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mercoledì 9 maggio 2018

Morto Stalin se ne fa un altro (Armando Iannucci, Francia/UK/Belgio/Canada, 2017, 107')




Sono sempre stato un grande fan della commedia nera, specie quando la stessa si lega ad uno dei mali più antichi del mondo e dell'Uomo: l'esercizio del potere.
Da Bunuel in avanti, sono stati in molti i registi a tentare la non facile strada di descrivere le miserie che colgono le vittime di questa malattia che ha fatto la Storia, con risultati che passano dai Capolavori indimenticabili - come quelli del regista spagnolo - ad altri decisamente meno incisivi.
Morto Stalin se ne fa un altro - adattamento italiano da incubo dell'originale Death of Stalin - racconta lo tsunami politico che travolse l'entourage del dittatore sovietico alla sua morte, e dei giorni della preparazione del funerale e dei passaggi di testimone politici: un esperimento interessante e, seppur forse troppo autoriale, intelligente nel raccontare eventi reali attraverso un velo di critica e humour nerissimo quello che pare uno spaccato perfetto del comportamento dell'animale sociale più pericoloso che sia mai esistito e si possa immaginare.
Un esperimento reso ancora più prezioso da un cast capace e notevole, al quale manca solo la madrelingua per essere credibile in modo totale e coinvolgente - l'accento british in un contesto da Unione sovietica, anche se solo idealmente, suona davvero stonato, per uno spettatore navigato come me - e da un invidiabile equilibrio tra risate e momenti di quasi sbigottimento, in grado di attingere da storie purtroppo vere per raccontare un'epoca ed una situazione sociale davvero oltre il concetto di civiltà - le liste di Stalin non ebbero nulla da invidiare, purtroppo, a quelle di Hitler prima o gente come Pinochet poi - ed approfittare per applicare la stessa ad una delle tentazioni più grandi del genere umano, la possibilità di avere potere su tutto e tutti.
E accanto ad uno Stalin sopra le righe neanche fosse una sorta di antesignano meno limitato dalla consapevolezza dei vari Putin o Trump troviamo un Krushev - che sarà protagonista degli anni della Guerra Fredda - inquietante e malsano, cui Steve Buscemi regala un appeal che pare quello del Burns dei Simpson: certo, il lavoro di Iannucci non è esente da difetti, il ritmo non è quello delle grandi occasioni ed il rischio che il pubblico si possa perdere in un dedalo di nomi, situazioni e riferimenti che in pochi davvero conoscono è molto alto, eppure rientra senza dubbio nel novero di pellicole di nicchia importanti e da non perdere, non fosse altro perchè portatrici di una grande tradizione cinematografica e non solo - quella della satira -.
Non diventerà, con ogni probabilità, il titolo dell'anno o quello che vi ritroverete ad amare di più, non risulterà coinvolgente come una grande produzione hollywoodiana - e subito la mente corre a L'ora più buia, per citare un esempio che tocca tematiche simili - o geniale quanto il più estremo dei lavori del più estremo dei registi, ma forse il bello è proprio questo: Morto Stalin se ne fa un altro racconta tutta la normalità e la banalità del Male che risiede in alcuni contesti e scenari, del quale qualsiasi Uomo è portatore e dal quale sarà sempre tentato.
E poco avrà importato aver visto morire un dittatore.
Alle sue spalle sarà pronto quasi immediatamente quello che lo sostituirà.
Che, a sua volta, sarà manovrato da qualcuno che passerà inosservato, mentre da dietro le quinte si gode lo spettacolo della grande messinscena del mondo.




MrFord




 

mercoledì 19 ottobre 2016

Where to invade next (Michael Moore, USA, 2016, 123')



