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lunedì 30 luglio 2018

12 Soldiers (Nicolai Fuglsig, USA, 2018, 130')








La prima cosa che mi ha colpito, approcciando 12 Strong - inutilmente ribattezzato qui in Italia 12 Soldiers -, è stata la sensazione legata alla percezione di quello che è stato l'undici settembre duemilauno: uno dei limiti principali del lavoro di Fuglsig - per me sottovalutato, ad ogni modo, dalla critica radical - è quello di essere giunto forse fuori tempo massimo per suscitare un determinato tipo di patriottismo o toccare corde che ai tempi avrebbero coinvolto non solo il pubblico americano, ma anche del resto del mondo, e questo mi ha fatto pensare a quanto la percezione di quell'assurda giornata possa essere differente da chi l'ha vissuta come un ricordo già consolidato a chi, al contrario, allora era ancora troppo piccolo per poter quantificare l'importanza e la risonanza che quell'attacco ebbe in tutto il globo.
Io ricordo molto bene il momento, non fosse altro perchè ai tempi avevo un terrore folle di prendere l'aereo e che la mia fidanzata dei tempi, dato che eravamo in vacanza, nascose il telecomando del televisore della camera d'albergo sperando che potessi evitare la notizia ed allarmarmi rispetto al nostro rientro, previsto per un paio di giorni più tardi: ricordo anche le code dei turisti americani ai telefoni pubblici in un tempo in cui smartphone e internet non erano così alla portata di tutti, e lo sconvolgimento che ebbi non tanto per la questione degli aerei, ma perchè qualche anno prima visitai e salii in cima alle Torri, edifici che non avrei mai davvero pensato sarebbero potuti crollare in quel modo.
La cosa più incredibile, comunque, legata ad allora, per quanto mi riguarda è la sensazione che il mondo in qualche modo fosse cambiato, e che quell'avvenimento aveva contribuito a farlo: non erano ancora gli anni degli attentati casuali per la strada, di Londra, Nizza e Parigi, eppure la sensazione era che fosse la quotidianità ad essere minacciata. L'idea di due mondi che si scontrano con le armi che hanno a disposizione, e che, come da sempre nella Storia, a farne le spese fosse principalmente la gente comune.
L'impressione, guardando 12 Soldiers, è che nonostante Fuglsig sia del settantadue non sia riuscito neppure lontanamente a trasmettere quelle stesse sensazioni, e che il risultato sia un film ben confezionato con un buon cast - per quanto ripetitive, le sequenze legate alla battaglia in pieno stile Lawrence d'Arabia mi hanno molto colpito - incapace di toccare dal punto di vista emotivo, e dunque non in grado di conquistare quella fetta di pubbico "pop" che di norma - e soprattutto in quegli anni - avrebbe consacrato un lavoro a stelle e strisce come questo.
Nonostante questo - o forse perchè avevo aspettative molto basse - mi sono goduto l'epopea - tratta da una storia vera - di Mitch Nelson e dei suoi uomini così come l'amicizia costruita in battaglia da quest'ultimo con Dostum, leader locale opposto all'invasione talebana: non che questo film possa essere paragonato a pellicole dello stesso genere decisamente più potenti come Lone Survivor o American Sniper, ma tutto sommato porta a casa una pagnotta forse non coinvolgente e neppure smaccatamente retorica come ci si aspetterebbe - pare abbia il freno a mano tirato un pò da tutte la parti - ma interessante da guardare fosse anche solo per gli scorci ed il comparto tecnico, a mio avviso decisamente buono considerata anche la cifra investita dalla produzione.
Un prodotto, dunque, che ha il limite di non avere il carattere per piacere agli estremi del pubblico e che quindi probabilmente non verrà ricordato, che cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte - quasi non volesse scontentare nessuno - ma che proprio per questo finisce per risultare a suo modo poco incisivo.
Eppure, dall'altra parte, si notano voglia ed impegno, volontà di non caricare troppo ma di ricordare, di essere presenti e farsi sentire anche quando non sarà previsto un riconoscimento, un pò come i reali membri della squadra di Mitch Nelson.
Se, da questo punto di vista, la volontà del regista e degli autori fosse stata questa, 12 Soldiers sarebbe un lavoro da rivalutare, al contrario da criticare per la mancanza di carattere, quasi chi l'avesse portato sullo schermo "pensasse troppo da soldato e poco da guerriero", per dirla come Dostum: a noi, dall'altra parte, resta solo la possibilità di fidarsi, oppure no, dell'istinto.
O rimanere in attesa, e capire dove avrà portato la Storia.




