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venerdì 28 luglio 2017

Fracchia la belva umana - Villaggio globale (Neri Parenti, Italia, 1981, 99')




Ci si accorge del tempo che, inevitabilmente, scorre, quando i volti che hanno caratterizzato la nostra formazione - culturale, umana, metteteci quello che volete - cominciano a farsi vecchi, e a morire.
Una cosa assolutamente naturale ed inevitabile, ma anche un simbolo della perdita dell'innocenza che ci vede, da bambini, etichettare come impossibile la scomparsa quantomeno materiale di un mito, un simbolo, un volto che ha rappresentato sogni, speranze, risate e lacrime, ed un'inevitabile tappa del percorso di crescita.
Rispetto al Cinema italiano - anche se la sua influenza fu ed è molto più ampia in termini culturali e sociali - Paolo Villaggio è stato uno di questi volti.
A cavallo tra gli anni ottanta e novanta, da solo prima ed in compagnia di mio fratello poi, credo di aver visto i film con protagonista l'indimenticabile Ragionier Fantozzi - almeno fino a Fantozzi va in pensione - almeno un centinaio di volte l'uno, seguiti a ruota dai due dedicati ad un altro sfigato "cult", Giandomenico Fracchia: per celebrare il loro interprete, artista importante per diverse generazioni di spettatori, ho scelto proprio uno di questi, a mio parere cult assoluto per quanto riguarda la comicità trash con risvolto sociale, Fracchia la belva umana.
Costruita sul modello della commedia degli equivoci e sul doppio ruolo - reso benissimo - proprio da Paolo Villaggio, la vicenda che vede il vigliacco e sfigatissimo Fracchia vedere la propria vita sconvolta dalla somiglianza fisica incredibile con lo spietato criminale noto come Belva umana rappresenta un vero greatest hits di scene cult, dai confronti iniziali con Polizia, Digos e Carabinieri al primo faccia a faccia tra i "due" protagonisti, passando al bellissimo inseguimento doppio finale ed al dialogo tra un Banfi scatenato nel ruolo del Commissario Auricchio - spalleggiato dal mitico De Simone, suo aiutante - e la Belva spacciatosi per Fracchia in casa di quest'ultimo: tutte sequenze che ad ogni visione non solo continuano a farmi sbellicare dalle risate come se fosse la prima volta, ma che potrei recitare a memoria come se le avessi girate io stesso.
Un pezzo d'infanzia che è anche l'ennesima celebrazione di una mediocrità che mediocrità non è, e che vede l'outsider, il loser, l'ultimo degli ultimi lottare, subire e resistere ma non desistere, anche di fronte alle sconfitte: la carica critica del charachter di Fracchia è sicuramente meno incisiva di quella di Fantozzi, e le concessioni alle gag "di cassetta" più evidenti, eppure l'energia resta la stessa, anche se convogliata principalmente sulla forza della Belva, che porta in scena uno dei volti più seri e decisi che Villaggio abbia mai interpretato sul grande schermo - altro passaggio indimenticabile, il confronto con il direttore dell'azienda in cui lavora Fracchia -.
Non parleremo, in questo caso, di una pellicola destinata anche per valore artistico e tecnico ad entrare nella Storia del Cinema - discorso che vale senza ombra di dubbio per i primi due Fantozzi -, quanto più ad uno di quei film che, quando si incontrano per caso, lasciano inchiodati al divano come vecchi amici trovati per strada sempre pronti per una birretta ed una rimpatriata.
Vecchi amici che, in barba al Tempo, non se ne andranno mai.
Come Paolo Villaggio, il suo Fracchia e la sua Belva.



MrFord





 

giovedì 18 luglio 2013

Boris - Stagione 3

Produzione: FX
Origine: Italia
Anno: 2010
Episodi: 14




La trama (con parole mie): Renè Ferretti, dopo la delusione di Occhi del cuore 2 ed il progetto dedicato a Machiavelli è in dubbio se proseguire con la Rete o approdare a Milano, dalla Concorrenza, per dirigere uno show dedicato ad alcuni presunti comici emergenti.
Quando, però, il via libera gli viene dato per un nuovo serial molto realistico e di qualità chiamato Medical dimension, il regista torna a collaborare con il suo gruppo di sempre aspettandosi, però, un lavoro come non ne hanno mai realizzati.
Ma nonostante la volontà, la passione, l’impegno ed i soliti squilibri, un’ombra minacciosa incombe sull’intera operazione: e non sono i ben poco competenti sceneggiatori, il budget della casa di produzione o i disordini dei membri della troupe.
E’ qualcosa di più grande, che va dritto al cuore del sistema di questa nostra vecchia Terra dei cachi.





