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martedì 5 aprile 2016

Cartel Land

Regia: Matthew Heineman
Origine: USA, Messico
Anno:
2015
Durata:
100'







La trama (con parole mie): lungo il confine tra USA e Messico, e nel profondo della valle del Michoacan, il dominio dei trafficanti di droga rappresentanti dei Cartelli incide sulle vite e sulle morti delle persone comuni, spingendo civili da entrambi i lati dello stesso a prendere le armi e combattere i criminali come in una guerra.
Tim "Nailer" Foley, in Arizona, da anni organizza una milizia paramilitare che si occupa di pattugliare il confine e consegnare alle autorità clandestini, vedette dei trafficanti e trafficanti stessi, mentre nel cuore del Michoacan un medico stanco dei soprusi, Josè Manuel Mireles, organizza un esercito costituito di gente comune ribattezzato Autodefensa pronto a battersi contro i trafficanti per riconquistare la propria terra ed i propri diritti.
Da entrambi i lati del confine, però, la lotta non solo non sarà facile, ma vedrà formarsi ostacoli interni ed esterni sempre più difficili da superare.











Vivere lungo un confine, specie quando lo stesso è tra i più "caldi" al mondo, non dev'essere semplice. Quando, di recente, ho affrontato la lettura de Il cartello, vero e proprio Capolavoro firmato da Don Winslow a dieci anni di distanza dall'altrettanto grande Il potere del cane, mi sono ritrovato catapultato lungo quello tra USA e Messico, da decenni al centro di questioni politiche, di territorio, di potere e, ovviamente, anche legate al traffico di droga e di esseri umani.
Cartel Land, purtroppo non distribuito in Italia e che, in un anno di elezioni presidenziali negli USA, pensavo favorito nella corsa all'Oscar per il miglior documentario, mi ha riportato tra le pagine di Winslow con tutta la violenza che la vita in quelle strade riserva alle persone che, per nascita, scelta o destino, proprio in quelle strade vivono: Matthew Heineman e la sua troupe, con un coraggio che ha scomodato ricordi importanti come quello de L'incubo di Darwin - spesso è poco sottolineato quanto i documentaristi debbano, come reporter in zone di guerra, mettere a rischio le loro stesse incolumità per girare in condizioni ed ambienti decisamente ostili -, firmano un racconto da brividi che mostra la realtà dei traffici da sempre in gioco sulla linea sottile che separa States e Messico vista e vissuta dalla parte dei poveri, della gente comune, di chi si trova a dover sopravvivere non solo alla quotidianità ed alle difficoltà, ma anche e soprattutto all'incontro mai piacevole di incudine e martello.
Dal lato americano, Tim Foley porta di fronte alla macchina da presa la sua storia, iniziata quando a quindici anni, stanco degli abusi fisici e mentali subiti da parte del padre, si allontana da casa per iniziare a costruirsi una vita, ed uscito dalla dipendenza da metanfetamine ed alcool diviene un operaio edile, padre a sua volta - toccante il momento in cui ricorda di aver presentato le figlie al suo vecchio, per dimostrare a quest'ultimo quanto un altro modo di crescere i propri eredi fosse possibile -, uomo stroncato dalla crisi economica che con i pochi risparmi decide di vivere in una delle aree più problematiche del confine, in Arizona, e fondare un gruppo paramilitare di sorveglianza dello stesso.
Dall'altra parte, nel cuore di una delle zone più colpite dal narcotraffico, il Michoacan, il medico Josè Manuel Mireles, provato dalle uccisioni, dagli stupri e dalle torture perpetrati dai cartelli locali, sceglie, invece che morire per "imposizione", di farlo combattendo, dando inizio ad una vera e propria rivoluzione radunando gente comune come lui in quello che diverrà un esercito ribattezzato Autodefensa, pronto a dare battaglia ai Narcos senza considerare lo Stato e senza fidarsi dello stesso, riprendendo possesso, in un anno, sul campo, di quasi tutta la regione, liberando paesi e villaggi e passando dal consegnare i trafficanti alla giustizia al giustiziarli.
Entrambe le vicende, da qualsiasi punto di vista le si voglia guardare, d'accordo o no con i loro protagonisti, assumono i connotati della profonda umanità che il regista trasmette, e della drammaticità di queste esistenze: la solitudine e la sensazione di abbandono di Foley tanto quanto la voglia di cambiare le cose che stimola le rivoluzioni di Mireles mostrano, minuto dopo minuto, la fallibilità dei loro protagonisti tanto quanto il loro coraggio, dal desiderio di mettersi in gioco di Foley in un momento della propria vita in cui nulla pareva rimasto all'orizzonte alle palle di Mireles, che, senza alcuna preparazione ed affidandosi soltanto al carisma ed al desiderio di non soccombere decide di combattere il cartello con le sue stesse armi, parlando l'unica lingua che lo stesso pare comprendere: quella dei proiettili.
Due scelte e due vite che il pubblico è assolutamente libero di non condividere, e che portano a conseguenze a dir poco clamorose - soprattutto quella di Mireles -, eppure in grado di catturare grazie alla forza degli occhi che decidono di narrarne almeno una parte: Heineman entra in un mondo senza invaderlo, cercando di raccontare nel miglior modo possibile quello che Winslow dichiara per voce del suo protagonista Art Keller nelle pagine finali del già citato Il cartello, nient'altro che il fatto che il cartello esisterà sempre, e che, in qualche modo, il cartello siamo noi, che facciamo parte del sistema tanto quanto i cuochi ed i trafficanti di meth ripresi ad inizio ed in chiusura di pellicola, che hanno imparato a cucinare da un padre e da un figlio americani ed agli americani vendono, e continueranno a vendere "finchè dio vorrà".
Sempre che, sul confine, si possa pensare che un dio esista.