Da che mi ricordi, che si parli di western, wrestling, viaggi, musica o sogni, gli Stati Uniti sono stati il mio riferimento assoluto.
Il primo viaggio in aereo che ho avuto occasione di fare fu per New York, nell'ottobre del novantaquattro.
Dovevo compiere quindici anni, e la Grande Mela mi parve la rappresentazione fisica ed effettiva di tutto quello che avevo sempre immaginato.
Il Bene ed il Male portati all'esasperazione, le migliaia di tombe bianche dei caduti in fin troppe guerre ed i grattacieli che parevano da fantascienza, la gioviale curiosità dei locali nell'autunno che seguì il Mondiale di calcio per l'appunto disputato in terra americana ed il sostenitore degli Yankees che attraversando la strada mi strattonò per aver comprato un giubbotto dei Mets, il World Trade Center che potrò raccontare di aver visto da sotto e da sopra e quella gita a Philadelphia in cui ci ritrovammo, unici bianchi, in una stazione di autobus in cui si muovevano solo afroamericani.
Con Michael Moore, invece, ho avuto un rapporto cinematografico conflittuale: dalla meraviglia di Bowling a Columbine allo scandalo della Palma d'oro a Fahrenheit 9/11, passando per cose decisamente meno famose ma molto convincenti come Sicko, il documentarista del Michigan mi è sempre parso un pò troppo furbo, per essere davvero amato: e Where to invade next è furbo, eccome.
Ma è giusto così.
Perchè gli States sono furbi. Lo sono stati fin dall'istante della loro nascita, probabilmente.
Sono furbi perfino quando, come in questo caso, cercano di fare autocritica portando sullo schermo i loro limiti specchiandosi al contempo in tutto quello che di buono ha da offrire la vecchia Europa: dalle ferie e maternità pagate in Italia all'attenzione per l'alimentazione nelle scuole in Francia, dal sistema giuridico portoghese a quello universitario sloveno, passando per le trentasei ore lavorative in Germania, le conquiste femminili in Tunisia ed Islanda, assistiamo ad un vero e proprio tour del buon Moore attraverso tutto quello che da questa parte dell'Atlantico possiamo trovare che, una volta andati in cerca di sogni nella terra delle stelle e strisce saremmo costretti a dimenticare.
Con ironia ed un pizzico di baldanza - del resto, è uno dei piatti forti dei nostri cugini oltreoceano -, si assiste ad una sorta di mea culpa del corpulento Michael in missione per conto degli alti papaveri della "Land of the free", ad un "road movie" all'interno del quale trovano spazio risate e prese di coscienza - le parentesi in Finlandia o qui nella Terra dei cachi - e momenti di grande drammaticità - il riconoscimento dei tedeschi dell'Olocausto o il rapporto tra i norvegesi ed il loro sistema ideologico e giuridico, culminato con il processo a Brevik, autore di una strage nel luglio duemilaundici, per uno dei passaggi più toccanti e commoventi della mia storia recente di spettatore, con l'intervista al padre di una delle vittime che continua, pur di fronte alle insistenze di Moore, a dichiarare che non ucciderebbe l'uomo che ha privato della vita suo figlio perchè sarebbe ingiusto, e sarebbe come mettersi al suo livello - che conducono, in un certo senso, ad una sorta di sveglia suonata all'indirizzo di quello che era stato il Paese che per primo aveva lottato, sostenuto e spinto affinchè i diritti umani fossero fondamenta della sua formazione.
La Storia, purtroppo per gli USA, ha dimostrato che - ego, interessi o desiderio di mostrare le misure del proprio pene che siano - l'evoluzione dei concetti ha finito per servire più a quella stessa Europa dalla quale i Padri Fondatori avevano preso le distanze, e probabilmente la speranza del regista e di tutti quelli - come il sottoscritto - che hanno sempre sostenuto l'American Dream è che la tendenza possa essere invertita, senza dubbio non a partire da individui come Trump.
Certo, gli USA sono anche questo.
Ma non è detto che non si possa imparare dai propri errori.
Del resto, l'esclusione della lettera W dall'alfabeto sloveno è avvenuta prima dell'avvento di Bush.
E perfino il mio adorato Clint, repubblicano fino al midollo, simbolo delle campagne di molti Presidenti o aspiranti tali, ha portato sullo schermo pellicole di grande umanità e saggezza.
In fondo, il bello di essere studenti non è fare compiti a casa.
E quello di essere insegnanti non è quello di soggiogare chi viene per imparare.
Il bello è poter pensare che le cose, la società, il mondo, possano migliorare.
Per noi, e per i nostri figli.
E prima ancora che a Michael Moore, andatelo a chiedere agli insegnanti finlandesi, a quel padre norvegese, ai Padri Fondatori.
Sono sicuro che tutti saprebbero dare una definizione ideale del Sogno.
Americano oppure no.




