battaglie, complotti, accordi stipulati in nome del potere e del fascino che lo stesso esercita sull'Uomo, sia esso mosso dall'onore, dall'amore, dall'odio, dalla vendetta o dal semplice gusto di esercitarlo: quello che è certo è che la battaglia per i Sette Regni è appena cominciata, ed il tributo di sangue che chiederà sarà certamente alto.


MrFord

"There are times when I've wondered
and times when I've cried
when my prayers they were answered
at times when I've lied."
Iron maiden - "No prayer for the dying" -



mercoledì 24 agosto 2011

Grey's anatomy Stagione 7

Produzione: Abc
Origine: Usa
Anno: 2010/2011
Episodi: 22



La trama (con parole mie): ancora scossi dagli accadimenti dell'incredibile finale della sesta stagione, i medici del Seattle Grace dovranno fare i conti con le ferite lasciate dal trauma dell'assalto dell'uomo responsabile del terrore seminato nei corridoi dell'ospedale: Meredith dovrà accettare il fatto di aver perso il bambino che portava in grembo, Christina superare il timore di operare di nuovo ed Alex di tornare nell'ascensore dove è quasi morto dissanguato.
Inoltre si avvicina il momento della scelta del nuovo specializzando capo, Callie ed Arizona scoprono che il loro rapporto cambierà per sempre e che saranno legate indissolubilmente a Mark, mentre Derek ed il capo Webber si dedicheranno alla ricerca.



Ricordo quando, lo scorso anno, nell'appartamento affittato in Croazia, proprio in questo periodo, con Julez ci apprestavamo a concludere la sesta stagione delle vicissitudini di Meredith Grey e compagni, senza dubbio la migliore per intensità e carico di emozioni, con il fiato sospeso rispetto alla sarabanda di accadimenti che avevano travolto il Seattle Grace ed i suoi occupanti: dopo un finale di quella portata, nonostante le aspettative e la fiducia, era chiaro che replicare sarebbe stato difficile, ed in effetti questa settima annata del serial medico più amato del piccolo schermo è stata più che altro "di passaggio", una sorta di prova generale di quello che sarà la serie quando la protagonista ed il suo amatissimo "Dottor Stranamore" Derek avranno abbandonato, probabilmente con la fine della prossima stagione. 
Dunque, dirottato lo stesso Derek sulla sperimentazione legata alla ricerca per la cura dell'Alzheimer e definitivamente accantonati i tormenti amorosi della coppia più collaudata dell'ospedale, l'attenzione degli sceneggiatori si rivolge principalmente agli altri protagonisti, quasi a cercare di individuare quelli che saranno gli scenari più importanti del post-Meredith.
Dunque Christina diventa decisamente più umana e fallibile, Callie ed Arizona scippano lo scettro di coppia dal travaglio facile proprio a Derek e Meredith, Mark cresce diventando una sorta di colonna portante di colleghi ed amici - un pò come l'inossidabile Bailey - ed Alex lotta - non sempre riuscendo nell'intento - per portare a galla la sua vera natura, normalmente celata da una facciata di proverbiale ed inequivocabile finta cattiveria.
Ottimo lavoro viene svolto dagli sceneggiatori rispetto al personaggio di April, vera e propria sostituta del fu George O'Malley, mentre il tanto pubblicizzato Avery ancora fatica a decollare, quasi non si fosse ancora trovata una direzione effettiva da dare a quello che, almeno sulla carta, sarebbe dovuto diventare fin da subito una sorta di idolo dei fan della serie - e che ancora scompare al cospetto di quasi tutti i protagonisti maschili, dai più adulti Derek e Mark al mio sempre più favorito Karev -.
Ad ogni modo, e nonostante si sia trattata di un'annata di passaggio, il grande pregio di Grey's anatomy resta quello di riuscire a trovare il passaggio che porta dritto al cuore dell'audience, riuscendo ad emozionare e coinvolgere grazie alla grande empatia che tutti i protagonisti esercitano sul pubblico, che trova e troverà di certo, nei corridoi del Seattle Grace, una qualche affinità con uno o l'altro dei personaggi principali.
Resta ora da vedere quale direzione prenderanno gli autori rispetto alla prossima - imminente negli States - stagione, che, come già sottolineato, dovrebbe essere l'ultima per Meredith e Derek, e quali ripercussioni ci saranno rispetto agli avvenimenti narrati nell'ultimo episodio, che pare aver riportato l'atmosfera indietro fino alle prime stagioni, quando l'instabilità sentimentale dei protagonisti la faceva di gran lunga da padrona dentro e fuori dalla sala operatoria.
Ripensando alle singole puntate, invece, una menzione va certo al tentativo di sperimentazione legato all'episodio musicale incentrato su Callie, nel pieno della lotta per la vita a seguito dell'incidente d'auto avuto con Arizona: personalmente ritengo che il risultato non sia stato dei migliori - e aggravato da un pessimo adattamento nella versione italiana -, ma senza dubbio va sottolineato il coraggio e la voglia di provare qualcosa di nuovo di una serie ormai tra le più "vecchie" del piccolo schermo, quasi a dimostrare ai fan che i medici del Seattle Grace non hanno intenzione di sedersi e tirare a campare, ma che continueranno a mettersi in gioco come quando, qualche anno fa, cominciavano un percorso che li avrebbe visti al centro di un confronto con la medicina vissuta, e non più solo studiata sui libri.
Staremo a vedere quali ferite dovranno ricucire, chi dovrà patire una lunga convalescenza e chi, invece, sarà pronto da subito a ripartire.
In fondo, la nostra è una storia basata sull'esperienza.
E quale esperienza è priva di traumi?