MrFord





"Dame dame dame dame todo el power
para que te demos en la madre
gimme gimme gimme gimme todo el poder
so I can come around to joder."
Molotov - "Gimme the power" - 





sabato 14 marzo 2015

Il fondamentalista riluttante

Regia: Mira Nair
Origine: USA, UK, Qatar
Anno:
2012
Durata:
131'





La trama (con parole mie): Khan è un giovane pakistano alla ricerca della realizzazione di se stesso. Guadagnata una borsa di studio a Princeton, negli States, e divenuto uno dei giovani volti più importanti di una società specializzata nello smaltimento e nella rivitalizzazione delle imprese in crisi, l'analista finanziario vive sulla sua pelle l'american dream fino a quando l'undici settembre non cambia le regole. Messo alle strette dai pregiudizi e toccato nel profondo dalla reazione della sua famiglia al suo lavoro nel cuore di New York, l'uomo decide di abbandonare tutto e tornare nella sua terra d'origine diventando docente universitario e, a parere dei servizi segreti USA, uno dei più influenti uomini della ribellione locale.
Il giornalista e scrittore Bobby Lincoln, segretamente al lavoro per gli uomini del governo americano, cerca di comprendere dall'interno se il professore effettivamente sia quello che loro pensano.









Personalmente, ho sempre trovato i film di Mira Nair abbastanza inconcludenti: mai interessanti abbastanza per diventare piccoli cult, mai troppo brutti da fare incazzare.
Una buona via di mezzo, da artigiana e mestierante della settima arte che, qui al Saloon, finisce per avere minor fortuna rispetto anche a prodotti che finisco per bottigliare senza ritegno.
Dunque, forse proprio per questo, Il fondamentalista riluttante ha finito per giacere, nonostante più di un parere positivo, nei meandri dell'hard disk fordiano per un paio d'anni, prima che mi decidessi ad affrontarne la visione senza troppi pensieri: superato questo ostacolo posso dire di aver, di fatto, forse per gusto o tipologia di pellicola, affrontato quella che mi è parsa l'opera più interessante della regista, un lavoro non perfetto eppure in grado di rievocare le atmosfere di prodotti come Homeland, che negli ultimi anni hanno conquistato senza alcuna riserva il favore degli occupanti di casa Ford.
L'intervista di Lincoln a Khan, a tratti duello e a tratti una sorta di alienata versione di rispettosa amicizia, prese le dimensioni di un flashback a più riprese pronto a mostrare la vita ed i sogni distrutti del professore pakistano finisce per avvincere il pubblico neanche ci si trovasse nel pieno di un cliffhanger da season finale di una serie tv, curiosi di sapere come potrà mai sciogliersi la tensione, e dove porteranno le decisioni prese dai protagonisti o quelle volute dal Destino.
In questo senso le vicissitudini del giovane ed arrivista main charachter divengono lo specchio di tempi che non lasciano - anche se ormai l'undici settembre duemilauno comincia ad apparire lontano - spazio alle speranze nel momento in cui all'interno di una società "evoluta" la paura e la sicurezza - vera o presunta - divengono priorità assolute: d'altro canto è altrettanto interessante notare quanto la regista lavori affinchè il suo stesso protagonista non finisca per risultare come la semplice vittima delle circostanze, fornendo di fatto all'audience un personaggio complesso e non privo di ombre, così come per il suo interlocutore, un Liev Schrieber fisicamente meno impegnato del solito ma non per questo poco efficace.
