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mercoledì 25 marzo 2020

Bloody Sky

Bloody Sky (Flames Series Vol. 2) di [Ferrari, Bianca]


A un mese di distanza dall'uscita del precedente Burning Sand, Julez torna alla ribalta confermandosi l'unica vera penna del Saloon con il secondo capitolo della storia di Skylar e Alexander, che promette di essere ben più tosto e drammatico del precedente. 
Se non avete ancora conosciuto i due protagonisti, siete amanti delle storie d'amore travagliate e non vi guastano un pò di azione e di momenti da stomaci forti, potete senza dubbio approfittare di questo periodo sicuramente anomalo per arricchire la vostra libreria - virtuale o no - con questa doppietta caricata a dovere da Julez.
A questo indirizzo trovate tutti i riferimenti del caso - www.amazon.it/dp/B08619N76Y/
Buona lettura!


MrFord

martedì 25 febbraio 2020

Burning Sand

Burning Sand (Flames Series Vol. 1) di [Ferrari, Bianca]


Come molti dei più affezionati avventori del Saloon ben sanno, da qualche anno Julez è ufficialmente l'unica e vera scrittrice presente da queste parti.
Oggi esce il suo nuovo romanzo, che riprende le tematiche romance dei lavori precedenti per trasportarle in un contesto molto attuale ed "action", nel cuore dell'Iraq e della guerra: una dilogia che mostra l'evoluzione che Julez sta vivendo come autrice, e che, in barba al genere, ha colpito perfino un vecchio cuore di pietra come me.
A questo link trovate i riferimenti: www.amazon.it/dp/B085463KF2
Mi raccomando, dateci dentro e scoprite il mondo di Alexander e Skylar.


MrFord

lunedì 24 febbraio 2020

White Russian's Bulletin


Nuova edizione del Bulletin in diretta dall'epicentro della psicosi indotta dai media rispetto al Coronavirus, ennesima dimostrazione di quanto il Nostro Paese sia purtroppo piuttosto indietro rispetto a svariate parti del mondo, culturalmente parlando: ma onde evitare polemiche, torno sul caro, vecchio Cinema raccontando quello che è passato su questi schermi negli ultimi giorni, a partire dal recupero di una delle pellicole più recensite a cavallo della Notte degli Oscar che mi aveva visto protagonista, di recente, di un tracollo da divano clamoroso. Ce l'avrò fatta, questa volta, ad affrontare Jojo Rabbit?


MrFord



JOJO RABBIT (Taika Waititi, Nuova Zelanda/Repubblica Ceca/USA, 2019, 108')

Jojo Rabbit Poster


Ford incontra Jojo Rabbit, capitolo due.
Alle spalle il clamoroso tracollo della settimana della Notte degli Oscar, ho affrontato nuovamente il lavoro di Waititi preparandomi il terreno: in una sera in solitaria, di ritorno dalla palestra, ho ritenuto opportuno affrontare la visione mangiando il mio tradizionale kebabbazzo del mercoledì sera in modo da limitare il rischio di un coma da divano, riuscendo ad occupare una buona metà della visione accompagnato dal cibo.
Vicende del sottoscritto a parte, comunque, com'è andata?
Ho trovato Jojo Rabbit interessante, un abile mix di Wes Anderson e di Amelie, con una colonna sonora pazzesca, un ottimo Sam Rockwell - che, del resto, per me ormai è una garanzia - ed un paio di sequenze da ricordare - stupenda quella della scoperta del destino della madre da parte del piccolo protagonista -: le idee ci sono, l'ironia e la profondità anche, forse l'unica pecca è che risulti tutto un filo troppo fiabesco, ma può andare bene anche così. 
In fondo, emozionarsi per una fiaba non ha mai fatto male a nessuno.




POLIZIOTTO IN PROVA (Tim Story, USA, 2014, 99')

Poliziotto in prova Poster

Sempre per arginare i crolli da divano, e forte dello scorso weekend rinforzato dai riposini pomeridiani, ho recuperato questa mezza tamarrata di qualche anno fa sulla piattaforma di Prime, giusto per passare una serata senza troppi pensieri prima dell'inizio di una settimana lavorativa che avrebbe portato, ma ancora non lo sapevo, alla situazione di psicosi da apocalisse che si sta vivendo ora qui nel Lodigiano.
Il film di Tim Story non è niente di che, ma come action buddy movie regala i suoi momenti da risata sguaiata e rutto libero, complice il botta e risposta continuo tra Kevin Hart - che è perfetto per questi ruoli - e Ice Cube, che come tipo tosto fa sempre la sua figura.
Nulla di trascendentale, ma per farsi due risate senza impegno ci può stare.




AMERICAN GODS - STAGIONE 1 (Starz, USA, 2017)

American Gods Poster

Qualche anno fa avevo molto apprezzato il romanzo firmato da Neil Gaiman, e pur se colpevolmente con un certo ritardo, ho finalmente deciso di recuperare la serie dallo stesso ispirata, giunta ormai alle porte della terza stagione e presentata ai tempi dell'uscita come un titolo pronto a diventare un riferimento del genere.
Non ricordo nel dettaglio l'evoluzione della storia di Moon nel romanzo, ma senza dubbio American Gods risulta interessante, fuori di testa e fordiano abbastanza per prendersi il suo spazio al Saloon fino a quando la corsa dell'ex galeotto protagonista e del suo mentore/capo/qualunquecosasia Wednesday proseguirà: divinità vecchie e nuove, vizi capitali, morti che risorgono e morti che restano morti e basta, ironia nera, molto alcool ed un pizzico di dramma rendono questa proposta una delle più interessanti del passato recente del Saloon, reduce da mesi di un piccolo schermo sottotono almeno quanto il grande. 
Si è ancora raccontata una minima parte della vicenda, speriamo che, con la seconda e la terza stagione, oltre ad approfondire la storia si ingrani una marcia ancora più decisa.


lunedì 17 febbraio 2020

White Russian's Bulletin


Alle spalle la Notte degli Oscar ed il mancato post di commento alla stessa - quest'anno, devo dire, è andata di gran lusso grazie a Parasite -, torna il Bulletin nella sua formula tradizionale e legato almeno in parte ai titoli che hanno preso parte alla cerimonia più nota dell'anno cinematografico. Accanto a loro il Saloon ritrova un trio di vecchi amici che si erano perduti e prosegue nel recupero di una serie divenuta ormai un cult, paradossalmente, per i più piccoli di casa Ford.


MrFord



1917 (Sam Mendes, USA/UK/India/Spagna/Canada, 2019, 119')

1917 Poster


Il grande favorito - ed il grande deluso - degli Oscar 2020, è giunto sugli schermi del Saloon qualche giorno prima della Notte, rafforzando l'impressione - fortunatamente sbagliata - che si sarebbe giocato l'incetta delle statuette con Joker, considerata l'abilità di entrambe le pellicole di risultare ad un tempo autoriali e profondamente pop.
Sam Mendes, che non è proprio l'ultimo arrivato, gira con grande tecnica una storia bellica che pare shakerare Dunkirk e Salvate il soldato Ryan, formalmente ineccepibile, arricchita da un paio di twist molto interessanti ma, a conti fatti, priva del cuore che ci si aspetterebbe da un titolo di questo genere.
Si lascia guardare, alimenta molto bene la tensione, rende molto bene le potenzialità dei mezzi tecnici che il Cinema oggi offre, eppure manca la scintilla che rende un buon film qualcosa di davvero memorabile, o che, nonostante sia stato ispirato dai racconti del nonno del regista, reduce della Seconda Guerra Mondiale, il regista avesse davvero la necessità di raccontare.





ODIO L'ESTATE (Massimo Venier, Italia, 2020, 110')

Odio l'estate Poster

Ricordo benissimo gli esordi televisivi di Aldo, Giovanni e Giacomo, così come la loro esplosione ai tempi di Mai dire gol e de I corti in teatro. Divenuti campioni d'incassi con il loro primo film Tre uomini e una gamba, ebbero il grande merito di far riscoprire una comicità all'italiana leggera e mai volgare, che fino a Chiedimi se sono felice - a mio parere il loro lavoro migliore - ed in parte a Tu la conosci Claudia? riuscirono a mantenere a livelli interessanti. 
Poi, come spesso accade per i comici consolidati, finirono vittime di loro stessi attraversando un decennio totalmente da dimenticare sia in televisione che al Cinema, finendo per allontanarsi da quello che era stato lo spirito del loro inizio: fortunatamente, ricongiuntisi con il vecchio amico Massimo Venier, i tre paiono aver ritrovato proprio quello spirito in Odio l'estate, dai tempi del già citato Chiedimi se sono felice di gran lunga la loro produzione migliore.
Forse parzialmente telefonato, ma genuino e piacevole, questo nuovo film porta con sé la malinconia che, a fine estate, rapisce da bambini così come da adulti, con la sensazione che la stagione delle vacanze e degli amori effimeri sia ad un tempo il momento più bello e più terribile dell'anno, perchè così come in grado di regalare magie, spietatamente giunge al termine sempre troppo presto.
Un pò come la vita. Ed è bello che Aldo, Giovanni e Giacomo non solo se ne siano ricordati, ma siano riusciti a raccontarlo quasi al loro meglio.