MrFord





domenica 11 settembre 2016

13 hours - The secret soldiers of Benghazi (Michael Bay, USA, 2016, 144')



Ricordo bene l'esperienza surreale ed assurda dei tre giorni della visita di leva, ai tempi in cui il rischio di finire preda dello Stato senza volerlo era clamorosamente più concreto di oggi: ricordo anche che, nel pieno dell'adolescenza tutta Letteratura e ribellione, nonostante l'ideale romantico del giovane eroe che muore o torna segnato per sempre da una lotta senza quartiere, detestavo l'idea del militare, così come tutto quello che ne conseguiva.
Poi il tempo è passato, io sono cambiato, e benchè ancora oggi mi sia inviso un certo tipo di istituzione, ed ancor più la guerra e la sua strumentalizzazione, sarà perchè nel frattempo ho avuto dei figli, ho cominciato a nutrire del rispetto profondo per chi, sbagliando oppure no, ha dato tutto e più in prima persona ed in prima linea mosso dall'idea, falsa o vera che fosse, di proteggere chi ha amato.
E nonostante il Servizio Civile sia stata l'esperienza lavorativa e formativa più importante della mia vita, penso che, se dovessi fare la scelta che ho fatto ai tempi della visita di leva, opterei oggi quantomeno di provare sulla pelle l'esperienza dell'Esercito.
Ma tutta questa filippica fordiana sulla vita, penserete voi, a cosa porta, ed a che pro, nel giorno del quindicesimo anniversario dell'undici settembre più famoso della Storia - perchè ce ne sono stati anche altri passati quasi sotto silenzio, dal golpe in Cile nel settantatre a quello del duemiladodici ripreso da questa pellicola -?
Precisamente a Michael Bay, uno che ai tempi della suddetta visita avrei evitato come la peste, e che dopo anni di produzioni e blockbuster inutili pare essersi dato una bella svegliata, se non altro con il piccolo miracolo che fu Pain&Gain e con questo lampo degno del miglior Peter Berg - qualcuno ha detto Lone survivor? -: in un'epoca in cui il mondo sembra correre sempre più incontro alla follia - anche se, a ben guardare, con mezzi e situazioni diverse è sempre la Storia che si ripete, purtroppo, senza che l'Uomo impari dai suoi errori - non è da tutti, soprattutto dai nostri cari amici ammeregani, raccontare una guerra non più solo "buoni contro cattivi", in cui tutto è bianco o nero e le cose sono semplici e dirette.
Ora, semplice e diretto è solo il destino degli ultimi della catena alimentare da entrambi i lati della barricata, quelli che sputano sangue e pallottole rischiando per intrighi politici spesso e volentieri molto discutibili: ispirandosi ad un reale fatto di cronaca, Bay ci trasporta in un vero e proprio inferno da assedio degno di una versione purtroppo reale de Le brigate della morte di Carpenter, girato alla grande - spesso anche troppo, considerati alcuni colpi di mano con droni e slow motion forse un tantinello tamarri - e legato al sacrificio che una manciata di uomini dei corpi speciali statunitensi e di un nucleo segreto della CIA portarono a compimento per tenere una posizione che ricordava davvero parecchio la leggendaria Alamo nel cuore di una delle città più pericolose e segnate dalle guerre recenti di tutto il mondo, Benghazi, in Libia.
Probabilmente, questo 13 hours risulterà essere uno di quei titoli equivalenti ad una badilata di sabbia negli occhi per chi è sostenitore ed amante di un certo Cinema d'autore e di nicchia - dicesi radical - così come per tutti gli anti americani - e con questo non intendo simpatizzanti dell'Isis o simili, ovviamente - allergici ad un approccio e ad una cultura tipicamente "a stelle e strisce", e difficile da seguire per chi non è abituato a tutta la settima arte più recente - diciamo post undici settembre, per l'appunto - legata alle scene puramente d'azione diverse in tutto e per tutto dalle carrellate e dagli ampi spazi dei vecchi film di guerra.
La lunghissima sequenza dell'assedio - davvero impressionante a tratti, e molto realistica soprattutto nel rappresentare l'abitudine alla violenza ed alla morte di chi vive in prima linea - è forse uno degli esempi più interessanti di Cinema bellico degli ultimi anni, e varrebbe una visione non fosse altro che per analizzare quello che la settima arte figlia di uno dei paesi dalla Guerra più coinvolti al mondo attualmente ha interpretato rispetto alla cronaca ed alla realtà, in particolare in casi come questo, in cui la fiction si fa trasposizione di una storia vera.
E dietro l'apparente retorica si nasconde il grido disperato di chi perde tutto sul campo di battaglia anche in caso di vittoria e lotta disperatamente per poter tornare ad avere una vita normale.
Un'impresa che pare più difficile che affrontare la morte guardandola dritta negli occhi imbracciando un fucile.