MrFord



domenica 31 maggio 2015

La trattativa

Regia: Sabina Guzzanti
Origine: Italia
Anno:
2014
Durata: 108'





La trama (con parole mie): attraverso una ricostruzione mostrata dal dietro le quinte di un teatro di posa, un gruppo di "lavoratori dello spettacolo" mette in scena il racconto delle vicende che pare siano dietro alla supposta trattativa tra Stato e Mafia volta a chiudere una volta per tutte l'epoca delle stragi che non solo costò la vita ai giudici Falcone e Borsellino ed alle loro scorte, ma anche ad una serie di vittime colpite solo perchè nel posto sbagliato al momento sbagliato o coraggiose abbastanza da affrontare la Mafia.
Un viaggio attraverso episodi fondamentali della Storia recente del Nostro Paese, dalle stragi di Capaci e Via D'Amelio all'ascesa di Forza Italia e Silvio Berlusconi, dai collaboratori di giustizia ai membri del governo, della chiesa, della massoneria e della criminalità pronti a costruire uno stato parallelo allo Stato.








Credo ci siano pochi avvenimenti che, nella Storia recente del Nostro Paese, siano stati in grado di segnare coscienze, società, animi e cultura più delle morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: due Uomini, due eroi, due personalità che dovremmo tutti prendere a modello, e che dovrebbero essere riconosciute alla stregua dei più grandi non solo entro i nostri confini.
La loro lotta alla Mafia e la loro drammatica fine è senza dubbio da considerarsi come uno dei capitoli più oscuri della politica e del crimine in Italia, nonchè la punta dell'iceberg di un'epoca di uccisioni, attentati, massacri che ancora oggi, spesso e volentieri, purtroppo non trovano spiegazioni e colpevoli: Sabina Guzzanti, una vita nella satira, torna sul grande schermo di fatto presentandosi come una sorta di Michael Moore italiano, sfruttando il metacinema - ottima idea, tra l'altro - per raccontare, pur se a grandi linee, il percorso che condusse Cosa Nostra dall'epoca delle stragi a quella della "conciliazione", da Totò Riina a Provenzano, dalla classe politica precedente a Tangentopoli all'era di Silvio Berlusconi.
Posizioni politiche a parte, l'effetto che documenti e racconti legati ad episodi come quelli delle uccisioni di Falcone e Borsellino - che sono due simboli, ma che rappresentano decine e decine di altri martiri della lotta alla Mafia - è sempre in bilico, per il sottoscritto, tra l'indignazione e la costernazione: pensare di essere nato in un Paese - come, peraltro, si afferma nello splendido documentario In un altro paese, che consiglio vivamente - in cui una classe politica intera lotta più per insabbiare morti di persone che quello stesso Paese dovrebbero governare grazie al loro rigore morale è davvero triste, così come il fatto che la società - e dunque noi tutti - finiamo troppo spesso per essere spettatori passivi - o ancora peggio, attivi, come nel caso delle ripetute elezioni del già citato Berlusconi - di quello che è accaduto, accade e speriamo sempre meno possa accadere in futuro davanti ai nostri occhi.
La cronaca degli eventi, resa attraverso un'acuta messa in scena - davvero efficaci i siparietti a proposito dei flashback -, porta a galla anche le vicende di collaboratori di giustizia, ufficiali delle forze dell'ordine, politici e magistrati da una parte e dall'altra della barricata mai salite davvero alla ribalta delle cronache, e dal rapporto tra l'infiltrato ed il Carabiniere e l'assassino di Cosa Nostra che, nello splendido epilogo e con chissà quanti cadaveri sulla coscienza, afferma di non essersi mai ripreso dall'omicidio di Don Puglisi - raccontato anche sul grande schermo dal buon Alla luce del sole -, che, ormai moribondo ai suoi piedi, continuava a sorridere di fronte alla fine.
In questo senso lo spirito della pellicola, che mescola fiction e documenti, satira e profondo dramma sociale, è proprio quello di portare a galla il marcio ma soprattutto dare il giusto risalto, l'importanza dovuta al coraggio che è stato, è e sarà sempre il fulcro della lotta a tutti i movimenti più oscuri della nostra società, senza dubbio ben peggiori dei singoli e semplici crimini di strada, o degli errori che ogni uomo o donna può fare nel corso della sua esistenza.
Complimenti dunque alla Guzzanti, che pur non resistendo a dover inserire almeno un paio di momenti dedicati alla sua - pur divertente - imitazione e parodia di Berlusconi confeziona un prodotto sentito ed importante, che avrebbe meritato una distribuzione ed una divulgazione più massive, ed insieme al lavoro di Pif La mafia uccide solo d'estate rappresenta un altro tentativo di mostrare una delle più grandi tragedie d'Italia attraverso un piglio narrativo didattico e sentito ma non retorico o eccessivo.
Abbiamo bisogno di questi esempi.
Abbiamo bisogno dei sorrisi di Don Puglisi.
Di Falcone e Borsellino.
Di alzare la testa, e dimostrare che è un certo tempo è passato.
E che il futuro è nostro.