Dunque, anche la seconda delle due serie più importanti del panorama italiano – la prima fu, ovviamente, la meravigliosa Romanzo criminale – giunge al capolinea in casa Ford dopo aver intrattenuto, divertito, trasmesso tormentoni e regalato personaggi indimenticabili.
Ai tempi della sua uscita – quando ancora al Saloon non era passata neppure la prima stagione – ricordo che questo terzo giro di giostra di Boris creò non poche polemiche per la sua svolta decisamente più politica e, a tratti, in bilico con il grottesco ed il drammatico, sia tra gli appassionati della prima ora, sia rispetto alla critica: quello che posso dire, ora che anche da queste parti l’intero progetto è alle spalle, è che se senza dubbio è comprensibile la sensazione di “mancanza” rispetto ai primi, scanzonati episodi, appare inevitabile che il discorso iniziato dal progetto di Vendruscolo, Ciarrapico e Torre dovesse trovare soprattutto in chiusura una definizione netta del suo ruolo satirico rispetto al mondo del piccolo schermo – ma non solo – di questa Italietta figlia di nepotismi, vecchiume e trappole che ormai abbiamo ben imparato a conoscere in qualsiasi campo immaginabile – Cinema, televisione, politica, mondo del lavoro e chi più ne ha, più ne metta -.
Le vicende della troupe di Medical dimension – la fu Occhi del cuore – sono, infatti, lo specchio di un Paese allo sbando all’interno del quale tutto funziona tramite raccomandazioni, favori, strani giochi di potere ai quali è impossibile sfuggire, pena l’esclusione da ogni giro che conta – o no -: dal responsabile della Rete per Medical dimension in fuga nel momento della rivelazione della reale natura dell’operazione ai due stagisti Lorenzo – non più schiavo in quanto nipote di un senatore – e Alessandro – memorabile il suo complesso rapporto con Arianna, l’assistente alla regia, dopo la rivelazione di quest’ultima rispetto al suo essere berlusconiana – vincitori di un premio legato ad un cortometraggio che non hanno neppure finito ma che passa dalle mani del succitato zio, osserviamo il paladino Renè Ferretti – un Pannofino irresistibile come di consueto quando ricopre questo ruolo – battersi contro mulini a vento sempre più grandi fino alla clamorosa decisione della doppia puntata conclusiva, che tiene aperta la strada ad una futura ripresa del serial così come a quello che diverrà, poi, il film.
Impossibile poi non citare l’irresistibile Stanis LaRochelle di Pietro Sermonti, uno dei personaggi più geniali creati negli ultimi anni per il piccolo o grande schermo, ed il gruppo degli sceneggiatori, in perenne relax sul loro yacht a copiare serie coreane e buttare idee “a cazzo di cane”, così come le apparizioni dell’intramontabile Martellone – il suo “bucio de culo” in versione cantata è ormai un tormentone di casa Ford -, Sergio Brio – nel cuore di tutti i tifosi juventini di una certa generazione – e Paolo Sorrentino, tormentato dagli errori di persona che lo vedono associato a Garrone, Gomorra e Saviano.
In particolare, poi, ho trovato illuminanti l’episodio dedicato alle sequenze girate a casa di una vecchia signora e legato al tracollo nervoso della figura del dottor Corelli interpretato da Stanis – forse la puntata di Boris che mi ha fatto panesalamente ridere di più – e quello che segna l’inizio della fine del progetto Medical dimension, intitolato Nella rete, virato sui toni del grottesco profondo – quasi surrealista, mi verrebbe da affermare – ed esemplare nel mettere a nudo le dinamiche più bieche che regolano la vita e gli intrighi made in Terra dei cachi.
Onestamente continuo a sperare che un giorno lo studio che il delegato di rete Sergio avrebbe voluto radere al suolo “come l’undici settembre” l’ultimo giorno di riprese possa tornare ad ospitare lo strampalato gruppo di personaggi che ha reso grandi queste tre stagioni, anche perché è talmente difficile trovare proposte intelligenti ed acute nel panorama nostrano che perdere un – l’unico, ormai – riferimento come Boris rischia di segnare definitivamente l’abbandono del sottoscritto rispetto a quello che può offrire la “nostra” televisione.
E ovviamente, che un giorno il sogno di Ferretti di portare nelle case degli italiani proprio “un’altra televisione” possa essere finalmente realizzato.
Politica e pigrizia de noartri permettendo.


