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lunedì 11 marzo 2019

White Russian's Bulletin



Nuova settimana per il Bulletin e ritorno, a causa di impegni sportivi e lavorativi, ad una frequenza degna dei mesi scorsi di visioni - nonostante True Detective continui a proseguire -, con solo due titoli a dare corpo alla rubrica. E' un periodo difficile, da molti punti di vista, per il mio rapporto con la settima arte, ma so benissimo che questo legame tornerà ad essere vivo come quando da queste parti c'era il fermento giusto per sostenerlo. E resterà anche quando da queste parti non sarà rimasto più nessuno.


MrFord



THE LEGO MOVIE 2: UNA NUOVA AVVENTURA (Mike Mitchell, Danimarca/Norvegia/Australia/USA, 2019, 107')


The Lego Movie 2: Una nuova avventura Poster


Il primo film dedicato ai mattoncini che hanno caratterizzato l'infanzia di molti di noi era stato una vera e propria sorpresa dalle parti del Saloon, una scheggia impazzita fatta di metacinema, ironia e sentimenti che aveva generato - giustamente - costole più che discrete come lo spin-off dedicato al personaggio di Batman. Il secondo capitolo della saga di Emmett e Lucy conferma le impressioni avute nel corso della visione del primo: il brand Lego, in sala, raccoglie l'eredità - per questo vecchio cowboy fondamentale - di Spongebob, portando il grottesco ed il gioco con realtà e finzione avanti a qualsiasi altra cosa, perfino all'idea di piacere a tutti costi al grande pubblico.
Gli incassi non avranno dato ragione al progetto di Mitchell, ma il risultato è interessante anche nelle sue imperfezioni, ed è più utile di tante altre proposte indirizzate ai più piccoli a mostrare le zone d'ombra del mondo ai più piccoli senza che necessariamente si debba perdere il sorriso nel farlo.




IL CORRIERE - THE MULE (Clint Eastwood, USA, 2018, 116')

Il corriere - The Mule Poster


Chiunque mi conosca sa benissimo che Clint è e sarà sempre il mio nonno cinematografico, l'equivalente di Johnny Cash per la Musica. Senza ombra di dubbio, parliamo del regista statunitense più importante e grande attualmente in vita e in attività, l'erede assoluto di John Ford, che ha consegnato alla settima arte numerosi Capolavori dalla fine degli anni settanta ad oggi.
Io voglio bene a Clint, e quando affronto un suo film so che, a conti fatti, uscirò soddisfatto dalla visione. Ed è stato così anche questa volta. Il corriere si lascia guardare, è molto godibile, mescola le atmosfere di Narcos e Breaking Bad alla visione da "grande vecchio" che il Maestro riesce a dare degli USA, del viaggiare, della vita.
Una sorta di Guido piano - che adoro, tra l'altro - trasportata in sala.
Eppure, nonostante le chicche - e che ne sono, dagli incontri con le motocicliste lesbiche alla famiglia afroamericana alle prese con il cambio della ruota - ed i momenti più intensi - la morte della ex moglie di Earl Stone -, a questo The mule manca l'emotività profonda dei classici dell'ex Ispettore Callahan: mi ha fatto pensare più a Di nuovo in gioco, che non a Gran Torino. Quasi il buon Clint si sia sentito in dovere di consegnare al pubblico un altro piccolo pezzo di lui, sperando sinceramente che non sia l'ultimo. 


mercoledì 14 marzo 2018

BoJack Horseman - Stagione 3 (Netflix, USA, 2016)





E' davvero dura, a volte, essere degli stronzi.
Nella maggior parte dei casi a farne le spese è chi sta accanto ai suddetti, ma di tanto in tanto, quando la merda piove e gli stronzi, per l'appunto, sono per la strada rigorosamente senza ombrello, capiscono quanto sia dura essere come si è.
BoJack Horseman è uno stronzo. Spesso e volentieri non si rende conto delle necessità di chi lo circonda, è egoista, alcolizzato, dipendente dai suoi lati oscuri, e chi più ne ha, più ne metta.
Eppure essere così com'è lo rende in grado di affrontare il mondo, e di tanto in tanto, regalare emozioni sincere proprio perchè non velate da quella piccola ipocrisia che, inesorabilmente, è parte della società ma non di chi ne sta ai margini, o al di fuori.
E la storia di BoJack, sempre più maliconica e a tratti struggente, incalza e tocca nel profondo episodio dopo episodio, regalando in questa sua terza annata due episodi che potrebbero essere definiti quasi Capolavori, Fish out of water - geniale e assurdo come un trip - e That's too much, man - un lento, inesorabile, poetico lungo addio -, confermando il carisma di uno dei charachter più interessanti della Storia recente del piccolo schermo, tridimensionale ed imperfetto neanche fosse davvero un attore scombinato e dissoluto, vero erede, almeno per me, di quell'Hank Moody che ho amato alla follia ed ha rappresentato una sorta di mia versione "amplificata".
Dunque, da stronzo e da persona vulnerabile ai suoi lati oscuri, non posso che stare dalla parte del vecchio BoJack, pronto ad una rincorsa all'Oscar che potrebbe significare un rilancio della sua carriera ed un riconoscimento al suo talento, con la conseguente sbronza di gloria o rovinosa caduta conseguenti, e mentre tutti attorno a lui paiono cercare quantomeno di andare avanti, cambiare, trovare una propria strada, il nostro cavallo sregolato guarda l'abisso che si porta dentro quasi crogiolandosi nell'essere guardato di rimando, pensando forse che per uno stronzo non ci sarà mai il "troppo tardi", anche quando si finisce per autocommiserarsi.
Il problema è che il troppo tardi prima o poi arriva, e a quel punto si è costretti a scegliere davvero una strada da prendere.
Ma a prescindere dalle ipotesi che, probabilmente, affronterò nella visione della quarta stagione, BoJack Horseman diviene senza ombra di dubbio una delle serie più drammatiche che abbia visto negli ultimi anni, grandiosa nel far digerire ferite e lacrime servendole accanto al grottesco, all'ironia, a quel qualcosa che, come nel già citato Fish out of water, sembra lontanissimo da noi, e invece ci apre il cuore neanche fosse un cazzo di chirurgo che nessuno potrebbe immaginare neppure in televisione, una specie di incrocio folle tra Derek Shepard e Hannibal Lecter.
Dunque, da stronzo ma anche da amante della vita e delle belle cose - su grande e piccolo schermo - spero che la cavalcata di BoJack possa durare ancora molto, e non smetta di essere così fottutamente schietta, incasinata, caotica, bevuta, carnosa, divertita, arrabbiata e qualunque altro aggettivo possiate farvi passare per la testa e renda bene l'idea di quanto forte sia la vita, e di quanto sia bello viverla ammettendo a se stessi - che poi, in fondo, è quello che conta, dato che, come si diceva in Lost, "si vive insieme, si muore soli" - tutto di se stessi.
Perchè potremo essere casinisti, bugiardi, eccessivi con il mondo e chiunque ci abiti, ma non potremo mai davvero esserlo con quello che è con noi da quando ci svegliamo la mattina a quando crolliamo addormentati la sera, che è lo stesso che guardiamo nello specchio.
E come un abisso, ci rimanda lo sguardo.




MrFord




 

lunedì 5 febbraio 2018

Jean Claude Van Johnson - Stagione 1 (Amazon, USA, 2016/2017)