MrFord




"Basta alla guerra fra famiglie
fomentata dalle voglie
di una moglie colle doglie
che oggi dà la vita ai figli
e domani gliela toglie
rami spogli dalle foglie
che lei taglia come paglia
e nessuno se la piglia:
è la vigilia
di una rivoluzione
alla voce del Padrino
ma don Vito Corleone
oggi è molto più vicino:
sta seduto in Parlamento."
Frankie HI-NRG MC - "Fight da faida" - 




domenica 10 maggio 2015

The interview

Regia: Evan Goldberg, Seth Rogen
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 112'




La trama (con parole mie): Dave Skylark è un conduttore di successo, anchorman di uno show dedicato ai pettegolezzi ed alle rivelazioni segrete delle celebrità, spesso e volentieri tacciato di occuparsi solo dei numeri e di non impegnarsi nell'approfondimento. Il suo producer e migliore amico Aaron Rapoport, curioso di esplorare campi giudicati più "impegnati", si ritrova tra le mani l'occasione per un'intervista al dittatore della Corea del Nord, uno degli uomini più pericolosi, temuti ed osteggiati dalla comunità internazionale, che pare essere un grandissimo fan dello show di Dave.
Combinato l'evento ed organizzata la spedizione dei due amici a Pyongyang, Dave e Aaron vengono contattati dalla CIA in modo da compiere un'impresa giudicata impossibile fino a quel momento: uccidere il quasi "divino" capo di stato.
Riusciranno gli improvvisati killer a portare a termine l'incarico?








Dai tempi in cui superai - fortunatamente e spero per sempre - il mio periodo da radical del Cinema - posso testimoniare almeno quattro o cinque anni buoni di sole visioni d'autore - il buddy movie come concetto è sempre stato non solo uno dei clienti migliori del Saloon, ma anche un compagno di sbronze praticamente perfetto: dalla mitica Trilogia del Cornetto ai vari SuXbad, Strafumati e via discorrendo, prodotti di questo tipo hanno sfondato una porta aperta da queste parti, finendo per attestarsi a veri e propri scacciapensieri secondi soltanto ai tanto cari film action, superando anche l'horror, una delle passioni storiche del sottoscritto.
The interview, ultima creatura della ciurma che un paio d'anni or sono regalò a noi tutti quella chicca di Facciamola finita, giunto sugli schermi americani e rimbalzato da una parte all'altra della blogosfera a seguito delle polemiche relative al cosiddetto incidente diplomatico che ha causato tra Stati Uniti e Corea del Nord, si inserisce alla perfezione nel suddetto filone: trattato fin troppo male dalla critica e snobbato dal pubblico in sala - almeno negli States, e principalmente a causa dello stesso fenomeno che colpì qualche mese fa Expendables 3 -, il lavoro di Goldberg e Rogen è uno spasso dall'inizio alla fine, infarcito di scorrettezze politiche e sessuali - come di consueto in questi casi - ed assolutamente consigliato nella sua versione originale - impagabili assonanze come quella che passa tra "ain't us" e "anus", o Stalin e Stallone - e frutto del divertimento sfrenato dei protagonisti.
Del resto, avendo le possibilità economiche e gli agganci di Rogen e Franco, probabilmente con Dembo o il mio fido compare Steve detto Tango, probabilmente, finiremmo per girare cose sguaiate e divertenti come questa, pronte non solo a non prendersi sul serio, ma anche a non prendere sul serio alcune dinamiche assolutamente importanti ed attuali come quella della presenza, sul pianeta, di dittatori dall'approccio "divino" pronti a decidere la vita e la morte di intere popolazioni pur essendo, di fatto, soltanto bambini con grossi problemi di ego cresciuti all'interno di una realtà assolutamente distorta - e non sto parlando del Cannibale -.
Le sequenze già cult in casa Ford sono parecchie, il film scorre alla grande sia quando si tratta di passaggi giocati tutti sui dialoghi che di momenti profondamente action - si veda la parte conclusiva -: spassosi i molteplici riferimenti alla trilogia de Il signore degli anelli, Rogen e Franco in gran forma - per quanto legati a charachters cuciti loro addosso, e nonostante il secondo si giochi il premio di attore più gigione di questa prima parte dell'anno con il Christoph Waltz di Big Eyes -, una regia vivace ed effetti ottimi - il costo dell'operazione, del resto, è stato piuttosto alto, soprattutto rispetto agli incassi -, senza contare una carrellata di ospiti illustri - grandissimo Rob Lowe - rendono The interview il non plus ultra dei film ignoranti della prima metà del duemilaquindici, e forse la prima scommessa che sento di sostenere anche a fronte di evidenti scopi esclusivamente ludici della pellicola insieme a John Wick.
Probabilmente questo eccessivo credito al lavoro di Rogen e Goldberg farà storcere il naso a molti, ma sinceramente non me ne potrebbe importare di meno: "They hate us cause they ain't us", del resto.
O avrò detto "anus"!?
Ai posteri l'ardua sentenza.