MrFord


"Bucio de culo, de culo bucio... Ah, ah!
Bucio de culo, de culo bucio... Ah, ah!"
Martellone - "Bucio de culo" -



venerdì 23 novembre 2012

The Boondocks

Autore: Aaron McGruder
Origine: USA
Anno: 2006
Editore: Fazi




La trama (con parole mie): Huey e Riley Freeman si sono appena trasferiti dalla periferia violenta di Chicago nella tranquilla - troppo tranquilla - cittadina tutta borghese e bianca di Woodcrest seguendo il nonno in pensione. Ma i due ragazzini non sono affatto felici di questo cambio di prospettiva, decisamente oltre le loro radici: il primo, studioso ed aspirante rivoluzionario, pensatore dal background riferito alla cultura afroamericana radicale, conta di iniziare la sua battaglia attraverso la rete e la pubblicazione di un giornale autogestito; il secondo sogna invece di rispecchiare, una volta cresciuto, tutti gli standard del gangsta rapper, tra soldi, belle ragazze, pistole, denti d'oro e auto di lusso.
A tenerli a bada il nonno, impareggiabile specchio della saggezza ed unico nel vicinato cui i due fratelli non riescano a dare davvero una lezione.




Sono ormai anni che, a malincuore, mi tengo lontano - per questioni economiche, di tempo, di priorità - dal mondo del fumetto, lo stesso che ho frequentato assiduamente da quando ero bambino fino ai tempi in cui uscii di casa, attraversando periodi di lettura compulsiva di tutto quello che usciva dalle nostre parti e qualche stagione da sceneggiatore per alcune produzioni nostrane molto, molto indipendenti.
Poco dopo l'inizio della nostra storia, Julez mi regalò il volumetto che racchiudeva una selezione delle strisce dei Boondocks, tra le realtà di maggior successo negli USA a cavallo dell'undici settembre: nonostante fossi molto curioso di scoprire la carica dell'irriverente satira politica di quelle pagine e la striscia avesse da sempre un appeal quasi irresistibile per il sottoscritto - io AMO, ma dico AMO, Calvin e Hobbes, uno degli indiscutibili piaceri della vita -, il brossuratone con le avventure di Huey e Riley Freeman è rimasto sullo scaffale della libreria fino ad un paio di mesi fa, quando proprio Julez l'ha rispolverato per leggerlo lei stessa, caldeggiandone la lettura quasi all'istante.
Così, per creare un piacevole intervallo tra un romanzo e l'altro, ho deciso di ritagliarmi lo spazio che i due protagonisti della raccolta effettivamente meritano: Huey - e non provate a dirgli "come Huey Lewis and the News" - e Riley sono una piccola ed esplosiva rivelazione, il manifesto di un disagio che gli americani pensanti tentarono disperatamente di esprimere nel periodo a cavallo dei due mandati di uno degli esponenti politici più discutibili degli ultimi cinquant'anni di Storia, George W. Bush.
L'economia sull'orlo della crisi, il terrorismo, le tensioni razziali, le prospettive di un futuro certo non roseo per i giovani vengono passate al setaccio dalla penna tagliente di McGruder - che, probabilmente, si specchia nel coltissimo Huey -, che da vita ad un cast di personaggi davvero impossibile da non amare fin dalle prime pagine: l'appena citato Huey, intellettuale di sinistra dalla telefonata facile a FBI e CIA - impagabili i suoi siparietti con gli agenti al telefono - che non risparmia critiche neppure ad esponenti di spicco della comunità afroamericana - spettacolari i suoi strali contro P. Diddy e Mario Van Peebles -, l'irriverente Riley dai discutibili soprannomi - Riley Escobar il mio preferito -, aspirante Scarface della tranquilla Woodcrest impegnato a cambiare gli agghiaccianti nomi delle vie di stampo faunistico con quelli dei rapper più violenti, il mitico nonno Freeman, con la risposta tesa ad abbassare la cresta dei nipoti - ho ancora in mente l'immagine di me che rido da solo in treno quando alla richiesta di Riley di avere la Playstation 2 per Natale il nonno risponde: "Certo che te la compro: ma nel prezzo è incluso anche il crack che devo farmi per regalartela davvero?" -, Tom e Sara Dubois - coppia molto radical chic vicina di casa dei Freeman, lui nero e democratico, lei bianca e più vicina alle idee di Huey di quanto voglia ammettere - con i loro conflitti legati ai candidati anti-Bush alle elezioni.
Una galleria irresistibile che attraverso il microscopico invita i lettori a riflettere sul macroscopico di un periodo che pare ormai alle spalle ma che fa ancora sentire l'eco di tutti i problemi che ha portato: dagli attentati del World Trade Center al terrore dilagante, dalle scelte discutibili della premiata ditta George W. Bush e Dick Cheney alle critiche dei personaggi più discutibili dell'estrema destra repubblicana così come della comunità afro più "venduta" ai bianchi: un piccolo cult in pieno Spike Lee style - solo più ironico e meno arrabbiato - che è una lezione di intelligenza ed una fotografia degli USA borghesi che qui nel Vecchio Continente giunge soltanto, di norma, filtrata dallo schermo della tv o della sala cinematografica.
Se vi capita, dunque, recuperatelo e divertitevi: io, intanto, tra una risata e l'altra, ho già aderito alla rivoluzione di Huey.