I miti e gli eroi, neanche avessero superpoteri e potessero cambiare il mondo, che ci consegna l'infanzia - soprattutto se si è cresciuti negli anni ottanta - influenzano il corso della vita di ognuno di noi quasi quanto finiscono per fare le persone in carne ed ossa che ci stanno accanto e davvero si prendono cura di noi: ai tempi delle elementari e delle medie, quando lottavo contro la timidezza che mi divorava e sembravo perennemente almeno tre o quattro anni più piccolo dell'età che avevo, poche cose finivano per farmi sentire tranquillo e sicuro più degli action movies.
Da Schwarzenegger a Stallone, passando per Van Damme, ho vissuto alcuni dei momenti più belli, innocenti e magici di quell'epoca al ritmo delle botte che rifilavano al cattivo di turno, prima di dimenticarli come un figlio adolescente che non vuole immischiarsi con i propri vecchi e tornare a rivalutarli e comprendere la loro importanza nell'età adulta: nel corso degli ultimi dieci anni, inoltre, grazie ad una carica enorme di autoironia, consapevolezza e metacinema, tutti questi ex eroi indistruttibili, messi di fronte all'inesorabile progredire del Tempo, hanno saputo reinventarsi nel modo migliore, finendo per appassionare anche un pubblico che, forse, ai loro tempi non era neppure nato.
Van Damme, che già qualche anno fa stupì pubblico e critica - sì, avete letto bene - con il bellissimo JCVD, una sorta di revisione della propria vita in chiave ugualmente comica e drammatica, grazie ad Amazon ed alle nuove realtà dei network di streaming torna protagonista con questa miniserie - o serie? Io già spero nella seconda stagione - che lo vede di nuovo nella parte di se stesso affrontare non solo l'idea del mito originato proprio dalle pellicole che lo resero famoso ai tempi, ma anche di un genere - quello dello spionaggio - divenuto un classico del Cinema e mostrando un lato decisamente autoironico che al culmine della carriera, considerati gli eccessi, la fama ed alcune sue intemperanze sarebbe parso fantascienza non solo a lui stesso, ma anche alla maggior parte del pubblico che lo seguiva.
A partire dal geniale pilota fino alla spaccata della resa dei conti, passando per la gara di drifting neanche fossimo dalle parti di Fast and Furious e per le sue due spalle interpretate da Kat Foster - una vera e piacevolissima sorpresa, in tutti i sensi - e Moises Arias, che mi hanno riportato alla mente un'altra serie che ha avuto il merito di sottolineare l'importanza di un attore ed un personaggio mitici, Ash vs Evil Dead, posso dichiarare senza ritegno alcuno di aver amato ogni secondo di ognuno dei sei episodi, pronti a contagiare con il loro delirio, le botte e le risate perfino il Fordino, che ancora non ha assolutamente idea di chi sia Van Damme e che ha identificato il tutto con il personaggio del sosia di JCVD interpretato dallo stesso attore belga ed accreditato come fosse il fratello di quest'ultimo, innalzandolo immediatamente a volto di riferimento delle serie che guardiamo al Saloon insieme a Frank Gallagher, "l'altro Frank" (Underwood) e il buon vecchio House.
Un plebiscito, dunque, per una proposta freschissima ed intelligente, oltre che tamarra oltre misura e divertentissima, già destinata a diventare un cult di questo duemiladiciotto sul piccolo schermo e della carriera del mitico Jean Claude che, vorrà perdonarmi, nel corso dell'adolescenza ho snobbato tanto da non affrontare mai la visione di quello che è stato il suo film di maggior successo, Timecop, che a suo dire dovrebbe essere la versione bella di Looper.
A questo punto, come fosse un fioretto nella speranza di vedere una season two di Jean Claude Van Johnson, prometto che rimedierò il più presto possibile.
O comunque, prima che qualcuno venga a prendermi da un futuro che potrebbe non essere così roseo.
O ricco di spaccate e calci rotanti.




MrFord




 

martedì 16 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, UK/USA, 2017, 115')




In uno dei loro pezzi più noti ed apparentemente semplici, i Beatles cantavano "All you need is love".
Detta così, senza associarla ai Fab Four, parrebbe quasi una frasetta del cazzo da Baci Perugina, o romanzo rosa di dubbio gusto ed indubbia (bassa) qualità.
Ma come spesso accade, nella semplicità risiede qualcosa di talmente grande da mangiarsi tutto il resto, perfino quando il mondo attorno crolla pezzo dopo pezzo, e l'unica strada che pare possibile per lo stesso è quella di andare inesorabilmente a puttane, senza usare troppi giri di parole.
Ed è quella la direzione che pare aver preso la vita ad Ebbing, Missouri, uno di quei piccoli centri persi tra il nulla e l'addio eastwoodiani in cui tutti sanno tutto di tutti ed i peccati sono al contempo ben nascosti sotto i tappeti eppure alla mercè delle voci che danno buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio: c'è un Capo della polizia che è il ritratto dell'uomo d'altri tempi, con un bel tumore al pancreas e non si capisce se troppa condiscendenza o troppo poco coraggio, il suo protetto che vive in bilico tra bullismo e razzismo, e per sfogare la rabbia di una vita ben al di sotto degli standard che i suoi fumetti probabilmente gli fanno sognare preferisce affogare il dolore nell'alcool o gettando pubblicitari falliti dalle finestre dopo averli pestati, un venditore di auto usate che cerca con il cuore, le bugie ed una strana e silenziosa determinazione a non essere visto sempre e solo come un nano, miserie umane e speranze più o meno in pezzi che s'infrangono, divampano, esplodono contro tre manifesti che cercano di portare a galla una verità terribile piuttosto che rimanere confinati nella tranquillità di un silenzio troppo pesante.
E poi c'è lei, Mildred.
Mildred che è una donna che ha dovuto farsi le ossa a fronte di un marito violento che esibisce una fidanzata che potrebbe essere la loro figlia morta, bruciata e violentata proprio sulla strada di quei manifesti, che lavora e non ha paura di dire quello che pensa e fare quello che vuole, che ha deciso, perduto l'amore, di sopravvivere grazie all'odio.
Perchè è quello, che resta in piedi nei posti persi tra il nulla e l'addio, le case polverose delle speranze infrante.
Quello che pompa il sangue nel cuore di Mildred, in quello di Dixon, che scorre sotto le strade di Ebbing, Missouri. Quello che si è portato via una ragazza nel peggiore dei modi, e che trascina da sotto i tappeti in cui vengono nascosti male i peccati tutto quello che di peggiore può rimanere dei peccati stessi, dal rancore alla paura. E di nuovo, all'odio.
Lo stesso che trasforma una risata o un momento talmente assurdo dall'essere divertente in una delle sequenze più disturbanti del passato recente, che apre vecchie ferite e si compiace nel cospargerle con il sale del rimorso e dei sensi di colpa, e trasforma qualsiasi confronto in una sorta di guerra.
Per chi in guerra ci è andato perdendo fin troppo della sua umanità, e per chi è rimasto, e combatte ancora più duramente tutti i giorni.
E proprio quando, come nella notte più buia, l'unica strada che pare possibie è quella di andare inesorabilmente a puttane, ecco che ritorna quella frase semplice semplice.
All you need is love.
Una cosa apparentemente banale che si porta dietro il segreto del mondo, anche quando pare non ci sia davvero un cazzo per cui anche solo sognare di essere felici, o lottare, o difendere.
Perchè, come scriveva Hesse, "Senza una madre non si può amare, senza una madre non si può morire", o come ricorda Willoughby a Dixon, "Non puoi essere un buon poliziotto senza amore".
L'amore ti da la dimensione di quello che vuoi proteggere, e la forza per dimostrare che anche le cose peggiori, a volte, possono prendere una direzione diversa da quella che si possa pensare.
Non è detto che possano comunque finire bene, o che da qualche parte l'odio non possa generare altro odio.
Ma chi è pronto a scommettere su quella semplice frase, ha senza dubbio spalle abbastanza larghe per sopportare il dolore e volontà abbastanza forte per iniziare un viaggio che possa portare oltre.
Quello che accadrà si potrà sempre decidere un passo dopo l'altro.



MrFord



martedì 17 ottobre 2017

BoJack Horseman - Stagione 1 (Netflix, USA, 2014)





Affrontare un titolo, si tratti di grande o piccolo schermo, incensato in ogni dove, è sempre una patata parecchio bollente, che si tratti di analizzarlo e scriverne, parlarne con gli amici o anche solo gustarsi la proposta svaccati sul divano: da mesi, ormai, la voce ricorrente che Netflix avesse fatto di nuovo centro con BoJack Horseman aveva fatto capolino un pò ovunque nella blogosfera, e molti dei miei colleghi e compari - spicca, nonostante il suo parere non sia certo un incentivo alla visione, il mio arcinemico Cannibal - hanno fin da subito dichiarato il loro amore per la figura certo non equilibrata di questo protagonista a metà tra stronzi guasconi e piacevoli come Hank Moody ed altri patentati e figli di puttana come Frank Gallagher o Mickey Donovan, per restare nell'ambito del piccolo schermo.
In tutta onestà, devo ammettere che da parte mia non si è trattato certo di amore a prima vista, considerato che ho passato le prime due o tre puntate a chiedermi come fosse possibile che un serial sicuramente interessante ma certo non innovativo potesse essere considerato tanto cult quando prima di lui abbiamo avuto cose come I Simpson, Futurama, Beavis and Butthead, South Park, I Griffin e via discorrendo, dei quali pareva semplicemente un cugino più recente, che le risate sono state tutte molto a denti stretti ed il percorso certo non facile.
Eppure, episodio dopo episodio, l'egoismo e tutti i difetti di questo cavallo star di una sitcom di successo degli anni novanta ormai dedito ad un galleggiamento tra alcool, droghe e puttanate a profusione figlie di una carriera stagnante hanno finito non solo per definire il personaggio e renderlo - come viene sottolineato anche nel corso della bellissima seconda parte di stagione - più umano - sembra una battuta, scritta in questo modo, ma si tratta della pura verità -, ma anche per proiettare BoJack Horseman dritto tra le migliori sorprese che il piccolo schermo ha regalato al Saloon nel corso di questo duemiladiciassette che, al contrario, in ambito cinematografico ha avuto fin troppo pochi sussulti.
Dal rapporto tra BoJack e Todd, passando per i riuscitissimi personaggi di contorno - Diane e Mr. Peanutbutter su tutti -, questa serie è come una di quelle serate in cui si esce per sbronzarsi come se non ci fosse un domani e ritrovarsi il giorno dopo nudi sulla spiaggia senza un rene e si finisce per scomodare massimi sistemi, sputare fuori tutta la merda e sentirsi ad un tempo feriti come mai non lo si è stati nella vita ma sinceramente puliti e pronti per aggredire un nuovo giorno.
Ogni dettaglio è collocato alla perfezione, ogni decisione ed avvenimento comporta conseguenze negli episodi successivi, dal più piccolo o apparentemente inutile al più grande, dalla D rubata alla scritta Hollywood fino alla presa di coscienza del main charachter di essere solo uno stronzo egoista che pur di vivere la sua vita finisce per calpestare chiunque stia al suo fianco.
Ed in questo senso, sarà che sono sempre stato uno stronzo anch'io, quel crescendo nel finale con Wild Horses degli Stones a fare da cornice alla cronaca della sconfitta inesorabile di BoJack mi ha fatto sentire equino e senza speranze e solo ed animalesco e fin troppo vorace, come lui.
Si potrebbe dire che BoJack Horseman sia una sorta di terapia per gli stronzi, un modo per fare da sacco da boxe al mondo pronto a restituire agli stronzi stessi quello che hanno seminato, neanche fosse una gigantesca rappresentazione del karma: ma allo stesso tempo, si potrebbe anche pensare che senza quegli stronzi con tutti i loro difetti a rendere i sapori più forti e le persone più umane, niente sarebbe così fottutamente divertente e degno di essere vissuto fino in fondo.