MrFord

"I hurt myself today
to see if I still feel
I focus on the pain
the only thing that's real."
Johnny Cash - "Hurt" -


martedì 23 agosto 2011

The sunset limited

Regia: Tommy Lee Jones
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 91'


La trama (con parole mie): un uomo bianco che ha appena tentato il suicidio cercando di lanciarsi sotto il Sunset limited viene tratto in salvo da un nero che lo conduce nel suo appartamento con l'intenzione di dare una spiegazione al gesto del suo ospite e tentare di redimerlo attraverso la fede.
Ma il suo interlocutore si rivelerà ben poco propenso a cambiare la propria posizione rispetto alla vita, alla morte e ai massimi sistemi a proposito dei quali i due protagonisti si confronteranno in una vera e propria battaglia spirituale e verbale destinata ad avere ripercussioni sull'anima di entrambi.



Come ben sa chi è solito frequentare questo mio saloon, il lavoro di Cormack McCarthy gode, tra queste quattro mura, di grandissima stima: il granitico romanziere di Rhode Island, autore di veri e propri Capolavori quali Meridiano di sangue, The road, Cavalli selvaggi e Suttree si dedicò, in concomitanza con la ribalta di Non è un paese per vecchi e, per l'appunto, La strada, alla stesura di una sorta di piece teatrale all'interno della quale confrontarsi con le sue due anime, quella di uomo ormai nel pieno della vecchiaia, razionalmente alle prese con i bilanci dell'esistenza e profondamente razionale e l'opposto punto di vista di chi ancora crede in Dio e nell'Uomo, nella vita e nella speranza di poter costruire qualcosa anche dalle macerie.
Lessi Sunset limited nel pieno di una giornata estiva di stasi lavorativa, in un paio d'ore, e mi parve un lavoro clamorosamente intimista e, forse, benchè assolutamente potente e ben scritto, più autoreferenziale che non pensato per comunicare con l'esterno: una sfida sicuramente non da poco per chiunque avesse deciso di riproporla a teatro così come sul grande schermo.
A raccogliere il guanto ci ha pensato Tommy Lee Jones, autore del magnifico Le tre sepolture - che l'ha fatto balzare molto in avanti nella classifica di gradimento fordiana rispetto a quanto avesse mai fatto come attore -, prodotto dalla stessa Hbo di cose pregevoli come Game of thrones e True blood, per un "one shot" destinato al piccolo schermo e a fare incetta di premi nella sua categoria non appena riprenderà la stagione delle celebrazioni, in autunno.
La qualità del lavoro è indiscutibile, sia rispetto alla scelta di una messa in scena clamorosamente teatrale sia pensando alle due ottime interpretazioni dei protagonisti, per non parlare, ovviamente, della scrittura, fitta e densa, drammaticamente priva di speranza eppure, a tratti, travolta da una fede incrollabile e perfino da qualche sorriso.
Eppure, qualcosa non torna nella resa finale dell'opera, e quella che a prima vista potrebbe apparire come una piccola gemma profondamente autoriale diviene una sorta di compito portato a termine nel più canonico dei modi, senza alcun picco e completamente riparato - o si dovrebbe dire nascosto!? - dietro la prosa del vecchio Cormac, così come era accaduto alla trasposizione del già citato Non è un paese per vecchi da parte dei Coen.
Ottimo lavoro, ottima confezione, ma nessuna vera e propria esplosione di originalità: il tutto come appariva come soffocato dalla mole dello script originale e del romanzo - in questo caso, della piece -.
E' dunque responsabilità di McCarthy se le rappresentazioni su schermo delle sue opere non dicono nulla di più a chi ha già avuto modo di assaporarle sulla pagina scritta?
Stiamo parlando del primo caso di visione consigliata "al contrario"?
Devo davvero accarezzare l'idea di dire "se vuoi gustarti Non è un paese per vecchi o Sunset limited sarebbe meglio che prima vedessi i film, e dunque ti dedicassi ai libri"?
Difficilmente questo accadrà, ma resta indubbio il fatto che, nonostante l'impegno e l'occhio ispirato di Tommy Lee Jones, la sua interpretazione - così come quella di Samuel Jackson -, una fotografia che ricorda i quadri di Hopper ed una sceneggiatura praticamente già pronta - e che sceneggiatura! -, Sunset limited resta un'algida esibizione di talento indiscutibile incapace di avvincere e giungere davvero al cuore dello spettatore.
In questo modo, il rischio che il fatale treno continui a rappresentare l'ideale della fine inseguito dal professore bianco è così tangibile da farci quasi sentire il fischio della locomotiva.
Resta da vedere a cosa - o a chi - ci aggrapperemo per cercare un pò di salvezza.

MrFord

"To all the people doing lines
don’t do it, don’t do it
inject your soul with liberty
it’s free, it’s free."
The Cranberries - "Salvation" -
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