MrFord


"It's a start, a work of art
to revolutionize make a change nothin's strange
people, people we are the same
no we're not the same
cause we don't know the game
what we need is awareness, we can't get careless
you say what is this?
My beloved lets get down to business
mental self defensive fitness
(Yo) bum rush the show
you gotta go for what you know
make everybody see, in order to fight the powers that be
lemme hear you say...
Fight the Power ."
Public Enemy - "Fight the power" -



domenica 12 agosto 2012

Robocop

Regia: Paul Verhoeven
Origine: Usa
Anno: 1987
Durata: 102'




La trama (con parole mie): in una Detroit del prossimo futuro messa all'angolo dalla violenza, Alex Murphy, poliziotto di belle speranze, è assegnato ad uno dei distretti più difficili e con la più alta mortalità tra gli agenti. Inseguendo la banda di rapinatori del ricercato Clarence Boddicker viene mortalmente ferito, divenendo di fatto il candidato ideale per il progetto che vede la realizzazione del primo poliziotto cyborg della città.
Murphy rinasce dunque come Robocop, paladino della giustizia che i vertici dell'organismo che sta dietro la polizia pensano manovrabile come un giocattolo, ma che in realtà, nei recessi della mente riprogrammata, cela ancora il carattere e l'anima dell'agente che con la sua morte ha reso possibile l'intero esperimento: è l'inizio di una nuova presa di coscienza che porterà l'Uomo a prevalere sulla Macchina mettendo in scacco gli elementi più corrotti della dirigenza delle forze dell'ordine e trovando anche il tempo di vendicarsi degli stessi rapinatori che gli portarono via la vita a suon di pallottole.