MrFord




"Do you ever feel like a plastic bag
drifting through the wind, wanting to start again?
Do you ever feel, feel so paper thin
like a house of cards, one blow from caving in?"

Katy Perry - "Firework" - 





mercoledì 11 febbraio 2015

Italiano medio

Regia: Maccio Capatonda
Origine: Italia
Anno: 2015
Durata: 90'





La trama (con parole mie): Giulio Verme, che fin da bambino ha lottato con i suoi genitori per emanciparsi da una condizione di italianità estrema, schiava dei qualunquismi e dalla televisione, si ritrova, adulto, a combattere da outsider la realtà disarmante della Terra dei cachi.
Ai margini del mondo del lavoro ed in crisi con la fidanzata Franca, Giulio incontra casualmente il vecchio ed odiato compagno di scuola Alfonzo, che lo convince ad ingerire una pillola che riduce le sue capacità cognitive dal venti a due per cento.
L'assunzione della droga libera lo stesso Giulio da preoccupazioni e malesseri sociali, aprendogli la strada per il divertimento sfrenato, il sesso e, paradossalmente, il successo.
Per Verme sarà l'inizio di una nuova vita, o l'uomo troverà la forza per reagire ed evitare di diventare quello che ha sempre odiato?







Ogni avventore del Saloon, così come chi ha avuto modo di sperimentare dal vivo il vecchio Ford, ben sa che non sono certo un damerino dai modi garbati, per quanto straordinariamente affabile possa impegnarmi ad essere e sia di fatto molto più equilibrato - almeno in superficie - di quanto non si possa pensare giudicando il mio aspetto.
La volgarità o i colpi proibiti non mi spaventano, e fatta eccezione per alcune schifezze moralmente deprecabili, non mi sono mai scandalizzato particolarmente rispetto al Cinema "basso", se così vogliamo chiamarlo: in fondo, si potrebbe di fatto considerare che proprio dal basso vengo senza dubbio anche io, dunque sarei stupido a remare contro quelle che sono anche le mie "origini".
Maccio Capatonda, salito alla ribalta grazie al trampolino di lancio della rete, è un esempio attuale di questo tipo di Cinema, personaggio e prodotto figlio della rete e della televisione da alcuni considerato geniale e da altri una sorta di povero scemo: premetto che, alla vigilia della visione di Italiano medio, non conoscevo praticamente per nulla le gag che rappresentano il marchio di fabbrica dello stesso Maccio, ed ignoravo felicemente il suo lavoro, ma penso che, a conti fatti, la verità stia in qualche modo nel mezzo.
Italiano medio, scrivendo a partire da un punto di vista prettamente tecnico, è davvero una schifezza amatoriale degna degli standard italioti che tanto pare piacciano al pubblico, dato il successo di gentaglia come Zalone, un'accozzaglia di scene messe una accanto all'altra nel tentativo di illudere l'audience di trovarsi di fronte ad una sorta di unico prodotto, il tentativo di riportare in auge un certo tipo di satira sociale virata al trash ispirata all'epoca in cui il Cinema italiano aveva qualcosa da dire ormai purtroppo tramontata destinato inevitabilmente a non avvicinarsi neppure lontanamente ai cult che quell'epoca hanno segnato - dai primi due Fantozzi ad Amici miei, giusto per citare titoli qui in casa Ford considerati sacri -.
Eppure, per quanto traboccante di difetti, nel corso della visione ho in più di un momento avuto l'impressione di comprendere il perchè dell'enorme seguito che Capatonda ha accumulato e continua ad accumulare, soprattutto rispetto ad un pubblico giovane: in fondo, se non si avessero presenti alcuni riferimenti storici, quello che porta sullo schermo potrebbe perfino risultare innovativo, per quanto enorme mi appaia un termine di questo tipo associato a film di questo calibro.
La spiegazione, dunque, del mio assoluto distacco rispetto a Italiano medio ed alla sensazione di inutilità che questa visione mi ha comunicato, è molto più semplice di quanto si possa pensare: Maccio Capatonda non mi piace, non mi fa ridere, non ha nulla che ritenga davvero geniale, sopra le righe, unico nel suo genere.
Comprendo bene la volontà, il desiderio, la furbata di criticare con il sorriso un ambiente che, in misura più o meno consistente, finisce per influenzare tutti noi che lo viviamo - anche chi se ne chiama fuori, sia chiaro -, ma non credo si sentisse davvero il bisogno di questo piccolo - molto piccolo - circo di citazioni cinematografiche - da Fight club a Limitless, tanto per citarne un paio - e sguaiati momenti pronti a strappare - o a sperare di farlo - un sacco di risate al pubblico: in uno dei periodi più bui della cinematografia nostrana, Italiano medio resta proprio a galleggiare nell'acquitrino che spera tanto di lasciarsi alle spalle guardandolo con discreta spocchia dall'alto, lui che è intelligente, ne sa, ne capisce, ci ride sopra.
Quando anche lui, una volta spente le luci, finisce per ritrovarsi in canotta con birra e spaghetti davanti alla partita di calcio.
E senza aver neppure preso la fatidica pastiglia.