MrFord




mercoledì 11 ottobre 2017

Twin Peaks - Stagione 3 (Showtime, USA, 2017)




Se torno indietro nel tempo al periodo che si accavallò tra la fine delle elementari e l'inizio delle medie, ricordo bene l'impatto che ebbe Twin Peaks, folle creatura di David Lynch che cambiò radicalmente il mondo delle proposte da piccolo schermo iniziando la rivoluzione che portò, un passo alla volta - e grazie anche alla tempesta che fu Lost anni dopo - alla realtà consolidata attuale in cui i titoli per la televisione finiscono spesso e volentieri per superare in qualità quelli cinematografici.
Ricordo anche l'impatto che ebbe il charachter di Bob sul sottoscritto, diventando l'unico, vero, grande spauracchio per anni e anni, alla faccia di tutti gli horror che avevo divorato a mazzi fin da bambino.
Con Twin Peaks, e la morte di Laura Palmer, terminava in qualche modo l'età dell'innocenza delle produzioni da piccolo schermo, le regole venivano cambiate o sovvertite, la follia entrava a far parte del nostro mondo, ed il Male assumeva sembianze da porta accanto.
Un quarto di secolo dopo, a realizzare i sogni di fan accaniti e completare il puzzle, è giunta questa terza stagione atta a chiarire quello che accadde all'Agente Cooper al termine del finale della season two, chiusa tra il suo doppelganger, il sempre presente Bob, la Loggia Nera e dimensioni parallele varie - andatevi a rileggere il botta e risposta "futuristico" tra Julez, il sottoscritto e Cannibal in coda al post -.
Personalmente, non sapevo cosa aspettarmi dalla visione, in parte perchè la mancanza di un personaggio cardine come Bob si sarebbe sentita - l'attore che lo interpretava, Frank Silva, morì poco tempo dopo le riprese di Fuoco cammina con me -, in parte perchè, nonostante la sua struttura caotica, il finale della season two poteva tranquillamente restare così com'era.
Ed ammetto che non è stato così semplice, raggiungere il diciottesimo episodio.
In questo "nuovo" Twin Peaks, infatti, ci sono alcune cose al limite del geniale ed altre completamente assurde o campate in aria, cose decisamente positive ed altre clamorosamente negative.
Considerato che è impossibile scrivere una recensione normale di un lavoro come questo, analizzerò entrambi i lati della medaglia nel modo più razionale possibile, cominciando con le note dolenti.
Per prima cosa, il fan service: è stato criticatissimo rispetto a prodotti come Game of thrones, quando questo Twin Peaks pare creato ad uso e consumo dei fan; peccato che, per essere fan in grado di godere del servizio, si debba necessariamente essere cultori del lavoro di Lynch e Frost su Laura Palmer e soci a livello maniacale e quasi religioso, pena il cogliere meno la metà delle citazioni e delle strizzate d'occhio dell'Autore.
Segue a ruota il ritmo, assolutamente sfiancante per la sua lentezza in alcuni episodi.
L'evoluzione della storia, poi, passa dal passo alla volta ma non trattenete il fiato dei personaggi e delle varie vicende dell'intera stagione all'accelerata furiosa degli ultimi due episodi, quasi come se gli autori si fossero accorti troppo tardi di essere arrivati a ridosso del termine e si fossero trovati costretti a tagliare corto il più possibile.
Inoltre, questo Twin Peaks non è Twin Peaks: l'atmosfera di tensione e paura costante delle prime due stagioni non viene praticamente neppure sfiorata - se non in un paio di passaggi grazie a Laura e Sara Palmer -, e le location e le storie distanti anche "geograficamente" dalla "ridente" cittadina poco aiutano a tornare davvero per le sue strade, che paiono più che altro uno di quei locali dove si rifugiano gli over cinquanta pieni di nostalgia della loro giovinezza.
A salvare il salvabile, però, pensa Kyle MacLachlan, strepitoso nella tripla parte del Cooper cattivo, quello buono e soprattutto Dougie Jones, il vero asso nella manica della stagione, probabilmente il motivo principale per il quale dopo i primi quattro episodi ho deciso di continuare fino alla fine e gli ultimi due mi sono risultati assolutamente pasticciati ed inutili.
L'impacciato assicuratore di Las Vegas diventa l'emblema della genialità di un regista che ho sempre amato - e che continuerò ad amare - e della parte assolutamente imperdibile di questa stagione, dalla sequenza al casinò - quel mitico "Hellooooo!" sarà uno dei miei cavalli di battaglia per i prossimi mesi - ai due gangsters che lo gestiscono, dalle truffe assicurative al caffè, dalle rivincite di un loser alla magia del nonsense: per quanto mi riguarda, l'effetto dello scarafaggio rovesciato di Dougie non solo è il motore di questo prodotto, ma anche il motivo per il quale Lynch è stato considerato come uno dei grandi degli ultimi trent'anni negli States e non solo.
Curioso pensare come il Twin Peaks di allora fosse rappresentato dall'emblema della paura - almeno per il sottoscritto - Bob, mentre ora è lo spassoso Dougie a farla da padrone: forse sono cambiati i tempi, forse non ho capito nulla di quello che Lynch ha voluto raccontare, forse dovrei chiedermi "in che anno siamo?" come Cooper al termine dell'ultimo episodio, o forse dovrò aspettare altri venticinque anni per vedere dipanata la matassa.
Per il momento, poco importa.
Io tiro la maniglia, grido "Hellooooooo!" e mi butto a vivere.
Gli incubi e le grida li lascio a chi vuole perdersi nel Lato Oscuro.
O nella Loggia Nera.




MrFord

 


 

mercoledì 5 luglio 2017

Aspettando il re (Tom Tykwer, UK/Francia/Germania/Messico/USA, 2016, 98')