SCRUBS - STAGIONE 6 (ABC, USA, 2007)

Scrubs: Medici ai primi ferri Poster

Prosegue il recupero dell'intera cavalcata di Scrubs, ai tempi seguita saltuariamente dal vecchio cowboy e divenuta a scoppio ritardato uno dei cult del Saloon soprattutto grazie alla presa avuta sui Fordini ed alla presenza di un idolo totale come il dottor Cox.
Al sesto giro di giostra i medici del Sacro Cuore mostrano i primi segnali di stanca tipici delle produzioni lunghe, ed un mordente che non pare più quello degli esordi nonostante i numerosi avvenimenti importanti della stagione - il consolidamento del matrimonio di Turk e Carla, il secondo nato in casa Cox, il matrimonio di Elliot, il figlio di J.D. -: Scrubs è sempre piacevolissimo da vedere e per accompagnare i sempre più incasinati pasti di Casa Ford è perfetto, eppure in cuor mio spero, con la settima stagione, di poter assistere ad un colpo di coda che mi permetta di affrontare le ultime tre annate al meglio, e non con l'impressione che avrebbero dovuto chiudere prima.




JOJO RABBIT (Taika Waititi, Nuova Zelanda/Repubblica Ceca/USA, 2019, 108')

Jojo Rabbit Poster


L'appuntamento con Jojo Rabbit, uno dei titoli più recensiti anche qui nella blogosfera nel periodo precedente la Notte degli Oscar, è stato tra i più assurdi della mia vita recente di spettatore: tra lavoro, palestra, ritmi incalzanti e circo dei Fordini, nell'ultimo anno ho diminuito molto la mia percentuale di film visti alla sera, ma mai come nel giorno di Jojo Rabbit ho avuto un tracollo clamoroso.
Dei venti minuti scarsi visti a pezzi a fronte dei quasi centodieci complessivi, devo ammettere che il lavoro di Taika Waikiki mi è parso interessante ed emotivamente pronto a colpire - al contrario, ad esempio, di 1917 -, un pò come se avessero mescolato Wes Anderson ad una commediaccia tamarra ma dal cuore d'oro.
Sospendo il parere sul voto, e mi riprometto un recupero in tempi non sospetti, magari nel weekend, decisamente più lontano dal rischio crollo che ormai è un must della settimana lavorativa.

lunedì 25 settembre 2017

Dunkirk (Christopher Nolan, UK/Olanda/Francia/USA, 2017, 106')





Non è stato facile approcciare Dunkirk, ultima fatica di Christopher Nolan, illusionista del Cinema, uno dei volti più interessanti della generazione successiva a quella di Tarantino, uno dei registi più celebrati degli ultimi vent'anni.
Personalmente, ricordo benissimo la prima visione di Memento, il recupero dei suoi lavori precedenti e poi l'escalation che portò al successo planetario, passando dal mio personale favorito The prestige fino alla trilogia dei Batman, o allo splendido Inception: il buon Chris è ormai considerato una garanzia, uno di quelli che il pubblico - non importa se di nicchia o mainstream - attende al varco, pronto a criticare per tutto ed il contrario di tutto, punti di vista permettendo.
Non è stato facile, approcciare Dunkirk, perchè nel frattempo, dalla sua uscita, avevo sentito e letto qualsiasi cosa immaginabile: da chi lo ha considerato un Capolavoro a chi l'ha detestato per la sua freddezza, con tutte le sfumature del caso nel mezzo.
Nel corso della visione, personalmente mi sono stupito della scelta operata dal regista, lontana dai suoi canoni e dai generi cui è più avvezzo, ho finito per sorridere all'idea di tutti i presunti radical che hanno deciso di esaltarlo senza considerare che si tratti di una versione british di Salvate il soldato Ryan, tecnica sopraffina e furberie comprese, mi sono emozionato all'idea di tutti quei pescatori e non solo inglesi a bordo delle loro imbarcazioni pronti a fare rotta verso la Francia per salvare quelli che avrebbero potuto essere loro figli, ho ricordato che mio nonno materno, lo stesso che mi trasmise la passione per i Western e che ancora oggi ricordo per tutto il Tempo che mi dedicò sopravvisse ad un naufragio nel corso della Seconda Guerra Mondiale, prima di combattere parte della Campagna d'Africa ed avere la fortuna, per certi versi, di passare più di due anni prigioniero degli inglesi, scampando in quel modo probabilmente alla morte.
Dunkirk, senza dubbio, è grande Cinema, di quello che soltanto i registi di talento possono permettersi di portare sullo schermo.
Ma attenzione: non parliamo, comunque, di un grande film.
E non parlo di uno di quelli destinati a fare la Storia della settima arte, ma anche solo a pensare di poter insidiare quelli che, ad oggi, sono i miei personali favoriti dell'anno.
Occorre dare a Dunkirk quello che è di Dunkirk, e a Nolan quello che è di Nolan.
Personalmente, adoro i registi che percorrono più strade, senza fossilizzarsi su un genere o quantomeno cercando di adattare il loro carattere, la voglia di raccontare, a vicende differenti e lontane tra loro: Nolan ha scommesso forte su questo film, e senza dubbio, anche fosse solo dal punto di vista tecnico, ha vinto la sua partita a mani basse.
Tensione, occhio, tempi di narrazione, tutto funziona: manca forse il cuore, o la scintilla che permette ad un film di diventare "il" film, ma non per questo bisogna avere paura di riconoscere la portata di un lavoro senza dubbio impressionante, nonostante lo stesso finisca per essere destinato a quel novero di pellicole che, seppur splendide quantomeno per l'occhio, finiremo per non rivedere così facilmente.
Dunkirk non è La sottile linea rossa, o Apocalypse Now, o Full Metal Jacket, ma in tutta onestà, credo non voglia neppure esserlo.
E' semplicemente una storia, qualcosa di molto concreto, fisico, reale, che un illusionista ha voluto raccontare mantenendo come unico trucco la sua abilità con il mezzo di narrazione.
Non sarà quello che ci aspettavamo.
Non sarà come essere ingannati, e provare quel brivido che solo l'illusione può dare.
Ma del resto, è un film di guerra.
E la guerra è una delle cose più dannatamente reali che esistano.
In mezzo a qualcosa di così terribile e che noi - Nolan compreso - possiamo solo immaginare, e per fortuna, l'unica cosa che resta, probabilmente, è aggrapparsi a qualcosa che ci possa portare in salvo.
Può essere il Destino, può essere un miracolo, può essere la tecnica, può essere la voglia di arrivare in fondo.
Dunkirk ha dentro tutto questo.
Forse non sarà sopravvissuto, ma senza dubbio, ha messo tutto quello che poteva.




MrFord




lunedì 11 settembre 2017

Game of thrones - Stagione 7 (USA/UK, HBO, 2017)



Dai tempi dell'esplosione del fenomeno delle serie televisive all'inizio degli Anni Zero, pochi titoli sono divenuti, per motivi e meriti differenti, dei veri e propri punti di riferimento per il pubblico, dei fenomeni in grado di entrare a pieno titolo nella pop culture e finire nel mirino anche di chi dei suddetti titoli ha finito per sbattersene - apparentemente - sempre e comunque, come fu ai tempi per il primo Twin Peaks: Lost è uno degli esempi più clamorosi, in questo senso, tanto da essere quasi associabile ad un culto religioso, che lo si odi o lo si ami.
Fin dalla sua conclusione, per tutti gli addetti marketing delle grandi produzioni c'è stata una vera e propria corsa alla scoperta del prodotto che ne sarebbe stato l'erede: ci hanno provato in molti, ed altrettanti hanno fallito.
Almeno fino all'arrivo di Game of thrones.
Il serial partito dall'ispirazione data dai romanzi di George Martin, infatti, per mosaico di personaggi, isterie di massa, maniacalità esplosa in tutto il mondo è diventato a tutti gli effetti il Lost di questa generazione di spettatori, che da Cersei a Jon Snow, passando per Daenerys e tutte le morti illustri che ci hanno riservato le sette stagioni - e chissà quante altre l'ottava - ha creato fazioni tra il pubblico che ricordano i tifosi calcistici, o gli appartenenti alle casate che si danno battaglia per la conquista di Westeros.
Ora, di questa settima stagione ho già letto di tutto e di più: asservita al fanservice - assolutamente vero -, troppo frettolosa - assolutamente vero -, giocata sull'esaltazione - assolutamente vero -, completamente slegata ormai dalla linea di narrazione e dal mondo ideato da Martin - assolutamente vero -. Eppure, come fu per Lost, l'impressione che continuo ad avere è quella della serie di culto che una volta giunta al successo planetario finisce nel mirino delle critiche degli stessi che, in principio, l'avevano esaltata per poi tirarsi indietro nel momento in cui scoprono che il loro giocattolino è diventato il giocattolino di tutti: certo, questa settima non sarà stata, oggettivamente parlando, la miglior stagione della produzione, ma neppure la peggiore - la quinta fu decisamente poco avvincente e nel complesso quasi noiosa, ad esempio -, e proprio grazie al tanto criticato fan service ha finito per regalare momenti di godimento assoluto qui al Saloon, dal survival della squadra oltre la Barriera agli incontri che mi hanno ricordato i livelli di miticità - come direbbe Po - di Star Wars, fino agli sconvolgimenti dell'ultimo episodio che alimenta l'hype per la prossima - ed ultima - stagione a livelli davvero incredibili.
Ora starà agli autori cercare di cavalcare l'onda come un drago e cercare di mantenere un equilibrio giusto tra la fama raggiunta e l'essere ormai mainstream a tutti gli effetti e la qualità e la crudeltà che hanno da sempre contraddistinto questo titolo, probabilmente uno dei più importanti per la storia del piccolo schermo che noi figli di quest'epoca avremo modo di gustarci.
Ben vengano, dunque, tutte le discussioni, il fan service, i draghi, le morti, il sesso oltre i confini delle parentele e la tensione legata alla possibilità che ogni personaggio, soprattutto il tuo preferito, possa morire da un momento all'altro: se, alla fine di questa corsa, l'esaltazione sarà questa, qualsiasi imperfezione sarà giustificata.
Almeno qui.
Dove crediamo che proprio nelle imperfezioni stia il segreto di qualsiasi fascino.