MrFord





 

sabato 14 marzo 2015

Il fondamentalista riluttante

Regia: Mira Nair
Origine: USA, UK, Qatar
Anno:
2012
Durata:
131'





La trama (con parole mie): Khan è un giovane pakistano alla ricerca della realizzazione di se stesso. Guadagnata una borsa di studio a Princeton, negli States, e divenuto uno dei giovani volti più importanti di una società specializzata nello smaltimento e nella rivitalizzazione delle imprese in crisi, l'analista finanziario vive sulla sua pelle l'american dream fino a quando l'undici settembre non cambia le regole. Messo alle strette dai pregiudizi e toccato nel profondo dalla reazione della sua famiglia al suo lavoro nel cuore di New York, l'uomo decide di abbandonare tutto e tornare nella sua terra d'origine diventando docente universitario e, a parere dei servizi segreti USA, uno dei più influenti uomini della ribellione locale.
Il giornalista e scrittore Bobby Lincoln, segretamente al lavoro per gli uomini del governo americano, cerca di comprendere dall'interno se il professore effettivamente sia quello che loro pensano.









Personalmente, ho sempre trovato i film di Mira Nair abbastanza inconcludenti: mai interessanti abbastanza per diventare piccoli cult, mai troppo brutti da fare incazzare.
Una buona via di mezzo, da artigiana e mestierante della settima arte che, qui al Saloon, finisce per avere minor fortuna rispetto anche a prodotti che finisco per bottigliare senza ritegno.
Dunque, forse proprio per questo, Il fondamentalista riluttante ha finito per giacere, nonostante più di un parere positivo, nei meandri dell'hard disk fordiano per un paio d'anni, prima che mi decidessi ad affrontarne la visione senza troppi pensieri: superato questo ostacolo posso dire di aver, di fatto, forse per gusto o tipologia di pellicola, affrontato quella che mi è parsa l'opera più interessante della regista, un lavoro non perfetto eppure in grado di rievocare le atmosfere di prodotti come Homeland, che negli ultimi anni hanno conquistato senza alcuna riserva il favore degli occupanti di casa Ford.
L'intervista di Lincoln a Khan, a tratti duello e a tratti una sorta di alienata versione di rispettosa amicizia, prese le dimensioni di un flashback a più riprese pronto a mostrare la vita ed i sogni distrutti del professore pakistano finisce per avvincere il pubblico neanche ci si trovasse nel pieno di un cliffhanger da season finale di una serie tv, curiosi di sapere come potrà mai sciogliersi la tensione, e dove porteranno le decisioni prese dai protagonisti o quelle volute dal Destino.
In questo senso le vicissitudini del giovane ed arrivista main charachter divengono lo specchio di tempi che non lasciano - anche se ormai l'undici settembre duemilauno comincia ad apparire lontano - spazio alle speranze nel momento in cui all'interno di una società "evoluta" la paura e la sicurezza - vera o presunta - divengono priorità assolute: d'altro canto è altrettanto interessante notare quanto la regista lavori affinchè il suo stesso protagonista non finisca per risultare come la semplice vittima delle circostanze, fornendo di fatto all'audience un personaggio complesso e non privo di ombre, così come per il suo interlocutore, un Liev Schrieber fisicamente meno impegnato del solito ma non per questo poco efficace.