Cambiare prospettiva, spesso e volentieri, significa affrontare rotture di palle non indifferenti e fatica doppia rispetto a quanto la vita ci riservi in una rodata quotidianità.
Personalmente, mi piace crogiolarmi nei miei rituali, dall'allenamento alla bevuta, dalla visione del film o della serie televisiva ai momenti dedicati ai Fordini, e via discorrendo: l'unico cambiamento che ho finito per accettare da subito di buon grado è stato quello che mi ha visto da casalingo in questi ultimi mesi, in attesa di scoprire quale sarà il prossimo passo, e se verrà compiuto qui o da un'altra parte del mondo.
Senza dubbio, cambiare porterà sconvolgimenti che almeno in principio non saranno facili da gestire,  e per esperienza so che potrebbero costare qualche incazzatura, o pensiero che, forse, decidere di stare fermi è la scelta più goduriosa che si possa fare: peccato che, rituali a parte, io non sia affatto una persona in grado di attendere che il cadavere del nemico passi lungo il fiume, e dunque mi toccherà allargare le spalle e prepararmi a quello che sarà il futuro mettendo in conto anche e soprattutto i colpi bassi.
Aspettando il re - o, come al solito molto più indicato, A hologram for the king - è legato a doppio filo proprio a queste tematiche, e nonostante non avessi aspettative particolarmente alte - anzi, direi il contrario -, il regista fosse il sopravvalutato Tom Tykwer - che, a parte la co-regia di Cloud Atlas, non mi ha mai particolarmente impressionato - ed il protagonista Tom Hanks, che per quanto non riesca a starmi antipatico trovo allo stesso modo quasi sempre un pò troppo simile a se stesso, devo ammettermi di essere passato attraverso la visione con una sensazione di piacere simile a quella che si prova, finito un allenamento, a tornare a casa, farsi una doccia e schiaffarsi sul divano, consci di aver dato quello che si doveva dare e pronti al relax.
Pur non avendo letto il romanzo di Dave Eggers - che mi sta cordialmente sul cazzo - dal quale è stato tratto, e non considerandolo certo perfetto, ho trovato Aspettando il re una sorta di fratello maggiore e più fine dello scombinato - e comunque divertente, a conti fatti - Rock the Kasbah con Bill Murray protagonista, un'altra storia di rilancio e scommessa su se stessi legata ad un main charachter che, almeno sulla carta, dovrebbe essere ormai nella fase "calante" della sua avventura.
Ed il bello, a conti fatti, come per i cambiamenti, è proprio questo.
Nella vita non c'è una fase calante.
Certo, invecchiamo, ci sformiamo, ci ammaliamo e moriamo, ma questo non deve precludere la volontà e la voglia di fare fronte alle sfide, al desiderio di vivere, di scoprire che nostra figlia ci chiama per piacere e non per bisogno - "Vuol dire che sei bravo" - e che anche in mezzo ad un deserto la possibilità di trovare un'oasi c'è sempre.
In questo senso e da questa prospettiva il lavoro di Tykwer regala quella sensazione di seconda chance perfetta per la primavera - anche se ormai siamo in estate -, ed il pensiero che, in fondo, nonostante la paura, le limitazioni, l'ignoranza ed un sacco di stronzi il mondo resti ancora un luogo da scoprire, in cui bastano pochi accorgimenti - come un costume da uomo su una donna - per aggirare le assurdità ed esplorare la parte più bella e viva di qualsiasi cosa.
Cambiare prospettiva, spesso e volentieri, significa affrontare rotture di palle non indifferenti e fatica doppia rispetto a quanto la vita ci riservi in una rodata quotidianità.
Ma non è detto che proprio quelle rotture di palle non possano, un giorno, farci svegliare come uomini e donne arricchiti di qualcosa che vada oltre i concetti di carriera, doveri, incombenze: il cambiamento di prospettiva, nel bene o nel male, va preso come un'opportunità.
E le opportunità restano la scossa che rende più vivi anche i più vivi.
In barba agli ologrammi.




MrFord




 

mercoledì 31 maggio 2017

Fuoco cammina con me (David Lynch, USA/Francia, 1992, 135')




Se ripenso ai più grandi spauracchi da grande e piccolo schermo della mia vita di spettatore, non c'è gara in assoluto: la cosa più fottutamente inquietante che abbia mai visto è stata senza dubbio Twin Peaks, passato per la prima volta nell'allora casa Ford ai tempi agli inizi delle scuole medie e divenuto il terrore personificato grazie alla geniale creazione del personaggio di Bob, charachter misterioso che era l'anima di una delle tre serie che, per impatto sulla cultura popolare, importanza per quello che è venuto dopo e valore assoluto, trovo imprescindibile per chiunque voglia approcciare questa realtà - le altre due, per chi lo volesse sapere, sono Lost e Breaking Bad -.
Ai tempi ricordo che terminai la visione delle due stagioni a fatica grazie al fascino oscuro di quel villain nato quasi per caso - la leggenda narra che Lynch, facendo delle prove, notò l'attrezzista Frank Silva intento a montare un letto e giudicandolo incredibilmente inquietante lo rese la personificazione del Male nella sua creatura più famosa - e non troppo tempo dopo mi buttai nella visione di Fuoco cammina con me, prequel creato quasi esclusivamente per i fan della serie - uno spettatore a digiuno di Twin Peaks rischia di capire poco o niente - pronto a dare qualche risposta ed alimentare i misteri attorno alla Loggia Nera, luogo d'origine di Bob e di altri spiriti inquieti che popolarono e popolano ancora oggi - considerata l'attesissima e tanto chiacchierata terza stagione da poco iniziata - l'universo narrativo creato da Lynch e Frost.
Spinto proprio dalla visione dei primi episodi della season three, ho deciso di recuperare questo tassello che dovrebbe rivelarsi molto importante - sempre Lynch permettendo - nella comprensione di ciò che ci aspetta nel corso dei prossimi mesi, approfittando per mostrarlo a Julez per la prima volta - come fu per la serie qualche anno fa - e per riscoprirlo io stesso: il risultato è stato senza dubbio molto piacevole, un pò come quando si incontra per caso un vecchio amico e pare che il tempo non sia passato, le atmosfere create dal folle David risultano sempre ipnotiche ed affascinanti, il suo modo di raccontare apparentemente oscuro riesce nel non facile intento di colpire e farsi comprendere anche dall'esterno, ed in tutto questo, ho finito per realizzare non solo di non avere più paura del vecchio Bob, ma anche di considerarlo quasi qualcuno che ha contribuito a farmi sviluppare un certo pelo sullo stomaco ed un'ottima resistenza in fatto di spaventi e film horror.
Personalmente, mi dispiace molto che il già citato Frank Silva sia morto pochi anni dopo le riprese di questo film rendendo impossibile la sua partecipazione alla nuova stagione, perchè sono sicuro che Lynch sarebbe riuscito a renderlo ancora agghiacciante come era ai tempi, primo "mostro" dello schermo a non avere bisogno di trucchi e maschere, presentandosi solo con la sua inquietante mimica facciale.
Ad ogni modo, che sia importante per la terza stagione di Twin Peaks oppure no, il racconto degli ultimi giorni di Laura Palmer prima dell'omicidio che origina la serie è avvolgente ed intrigante, forse non perfetto in termini di narrazione e resa cinematografica ma ugualmente in grado di ipnotizzare come praticamente tutti i lavori di uno dei cineasti più importanti della mia formazione di cinefilo, e che ancora oggi amo tantissimo ad ogni suo passaggio sui miei schermi, tanto da accarezzare l'idea di mettere in cantiere una retrospettiva come qualche anno fa feci con Kubrick.
Staremo a vedere.
Nel frattempo, lo ammetto, camminare con il fuoco di Bob e Laura Palmer è stato un viaggio nel passato stranamente ed inquietantemente piacevole.
E forse Lynch voleva proprio questo.




MrFord



domenica 30 aprile 2017

Lui è tornato (David Wnendt, Germania, 2015, 116')





Penso che, senza ombra di dubbio, una delle rappresentazioni del Male più significative della Storia e della cultura popolare abbia il volto di Adolf Hitler.
Il responsabile dell'ascesa del Reich e di tutto quello che accadde tra gli anni trenta e quaranta in Germania ed in Europa, per quanto terrificante al pari di tanti altri dittatori assolutisti - da Pinochet a Duvalier, passando per i fin troppo numerosi casi in Africa ed in Oriente -, è divenuto un simbolo di quanto agghiacciante possa essere l'opera dell'Uomo a questo mondo, e rappresenta per la Germania una ferita ancora aperta, un personaggio pericolosissimo con il quale confrontarsi anche e forse soprattutto quando lo si fa in chiave grottesca o ironica.
Lui è tornato, giunto sugli schermi del Saloon in ritardo rispetto all'uscita in sala, rientra nel novero degli esperimenti coraggiosi tentati sul grande schermo a proposito della figura del Fuhrer, e senza dubbio finisce per rappresentare una visione "sul filo", a metà tra la genialità e la classica cagata fuori dal vaso, tra le risate e l'inquietudine che alcune riflessioni possano generare.
In tutta onestà, infatti, non solo non saprei dare una collocazione precisa ad un film come questo, che passa dalle suggestioni di critica sociale di uno dei Von Trier a mio parere più interessanti, Il grande capo, alla sfrontatezza nera di cult come Le mele di Adamo fino ad arrivare all'attualità sfrenata - per quanto folle possa suonare, se Hitler o uno come lui dovesse fare ritorno in un contesto storico delicato come quello in cui viviamo, rischierebbe davvero di fare molti proseliti, si veda ad esempio, pur se non comparabile, l'ascesa di Trump negli States come cartina tornasole per gli effetti del terrore sul mondo e la società -, ma anche nella mera valutazione, che si scontra con la bizzarra natura del prodotto, la sua apparente povertà tecnica associata ad idee metacinematografiche e profonde ed una sensazione di quasi disagio che giunge al termine della visione, legata a doppio filo alla presa di coscienza di quel "Hitler è dentro tutti noi" che rappresenta non tanto un'ammissione di colpa da parte della Germania, ma dell'Umanità intera, che quando guarda dentro l'abisso, spesso e volentieri non ricorda che l'abisso ricambia, ed influenza non poco.
E per quanto, dunque, mi sia divertito ad osservare le gesta dell'Hitler trapiantato nel nostro tempo mentre chiama i suoi seguaci "negri" imitando il gergo dei rappers che ribaltano l'appellativo dispregiativo per indicare i loro amici più stretti o manifesta la propria preferenza per il partito dei Verdi, d'altra parte sono rimasto agghiacciato rispetto alle risate che susciterebbe nelle vesti di "comico", o ai proseliti che raccoglierebbe soprattutto in strada, considerata la crescente psicosi da attentati, immigrazione, crimine e via discorrendo.
Una produzione, dunque, quella di Wnendt, che potrebbe essere considerata quasi horror, e che porta alla luce molti nervi scoperti della società anche a quasi un secolo dagli inizi dell'ascesa di Hitler: il terrore, la manipolazione, la strumentalizzazione sono mezzi usati allo stesso modo ancora oggi, pur se attraverso canali differenti.
E se dovesse arrivare, purtroppo per noi, un nuovo Hitler - o chi per lui - e sapesse usarli, allora ci sarebbe davvero ben poco da ridere.