MrFord



 

lunedì 3 luglio 2017

Wonder Woman (Patty Jenkins, USA/Cina/Hong Kong/UK/Italia/Canada/ Nuova Zelanda, 2017, 141')




Batman a parte - e Lobo, a dirla tutta - non sono mai stato un grande fan dei personaggi targati DC Comics, quantomeno rispetto agli albi a grande diffusione - la divisione Vertigo, che ha regalato perle come Preacher, Hellblazer e soci è dunque esclusa -: Superman, Flash, la qui presente Wonder Woman non hanno mai fatto breccia nel cuore del sottoscritto, troppo spesso troppo "supereroi" e poco avvezzi alle sfighe ed ai problemi che opprimevano tutti i miei favoriti Marvel, dagli X-Men a Spider Man, passando per Devil e Punisher.
Al Cinema, nel corso di questi ultimi anni legati alla rinascita del genere "eroi in costume", fatta eccezione per i Batman di Christopher Nolan, è accaduta praticamente la stessa cosa: certo, Watchmen non era malvagio, ma i recenti Batman VS Superman e le pellicole legate alla figura dell'Uomo d'acciaio hanno contribuito a scatenare tempeste di bottigliate davvero niente male, complici un'eccessiva seriosità ed un piglio che perdeva nettamente il confronto con quello fresco e coinvolgente di prodotti come Strange o Guardiani della Galassia Vol. 2.
L'arrivo, dunque, di Wonder Woman sul grande schermo nell'ambito del progetto Justice League non partiva dai migliori auspici possibili: l'amazzone, già vista brevemente nel già citato e mortalmente noioso Batman VS Superman, inoltre, non è mai stata tra i miei charachters favoriti, Gal Gadot non mi ha mai conquistato e l'idea di due ore e passa dedicate alle sue gesta mi pareva l'equivalente di una dieta forzata senza alcolici per almeno un mesetto.
Fortunatamente, e come raramente accade con film di questo genere, il lavoro di Patty Jenkins mi ha sorpreso in positivo, sfruttando un lungo flashback in pieno stile Captain America per raccontare come Diana giunse tra gli uomini dopo essere cresciuta protetta nella terra delle amazzoni, e come decise di prendere posizione e divenire l'eroina che vedremo in azione - e protagonista, mi viene da sperare - proprio nel lungometraggio dedicato alla Justice League: mescolando le atmosfere da film di guerra in stile Fury o Salvate il soldato Ryan con alcuni passaggi decisamente scanzonati da film d'avventura modello Indiana Jones, la regista riesce nell'intento di presentare un'eroina dalle capacità "divine" ma profondamente umana, spalleggiata da un variegato e divertente gruppo di comprimari maschili - spicca uno spassoso Chris Pine in versione guascona stile Kirk - ed in grado di fare fronte anche ad un antagonista non propriamente funzionale, un Ares che ha un sapore eccessivo di videogioco nel finale ed un'aura un pò troppo machiavellica - nonchè un look da topo da biblioteca che poco si adatta alla rappresentazione del dio della guerra, per quanto io voglia bene a David Thewlis - in precedenza.
Una produzione non particolarmente originale, forse, a conti fatti, ma piacevole, funzionale e scorrevole, la migliore proposta DC degli ultimi anni ed un'iniezione di energia ad un progetto che, finora, sulla carta mi aveva ispirato davvero ben poco: l'ironia ed il dramma finiscono per mescolarsi quanto l'umanità e la divinità al confronto, e la riflessione a proposito dei disequilibri umani e della guerra finisce per mostrare anche una profondità che fino ad ora risultava non pervenuta nei film dedicati al "collega" più illustre di Wonder Woman, Superman.
La speranza, ora, è che la presenza di Diana illumini anche il resto di questa versione del Cinematic Universe targata DC, e che il lavoro di Patty Jenkins non sia l'ultima sorpresa che lo stesso possa riservare.
C'era davvero bisogno di una donna, come spesso accade, per mettere una pezza a tutti i limiti maschili.




MrFord




venerdì 26 maggio 2017

Under the shadow (Babak Anvari, UK/Giordania/Qatar/Iraq, 2016, 84')




Il Cinema mediorientale, iraniano in particolare, ha sempre esercitato un fascino notevole sul sottoscritto fin dai tempi della scoperta del Maestro Kiarostami, che ho adorato e probabilmente adorerò fino a quando adorerò la settima arte: con il suo allievo Panahi, poi, e qualche scoperta giunta negli anni, posso affermare con certezza di aver trovato un tipo di approccio che riesce quasi sempre a convincermi, povero e profondo ad un tempo, e che aspettavo al varco rispetto a questo insolito horror - anche se sarebbe più corretto, a mio parere, chiamarlo thriller - giunto qui al Saloon spinto dalle critiche positive raccolte in rete.
Come sempre, in questi casi, l'hype e le aspettative creano ostacoli decisamente ardui da superare per una pellicola, e quando capita - come per Under the shadow - che la stessa non sia propriamente memorabile, finiscono per appesantire il fardello e, di conseguenza, il mio giudizio nel momento di scrivere il post: in realtà non vorrei andarci troppo pesante, con questo film piccolo ma per nulla privo di idee e riflessioni legate in special modo alla situazione sociale iraniana ed al ruolo della donna così come allo "spettro" della guerra, dunque mi limiterò a sottolineare due cose che hanno avuto un ruolo fondamentale nel farmi considerare Under the shadow decisamente sopravvalutato rispetto a quanto avevo letto in proposito.
La prima è, ed è assolutamente triste per un prodotto di questo tipo, che non inquieti o spaventi per nulla, e che anzi, abbia finito per stimolare nel sottoscritto, nel corso della visione, la febbrile ricerca di una sequenza che potesse quantomeno regalare un minimo jump scare, senza successo.
La seconda è data dal fatto che la "povertà" stilistica che di norma rende il Cinema iraniano così interessante - l'accostamento con il nostro neorealismo per me è quasi naturale - finisca per cozzare con un genere che non prevede un approccio antispettacolare, a meno che non si tratti di qualcosa di talmente potente in termini di atmosfere da far passare lo spettatore perfino oltre all'estetica - come per Radice quadrata di tre, uno degli horror a bassissimo costo più spaventosi che abbia mai visto anche rispetto a titoli con produzioni da cifre di gran lunga superiori -.
Il risultato è dunque un tentativo e poco più, che già a distanza di ventiquattro ore dalla visione inizia a scomparire dalla memoria e non riesce ad essere evocativo come un djinn vorrebbe essere - quantomeno potrebbe essere interessante andarsi a leggere qualcosa su queste mitiche figure della letteratura mediorientale -: uscendo dal contesto e concentrandosi, al contrario, sul conflittuale rapporto mostrato tra madre e figlia protagoniste del film si finisce per trovare qualche spunto in più, neanche si fosse catapultati in una versione "povera" del Babadook che tanto colpì la blogosfera un paio d'anni or sono - altro film, per quanto ben realizzato, sicuramente sopravvalutato -.
Ma rispetto a quanto mi sarei aspettato, posso tranquillamente affermare che l'ombra sotto la quale pensavo di trovarmi avventurandomi in questa visione era decisamente più nera e minacciosa della nebbiolina che mi ha fatto compagnia per un'ora e venti scarsa.
E di nebbia, purtroppo, me ne intendo.



MrFord



 

venerdì 14 aprile 2017

Perfect Day (Fernando Leon De Aranoa, Spagna, 2015, 106')