Finalmente, dopo Atto di forza e Starship troopers, giungo a quello che è, senza ombra di dubbio, il mio cult definitivo tra quelli firmati Paul Verhoeven.
Tra i film della mia infanzia, legati indissolubilmente alla golden age che furono gli eighties, Robocop conserva praticamente di diritto un posto nella decina dei miei preferiti: visto in un'epoca in cui non era poi un dramma se un ragazzetto smilzo di dieci o undici anni vedeva un film così forte per contenuti se accompagnato dalle dovute spiegazioni dei genitori - rivisto poi un milione di volte, da solo prima, con mio fratello poi -, il primo ricordo che ho di questa perla indiscutibile firmata dal regista olandese è lo sconvolgimento provato di fronte alla sequenza del vero e proprio massacro di Murphy per mano della banda di Clarence Boddicker.
Non fu tanto l'utilizzo di effetti al limite del gore - e dalle rimembranze cronenberghiane, come l'intera pellicola, del resto -, però, a lasciarmi a bocca aperta, quanto l'inclinazione violenta e priva di ogni pietà dei rapinatori, dalla mano fatta saltare all'esecuzione conclusiva: mai mi era capitato - e raramente l'episodio si è ripetuto in seguito - di trovare villains così spaventosi proprio perchè figli della realtà, senza alcuna maschera o aspetto deforme, o mostruoso. 
Una sensazione che vissi soltanto un paio d'anni dopo con il Bob di Twin Peaks, anima nera, peraltro,del Leland Palmer interpretato dallo stesso Ray Wise che qui gioca il ruolo di uno dei guardaspalle di Boddicker.
Come se non bastasse, le strepitose sequenze dell'operazione volta a salvare la vita a Murphy e la successiva, giocata tutta attraverso la soggettiva del poliziotto in procinto di diventare Robocop mi parvero allora - ed in parte lo sono ancora oggi - tremendamente all'avanguardia e rivoluzionarie, momenti impossibili da dimenticare della pellicola firmata Verhoeven in cui il regista riesce al meglio ad equilibrare dramma, satira sociale ed azione: le prime imprese di Robocop sono uno splendido esempio dell'ironia del regista - il tentato stupro con la pistolettata nelle palle a distanza era un momento di grande esaltazione, ai tempi -, in grado parallelamente di costruire una storia tutta giocata sulla corruzione del potere e del denaro - Dick Jones e Bob Morton sono due personaggi che non avrebbero sfigurato in un qualsiasi estremo Wall Street - senza dimenticare tutto il brivido dell'azione sfrenata - il conflitto a fuoco nell'acciaieria è da antologia, quasi un duello western riportato alla dimensione della sci-fi urbana - ed una riflessione per nulla banale sul confronto Uomo/Macchina da fare invidia a pellicole come Existenz o Terminator.
La battaglia di Murphy per riacquisire l'umanità sepolta nelle profondità della psiche dalla trasformazione in Robocop e la sua conseguente presa di coscienza - culminata in un finale che di nuovo strizza l'occhio alla Frontiera e ad una delle battute migliori del decennio - ancora oggi paiono concrete e profonde, seppur filtrate attraverso un sorriso sardonico del vecchio Paul, che non dimentica di inserire un elemento pacchiano e tamarro per l'aggancio del protagonista ai suoi ricordi come l'acrobatico rinfoderare della pistola: un pò come i reiterati messaggi pubblicitari - uno più agghiacciante dell'altro - che verranno poi utilizzati anche nei due cult citati in apertura di post.
Un film che è una miniera di scene memorabili è che a distanza di venticinque anni non ha perso nulla del suo fascino, che lo si approcci in modo "serio" e riflessivo o alla ricerca della tamarrata action per rinvigorire qualche serata tra amici troppo spenta: atmosfere strepitose, cast perfetto, un ritmo che non perde un colpo e la capacità di trovare punti di contatto con le più disparate tipologie di pubblico.
Se fosse vivo, ad un titolo come questo, una volta terminata la visione, non resterebbe da dire altro se non: "Spari bene, figliolo. Come ti chiami?"
E lui, inarcando le labbra tra un sorriso ed una smorfia - neanche fosse il regista -, affermerebbe deciso: "Murphy".
E ad uno così ti sentiresti di affidare tutto.


MrFord


"Cause I don't want no Robocop
you moving like a Robocop
when did you become a Robocop
now I don't need no Robocop."
Kanye West - "Robocop" -


domenica 13 maggio 2012

Homecoming

Regia: Joe Dante
Origine: Usa
Anno: 2005
Durata: 58'



La trama (con parole mie):  David Murch, consulente del Presidente degli Stati Uniti ed esperto di campagne elettorali, nel corso di una trasmissione televisiva sfodera un accorato appello in difesa dei soldati caduti, esprimendo il desiderio di volerli vedere tornare. 
Quando è il Presidente, ispirato dal tema così ben trattato dal suo collaboratore, a riportare in un discorso per la campagna elettorale della rielezione lo stesso passaggio, i ragazzi morti sotto le armi cominciano ad uscire dalle loro bare chiedendo la possibilità, prima di abbandonare definitivamente questo mondo, di poter votare alle elezioni: il panico scatenato da questa anomala ondata di elettori finirà per portare Murch a prendere una decisione che potrebbe sancire il suo passaggio sul fronte opposto rispetto a quello del suo datore di lavoro e della scatenata e repubblicana fino al midollo amante Jane.