MrFord




 

lunedì 6 marzo 2017

The Lego Batman Movie (Chris McKay, Danimarca/USA, 2017, 104')





Quando, circa tre anni or sono, uscì in sala The Lego Movie, accolsi tiepidamente la notizia nonostante fin da bambino avessi amato moltissimo i noti mattoncini colorati pronti a diventare le fondamenta di mondi e combinazioni sempre diverse nelle mani della fantasia di più o meno piccoli "giocatori": eppure, ricordo che uscii dalla visione divertito, emozionato e soprattutto ammirato per il lavoro che gli autori avevano svolto sul charachter di Batman, forse il più riuscito della pellicola.
All'annuncio, dunque, dell'approdo in sala dello spin off dedicato proprio alle gesta dell'Uomo Pipistrello nel mondo Lego l'hype era decisamente più alto rispetto a quello della pellicola che l'aveva ispirato, e devo ammettere che, per tutta la prima parte, non solo ha trovato conferma, ma ha anche alimentato la speranza che questo secondo lungometraggio potesse superare - e neppure di poco - il primo, amplificando ulteriormente tutta la parte grottesca così come l'approccio metacinematografico, tanto da ricordarmi alcuni dei passaggi più geniali del mitico ed altrettanto geniale Spongebob, dalla caratterizzazione del protagonista alla sua voce off che accompagna il pubblico fin da prima dei titoli di testa.
L'approccio è dinamico, il ritmo tiratissimo - non c'è praticamente un attimo di pausa dal primo all'ultimo minuto -, l'utilizzo non è solo dei nemici più o meno noti del Batman fumettistico e cinematografico - Joker in primis - ma anche di alcuni "ospiti" della stessa pasta della clownesca nemesi dell'alter ego di Wayne - grandiose le versioni di Voldemort e Sauron, già cultissimi -: tutto converge rendendo The Lego Batman Movie una conferma del valore di quello che potrebbe diventare in futuro un brand di riferimento per l'intrattenimento animato per tutti - e forse un pò più per adulti -, nonostante sulla distanza finisca per perdere terreno dando ad un'evoluzione ovviamente prevedibile della trama così come all'azione supereroistica troppo spazio rispetto all'ironia assurda e scombinata della prima parte.
Peccati veniali, comunque, di un film che, come il primo della serie, da queste parti ha trovato terreno fertile ed è già considerato allo stesso modo una piccola chicca di nonsense spinto in versione animata - anche se le vette del già citato Spongebob sono irraggiungibili, va detto -, ed almeno nel sottoscritto fa già venire l'acquolina in bocca per un eventuale terzo capitolo giocato sulla rivalità tra Batman e Superman, che viene ritratto - giustamente - come un bisteccone buonista in grado di insidiare il trono di Joker di nemico numero uno del Pipistrello.
Peccato, al contrario, per il pessimo adattamento italiano, culminato con il doppiaggio da carcere a vita di Geppi Cucciari rispetto alla figlia del Commissario Gordon, una delle cose più imbarazzanti e terribili da che esiste il sonoro nel Cinema: l'idea che i distributori nostrani hanno di prendere in prestito personaggi dello spettacolo per portare ancora più spettatori in sala quando si parla di animazione è quantomeno discutibile, e finisce per rovinare visioni che, come questa, meriterebbero certo trattamenti di ben altro genere.
Meglio pensare ad uno degli sfruttamenti della figura del Cavaliere Oscuro più spassosi ed originali che il Cinema abbia concepito, e a quanto è bello, a volte, trovarsi di fronte a quei vecchi giocattoli e pensare che, forse, la macchina del tempo esiste davvero.
E non c'è cosa più goduriosa, una volta attivata, della consapevolezza di poter tornare bambini senza perdere il bagaglio dell'essere adulti.




MrFord




mercoledì 19 ottobre 2016

Where to invade next (Michael Moore, USA, 2016, 123')



Da che mi ricordi, che si parli di western, wrestling, viaggi, musica o sogni, gli Stati Uniti sono stati il mio riferimento assoluto.
Il primo viaggio in aereo che ho avuto occasione di fare fu per New York, nell'ottobre del novantaquattro.
Dovevo compiere quindici anni, e la Grande Mela mi parve la rappresentazione fisica ed effettiva di tutto quello che avevo sempre immaginato.
Il Bene ed il Male portati all'esasperazione, le migliaia di tombe bianche dei caduti in fin troppe guerre ed i grattacieli che parevano da fantascienza, la gioviale curiosità dei locali nell'autunno che seguì il Mondiale di calcio per l'appunto disputato in terra americana ed il sostenitore degli Yankees che attraversando la strada mi strattonò per aver comprato un giubbotto dei Mets, il World Trade Center che potrò raccontare di aver visto da sotto e da sopra e quella gita a Philadelphia in cui ci ritrovammo, unici bianchi, in una stazione di autobus in cui si muovevano solo afroamericani.
Con Michael Moore, invece, ho avuto un rapporto cinematografico conflittuale: dalla meraviglia di Bowling a Columbine allo scandalo della Palma d'oro a Fahrenheit 9/11, passando per cose decisamente meno famose ma molto convincenti come Sicko, il documentarista del Michigan mi è sempre parso un pò troppo furbo, per essere davvero amato: e Where to invade next è furbo, eccome.
Ma è giusto così.
Perchè gli States sono furbi. Lo sono stati fin dall'istante della loro nascita, probabilmente.
Sono furbi perfino quando, come in questo caso, cercano di fare autocritica portando sullo schermo i loro limiti specchiandosi al contempo in tutto quello che di buono ha da offrire la vecchia Europa: dalle ferie e maternità pagate in Italia all'attenzione per l'alimentazione nelle scuole in Francia, dal sistema giuridico portoghese a quello universitario sloveno, passando per le trentasei ore lavorative in Germania, le conquiste femminili in Tunisia ed Islanda, assistiamo ad un vero e proprio tour del buon Moore attraverso tutto quello che da questa parte dell'Atlantico possiamo trovare che, una volta andati in cerca di sogni nella terra delle stelle e strisce saremmo costretti a dimenticare.
Con ironia ed un pizzico di baldanza - del resto, è uno dei piatti forti dei nostri cugini oltreoceano -, si assiste ad una sorta di mea culpa del corpulento Michael in missione per conto degli alti papaveri della "Land of the free", ad un "road movie" all'interno del quale trovano spazio risate e prese di coscienza - le parentesi in Finlandia o qui nella Terra dei cachi - e momenti di grande drammaticità - il riconoscimento dei tedeschi dell'Olocausto o il rapporto tra i norvegesi ed il loro sistema ideologico e giuridico, culminato con il processo a Brevik, autore di una strage nel luglio duemilaundici, per uno dei passaggi più toccanti e commoventi della mia storia recente di spettatore, con l'intervista al padre di una delle vittime che continua, pur di fronte alle insistenze di Moore, a dichiarare che non ucciderebbe l'uomo che ha privato della vita suo figlio perchè sarebbe ingiusto, e sarebbe come mettersi al suo livello - che conducono, in un certo senso, ad una sorta di sveglia suonata all'indirizzo di quello che era stato il Paese che per primo aveva lottato, sostenuto e spinto affinchè i diritti umani fossero fondamenta della sua formazione.
La Storia, purtroppo per gli USA, ha dimostrato che - ego, interessi o desiderio di mostrare le misure del proprio pene che siano - l'evoluzione dei concetti ha finito per servire più a quella stessa Europa dalla quale i Padri Fondatori avevano preso le distanze, e probabilmente la speranza del regista e di tutti quelli - come il sottoscritto - che hanno sempre sostenuto l'American Dream è che la tendenza possa essere invertita, senza dubbio non a partire da individui come Trump.
Certo, gli USA sono anche questo.
Ma non è detto che non si possa imparare dai propri errori.
Del resto, l'esclusione della lettera W dall'alfabeto sloveno è avvenuta prima dell'avvento di Bush.
E perfino il mio adorato Clint, repubblicano fino al midollo, simbolo delle campagne di molti Presidenti o aspiranti tali, ha portato sullo schermo pellicole di grande umanità e saggezza.
In fondo, il bello di essere studenti non è fare compiti a casa.
E quello di essere insegnanti non è quello di soggiogare chi viene per imparare.
Il bello è poter pensare che le cose, la società, il mondo, possano migliorare.
Per noi, e per i nostri figli.
E prima ancora che a Michael Moore, andatelo a chiedere agli insegnanti finlandesi, a quel padre norvegese, ai Padri Fondatori.
Sono sicuro che tutti saprebbero dare una definizione ideale del Sogno.
Americano oppure no.