Senza dover tornare con la memoria ai telegiornali, alle canzoni ed alle terrificanti notizie che giungevano da questa parte dell'Adriatico ai tempi del conflitto in seno all'ex-Jugoslavia, i miei ricordi più vividi rispetto a quello che accadde sui Balcani all'inizio degli anni novanta hanno radici più recenti, con la scoperta del cinema di Kusturica - che, in coda al conflitto, realizzò alcuni dei più grandi film di fine Millennio, su tutti il Capolavoro Underground - ed il rapporto di amicizia e professionale che mi legò ad un paio di disegnatori provenienti da quelle zone con i quali lavorai nel mio periodo da sceneggiatore di fumetti, più o meno tra il duemiladue ed il duemilasei.
Uno di loro, Zoran, accanto al quale pubblicai il mio lavoro più "lungo" in termini di pagine per una casa editrice di Novara, Lo Sciacallo Elettronico, originario di Sarajevo e fuggito prima in Svizzera e dunque in Italia all'inizio della guerra, era un personaggio curioso: puntuale allo sfinimento - ricordo le scenate che faceva per i miei ripetuti ritardi agli appuntamenti -, cinefilo accanito, fisicamente ed apparentemente innocuo eppure con una carica quasi violenta dentro da fare spavento, gelosissimo della sorella, grande bevitore almeno per me che, ai tempi, quasi non toccavo alcool.
Proprio questa sera, ricordando i vecchi tempi grazie a questo post, l'ho googlato giusto per capire che cosa stesse combinando, ma non avendo Facebook ho potuto solo constatare che fisicamente non è cambiato, baffi a parte.
Sinceramente, non so se potrebbe apprezzare fino in fondo un film come Perfect Day, senza dubbio un lavoro che, inevitabilmente, essendo frutto di una produzione "straniera" - il regista è quello dell'ottimo I lunedì al sole, ma il cast è assolutamente eterogeneo, tra Europa e USA -, mantiene sul conflitto dei Balcani un'ottica che, probabilmente, i locali e chi l'ha vissuto sulla pelle non potranno mai concepire fino in fondo, e viceversa, eppure, con tutti i suoi limiti, appare funzionale e quantomeno non eccessivo nel raccontare una guerra da un punto di vista - quello degli operatori umanitari - per l'appunto "internazionale" e da stranieri ma non per questo non coinvolto da quanto accadeva ai tempi nelle città ed in provincia nelle zone più calde della fu Jugoslavia.
L'alternarsi di momenti grotteschi e quasi comici - il rapporto "sentimentale" tra Del Toro e la Kurylenko - ed altri assolutamente drammatici - la visita alla casa del piccolo Nikola -, culminati con un finale legato da un lato alla "sconfitta" degli operatori e dall'altro alla rivincita della Natura e del caso rispetto ai civili vere vittime di conflitti come quello che percorse l'ex-Jugoslavia, funziona e coinvolge pur mantenendosi su livelli discreti di artigianato cinematografico, consegnando all'audience un prodotto che non rivoluzionerà o sarà destinato all'eterna memoria ma che riesce a rendersi umano proprio nel suo essere piccolo e vissuto.
Guardandolo, nel corso di un sabato pomeriggio travolto dalle sessioni di gioco con entrambi i Fordini, e godendomelo almeno in parte, ho ripensato con piacere al fatto che Zoran ce l'abbia fatta a scamparla, ed a quanto si sarebbe lamentato di questo titolo, così come quanto mi sarebbe piaciuto provocarlo fino a farlo arrivare al limite - ricordo quando, una volta, dopo averlo stuzzicato a dovere rispetto al suo idolo Tarantino, minacciò di spaccarmi un boccale di birra in faccia -.
Ed è bello sapere che, qualche volta, anche nel peggiore dei momenti, possa arrivare un "perfect day" a regalare un pò di speranza.




MrFord




mercoledì 22 marzo 2017

Billy Lynn - Un giorno da eroe (Ang Lee, UK/USA/Cina, 2016, 113')


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E' curioso quanto la guerra, uno degli atti più terribili che l'Uomo possa concepire eppure, tristemente, anche uno dei più reiterati della Storia, continui a venire sfruttata per manipolare le masse, coprire gli interessi di uno Stato - o più di uno -, alimentare ideali più o meno logici, ispirare canzoni, film, romanzi che si battano a favore o contro la stessa, e ad un tempo provochi l'inevitabile allontanamento dalla società che la genera di coloro che si sono trovati a combatterla, fosse "per un ideale, per una truffa o un amore finito male", come cantava De Andrè.
Da E Johnny prese il fucile, M.A.S.H., Full Metal Jacket a Rambo, Apocalypse Now ed American Sniper, solo per citarne alcuni, il reduce o il soldato spesso e volentieri ha finito per diventare l'outsider di una storia che era la sua, una vicenda di miserie umane senza dubbio più che di eroismi e grandi sogni: perchè un soldato non è un eroe, una figura da stigmatizzare o mitizzare.
E' un uomo che ha scelto -  o è stato portato a scegliere - una strada difficile e terribile, che spesso non ha nulla di meglio in cui credere o sperare, e che ritrova se stesso e la propria condizione di equilibrio - se così si può definire - solo accanto a quella che diviene la sua famiglia, ovvero chi al suo fianco condivide la follia, il rischio, il dolore e l'adrenalina della guerra.
Ang Lee, regista premiatissimo che nel corso della sua carriera ha portato sullo schermo film agli antitesi tra loro, torna in sordina - credo che questo sia stato uno dei suoi lavori meno pubblicizzati in assoluto, almeno qui in Italia, ed un flop devastante negli States, forse lontani ad una logica "contro" come questa - per raccontare con un rigore ed un'asciuttezza che in precedenza avevo visto soltanto nel Cinema di Eastwood un'altra storia in grado di far ripensare all'assurdità non solo - o non tanto, putroppo - della guerra, ma anche e soprattutto di quella che è la percezione della stessa all'esterno, in un mondo lontano da quello che i soldati provano sulla pelle, e che finisce per demonizzarli o idealizzarli senza pensare che loro, come la maggior parte di noi che viviamo in contesti sociali "evoluti", siano solo strumenti, come se non bastasse sacrificabili.
Ang Lee che, da non americano, mostra a partire da un romanzo nato per criticare determinati approcci, contesti e strascichi con grande umanità sia il lato in una certa misura "romantico" della guerra - il rapporto tra il protagonista ed il suo mentore al fronte, quel "è inutile cercare di scappare dai proiettili, perchè quello che ti toccherà è già stato sparato il giorno della tua nascita", il cameratismo con i commilitoni - sia quello tristemente reale, dalla strumentalizzazione dei singoli gesti o atti "eroici" - agghiaccianti i confronti con il magnate interpretato da Steve Martin, o tutta la sequenza del concerto durante l'intervallo della partita di football, dai fuochi d'artificio pronti a sconvolgere i soldati abituati a ben altre esplosioni al ballerino che, sul palco, durante l'esibizione pronuncia quel "vaffanculo" che, più che di lotta per la pace, sa di insulto all'intelligenza -, agli egoismi sentimentali - il rapporto di Billy con la sorella, che lotta più per se stessa che non per lui affinchè richieda il congedo, a quello con la cheerleader conosciuta durante l'evento, che trova spazio nel faccia a faccia prima dell'epilogo per uno dei confronti più terribili che possano essere stati pensati per una storia d'amore, o potenziale tale, in un film -.
Così come per The Hurt Locker o Jarhead, ancora una volta si torna a parlare di quanto incida un atto terribile come la guerra sul corpo, la mente e la socialità di chi l'ha combattuta o la combatte: in un certo senso, viene quasi da pensare che per gente come Billy, che a casa, nella cittadina del Texas dove è cresciuto, era solo un cazzone casinista che al fronte è maturato e cresciuto, fugga a combattere mettendo in gioco la propria vita perchè decisa ad allontanarsi da situazioni che potrebbero rivelarsi decisamente più terribili, perchè legate ad una perdita di libertà che fa impallidire quella che viene usata come scusa per essere mandati al macello.
Dalla guerra, vivi o morti, difficilmente si torna.
E forse c'è chi parte per combatterla perchè sa bene che le probabilità di sopravvivere a quella che lo aspetta a casa sarebbero ancora più scarse.




MrFord






venerdì 10 marzo 2017

Marco Polo - Stagione 2 (Netflix, USA, 2016)





Una delle passioni che porto dentro fin dai tempi delle scuole elementari è quella per le civiltà antiche, in parte per curiosità, in parte per il fascino indubbio che epoche lontane e quasi "romantiche" - nel senso letterario e non sanvalentiniano del termine - esercitano su noi "moderni".
Dai tempi di Alexander sul grande schermo e di Spartacus sul piccolo, non ho mai nascosto la mia simpatia per i prodotti intensi e potenti "in costume", che mi sono sempre gustato dal primo all'ultimo fotogramma, a prescindere dal fatto che si trattasse di fiction o di ispirazione da vicende realmente accadute.
Marco Polo, produzione Netflix giunta su questi schermi quasi per caso lo scorso anno, è riuscita indubbiamente ad entrare nel novero non solo dei titoli di interesse, ma anche a guadagnarsi uno spazio che non pensavo nessuno avrebbe potuto neppure avvicinare dopo Spartacus se non Vikings, grazie ad un connubio di intrighi di corte, Storia e Leggenda, carne e sangue tanto quanto spiritualità e tendenza al mito, oltre ad una galleria di personaggi - principali e secondari - assolutamente ben delineati e tridimensionali.
Il rapporto tra il giovane avventuriero italiano - o latino, per dirla come i protagonisti della serie - e Kublai Khan, dominatore incontrastato dell'impero mongolo giunto a conquistare anche il tanto agognato Sud della Cina, giunge a questo secondo giro di giostra ulteriormente messo alla prova da nemici che, prima ancora che dall'esterno, giungono dall'interno, dalla figura del vice reggente Ahmed - che quasi è riuscito nell'impresa di ricordare il mitico Ashur dei tempi del già citato Spartacus - a quella di Kaidu, passando attraverso i dubbi dei leader delle tribù mongole a proposito del loro sovrano troppo concentrato su un impero sempre più multietnico e multiculturale - un pò il problema che ebbe lo stesso Alessandro Magno - e le intemperanze da "crescita" dei suoi figli, ai quali ormai si ritrova per dovere, affezione e tutta una serie di profondi meccanismi emotivi proprio Marco, chiamato non una, ma ben due volte a salvare la vita di quello che può sempre più considerare il suo padre adottivo ma non per questo il suo benefattore, o l'incarnazione di qualcuno che farà tutto quanto è in suo potere per spianargli la strada.
Ed accanto ad episodi dall'indubbio fascino visivo e d'azione - la venuta del Khan contro l'accampamento dei traditori legatisi ai crociati cristiani, tra cavalli infuocati e spargimenti di sangue -, troviamo altri completamente incentrati sull'approfondimento - agghiacciante e terribile la scoperta che quasi giustifica tutte le azioni di Ahmed contro suo padre - così come in grado di incuriosire a proposito di quelle che furono le usanze di una delle civiltà più antiche ed importanti d'Oriente e del mondo antico, nata dal nomadismo e divenuta una delle realtà più clamorose dopo i grandi imperi dell'epoca Avanti Cristo.
Kublai Khan, che ispirò poeti come Coleridge e portò l'operato dello zio Gengis, suo predecessore, ad un livello ancora superiore, sovrano e padre spietato tanto quanto umano, nel bene e nel male, non solo rappresenta con grande realismo i dilemmi e le scelte spesso terribili dell'uomo di potere, ma anche la pericolosa istintività di noi esseri umani, che perfino nei momenti di più lucida e spietata razionalità finiamo per essere preda di una Natura che ci rende decisamente più pericolosi di qualsiasi altro animale sulla Terra.
E di qualsiasi epoca si possa immaginare.