MrFord




"Ohoo Ohoo 
ma a me non me ne frega tanto
ohoo Ohoo
io sono un italiano e canto
e datemi Fiorello e Panariello alla tv
sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu."
Articolo 31 - "L'italiano medio" - 





venerdì 23 novembre 2012

The Boondocks

Autore: Aaron McGruder
Origine: USA
Anno: 2006
Editore: Fazi




La trama (con parole mie): Huey e Riley Freeman si sono appena trasferiti dalla periferia violenta di Chicago nella tranquilla - troppo tranquilla - cittadina tutta borghese e bianca di Woodcrest seguendo il nonno in pensione. Ma i due ragazzini non sono affatto felici di questo cambio di prospettiva, decisamente oltre le loro radici: il primo, studioso ed aspirante rivoluzionario, pensatore dal background riferito alla cultura afroamericana radicale, conta di iniziare la sua battaglia attraverso la rete e la pubblicazione di un giornale autogestito; il secondo sogna invece di rispecchiare, una volta cresciuto, tutti gli standard del gangsta rapper, tra soldi, belle ragazze, pistole, denti d'oro e auto di lusso.
A tenerli a bada il nonno, impareggiabile specchio della saggezza ed unico nel vicinato cui i due fratelli non riescano a dare davvero una lezione.