MrFord



domenica 12 giugno 2016

Racconti agghiaccianti

Autore: Gustav Meyrink
Origine: Austria
Anno: 1993
Editore: Newton






La trama (con parole mie): attraverso undici racconti ambientati tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, andiamo alla scoperta di mondi lontani e terrificanti, incubi pronti ad invadere la realtà, follia e vendetta, amore e morte, esoterismo e cosmici orrori.
Gustav Meyrink, autore di riferimento del genere per l'epoca grazie a Il golem, conduce il lettore attraverso un viaggio che tocca elementi mistici e la materia di cui sono fatti gli incubi, da Il gabinetto delle figure di cera a L'anello di Saturno, passando per Danza macabra ed Il segreto del castello di Hathaway e La maschera di gesso: piccole chicche pronte a seminare quello che verrà raccolto dall'horror mistico e non nel secolo successivo, e ad influenzare la produzione di autori anche più noti.










Quando si chiude una lettura epica come quella che è stata Il cartello, si ha sempre bisogno di un pò di decompressione, se non altro per evitare che il romanzo successivo nella lista finisca inesorabilmente schiacciato dal confronto con quello appena terminato: Winslow alle spalle, dunque, per stemperare la carica accumulata con le vicende di Keller e soci, ho deciso di fare un salto indietro nel tempo recuperando dalla libreria un volumetto appartenente alla mitica collana "100 pagine, 1000 lire" che fu una vera e propria manna per la mia adolescenza, una raccolta di undici racconti firmati da Gustav Meyrink, una sorta di fratellino di Edgar Allan Poe passato alla Storia principalmente per aver portato su carta una delle fiabe nere più note dell'horror gotico, Il golem.
Per quanto rapido nella lettura, comunque, ammetto di aver fatto una fatica notevole ad adattarmi alla traduzione "aulica" dopo anni di letture contemporanee, e di essermi chiesto in più di un'occasione per quale motivo non esista un editore che abbia il coraggio di riadattare e presentare con nuove traduzioni anche opere che ormai cominciano ad avere i loro quasi duecento anni: ad ogni modo, e conscio del fatto che si trattasse di una lettura riempitivo fatta di racconti di non più di sette/otto pagine l'uno, devo ammettere di aver rivisto in Meyrink e nelle idee alla base di questi suoi piccoli gioielli molta della magia che, ai tempi, avevo respirato grazie a Poe, forse con una base più legata all'esoterismo che non all'orrore ed al terrore veri e propri.
Dal quasi spassoso La maschera di gesso che apre la raccolta raccontando una storia di vendetta tra due vecchi rivali in amore che si sono succeduti alla guida di una sorta di loggia massonica fino ai misteriosi L'anello di Saturno e Danza macabra - che, invece, chiude la selezione -, passando per Castroglobina, che sfiora invece le atmosfere della distopia da contagio in pieno stile Walking Dead o simili, è indubbio quanto Meyrink fosse proiettato verso il futuro, spinto da visioni che, a tratti, paiono avanti anche rispetto a produzioni horror da grande schermo attuali: come fu per Lovecraft, poi, è evidente quanto il fascino di questa materia influisse sull'autore, che, si dice, fu distolto da propositi suicidi proprio grazie alla lettura di un opuscolo che trattava l'esoterismo ed i suoi effetti ed applicazioni.
Dovendo, comunque, scegliere un racconto più rappresentativo di altri, personalmente opto per Il gabinetto delle figure di cera, che a prescindere dall'evoluzione della vicenda - la "sfida" lanciata da tre avventurieri ad una sorta di stregone a capo di un misterioso "circo degli orrori" - rievoca atmosfere che mescolano, oltre all'orrore classico ed al già citato esoterismo, elementi che cinematograficamente si ritrovano in produzioni come Freaks o The elephant man, legate al fascino distorto dei freak show, per l'appunto, che imperversavano all'epoca.
Terminata la lettura, e tornato "a riveder le stelle" dopo questa carrellata di incubi, devo ammettere che Racconti agghiaccianti ha svolto bene il suo compito: considerata la mia lunga carriera di fruitore del genere, sono ben contento così.





MrFord





"Feel your spirit rise with the breeze
feel your body falling to it's knees
sleeping wall of remorse
turns your body to a corpse
turns your body to a corpse
turns your body to a corpse
sleeping wall of remorse
turns your body to a corpse."
Black Sabbath - "Behind the wall of sleep" - 






martedì 19 aprile 2016

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Regia: Roy Andersson
Origine: Svezia, Germania, Norvegia, Francia, Danimarca
Anno:
2014
Durata:
101'








La trama (con parole mie): Sam e Jonathan, venditori di scherzi e maschere non propriamente abili e non propriamente fortunati, si muovono attraverso veri e propri quadri ed epoche destinati a mostrare, attraverso il grottesco, l'ironia e l'assurdo, la grande commedia umana, soprattutto la sua parte legata a doppio filo al concetto di morte ed al suo rapporto con la stessa.
Un viaggio sconnesso e scombinato volto all'esplorazione, alla critica ed alla ricerca, tutto posato sulle spalle di personaggi nati per essere inesorabilmente outsiders: dove, dunque, condurrà il percorso dei ben poco eroici protagonisti?
Riusciranno a piazzare il nuovo articolo che cercano di spingere e riscuotere soldi dovuti o dovranno soccombere ad un Sistema più grande cantando canzonette per festeggiare la loro sconfitta?












Era da tempo, ormai, che non mi capitava per le mani una bella scarica di bottigliate d'autore.
Ultimamente, infatti, che sia per la stanchezza legata alla quotidianità lavorativa o quella - decisamente più importante in tutti i sensi - legata agli impegni con i piccoli Ford, preferisco di gran lunga destinare le mie serate cinefile a proposte più leggere e legate all'intrattenimento, riservando ai titoli d'essai uno spazio limitato per le giornate più libere da impegni: Peppa Kid sarà pronto a dichiarare quanto, la contrario, mi sia rammollito, considerato che le ultime tempeste di bottigliate sono state, di fatto, figlie di stroncature "easy", ma come al solito quando è lui ad aprire bocca, poco importa, specie considerato che questa settimana è stata inaugurata proprio dal massacro del suo tanto caro Mr. Robot, e nonostante quello di Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza potrebbe essere senza troppi problemi annoverato nel gruppo dei suddetti bocciati "con garbo".
Il lavoro di Roy Andersson, da molti radical considerato un Maestro e premiato con il Leone d'oro a Venezia, è indubbiamente notevole per tutto quello che riguarda l'aspetto tecnico, dalla messa in scena alla regia, dall'uso del primo e del secondo piano al piano sequenza, dalla fotografia alla prospettiva, che colloca questo film lungo una sorta di ideale confine tra Majewski e Sokurov, roba da "mica bruscolini".
Peccato che, a conti fatti, per poter considerare davvero una pellicola grande debbano essere tenute presenti anche altre cosine come la sceneggiatura, la capacità di parlare ad un pubblico il più vasto possibile e raccontare allo stesso una storia così come dare un senso alla stessa: poco importa, infatti, che le idee ricordino il primo Kaurismaki - di tutt'altro livello rispetto a questo film, sia chiaro -, o che il grottesco riesca in alcuni passaggi a colpire nel segno, se a fare da contrappeso a tutte le qualità di questo Piccione si trovano novanta minuti e spiccioli di nonsense assoluto che pare una presa per il culo del pubblico giocata attorno a quelle che paiono improvvisazioni senza alcun senso.
Certo, io potrei essere ormai troppo pane e salame, ma sinceramente assistere a sequenze che vedono frasi fuori contesto ripetute quasi come un mantra come se dovessero, più che convincere o divertire, ipnotizzare l'audience, risulta essere una perdita di tempo non da poco per tutti quelli che devono lottare per guadagnarsi quello stesso tempo: ed è ormai lontana, almeno per il sottoscritto, l'epoca in cui bastava l'autorialità più o meno estrema di una pellicola per guadagnarsi da queste parti lo status di cult, così come, d'altro canto, si è abbassata la soglia di tolleranza per i film che paiono costruiti ad uso e consumo di un'elite che, probabilmente, neppure c'è, o di quelle giurie pronte ad andare in brodo di giuggiole per lavori apparentemente incomprensibili come questo.
Non sarò certo io a remare contro i prodotti da Festival, o di nicchia, ma trovo che sia davvero troppo facile - e questa volta mi risparmio il supponente, perchè quantomeno Andersson non trasmette questa sensazione - pensare di presentare un lavoro esteticamente ineccepibile ma, passatemi la definizione, eticamente scorretto come questo: il signor Andersson ed il suo Piccione, infatti, meriterebbero gli ormai noti - e quelli davvero cult - novantadue minuti di applausi del fantozziano "E' una cagata pazzesca!", in barba ai premi, ai leoni e a tutte le giurie pronte ancora a credere in un Cinema elitario e forzatamente colto.
Il giorno successivo alla visione, ho ripensato al re del grottesco, della satira e del "nonsense" della settima arte, Luis Bunuel, che, da bravo genio assoluto qual'era, riusciva e riesce tramite le sue pellicole a parlare a chiunque senza bisogno che qualche presunto critico o santone intellettuale debba farsi trovare pronto ad educare le masse per estrapolare significati che, chissà, forse neppure ci sono.
Del resto, ci sarà pure un motivo se il piccione è uno degli animali più inutili e ributtanti che possano esistere.
E non penso riguardi da vicino riflessioni sulla morte o sull'esistenza.