MrFord




 

mercoledì 8 marzo 2017

Land of mine - Sotto la sabbia (Martin Zandvliet, Danimarca/Germania, 2015, 100')




Il bello del Cinema - e dell'Arte in generale, a prescindere dal campo in cui ci si muove -, almeno a mio parere, è la capacità di raccontare storie trasformandole da qualcosa di lontano e "sentito dire" in altro decisamente più vicino, interiore, quasi vero per chi ne è soltanto spettatore.
Non avevo mai sentito o letto, ad esempio, neppure ai tempi della scuola, della credenza degli alti papaveri della Germania nazista che quello che è passato alla Storia come lo sbarco in Normandia sarebbe dovuto avvenire sulle coste danesi, e che le stesse per questa ragione furono costellate di mine, tanto da rappresentare un pericolo anche a guerra conclusa.
Allo stesso modo, non avevo idea che molti dei soldati tedeschi superstiti, per la maggior parte ragazzini, vennero "arruolati" a resa della Germania compiuta per mettere in sicurezza tutte le aree giudicate pericolose proprio a causa delle mine in tutto il paese, fungendo, di fatto, da carne da macello per l'esercito danese.
La vicenda di Land of mine, uno tra i candidati all'Oscar per il miglior film straniero assegnato a Il cliente di Fahradi, racconta la drammatica, piccola epopea di un gruppo di giovanissimi tedeschi divenuti la squadra di lavoro di un durissimo sergente danese cui è stata promessa la libertà - e con essa il ritorno a casa - a lavoro terminato, senza possibilità di poter rifiutare l'incombenza.
Il lavoro di Martin Zandvliet, che sulla carta temevo molto per il rischio potenziale di retorica, si è rivelato al contrario una piacevolissima sorpresa, ripescando atmosfere come quelle di cult legati alla Seconda Guerra Mondiale in modo "trasversale" come Arrivederci, ragazzi! di Malle e trovando nel charachter del sergente Rasmussen un pilastro sul quale poggiare non solo l'ossatura della vicenda e l'evoluzione dei protagonisti, ma anche la figura paterna inesorabilmente assente, considerati i tempi, dei giovani soldati assegnatigli e soprattutto la cartina tornasole delle emozioni umane pronte a scatenarsi in questi scenari decisamente al limite.
Se, infatti, per certi versi si può considerare il lavoro di Zandvliet - erroneamente, a mio parere - convenzionale e forse troppo concentrato - per una volta, non mi sarebbe dispiaciuto un minutaggio maggiore con un approfondimento ed un'evoluzione meno rapida della vicenda -, dall'altro assistiamo non solo alla terribile formazione di giovanissimi ancora lontani dall'essere e diventare uomini già segnati dalla guerra, ma anche e soprattutto al ribaltamento delle parti, ritrovando i soldati danesi nel ruolo di oppressori e quasi "bulli" all'indirizzo di quelli che, per buona parte del conflitto, erano stati esattamente le stesse cose - e peggio - per le popolazioni di mezza Europa.
Lo stesso Rasmussen, in molti sensi la figura cardine e "positiva" dell'opera, mostra spesso e volentieri il suo lato violento e terribile, quello per mezzo del quale ogni uomo, soprattutto in situazioni estreme, mostra la propria Natura, che, continuo ad esserne convinto, è predatoria e feroce: dal pestaggio che apre la pellicola all'umiliazione "canina" di uno dei ragazzi, fino alle dimostrazioni di amore, se così si può definire, per la propria squadra, e quelli divenuti in una certa misura suoi figli, il pubblico finisce per trovarsi di fronte l'intero spettro di umanità che si potrebbe aspettare da ognuno, dalla crudeltà agli atti d'amore in grado di mettere a rischio chi li commette.
In questo senso, Land of mine è un film piccolo e non perfetto, ispirato da fatti rimasti in ombra rispetto alle grandi pagine della Storia di quel periodo, ma non per questo meno umano, intenso, sentito: in questo duemiladiciassette, mi pare di essere alla ricerca proprio di questo.
Di film che abbiano cuore.
Anche quando è nascosto dietro crudeltà e sofferenza.
Sotto la sabbia.
Del resto, siamo umani.




MrFord




 

lunedì 6 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge (Mel Gibson, Australia/USA, 2016, 139')




Ricordo bene i tre giorni della visita di leva, quando ancora essere chiamati per il servizio militare era un obbligo: ricordo anche quanto mi deluse, a fronte della quasi totalità dei miei amici di allora, per qualche motivo riformati o dichiarati "rivedibili" anche per motivi davvero ridicoli - piedi piatti, ci credereste!? - essere uno degli unici due presi e dichiarati "abili" al primo colpo.
Gli aneddoti a proposito di quei tre giorni sono uno dei miei pezzi forti ancora oggi, ma non è di quelli che vorrei parlare: ai tempi, spinto principalmente dalla reticenza ad una certa autorità "imposta" - già a scuola avevo i miei problemi, in questo senso -, dall'antimilitarismo e da una certa allergia al concetto di guerra, che a prescindere da come vada, non porta mai vincitori, ma solo vinti, scelsi di operare la scelta dell'obiezione di coscienza, che si tramutò in una delle esperienze lavorative più gratificanti a livello umano della mia vita, ma anche questa è un'altra storia.
La cosa che mi colpì di più in quel periodo - ora non avrebbe senso una cosa di questo genere - era data dal fatto che dichiarandosi obiettori si diventava erba di un unico fascio, dunque per chi sceglieva questa strada non solo diveniva impossibile pensare una carriera in un corpo considerato militare - pompieri inclusi, purtroppo per me - o la possibilità - questa logica - di richiedere un porto d'armi, ma soprattutto, a fronte di una dichiarazione di "non violenza" di fondo, in caso di denuncia penale per qualsiasi reato di natura, per l'appunto, violenta, una pena se non ricordo male raddoppiata rispetto ad una persona "normale".
Ad ogni modo, ai tempi avevo più in mente Dalton Trumbo ed il suo magnifico E Johnny prese il fucile, e mi consideravo più un ribelle allergico alle divise che non una specie di Gandhi - e parlo di una delle figure che più ammiro nella Storia -, tanto che, ancora oggi, penso che in caso di circostanze estreme come quelle di un conflitto come i due che scossero il mondo il secolo scorso, non esiterei un secondo ad uccidere per la sopravvivenza mia e della mia famiglia.
Armi o non armi.
E vi dirò, ora che sono cresciuto, e mi sento più risolto e stabile, penso riuscirei tranquillamente a reggere un anno di servizio militare. E forse anche allora mi sarebbe anche servito, chissà.
Poco importa, comunque. Quello di cui volevo parlare, in realtà, è Desmond Doss.
Nonostante, infatti, E Johnny prese il fucile fosse un mio cult personale, non conoscevo la reale vicenda di quello che è stato il primo soldato obiettore presumo della Storia, un medico che, cresciuto dalla violenza esercitata e repressa del padre - veterano della Prima Guerra Mondiale - contro la sua famiglia, il mondo e se stesso, e spinto da una Fede a dir poco radicata - da ateo miscredente, ammiro molto chi riesce ad essere così devoto senza risultare patetico, quanto più assertivo e saldo - decide di arruolarsi lottando contro pregiudizi, insulti, prevaricazioni ed ingiustizie fino a guadagnarsi, grazie ad un'impresa a dir poco eroica - se non leggendaria - la più alta decorazione militare statunitense e soprattutto una fama che, a quanto pare, non intaccò mai l'umiltà di quel soldato privo di armi in corsa sui campi di battaglia di Okinawa in cerca di vite da salvare.
Con una materia di questo tipo il rischio di sconfinare nel retorico a stelle e strisce e nel quasi ridicolo involontario era decisamente importante, ed ai miei occhi lo sarebbe stato anche se dietro la macchina da presa si fosse trovato, ad esempio, uno come Clint Eastwood: al contrario, a dirigere un cast ben assortito e sorprendentemente in parte - Hugo Weaving strepitoso, e perfino cagnacci come Vaughn e Wortington paiono quasi umani - in questo caso era Mel Gibson, uno a cui vorrò bene per sempre grazie alla sua follia nonchè al volto prestato ad alcuni supercult del sottoscritto - da Gli anni spezzati alla trilogia di Mad Max, passando per Arma Letale - ma che, sempre a causa di quella stessa follia, negli anni era riuscito a regalare alcuni abomini cinematografici quasi inarrivabili - uno su tutti, La passione di Cristo, credo uno dei cinque film peggiori che abbia mai visto - soprattutto nel ruolo di regista.
Rischi, dunque, raddoppiati.
E invece, tolti un paio di momenti forse troppo enfatici, il buon Mel dirige il suo miglior lavoro con Braveheart, un film di guerra molto classico e violento ma anche, paradossalmente, umano e legato a doppio filo al concetto di Fede, tematica più che cara al regista ed attore qui per una volta trattata con intelligenza e passione nonostante le ferme e rigide osservanze del protagonista - e del cineasta, mi verrebbe da dire, che a quanto pare è ben oltre i limiti del fanatismo -: Hacksaw Ridge è una storia legata alla follia umana - del resto, la guerra è forse la follia più grande, in questo senso - ed al riscatto che proprio l'essere umani a volte può regalare - splendida l'amicizia tra Desmond e Smitty, così come intelligente la riflessione che, dal punto di vista di un osservante come Doss, trova assurdo che in tempi di guerra e sul campo di battaglia un omicidio non sia considerato tale, che si parli di Legge o di Fede -, un esempio importante delle dimensioni delle potenzialità degli esseri umani anche nelle loro ore più buie.
Siate poi liberi di pensare che sia merito di un qualsiasi dio, o del più semplice e determinato degli Uomini.
In questo senso, per me vale la posizione di Doss: portare un'arma non rende necessariamente un uomo più Uomo di un altro.