Devo dire di aver sempre voluto un gran bene a Joe Dante, fin dai tempi in cui ero soltanto un bambino e molta della sottile ironia che pervade le pellicole del regista del Jersey mi sfuggiva, nascosta ai miei occhi dagli effetti o dalle atmosfere di cult della mia infanzia come Salto nel buio o Gremlins.
Crescendo, ho imparato a conoscere ed apprezzare anche il piglio decisamente caricaturale dei suoi lavori - che associo ormai inesorabilmente al pur più cattivo Romero -, ed opere come The howling o Matinee sono divenute, nel corso degli anni, sempre più mitiche, acquistando valore invece di perderlo progressivamente.
Casualmente, mi sono imbattuto di recente in una recensione di Mereghetti che parlava entusiasticamente, invece, di questo film per la tv nato come episodio della serie Masters of horror che mi era sfuggito, così ho deciso di recuperarlo e rispolverare quelle atmosfere dal sapore seventies che nell'horror recente saturo di montaggi frenetici e citazioni a raffica si sono andate purtroppo perdendo, finendo per uscire dalla visione decisamente soddisfatto: in pieno periodo bushista, infatti, Dante fornisce la sua personale critica all'operato dell'ex Presidente regalando una piccola chicca al pubblico senza dover ricorrere a chissà quali espedienti da salto sulla sedia, solleticando invece l'inquietudine di una riflessione clamorosamente attuale e profondamente politica.
I suoi soldati zombies, invece che andarsene in giro a fare la gente a brandelli biascicando e sbavando senza ritegno, chiedono con una certa decisione che la loro posizione rispetto alle incombenti elezioni per la Presidenza sia presa in considerazione, chiudendo il cerchio del ritorno al mondo dei vivi una volta imbucata la scheda elettorale: un ritratto di questo tipo di spauracchio cinematografico assolutamente inedito e clamorosamente interessante, non privo di omaggi - il passaggio che vede, con la resurrezione dei morti dei conflitti più lontani nel tempo, anche il già citato George A. Romero e Jacques Tourneur - e virate di profondità notevole - il legame tra David Murch ed il defunto fratello, veterano del Vietnam -, ma soprattutto intelligente ed incisivo, soprattutto considerato il periodo in cui fu girato, quando ancora la speranza della rinascita by Obama - che poi, a ben guardare, non c'è stata - era un miraggio cui tutti i democratici dai grandi sogni anelavano senza ritegno.
In particolare assume uno spessore notevole l'escalation finale, evidente riferimento alle vicende che portarono alla vittoria del già citato Bush Jr. su Al Gore e alla manipolazione e al controllo del destino politico da parte di chi detiene il potere, in barba all'opinione di chi, almeno sulla carta, dovrebbe essere il vero detentore dello stesso: il popolo.
L'ironico e decisamente "politically uncorrect" finale - che riprende la scena d'apertura -, giocato sulla contrapposizione tra la compagna del protagonista Jane - che fa sembrare Schwarzenegger un democratico convinto, vegano e hippy - e gli zombies in cerca di vendetta per i voti rubati risulta davvero efficace, e fa rimpiangere a noi vecchi fan di Joe Dante che Homecoming fosse destinato a Masters of horror invece che al Cinema, togliendoci di fatto la possibilità di un lungometraggio vero e proprio che avrebbe potuto liberare la carica di irriverenza di questo autore in misura ancora maggiore.
Ma è inutile recriminare: il prodotto è decisamente riuscito, e tra qualche decennio gli appassionati di horror - e non solo - potranno ripescarlo come un ritratto insolito di un'epoca spesso sottosopra come la nostra.