MrFord




"For just a Skyline Pigeon
dreaming of the open
waiting for the day
he can spread his wings
and fly away again
fly away skyline pigeon fly
towards the dreams
you've left so very far behind."
Elton John - "Skyine pigeon" - 





mercoledì 6 aprile 2016

Dio esiste e vive a Bruxelles

Regia: Jaco Van Dormael
Origine: Belgio, Francia, Lussenburgo
Anno: 2015
Durata:
113'








La trama (con parole mie): forse non tutti lo sanno, ma Dio vive a Bruxelles insieme a sua moglie ed alla figlia di dieci anni Ea, che osserva quanto suo padre, come uno scrittore cinico ed annoiato, si diverta a torturare gli umani per passare il suo tempo, o almeno quello che non passa rimproverando lei e la madre.
Spinta da un anelito di ribellione ispirato dal fratello Gesù, da tempo allontanatosi dalla famiglia, la bambina non solo fugge di casa per esplorare il mondo dei mortali, ma prima di farlo decide di comunicare a tutta la popolazione del mondo tramite sms quanto tempo separa ognuno dal momento della propria morte.
Questa rivelazione cambia radicalmente l'approccio alla vita sulla Terra, e quando Ea decide di scegliere non solo un narratore della sua storia, ma anche sei nuovi apostoli per portare il loro numero complessivo a diciotto come li vorrebbe sua madre, appassionatissima di baseball, Dio in persona si troverà a scendere in campo per cercare di limitare l'operato della sua piccola.
Peccato che non tutto andrà secondo i suoi piani.













Quando, mesi fa, uscì in sala Dio esiste e vive a Bruxelles, fui divorato dai dubbi che, ormai, mi assalgono nel momento in cui affronto una pellicola d'autore di quelle che, agli inizi degli Anni Zero e nel mio periodo da radical cinefilo, avrei non solo visto con hype alle stelle, ma avrei potuto acquistare in dvd anche a scatola chiusa, fiducioso solo della loro natura d'essai: dunque, nonostante ottime recensioni da parte di colleghi bloggers fidati ed una certa curiosità, ho finito per rimandare la visione settimana dopo settimana, quasi cominciando a pensare che il titolo firmato da Van Dormael si sarebbe perso nei meandri delle decine che recupero e poi, per un motivo o per un altro, restano a riposare neanche fossero whisky da invecchiamento nell'hard disk.
Non so neppure giustificare il fatto, invece, di averlo scelto quasi d'istinto nel corso di un pomeriggio che avrebbe accompagnato le mie consuete sessioni di gioco con il Fordino quando sono a casa dal lavoro, conscio della reazione che avrebbe potuto provocare in Julez, già pronta ad un insperato ed inaspettato riposino pomeridiano nel corso della visione: a prescindere, comunque, da tutto quello che avrei pensato potesse essere e quello che, di fatto, è stato, Dio esiste e vive a Bruxelles - pessimo, come al solito, l'adattamento italiano - è uno dei prodotti più sorprendenti che il Cinema europeo recente abbia potuto regalare al pubblico, sofisticato eppure non spocchioso, in grado di unire la cornice favolistica di Amelie - un film che io non ho mai particolarmente amato - alla critica spirituale di produzioni cult da queste parti come Le mele di Adamo.
Senza dubbio questa nuova interpretazione della religione e della fede non è priva di difetti, e soprattutto sulla distanza finisce per perdere qualche colpo rispetto ad un inizio davvero strepitoso, eppure, shakerando Kaurismaki ed un approccio che riesce ad essere molto credente ed altrettanto ateo, Van Dormael confeziona un esperimento clamorosamente riuscito, in grado di passare da citazioni di Van Damme pronte a conquistare senza ritegno il sottoscritto al merito assoluto di aver tenuto la signora Ford sveglia dall'inizio alla fine, strappandole addirittura un'approvazione che, in questi casi, è più unica che rara.
La rappresentazione di una "famiglia divina" quasi e più di quanto non sarebbe se fosse profondamente umana, dalla splendida Ea, una sorta di Little Miss Sunshine con poteri illimitati, al cinico e detestabile padreterno, passando attraverso un Cristo che pare uscito dal cilindro di Kevin Smith e da una "signora dio" che, chissà, forse ha pronte le cartucce migliori per quello che ci attende oltre i titoli di coda, è assolutamente azzeccata, così come il viaggio della sua piccola ribelle attraverso il nostro mondo, l'idea di sconvolgerlo comunicando a tutti la "data di scadenza" di ogni vita e la musica che non solo ci rende unici, ma anche associabili in modo unico a qualcun'altro.
Da peccatore miscredente quale sono, non avrei saputo immaginare una rivoluzione rispetto al regno di terrore di dio meglio gestita di quella che imbastisce il buon Jaco grazie alle gesta di Ea e dei suoi apostoli, in grado di trasmettere la sensazione di confortevolezza che proprio la fede dona a chi l'abbraccia - quando lo si fa in modo positivo e costruttivo, ovviamente - ma ad un tempo il bisogno di critica, la curiosità e la necessità di una rottura al cospetto di eventuali poteri superiori neanche fossimo tutti una sorta di figli adolescenti - come pare essere lo stesso Gesù, ispiratore dell'ancora più tosta e rivoluzionaria sorellina -.
In un certo senso, si potrebbe considerare questo viaggio come il lato solare, caotico e poco misurato dello strepitoso Kreuzweg visto qualche mese fa: in entrambi i casi si affronta la critica alla fede partendo da un punto di vista assolutamente credente.
Una cosa davvero non da poco, in un mondo come quello attuale, spartito tra non credenti e finti credenti.
Ed ancora più notevole perchè in grado, nel caso della pellicola austriaca come in questo, di conquistare anche chi, come gli occupanti del Saloon, con la fede c'entrano poco o nulla.





MrFord





"You can run on for a long time
run on for a long time
run on for a long time
sooner or later God'll cut you down
sooner or later God'll cut you down."
Johnny Cash - "God's gonna cut you down" - 





domenica 3 aprile 2016

Infinite Jest

Autore: David Foster Wallace
Origine: USA
Anno: 1996
Editore: Einaudi






La trama (con parole mie): siamo dalle parti di Boston in un futuro prossimo in cui Stati Uniti, Canada e Messico sono riuniti sotto un'unica bandiera, e tra tennis, aneliti indipendentisti del Quebec ed un film che porta al piacere fisico estremo chi lo guarda e ci si perde, assistiamo alle vicende della famiglia Incandenza, pronta a rimbalzare tra una stranezza e l'altra, un futuro da star della racchetta ed un bong di colore imprecisato, quello che era e quello che potrebbe essere.
Ma cosa mostra questo "Infinite Jest" pronto a ribaltare le regole di qualsiasi cosa, ed a rapire inesorabilmente chi se ne ritrova preda?
Riusciranno i protagonisti di questa epopea a trovare una risposta? E sarà una risposta sensata, o un tentativo fuori da ogni schema di trovare un senso ad una vita sempre e comunque troppo complicata?