Sono ormai anni che, a malincuore, mi tengo lontano - per questioni economiche, di tempo, di priorità - dal mondo del fumetto, lo stesso che ho frequentato assiduamente da quando ero bambino fino ai tempi in cui uscii di casa, attraversando periodi di lettura compulsiva di tutto quello che usciva dalle nostre parti e qualche stagione da sceneggiatore per alcune produzioni nostrane molto, molto indipendenti.
Poco dopo l'inizio della nostra storia, Julez mi regalò il volumetto che racchiudeva una selezione delle strisce dei Boondocks, tra le realtà di maggior successo negli USA a cavallo dell'undici settembre: nonostante fossi molto curioso di scoprire la carica dell'irriverente satira politica di quelle pagine e la striscia avesse da sempre un appeal quasi irresistibile per il sottoscritto - io AMO, ma dico AMO, Calvin e Hobbes, uno degli indiscutibili piaceri della vita -, il brossuratone con le avventure di Huey e Riley Freeman è rimasto sullo scaffale della libreria fino ad un paio di mesi fa, quando proprio Julez l'ha rispolverato per leggerlo lei stessa, caldeggiandone la lettura quasi all'istante.
Così, per creare un piacevole intervallo tra un romanzo e l'altro, ho deciso di ritagliarmi lo spazio che i due protagonisti della raccolta effettivamente meritano: Huey - e non provate a dirgli "come Huey Lewis and the News" - e Riley sono una piccola ed esplosiva rivelazione, il manifesto di un disagio che gli americani pensanti tentarono disperatamente di esprimere nel periodo a cavallo dei due mandati di uno degli esponenti politici più discutibili degli ultimi cinquant'anni di Storia, George W. Bush.
L'economia sull'orlo della crisi, il terrorismo, le tensioni razziali, le prospettive di un futuro certo non roseo per i giovani vengono passate al setaccio dalla penna tagliente di McGruder - che, probabilmente, si specchia nel coltissimo Huey -, che da vita ad un cast di personaggi davvero impossibile da non amare fin dalle prime pagine: l'appena citato Huey, intellettuale di sinistra dalla telefonata facile a FBI e CIA - impagabili i suoi siparietti con gli agenti al telefono - che non risparmia critiche neppure ad esponenti di spicco della comunità afroamericana - spettacolari i suoi strali contro P. Diddy e Mario Van Peebles -, l'irriverente Riley dai discutibili soprannomi - Riley Escobar il mio preferito -, aspirante Scarface della tranquilla Woodcrest impegnato a cambiare gli agghiaccianti nomi delle vie di stampo faunistico con quelli dei rapper più violenti, il mitico nonno Freeman, con la risposta tesa ad abbassare la cresta dei nipoti - ho ancora in mente l'immagine di me che rido da solo in treno quando alla richiesta di Riley di avere la Playstation 2 per Natale il nonno risponde: "Certo che te la compro: ma nel prezzo è incluso anche il crack che devo farmi per regalartela davvero?" -, Tom e Sara Dubois - coppia molto radical chic vicina di casa dei Freeman, lui nero e democratico, lei bianca e più vicina alle idee di Huey di quanto voglia ammettere - con i loro conflitti legati ai candidati anti-Bush alle elezioni.
Una galleria irresistibile che attraverso il microscopico invita i lettori a riflettere sul macroscopico di un periodo che pare ormai alle spalle ma che fa ancora sentire l'eco di tutti i problemi che ha portato: dagli attentati del World Trade Center al terrore dilagante, dalle scelte discutibili della premiata ditta George W. Bush e Dick Cheney alle critiche dei personaggi più discutibili dell'estrema destra repubblicana così come della comunità afro più "venduta" ai bianchi: un piccolo cult in pieno Spike Lee style - solo più ironico e meno arrabbiato - che è una lezione di intelligenza ed una fotografia degli USA borghesi che qui nel Vecchio Continente giunge soltanto, di norma, filtrata dallo schermo della tv o della sala cinematografica.
Se vi capita, dunque, recuperatelo e divertitevi: io, intanto, tra una risata e l'altra, ho già aderito alla rivoluzione di Huey.


MrFord


"It's a start, a work of art
to revolutionize make a change nothin's strange
people, people we are the same
no we're not the same
cause we don't know the game
what we need is awareness, we can't get careless
you say what is this?
My beloved lets get down to business
mental self defensive fitness
(Yo) bum rush the show
you gotta go for what you know
make everybody see, in order to fight the powers that be
lemme hear you say...
Fight the Power ."
Public Enemy - "Fight the power" -



venerdì 15 giugno 2012

Boris - Stagione 2

Produzione: Fox
Origine: Italia
Anno: 2008
Episodi: 14



La trama (con parole mie):  la troupe guidata da Ferretti è al lavoro sulla seconda stagione de Gli occhi del cuore, e come sempre l'ambiente si conferma "troppo italiano". 
Lasciata alla spalle la "cagna maledetta" Corinna, sostituita dalla raccomandatissima figlia di potenti Cristina, i problemi paiono solo al principio per i nostri prodi: Stanis è sempre più divo, Mariano Giusti - il perfido conte - è in preda al delirio religioso, Martellone è coinvolto in uno scandalo di droga e sul vecchio Renè incombe il fantomatico progetto Machiavelli, che pare essere l'anticamera dell'oblio per ogni regista cui viene affidato.
Come se non bastasse, la storia tra Alessandro ed Arianna si complica con l'arrivo dell'avvenente Karin, senza contare l'ossessione che lo stesso Stanis pare sviluppare giorno dopo giorno per l'assistente alla regia.