MrFord


"Vote or die muthafucka, muthafucka vote or die
rock the vote or else I'm gonna stick a knife through your eye
democracy is founded on one simple rule
get out there and vote or I will muthafuckin’ kill you."
da South Park - "Vote or die" -


  

domenica 16 ottobre 2011

South Park - Il film

Regia: Trey Parker
Origine: Usa
Anno: 1999
Durata: 81'



La trama (con parole mie): nella ridente cittadina di South Park è arrivato il nuovo successo cinematografico di Terrance e Philip, Culi di fuoco, emblema della comicità tendenzialmente dissacrante e volgare tipicamente canadese. 
Kenny, Cartman, Stan e Kyle sono subito in prima fila, e l'influenza del film sul loro già scurrile linguaggio è devastante.
In breve, tutta la scuola si tramuta in un gigantesco calderone di scaricatori di porto suscitando l'ira delle mamme, che in men che non si dica decidono di formare un comitato in opposizione agli usi e costumi dei loro vicini del Nord pronto a sfociare in un vero e proprio conflitto: all'Inferno, nel frattempo, gli amanti Satana e Saddam Hussein non vedono l'ora che si realizzi la profezia legata alla morte di Terrance e Philip, che significherebbe il loro ritorno sulla Terra in veste di dominatori assoluti.



A volte si incontrano dei veri e propri fenomeni di massa in grado di travolgere come colpi di fulmine senza neppure passare dal via, mentre altre, a fronte degli stessi fenomeni, ci si ritrova a provare una sorta di pacifica indifferenza che, forse ma solo forse, quasi porta a chiedersi come possa essere possibile che tutti ma proprio tutti siano impazziti per questa o quella cosa che a voi neppure tocca di striscio.
Uno di questi fenomeni è senza dubbio South Park, serie a suo modo rivoluzionaria, irriverente e a tratti geniale che a partire dagli ultimi anni dello scorso millennio ha imperversato ponendosi come vera e propria alternativa all'ormai consolidatissima I Simpson: ricordo quanto, tra il liceo e l'università, l'aura quasi mitica di South Park avesse raggiunto livelli clamorosi, tanto che da qualche parte devo ancora avere un portachiavi di Kenny sfoggiato appositamente per fare colpo sulle fanciulle di turno assidue spettatrici degli episodi.
In realtà, questa serie ormai divenuta di culto non mi ha mai, ma proprio mai conquistato davvero.
Proprio io, da tamarro pane e salame quale sono, ho sempre trovato l'ironia dissacrante e volutamente estrema della creatura di Trey Parker posticcia e tendenzialmente irritante, tanto da cancellare spesso e volentieri le idee davvero ottime alla base di episodi e, in questo caso, lungometraggio.
Tematiche legate al confronto Usa/Canada, l'influenza dei mezzi di comunicazione sui giovani, l'idea e l'utilizzo della guerra, la pena di morte o il geniale spunto "religioso" sfruttato grazie alla coppia Satana/Saddam, potenzialmente dirompenti sulla carta, sconfinano spesso e volentieri nel grottesco perdendo molto del loro potenziale, e lo stesso utilizzo della volgarità gratuita - che, se usata con la dovuta misura, risulta non solo acuta, ma anche irresistibilmente divertente - appare portato così all'estremo da sminuire se stesso, un pò come se, conscio di stare al volante di una vettura di formula uno, decidessi di darci dentro così tanto da fondere il motore, giusto per far vedere al pubblico che sono un tipo che va forte.
Peccato davvero, perchè il buon Parker forte ci andrebbe anche, ma, in qualche modo, pare avere la stessa capacità di controllarsi dei suoi piccoli, terribili protagonisti, dal sempre morto Kenny allo sproloquiatore Cartman passando per i più timidi Stan e Kyle.
Certo, occorre anche ammettere che alcune parti sono decisamente azzeccate nella loro totale assenza di mezze misure - la trovata del clitoride, per quanto liceale possa suonare, mi ha fatto sbellicare -, eppure il risultato pare sempre lo stesso: quella che ci si trova di fronte è una copia apparentemente sfrontata ma mai altrettanto efficace rispetto ai sempre inarrivabili - e già citati - Simpson, ancora i numeri uno in materia di satira sociale animata, non fosse altro perchè, per un detrattore - o, più semplicemente, un puritano chiuso mentalmente come quelli più ferocemente criticati dallo stesso South Park - sarà clamorosamente più facile bollare un prodotto di questo genere come il tipico cartone animato traviabambini violento e scurrile rispetto alla famiglia più gialla della tv, che riesce a toccare gli stessi dolenti tasti portandosi anche a casa il consenso di chi la osteggia.


MrFord

"I'm goin' down to South Park
gonna have myself a time.
friendly faces everywhere
humble folks without temptation."
South Park Main Theme
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