Personalmente, nel corso della visione, mi sono ritrovato a comprendere le posizioni del protagonista - ottimo il finale, in questo senso - ed ugualmente a prendere le distanze dal piglio sempre e comunque da piedistallo che finisce per mostrare all'esterno e con i suoi interlocutori: e nel crescendo che porta, di fatto, ad una situazione senza vincitori o vinti, si trova tutta l'intelligenza di regia e sceneggiatura, che invece di offrire al pubblico una soluzione, finiscono per mostrare quanto violenza, pregiudizi e chiusura mentale - problemi che affliggono l'intera società dall'alba dei tempi - portino, di fatto, ad una sorta di amplificazione degli stessi.
Interessante, inoltre, la scelta di proporre un titolo che avrebbe fatto senza dubbio scalpore ai tempi degli USA bushisti post-undici settembre a dieci anni di distanza dagli eventi sotto la bandiera dei democratici e di Obama, con Bin Laden ormai archiviato ed i sospesi con il Medio Oriente tramutati in appena accennate scaramucce: paradossalmente, osservare Khan e Lincoln confrontarsi finisce per apparire quasi più importante ora, che non ai tempi in cui le ferite erano aperte e dolenti, e per qualcuno poteva apparire doveroso muoversi in una certa direzione - difficile non indignarsi rispetto ad alcuni trattamenti riservati a Khan negli States nei giorni appena successivi l'attentato al World Trade Center -, anche perchè le stesse paure in grado di surriscaldare gli animi allora finiscono per essere quelle di oggi, semplicemente mutate a seconda di quelle che sono le richieste dei media e della società.
Del resto, dove iniziano e finiscono le nostre libertà?
Concedono davvero quello che dovrebbero sulla carta a quelle dei nostri vicini? Oppure no?
Sono domande che non avranno mai risposta.
Come non le avranno, se non a caro prezzo, Khan e Lincoln.



MrFord




"Politics, it's a drag
they put one foot in the grave
and the other on the flag
systems rotten to the core
young and old deserve much more
than struggling every day until you're done."
Ben Harper - "Both sides of the gun" -




 

mercoledì 19 febbraio 2014

La 25ma ora

Regia: Spike Lee
Origine: USA
Anno: 2002
Durata: 135'



La trama (con parole mie): Monty Brogan è uno spacciatore di droga che lavora fianco a fianco con un importante boss della mala russa di stanza a New York, un ragazzo irlandese dal temperamento inquieto rimasto in giovane età orfano di madre e profondamente legato al vecchio padre - ex pompiere e gestore di un bar - e ai due amici d'infanzia Jacob - professore di letteratura composto ed introverso - e Frank - arrembante agente di borsa -.
Quando la DEA, sfruttando una soffiata, lo incastra ed ottiene per lui una condanna a sette anni, Monty si ritrova a dover tirare le fila della sua vita nelle ultime ventiquattro ore precedenti alla data dell'incarcerazione.





Questo post partecipa alla commemorazione di Philip Seymour Hoffman.