In tutta onestà, è la seconda volta che capita nel corso della mia vita di lettore.
Di norma, anche nei casi in cui mi trovo di fronte a qualcosa che azzecca poco con le mie corde, tiro dritto e mi faccio forza fino alla fine, sicuro del fatto che, in un modo o nell'altro, la fatica sarà ripagata.
Curioso che, come la prima volta, accada con un romanzo che è considerato un cult imprescindibile, uno di quei titoli che andrebbero letti almeno una volta nella vita, senza se e senza ma: ai tempi fu Il signore degli anelli la vittima sacrificale del sottoscritto, nonostante tre - e dico tre - tentativi differenti di superare la noia terribile della prosa troppo descrittiva di Tolkien facendomi forza grazie ai personaggi e ad una cornice che ho sempre apprezzato, senza successo.
A questo giro di giostra, è stata la volta di Infinite Jest, celebratissimo titolo che valse a David Foster Wallace l'appellativo di genio assoluto della narrativa americana, di recente tornato alla ribalta grazie all'ottima visione di The end of the tour, che, come scrissi nel post dedicatogli, riuscì non solo a solleticare la curiosità rispetto alla lettura di questa pietra miliare, ma anche il desiderio sopito del sottoscritto di rimettermi alla tastiera per scrivere qualcosa che non sia una recensione: le aspettative, dunque, in proposito, erano molto alte, la curiosità molta, il desiderio di confrontarmi, dopo Il Cartello, con un altro volume imponente, pressante.
Peccato che, a conti fatti, si sia rivelato tutto come un gigantesco buco nell'acqua.
Personalmente, non ho nulla contro Wallace, la sua indubbia proprietà di linguaggio e la straordinaria cultura pronte ad eruttare ad ogni pagina, alla fantasia grottesca o al coraggio di lavorare ad un'opera così complessa e scombinata, eppure anche solo arrivare a centocinquanta pagine scarse sulle mille totali si è rivelata un'impresa pressochè impossibile e fantascientifica, che ho dovuto abbandonare per non torturarmi continuamente con il pensiero dello spreco di tempo e lettura che sarebbe stato dedicare ad Infinite Jest almeno un altro paio di mesi - considerato il ritmo con il quale stavo procedendo - di viaggi avanti e indietro dal lavoro.
E ad ogni secondo di quest'impresa fallita, ho continuato a rimuginare sull'effetto provocato dalle sbronze di parole di Wallace a quello della stessa matrice firmato Bukowski, autore molto legato al grottesco che qui al Saloon ha un posto d'onore: se, infatti, da un lato l'inquietudine esistenziale del buon David ha assunto le sembianze di una sorta di mostro composto per un quarto da una donna in periodo mestruale, per un altro da un professore radical e sbomballato, dunque dal tuo compagno di liceo rimasto ai tempi delle (troppe) canne all'intervallo e dalla sensazione di perdersi talmente tanto in se stessi da essere impossibilitati a vivere il mondo all'esterno, dall'altro il mitico Hank è sempre stato in grado di farmi percepire una vitalità incontrollabile, una voglia di azzannare, mangiare, sputare, leccare le cose da farmi sentire la Natura animale dritta nel profondo del cuore.
Per limiti miei, dunque, del mio approccio e della formazione che mi ha condotto dall'adolescenza dei pipponi ad ora, non credo di essere in questo periodo della mia vita in grado di poter dedicare altro, al vecchio Wallace, se non le bottigliate delle grandi occasioni, ed un brindisi alla liberazione da quella che pareva, senza se e senza ma, una prigionia da lettura in grado di non farmi neppure lontanamente godere di quello che è uno dei miei grandi piaceri quotidiani.
Questo, con ogni probabilità, mi costerà l'ingresso nei circoli letterari più cool della blogosfera e non, nei caffè da reading alternativi e via discorrendo, ma volete sapere una cosa?
Non me ne importa un bel cazzo.
Preferisco recuperare una bella bottiglia, tornarmene a casa, scolarmela tutta dopo essermi ingozzato a tavola, sdraiarmi sul divano e meditare su quel tipo che cercava di farsi un pompino da solo e, non riuscendo nell'impresa, sentenziava: "Possono essere due centimetri o anni luce, ma il risultato è dannatamente lo stesso".
Quanto ha ragione.




MrFord





"I wanna tell you a story about an acrobat. it's a funny situation I'm going to explain. in a nutshell he had sat on a chair's hind two legs badaboom! Because of a Lego brick he's dead. So what? So strange? It was only a game. Does it seem strange?"
Jarvis - "Badabap the parrot" -







lunedì 25 gennaio 2016

Fargo - Stagione 2

Produzione: FX
Origine: USA
Anno:
2015
Episodi: 10






La trama (con parole mie): siamo nel millenovecentosettantanove, in Minnesota. La famiglia Gerhardt, da tempo dominatrice della malavita locale, alle prese con la decadenza del suo leader Otto, si trova alle strette rispetto alla Mafia di Kansas City, pronta a mettere le mani sulla loro fetta di territorio a tutti i costi.
Quando Rye, il più giovane della dinastia, decide di imporre il proprio carattere tentando il colpo uccidendo un giudice locale finendo per causare un massacro in un caffè e la propria morte, il caos ha inizio: le forze di polizia locali, rappresentate da Hank Larsson e Lou Solverson, rispettivamente suocero e genero, i coniugi Ed e Peggy Blumquist, macellaio e parrucchiera, e gli stessi Gerhardt, si troveranno a giocare tutte le loro carte al cospetto di un Destino che pare sempre e comunque più grande di quanto potranno mai pensare.













Se si dovesse pensare alla giungla più selvaggia all'interno della quale giocarsi la propria esistenza, non avrei dubbi nel rispondere che si tratti di quella umana.
Allo stesso tempo, credo non ne esista un'altra in grado di smuovere emozioni così forti, o una partecipazione tale, nel bene e nel male, da cambiare una vita intera.
Nel corso della prima stagione di Fargo, avevamo assistito ad un delinearsi progressivo del prototipo del predatore organizzato e consapevole così come di quello pronto a formarsi passo dopo passo, nel pieno rispetto della pellicola che l'aveva ispirata e delle riflessioni che portarono la stessa season one a giocarsi lo scettro di migliore del duemilaquattordici con True Detective.
Con il passo indietro temporale di questo secondo giro di giostra, di fatto, assistiamo ad un approfondimento delle stesse tematiche reso ancor più coinvolgente e di pancia dall'amplificazione che avviene, di fatto, rispetto al concetto di Famiglia da una parte e dall'altra del confine tracciato dalla Legge.
Dai charachters assolutamente perfetti di Ed e Peggy Blumquist alla convinzione distorta della propria forza dei Gerhardt, passando attraverso l'approccio tutto d'un pezzo di Lou Solverson ed Hank Larsson, assistiamo ad un progressivo precipitare tratteggiato alla grande sia in termini di sceneggiatura che di ritmo, impreziosito da episodi destinati a diventare riferimenti del genere - in particolare il settimo e l'ottavo, protagonisti di uno scambio temporale perfetto - e spalle indimenticabili - Hanzee finisce, di fatto, per essere la pietra angolare del bad guy da tutti i punti di vista - pronte a fornire assist perfetti a protagonisti che dalla prima apparizione finiscono per diventare indimenticabili - Mike Milligan, da uomo di forza a uomo di sistema, parabola inquietante e quasi orrorifica del cambiamento legato al mondo del crimine organizzato in tutto il mondo -.
Con la seconda stagione, dunque, Fargo non solo finisce per battere la concorrenza del suo rivale più agguerrito - il già citato True detective -, ma anche per superarlo, trasportando lo spettatore in una provincia da Western profondo e noir sarcastico, quasi comico ed assolutamente grottesco, in grado di raccontare storie profondamente drammatiche e di sdrammatizzarne altre senza darsi alcun tono autoriale e supponente - splendidi, in questo senso, i due dialoghi che vedono protagonista la lettrice accanita addetta alla cassa in macelleria prima e dunque baby sitter dei Solverson confrontarsi con Ed e la moglie di Lou a proposito dell'appoccio "filosofico" alla morte -.
E i sogni californiati di Peggy incarnati da una baia che non si vedrà mai davvero e quelli di un linguaggio universale auspicato da Hank, che sogna per la figlia un futuro che superi il suo, fanno da contraltare a quelli materiali e senza perdono o ritorno dei Gerhardt e di Milligan, delle occasioni pronte a complicare la vita e delle casualità, degli approcci violenti e privi di empatia di chi non sa ancora dove andare, ma sa che si muoverà grazie alla forza come unica risposta.
Ed il fantasma della guerra che popola il tutto di sensi di colpa o tentativi di redenzione finisce per rendere questa seconda stagione di Fargo ancora più intensa e travolgente della prima, tanto da stuzzicare la curiosità non solo di noi spettatori, ma anche di alieni provenienti da chissà quale altro mondo.
Del resto, la passione miete sempre vittime.
C'è da sperare soltanto che, una volta o l'altra, siano quelle giuste, a poter vedere l'alba e sognare un mondo dove non sia necessario lottare per forza per sopravvivere ai predatori.





MrFord





"Up all night long
and there's something very wrong
and I know it must be late
been gone since yesterday
I'm not like you guys
I'm not like you."

Blink 182 - "Aliens exist" - 






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