Il fatto che in Italia, nel bel mezzo del panorama "alla cazzo di cane" di fiction e simili, vengano prodotte serie televisive decenti, è praticamente un miracolo: se, poi, le stesse si rivelano talmente valide da essere quasi considerate d'esportazione, ci sarebbero da piangere lacrime di sangue, tanto per restare in ambito mistico.
E per non farci mancare nulla, riuscire nell'ardua impresa di confermarsi dopo una prima stagione sorprendente pare praticamente leggendario: fortunatamente, come fu per Romanzo criminale, anche Boris raddoppia senza perdere un colpo la già buona prima annata, confermandosi come una delle realtà televisive meglio riuscite che la Terra dei cachi abbia generato negli ultimi anni.
Le vicende della scombinata  troupe de Gli occhi del cuore sono tornate ad allietare casa Ford regalando momenti già cultissimi e consolidando alcuni dei protagonisti che erano riusciti a sorprendermi nel corso della prima stagione, primo tra tutti Stanis La Rochelle, divo della fiction al centro della serie splendidamente reso da Pietro Sermonti, ormai uno dei miei miti da piccolo schermo: come se non bastasse l'impareggiabile Stanis, a rendere imperdibile questa seconda stagione ci si mette nientemeno che Corrado Guzzanti, scatenato nel ruolo di Mariano Giusti, volto del perfido conte de Gli occhi del cuore, in piena crisi mistico/violenta e completamente preso dalla ferma volontà di interpretare nella fiction omonima in preparazione il Beato Frediani.
Il resto è il consueto cocktail di smarmellate di Duccio, sfuriate di Renè - da antologia lo schiaffo alla nuova star Cristina, con tanto di testata di ritorno -, problemi di soldi e di rapporti con la rete di Lopez e Sergio ed un'impietosa analisi della situazione spesso e volentieri troppo politica del mondo della televisione italiana: in particolare il personaggio della nuova protagonista - l'appena citata Cristina -, figlia di potentissimi milionari e trattata con riverenza da (quasi) tutti è lo specchio di un Paese in cui tutto funziona soltanto in una direzione, e dietro le risate e gli "e 'sti cazzi" - sempre grande Martellone -, il metodo di lavoro unico degli sceneggiatori ed i timori più o meno esistenziali di Biascica si celano una tristezza ed uno sconforto senza possibilità di riscatto, resi alla grande dal fastidioso personaggio di Lorenzo, ex stagista schiavo cui viene data la possibilità di lavorare finalmente ad un livello "umano".
La stessa Karin, altra new entry de Gli occhi del cuore protagonista non soltanto di una storia con Alessandro che destabilizza il rapporto del ragazzo con Arianna ma anche di almeno un paio di momenti magici con Stanis, regala sul finire della stagione un monologo soltanto apparentemente comico quando suggerisce a Cristina il modo di comportarsi in Italia, racchiuso in un consiglio semplice e spassionato: "Vuoi qualcosa? Devi darla.".
La vicenda di Machiavelli, progetto mai concluso affidato a Renè, è l'ennesimo specchio di questo Paese ormai molto poco Bel, privo di orizzonti e prospettive e all'interno del quale il meglio possibile è cercare di portarsi a casa il minimo sindacale lavorando "a cazzo di cane", in cui personaggi discutibili occupano posizioni di rilievo comprate a suon di sesso e soldi - "Dice che un milione e mezzo di euro potrebbe bastare, a rinunciare a questo amore?", pronuncia granitico l'avvocato di Cristina - e gli idealisti altro non sono se non squilibrati alla deriva - di nuovo Mariano -: un'analisi spaventosa portata lucidamente a compimento da una serie divertente, fresca ed originale in grado di raccontare ben più di quello che parrebbe, senza far mancare al suo pubblico perle regalate a profusione dal primo all'ultimo episodio - dal dialogo tra l'aiuto regista Alfredo e l'attore africano a proposito dell'undici settembre alle scommesse tra Stanis e Alessandro -.
Inutile dire che, a questo punto, l'attesa per la terza - e conclusiva - stagione si fa decisamente sentire in casa Ford, un pò come una certa malinconia rispetto ad una proposta così interessante, sincera ed assolutamente verosimile rispetto alla situazione del nostro Paese: l'unico modo per evitare di patire troppo pare quasi essere quello di trovare la strada giusta che ci porti a cambiare finalmente le cose.
Soltanto in quel modo potremmo, infatti, guardare indietro ad un passato tutto da dimenticare e gridare il più sincero e liberatorio degli "e 'sti cazzi!".


MrFord


"Mai mai e poi mai l'avrei detto mai
che un buchino potesse guidare il mio corpo bellissimo
per darti un'idea sono appena al di sotto di Brad Pitt
ma più bello di Johnny Depp,
che moltissimi chiamano Johnny Dip."
Elio e le Storie Tese - "Il congresso delle parti molli" -


 
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