MrFord





lunedì 30 gennaio 2017

Arrival (Denis Villeneuve, USA, 2016, 116')




Con ogni probabilità, in barba a denaro, fama, potere e tutte le altre cose con le quali a molti su questa Terra piace trastullarsi, il bene più prezioso che abbiamo e continueremo ad avere è e resta il Tempo.
Un Tempo che cambia forma e percezione che possiamo avere di Lui, in grado di cristallizzarsi quasi potesse essere messo in pausa o correre più veloce di quanto si possa immaginare anche nel più intenso e potente film di fantascienza.
Ricordo bene, per quanto "basso" possa risultare il riferimento, il verso di una canzone di Max Pezzali - non ricordo quale, onestamente - che dice "a sedici anni un anno dura una vita, poi a trenta sei già lì", ho impressi nella memoria come fossero accaduti oggi il giorno in cui morì mia nonna - la prima perdita che vissi sulla pelle - e quello in scoprimmo che Julez aveva perso la bambina - perchè per noi era ed è così - che aspettava.
Altri ricordi sono sensazioni, immagini, odori, canzoni, quasi parti di sogni.
Sorrido anche al pensiero di quella frase di Rocky V che cito di continuo quando parlo dell'essere padre, quando il buon vecchio Sly dice al proprio figlio sulla scena e nella vita - che, come sappiamo, è morto qualche anno fa - "averti avuto è stato come nascere un'altra volta".
Il Tempo, per l'appunto.
Quello che pensiamo come una linea retta che tende all'infinito, e invece è un grande cerchio, o forse qualcosa che non potremo mai davvero comprendere a fondo.
Un pò come la matematica, o la scienza, che in molti - me compreso, ai tempi in cui la studiai - considerano semplicemente come qualcosa di meccanico e privo di vita e che, al contrario, andrebbe approcciato come una nuova lingua in grado di riprogrammare il nostro cervello e la realtà che abbiamo attorno.
Ecco cos'è, Arrival.
Una nuova lingua da imparare, una parabola che racconta della vita e del Tempo, e di noi: non è un caso che sia tratta da un'opera intitolata proprio "Story of your life".
E proprio in questo senso viene giocata la domanda più importante della pellicola, a prescindere dalla tecnica, dalla narrazione, dalle interpretazioni - in particolare quella dell'ingiustamente ignorata dall'Academy Amy Adams -, dal genere: se tu avessi la possibilità di conoscere tutta la tua vita, cosa faresti?
Personalmente, penso che farei quello che cerco di fare ogni giorno: viverla.
In fondo, se dovessi guardare alla vita in termini di quotidianità, tornerei al concetto di Tempo espresso in linea retta, con un inizio ed una fine certi e tutto quello che è in mezzo da costruire.
Poi, di fronte ai Fordini, mi rendo conto che le regole vengono sovvertite, che tutti i pezzi che la mia memoria si perde vengono colmati dalle loro esperienze, e che soprattutto ora, che sono così piccoli - ma immagino non cambierà anche con gli anni - mi ritrovo ad essere l'alieno che osserva il loro mondo e che dona qualcosa che potranno usare in un Tempo che ancora non si è costruito.
L'arrivo del titolo potrebbe essere proprio questo.
E potrebbe essere anche il fatto che gli eventi traumatici restano impressi a fuoco nella memoria mentre quelli più intensi e felici sfumano per diventare onirici in più di un senso: il dolore prosegue la sua marcia come un treno lanciato a tutta velocità, un attacco militare o una bomba che esplode, mentre il piacere, la gioia, la meraviglia si dilatano uscendo dai confini che quello che conosciamo e viviamo ci impongono.
Anche quando si trovano di fronte il dolore.
In fondo, da genitori doniamo ai nostri figli tutto quello che sappiamo o che possiamo donare, finendo per essere aiutati a nostra volta ad affrontare qualcosa di più grande di tutti, un giorno che speriamo sempre possa essere linearmente molto lontano, ma che, inesorabilmente, arriverà.
Quando è il contrario, allora il Tempo si sconvolge e confonde, crea un apparente conflitto, una frattura che rischia di compromettere tutto.
Ed è allora, che occorre prendersi il tempo per comprendere il Tempo.
E capire che, pur conoscendo quello che sarà della nostra vita, non possiamo fare altro che viverla.
In fondo, è semplice.
Un giorno nasciamo, un giorno moriremo.
Sappiamo già cosa accadrà.
Eppure viviamo.
Perchè solo così il Tempo cambia le sue prospettive, e le nostre.
Come un arrivo.
Come una nascita.



MrFord



 

domenica 8 gennaio 2017

Agnus Dei - Les innocentes (Anne Fontaine, Francia/Polonia, 2016, 115')




Qualche anno fa, ai tempi del grande momento radical della mia vita da cinefilo, i drammoni bellici - specie se non mainstream e tremendamente drammatici - rappresentavano una vera e propria miniera di occasioni per accrescere il mio status di "intenditore", e anche se a posteriori devo ringraziarli dal primo all'ultimo per avermi fatto scoprire registi come Waijda, in anni più recenti hanno trovato ben poco spazio qui al Saloon, complice una pesantezza di fondo che poco si adatta alla mia "rinascita anni ottanta" da tamarro senza quartiere.
Di tanto in tanto, però, è un piacere tornare a riscoprire questi territori, soprattutto in casi come quello di Les Innocentes - scandaloso e terribilmente ad influenza cattolica il titolo italiano, Agnus Dei, per quanto a ben vedere possa significare quasi la stessa cosa -, che analizza a partire da episodi di ispirazione reale la situazione della Polonia appena conclusa la Seconda Guerra Mondiale, con gli ultimi scampoli delle forze degli Alleati pronte a togliere le tende e l'ombra della Cortina e degli anni dell'Unione Sovietica in attesa di calare sui locali: in particolare, ci si sofferma sulla vicenda di un gruppo di suore in piena crisi morale e spirituale a seguito della sgradita visita di un manipolo di soldati per l'appunto sovietici, che per festeggiare la vittoria su Hitler decidono di concedersi un pò di piacere unilaterale lasciando dietro di loro un buon numero di religiose in dolce attesa ed altre segnate nel corpo e nella mente.
A fare da testimone alla battaglia interiore - e non solo - delle donne, una giovane dottoressa francese che nella Croce Rossa ha potuto osservare da vicino gli orrori della Guerra, e da atea convinta e comunista in termini di background si trova a fare da tramite per le giovani - ma non solo - donne tra la realtà dei fatti e della scienza e la loro Fede: in questo senso, a prescindere dalla cornice innevata e fotografata benissimo o del ritmo da film autoriale - che non avrebbe sfigurato tra gli anni sessanta e settanta dei Bergman o dei narratori russi -, a fare la differenza per quanto mi riguarda sono stati senza dubbio il rapporto ed il confronto tra le sorelle più giovani ed il medico così come la dimostrazione di Fede assoluta quanto cieca della Madre Superiora, che pur non rappresentando un personaggio negativo tout court mostra il fianco a quella che è una critica spietata degli autori proprio alla religiosità che sconfina non solo nell'ignoranza, quanto soprattutto nel grottesco e nell'assurdità.
Les Innocentes, però, è anche un film di spessore in termini di genere, tra i primi a mostrare in modo così netto non solo l'importanza, ma anche il coraggio delle donne in situazioni estreme di sofferenza e straniamento che, con ogni probabilità, avrebbero il sopravvento sulla quasi totalità degli uomini, ed una presa di coscienza rispetto a tutte le cicatrici che i conflitti lasciano non solo nelle persone che li vivono, ma anche nei luoghi e nelle società.
Dalla distanza dei medici francesi alle aggressioni dei soldati russi, passando per la chiusura delle monache - comunque molto ben caratterizzate e differenziate tra loro -, lo spettatore attraversa una vera e propria galleria di miserie umane in grado di toccare nel profondo e far riflettere, nella speranza di non dover mai vivere, in futuro nel corso della propria esistenza, situazioni come quelle che hanno attraversato l'Europa neppure un secolo fa.
Ma senza stare troppo a perdersi in pistolotti da messa in guardia rispetto alla Guerra - non credo ci sia bisogno di essere geni, per capire che non porta nulla di buono -, e a scapito dell'apparenza e della tenuta sicuramente lontane da quelle delle proposte mainstream, non posso che consigliare di tentare una visione di questo spessore.
Sia essa mossa dalla passione o dalla fede, dall'essere donna e solidarizzare con le coraggiose portate sullo schermo o uomo e vergognarsi almeno un pò, dall'essere da una parte o dall'altra della barricata, poco importa.
L'Umanità va sempre preservata.
Perchè tra le sue pieghe si rifugia quel poco di innocenza che ci è rimasta.