Pochi film hanno rappresentato l'inizio del Nuovo Millennio per gli States sconvolti e feriti dall'undici settembre come La 25ma ora.
E pochi registi ne sono stati interpreti così accorati come il newyorkese doc Spike Lee, al suo meglio come spesso accade quando i suoi prodotti non finiscono per essere "troppo black" - ho sempre considerato il qui presente titolo, insieme al precedente Summer of Sam ed al successivo Inside man come i tre vertici della carriera del buon Spike -.
Ma La 25ma ora è molto più di quanto non possa rendere una fredda analisi critica, dalla regia asciutta alla sceneggiatura da manuale - firmata da David Benioff, che gli appassionati del piccolo schermo ricorderanno come uno degli autori di Game of thrones - passando alla splendida fotografia, alla vibrante colonna sonora e ad un cast perfetto ed in grande forma - su tutti le due spalle del protagonista, Barry Pepper e Philip Seymour Hoffman, che oggi celebriamo, nei ruoli rispettivamente di Frank e Jacob, amici di una vita del main charachter Monty.
La 25ma ora è la storia di un lungo addio, un dramma carcerario che si consuma ancora prima che il condannato varchi le mura del penitenziario per trascorrervi sette lunghi anni - che in luoghi come Otisville, non devono essere proprio una passeggiata -, la cronaca di un sospeso "senza perdono", o quasi, per dirla come il Maestro Clint, che "c'è mancato poco perchè non accadesse mai".
Monty, con il suo speech del "fuck you" all'indirizzo della città che è la sua casa e le sue radici quasi e quanto l'Irlanda, è lo specchio degli States feriti, della voracità che giustifica i rischi fino quando non è troppo tardi, e non resta altro se non ammettere amaramente che "sono cazzi".
Monty che non sa di chi fidarsi, e che è costretto a chiedere al suo amico fraterno di fargli del male per potersi proteggere, per poter sopravvivere, come fece anni prima di lui ed in luoghi sicuramente peggiori il boss che non lo vorrebbe veder partire, o fuori dai suoi giochi di potere.
Monty che era una promessa del basket, uno di quelli "che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa", e che invece ha finito per essere soltanto qualcuno inghiottito dal lato oscuro di una città e dei sentimenti, incapace di distinguere tra chi gli è fedele perchè lo ama e chi gli è fedele fino a quando non converrà esserlo.
La 25ma ora è un romanzo di formazione amaro, la caduta - piuttosto rovinosa - prima della lenta, difficoltosa risalita: non è possibile venirne fuori senza cicatrici o segni, senza dover sacrificare qualcosa - o qualcuno -, andando oltre, cambiando direzione e, chissà, forse la nostra stessa esistenza. Prima che il tempo scada. Prima che sia tutto finito.
Prima che si concretizzi quel "c'è mancato poco che non accadesse mai".
Eppure, dritto in faccia come un pugno, è accaduto. 
Accaduto eccome.
Lo si legge sui volti di Jacob e Frank alla finestra dell'appartamento di quest'ultimo che si affaccia su Ground Zero, nell'istinto di Brogan Senior a rubare un sorso dalla bottiglia di birra lasciata dal figlio, nello sconforto di Naturelle, nello smarrimento spocchioso da adolescente alla scoperta di tutto ciò che è più grande di lei di Mary, nello spirito di patate di Kostia, nel ringhiare di Doyle.
Tutto è alle spalle. 
E molto di più in attesa - o in agguato - davanti agli occhi. 
E non basterà guardare oltre, sognare un futuro, scrivere il proprio nome coltivando la speranza che un bambino possa vivere senza dover sopportare certe ferite.
Perchè sono il sale della vita. E senza di esse passeremmo il tempo sdraiati a terra con le ossa rotte.
O scappando. Perduti tra il nulla e l'addio. 
Tirando un sospiro di sollievo perchè "c'è mancato poco che non accadesse mai".
Invece è accaduto. Accade tutti i giorni.
Cadiamo, veniamo feriti, rimane una cicatrice.
Come un tatuaggio, a ricordarci da dove proveniamo. O che sopravviveremo.
E che finchè avremo forza, e sentiremo quei segni sulla pelle, potremo appoggiarci alle ginocchia ed alzarci, ancora una volta.
Da un Ground Zero fino a toccare quasi il cielo.
E guadagnare quell'ora in più che cambierà il nostro giorno.



MrFord


Partecipano alla veglia i compagni di blogosfera:


Il Bollalmanacco

In Central Perk

Viaggiando Meno

Non c'è Paragone

Cinquecento Film Insieme

Pensieri Cannibali

Montecristo

Director's Cult

50/50

Scrivenny 2.0

Combinazione Casuale


"Now I forget how to think
so crack my skull
rearrange me
lover put me in your beautiful bed
and cover me
lover put me in your beautiful bed."
The National - "It never happened" -



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