MrFord




 

mercoledì 28 settembre 2016

Trafficanti (Todd Phillips, USA, 2016, 114')



Nel corso degli anni novanta, era di gran moda rinverdire i fasti - se così si possono definire - dell'epoca d'oro degli eighties almeno per quanto riguarda il crimine, considerati gli anni "da bere" - per usare un termine da milanese - di Pablo Escobar e soci: ricordo benissimo il periodo in cui mi specchiai nel passaggio di mio fratello nella carrellata dei vari Padrino, Quei bravi ragazzi, Scarface, Blow e via discorrendo.
Anzi, più volte ho pensato che il cultissimo di Brian DePalma aveva, di fatto, rovinato una generazione finendo per mandare in pappa il cervello di chi non era riuscito a cogliere il ritratto profondamente drammatico del buon Tony Montana, alimentando i sogni di gloria di tamarri in delirio d'onnipotenza in stile Fabrizio Corona - giusto per dirne uno che di danni pare averne fatti più che altro a se stesso -.
Todd Phillips, regista della divertentissima - eccetto l'ultimo capitolo - trilogia di Una notte da leoni, torna sugli schermi con un prodotto che pare rispecchiare proprio lo spirito di quell'epoca, aggiungendo al cocktail una spruzzata di Lord of war che non fa mai male, titolo firmato da Andrew Niccol bersagliato dai critici alternativi e benpensanti da sempre una piccola chicca qui al Saloon, e lo fa con un certo piglio ed un discreto risultato, per quanto tutto, in qualche modo, suoni comunque fuori tempo massimo e già sentito: Miles Teller e Jonah Hill ripropongono una formula più che valida vista in tutti i titoli appena citati - Julez, nel corso della visione, ha avuto reminiscenze addirittura del fantastico Wolf of Wall Street, uno dei film più grandiosi degli ultimi anni, mentre io sono stato più incline a rimembrare Pain&Gain - che coinvolge e funziona perchè basata su avvenimenti realmente accaduti, anche se senza dubbio risulterà più affascinante ai giovani ancora privi di un background come quello di chi è cresciuto a cavallo tra gli ottanta e i novanta.
Certo, il trailer italiano è come al solito fuorviante ed ingiustificato, considerato che quello che è, a tutti gli effetti, un film in qualche modo profondamente drammatico viene mascherato da commedia cazzara proprio in stile Una notte da leoni, e questo non aiuterà nella visione il pubblico occasionale o chiunque approcci questo Trafficanti - adattamento pessimo, una volta ancora - con un certo spirito, eppure a mio parere una visione, nonostante la sensazione di deja-vu, risulta quasi d'obbligo, e finisce addirittura per stimolare riflessioni non da poco sul ruolo della società, dell'economia, della guerra e di tutte quelle cose che pare stiano dietro alle regole del mondo.
Una "falsa stronzata", dunque, che pur non essendo certo memorabile o destinata alla Storia del Cinema finisce per risultare godibile ed interessante, pronta a raccontare una vicenda figlia delle influenze di una generazione o due di pellicole che, anche solo erroneamente, caldeggiavano una carriera nel mondo del crimine - o ai suoi margini - come alternativa al riscatto sociale: una seduzione cui è stato, è e sempre sarà facile cedere ma che, a conti fatti, non porta nulla di buono a chi la vive come un sogno americano che si rivela, più che altro, un'illusione.




MrFord




domenica 25 settembre 2016

Il sale della Terra (Wim Wenders&Juliano Ribeiro Salgado, Francia/Brasile/Italia, 2014, 110')




La fotografia, fin dai tempi dei miei primi viaggi da solo o in compagnia che segnarono il distacco dalle classiche vacanze con i genitori, ha sempre esercitato un fascino notevole, sul sottoscritto: la scoperta, poi, negli anni, di veri e propri artisti dell'obiettivo come Robert Capa - ancora oggi, forse, il mio preferito in assoluto, per quanto relativamente poco possa conoscere di questo mondo - aprì le porte a visioni di scatti talmente potenti da rendere un'immagine non solo una riproduzione, o un'opera, quanto più che altro una sorta di metafora del tempo che, di colpo e per quell'istante, pare smettere di scorrere o schiacciare il pedale dell'acceleratore puntando dritto all'infinito.
Sebastiao Salgado, da molti considerato forse il miglior fotografo di sempre, nel corso della sua incredibile carriera ha compiuto un vero e proprio viaggio attraverso l'Uomo e la Natura, un viaggio così importante e clamoroso da aver attirato l'attenzione non solo del pubblico e della critica, ma anche, in questo caso, di un regista importante ed affermato come Wim Wenders, legato al fotografo brasiliano da ammirazione ed amicizia da decenni, pronto ad accompagnare l'audience in questo film realizzato anche grazie all'apporto del primogenito di Salgado, che proprio con Wenders ha scritto e co-diretto il progetto, che illustra la vita e le opere del padre di quest'ultimo dai primi tentativi con una macchina fotografica ai progetti legati alla rivitalizzazione del pianeta a partire dai terreni che furono di proprietà della famiglia, nel cuore del Brasile rurale.
Con ogni probabilità, per un aspirante fotografo un titolo come Il sale della Terra potrebbe rappresentare un riferimento almeno quanto l'opera di questo incredibile artista, che più che essere ridotto semplicemente ad un uomo dietro un obiettivo, finisce per apparire come un avventuriero, un umanista, un innovatore, un profondo amante del nostro pianeta e delle sue meraviglie, anche quando le stesse finiscono per essere oscurate dalla malvagità umana: i suoi reportage legati ai viaggi in Africa, tra il Rwanda e la Somalia, o quelli nell'ex-Jugoslavia devastata dalla guerra, sono qualcosa di così potente da mettere i brividi e far pensare a quanto possa essere costato all'autore di quelle fotografie che paiono ferite a cuore aperto essere presente a testimoniare quello che stava accadendo: nel corso di quest'epopea delineata da Wenders nel modo più semplice possibile, ovvero sfruttando le immagini catturate da Salgado nel corso della sua carriera, corredate da estratti di video delle sue spedizioni ed i primi piani del fotografo pronto a raccontare a favore di macchina la sua incredibile vita.
In particolare, a prescindere dall'indubbia magia che trasuda dagli scatti del vecchio Sebastiao, la cosa più incredibile di questo film, di questo percorso, è la capacità di trasmettere una passione senza confini per la vita ed il nostro mondo da parte di quest'uomo, che ha viaggiato dal polo alle foreste inesplorate, sfiorato la guerra ed assistito a massacri e morti davanti ai suoi occhi, e passando dall'Inferno dell'Uomo è riuscito a trovare la forza per rinascere attraverso una sempre più intensa comunione con la Natura, vera e propria protagonista della seconda metà della sua carriera.
Ascoltare Salgado spiegare il brivido di poter fotografare una tartaruga delle Galapagos che poteva essere già adulta quando Darwin studiò quei luoghi, o quasi commuoversi pensando che un piccolo albero di qualche mese piantato per risanare i terreni in cui è cresciuto potrebbe arrivare a raggiungere i quattrocento anni è qualcosa in grado di superare i confini del Cinema e dell'Arte, ed aprire al contrario le porte alla vita.
Del resto, anche una fotografia, in qualche modo, sfida il Tempo e l'Eternità.
E' un istante che tende all'infinito, anche quando le creature da una parte e dall'altra dell'obiettivo hanno finito per diventare parte di questo miracolo che troppo spesso diamo per scontato: come spesso mi è capitato di scrivere, io sono un ateo miscredente, ma se devo credere a qualcosa, credo nella passione e nella vita che Salgado trasmette con la sua macchina tra le mani o, semplicemente, quando è seduto ed ascolta il respiro del pianeta.
Perchè il bello di essere così piccoli, a volte, è rendersi conto della grandezza che abbiamo di fronte.




MrFord




 

domenica 11 settembre 2016

13 hours - The secret soldiers of Benghazi (Michael Bay, USA, 2016, 144')



Ricordo bene l'esperienza surreale ed assurda dei tre giorni della visita di leva, ai tempi in cui il rischio di finire preda dello Stato senza volerlo era clamorosamente più concreto di oggi: ricordo anche che, nel pieno dell'adolescenza tutta Letteratura e ribellione, nonostante l'ideale romantico del giovane eroe che muore o torna segnato per sempre da una lotta senza quartiere, detestavo l'idea del militare, così come tutto quello che ne conseguiva.
Poi il tempo è passato, io sono cambiato, e benchè ancora oggi mi sia inviso un certo tipo di istituzione, ed ancor più la guerra e la sua strumentalizzazione, sarà perchè nel frattempo ho avuto dei figli, ho cominciato a nutrire del rispetto profondo per chi, sbagliando oppure no, ha dato tutto e più in prima persona ed in prima linea mosso dall'idea, falsa o vera che fosse, di proteggere chi ha amato.
E nonostante il Servizio Civile sia stata l'esperienza lavorativa e formativa più importante della mia vita, penso che, se dovessi fare la scelta che ho fatto ai tempi della visita di leva, opterei oggi quantomeno di provare sulla pelle l'esperienza dell'Esercito.
Ma tutta questa filippica fordiana sulla vita, penserete voi, a cosa porta, ed a che pro, nel giorno del quindicesimo anniversario dell'undici settembre più famoso della Storia - perchè ce ne sono stati anche altri passati quasi sotto silenzio, dal golpe in Cile nel settantatre a quello del duemiladodici ripreso da questa pellicola -?
Precisamente a Michael Bay, uno che ai tempi della suddetta visita avrei evitato come la peste, e che dopo anni di produzioni e blockbuster inutili pare essersi dato una bella svegliata, se non altro con il piccolo miracolo che fu Pain&Gain e con questo lampo degno del miglior Peter Berg - qualcuno ha detto Lone survivor? -: in un'epoca in cui il mondo sembra correre sempre più incontro alla follia - anche se, a ben guardare, con mezzi e situazioni diverse è sempre la Storia che si ripete, purtroppo, senza che l'Uomo impari dai suoi errori - non è da tutti, soprattutto dai nostri cari amici ammeregani, raccontare una guerra non più solo "buoni contro cattivi", in cui tutto è bianco o nero e le cose sono semplici e dirette.
Ora, semplice e diretto è solo il destino degli ultimi della catena alimentare da entrambi i lati della barricata, quelli che sputano sangue e pallottole rischiando per intrighi politici spesso e volentieri molto discutibili: ispirandosi ad un reale fatto di cronaca, Bay ci trasporta in un vero e proprio inferno da assedio degno di una versione purtroppo reale de Le brigate della morte di Carpenter, girato alla grande - spesso anche troppo, considerati alcuni colpi di mano con droni e slow motion forse un tantinello tamarri - e legato al sacrificio che una manciata di uomini dei corpi speciali statunitensi e di un nucleo segreto della CIA portarono a compimento per tenere una posizione che ricordava davvero parecchio la leggendaria Alamo nel cuore di una delle città più pericolose e segnate dalle guerre recenti di tutto il mondo, Benghazi, in Libia.
Probabilmente, questo 13 hours risulterà essere uno di quei titoli equivalenti ad una badilata di sabbia negli occhi per chi è sostenitore ed amante di un certo Cinema d'autore e di nicchia - dicesi radical - così come per tutti gli anti americani - e con questo non intendo simpatizzanti dell'Isis o simili, ovviamente - allergici ad un approccio e ad una cultura tipicamente "a stelle e strisce", e difficile da seguire per chi non è abituato a tutta la settima arte più recente - diciamo post undici settembre, per l'appunto - legata alle scene puramente d'azione diverse in tutto e per tutto dalle carrellate e dagli ampi spazi dei vecchi film di guerra.
La lunghissima sequenza dell'assedio - davvero impressionante a tratti, e molto realistica soprattutto nel rappresentare l'abitudine alla violenza ed alla morte di chi vive in prima linea - è forse uno degli esempi più interessanti di Cinema bellico degli ultimi anni, e varrebbe una visione non fosse altro che per analizzare quello che la settima arte figlia di uno dei paesi dalla Guerra più coinvolti al mondo attualmente ha interpretato rispetto alla cronaca ed alla realtà, in particolare in casi come questo, in cui la fiction si fa trasposizione di una storia vera.
E dietro l'apparente retorica si nasconde il grido disperato di chi perde tutto sul campo di battaglia anche in caso di vittoria e lotta disperatamente per poter tornare ad avere una vita normale.
Un'impresa che pare più difficile che affrontare la morte guardandola dritta negli occhi imbracciando un fucile.




MrFord





 

lunedì 15 agosto 2016

Saloon's Bullettin #5


L'estate è entrata nel vivo - quantomeno nel momento in cui scrivo queste righe - e tra vacanze, una partita e l'altra degli Europei di calcio - anche se, probabilmente, in questo momento saranno già nel pieno del loro svolgimento le Olimpiadi - e viaggi in treno sono comunque riuscito a gustarmi film e libri quantomeno discreti, lontani dagli standard solitamente bassi ed ignoranti del periodo più rilassato ed easy dell'anno.
The Nice Guys, diretto dallo specialista in buddy movies Shane Black, è un film super fordiano, frescolinissimo, veloce e divertente, un buon mix tra le atmosfere di Chandler e gli scombinamenti del Drugo e Doc Sportello, con un Russell Crowe in gran forma da picchiatore ed un Ryan Gosling perfetta spalla: una di quelle proposte che è sempre un piacere vedere e rivedere, che non inventerà nulla di nuovo ma si lascia guardare alla grande, mescolando humour, crime ed un'atmosfera anni settanta che da queste parti è sempre ben accetta.
E tra un cazzotto, una bottiglia e villains misteriosi - sempre affascinante Kim Basinger, che fa ancora mangiare la polvere ad un sacco di giovincelle - si arriva ai titoli di coda ben consci di essersi divertiti ma di non aver mandato in ferie il cervello. Ed è una cosa da non sottovalutare (due bicchieri e mezzo).
Allo stesso modo non è da sottovalutare The good kill, ultimo lavoro di Andrew Niccol - al quale sarò sempre affezionato per l'ottimo Lord of war - con Ethan Hawke e Zoe Kravitz, forse non completamente risolto e privo di una vera e propria direzione - è una denuncia rispetto al disumano utilizzo dei droni da combattimento o un grido d'aiuto lanciato nell'ottica di chi "preme il grilletto" e si porta dentro le conseguenze di ordini impartiti dall'alto? - ma in grado di far riflettere su uno degli aspetti più terrificanti della "guerra moderna": pensare che un drone che vola a tremila metri di altitudine guidato da una squadra che sta dall'altra parte del pianeta possa scaricarci su per il culo un missile in grado di fare a pezzi tutto quello che si trova nel raggio di un isolato è onestamente agghiacciante, e, per quanto preferirei non pensare ad un'esistenza imperitura della guerra, che forse le battaglie dei tempi antichi, a loro modo, erano più umane e sincere di questa lotta al terrore combattuta attraverso il terrore.
Echi di The hurt locker ed American Sniper, pur non arrivando all'altezza di nessuno dei due, per una pellicola comunque da recuperare, fosse anche per una sola visione (due bicchieri).
Ben più di una, invece, ne raccoglierà al Saloon The Conjuring - Il caso Enfield, tratto da cronache di eventi realmente accaduti ed incentrato come il precedente sull'esperienza di esorcisti dei coniugi Warren nel corso degli anni settanta, forse tra i più solidi horror ad ampio raggio degli ultimi mesi, nonchè sequel all'altezza dell'originale, che allo stesso modo da queste parti aveva convinto: le due pellicole sono molto diverse tra loro, e dall'horror classico del primo film le atmosfere di questo Il caso Enfield finiscono per avvicinarsi più a quelle del thriller psicologico, quasi si trattasse di un cocktail tra L'esorcista ed un Polanski in salsa Poltergeist.
Forse meno spaventoso del precedente, ma decisamente più inquietante, in grado di far riflettere a proposito del concetto di Fede - più rispetto alle persone che non in Dio o in una vita dopo la morte -, tecnicamente realizzato alla grande da James Wan e pronto a mostrare la tenacia di una famiglia presa di mira da un'entità demoniaca, l'approccio in bilico tra scienza e fede, per l'appunto, dei Warren ed un punto di vista - quello del contatto tra i protagonisti ed i loro "assistiti" - che si riassume alla grande in una risposta data a Lorraine Warren che suona più o meno così: "Non crederei a queste cose, ma ho perso mia figlia in un incidente anni fa, e se questo esiste, significa che c'è una vita dopo la morte, dunque so che un giorno avrò la possibilità di vederla ancora". Da ateo miscredente, non me la sento proprio di non essere d'accordo con un punto di vista simile (due bicchieri e mezzo).
Chiude la settimana l'agghiacciante visione di Warcraft, terribile fantasy tutto effetti e niente sostanza che pare la versione dei poverissimi de Il signore degli anelli purtroppo firmata dall'ex bambino prodigio Duncan Jones, che a ben guardare dopo Moon non è più stato in grado di produrre qualcosa di decente.
Due ore di effetti ad uso e consumo del 3D ed una sceneggiatura sforbiciata per restare in linea con le esigenze della distribuzione, attori sprecati - e mi dispiace per il buon Travis Fimmel, il Ragnar di Vikings, e Ben Foster -, sapore di già visto e sentito, tentativi di fare apparire come figo e coinvolgente un prodotto che è pura spazzatura nerd.
Il pensiero che possa essere il primo capitolo di una saga solletica il terrore, anche se fa ben sperare il pesantissimo flop al botteghino: per una volta, confido nelle buone scelte del grande pubblico (un bicchiere).
In termini di lettura, invece, Don Winslow è tornato a fare capolino da queste parti con il suo primo romanzo, London Underground, incentrato sul giovane investigatore Neil Carey, spedito dai suoi misteriosi capi da New York a Londra per ritrovare la figlia di un senatore che nasconde segreti piuttosto scomodi.
Non parliamo certo del Winslow dei Capolavori Il potere del cane e Il cartello, quanto più che altro di un ottimo scrittore ancora attento a "prendere le misure" e a porre le fondamenta di quelle che saranno le certezze della sua carriera, di fatto rendendo London Underground una sorta di fratello minore del più recente - e molto bello - Missing: New York. Ai tempi, il vecchio Don dedicò a Neil Carey - interessante main charachter fallibile e tormentato da buon giovane di belle speranze - una saga di cinque episodi che pare ora verrà completamente ristampata: sono già curioso di scoprire se con il secondo volume, China girl, la prosa di quello che è considerato uno dei maestri del noir contemporaneo si sarà già evoluta (due bicchieri e mezzo).



MrFord




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