Personalmente, nel corso della visione, mi sono ritrovato a comprendere le posizioni del protagonista - ottimo il finale, in questo senso - ed ugualmente a prendere le distanze dal piglio sempre e comunque da piedistallo che finisce per mostrare all'esterno e con i suoi interlocutori: e nel crescendo che porta, di fatto, ad una situazione senza vincitori o vinti, si trova tutta l'intelligenza di regia e sceneggiatura, che invece di offrire al pubblico una soluzione, finiscono per mostrare quanto violenza, pregiudizi e chiusura mentale - problemi che affliggono l'intera società dall'alba dei tempi - portino, di fatto, ad una sorta di amplificazione degli stessi.
Interessante, inoltre, la scelta di proporre un titolo che avrebbe fatto senza dubbio scalpore ai tempi degli USA bushisti post-undici settembre a dieci anni di distanza dagli eventi sotto la bandiera dei democratici e di Obama, con Bin Laden ormai archiviato ed i sospesi con il Medio Oriente tramutati in appena accennate scaramucce: paradossalmente, osservare Khan e Lincoln confrontarsi finisce per apparire quasi più importante ora, che non ai tempi in cui le ferite erano aperte e dolenti, e per qualcuno poteva apparire doveroso muoversi in una certa direzione - difficile non indignarsi rispetto ad alcuni trattamenti riservati a Khan negli States nei giorni appena successivi l'attentato al World Trade Center -, anche perchè le stesse paure in grado di surriscaldare gli animi allora finiscono per essere quelle di oggi, semplicemente mutate a seconda di quelle che sono le richieste dei media e della società.
Del resto, dove iniziano e finiscono le nostre libertà?
Concedono davvero quello che dovrebbero sulla carta a quelle dei nostri vicini? Oppure no?
Sono domande che non avranno mai risposta.
Come non le avranno, se non a caro prezzo, Khan e Lincoln.



MrFord




"Politics, it's a drag
they put one foot in the grave
and the other on the flag
systems rotten to the core
young and old deserve much more
than struggling every day until you're done."
Ben Harper - "Both sides of the gun" -




 

lunedì 24 giugno 2013

Searching for Sugar Man

Regia: Malik Bendjelloul
Origine: Svezia, UK
Anno: 2012
Durata: 86'




La trama (con parole mie): Sixto Rodriguez, cantautore di culto di origini messicane nato e cresciuto nella periferia dei lavoratori di Detroit, incise all'inizio degli anni settanta due album che, per i suoi produttori, lo portarono ben oltre il livello perfino di mostri sacri della canzone popolare americana come Bob Dylan. Peccato che, a seguito dell'insuccesso commerciale totale degli stessi, l'uomo scomparve letteralmente senza lasciare traccia del suo passaggio.
A cavallo degli anni ottanta, però, in Sudafrica, Rodriguez divenne una sorta di leggenda ispirando perfino i primi gruppi rock bianchi pronti a contestare duramente l'apartheid: il proprietario di un negozio di dischi, Stephen "Sugar" Segerman, ed un giornalista musicale, fan della prima ora di Rodriguez, si incaricano di indagare quale possa essere stato il destino del loro idolo.
Quello che scopriranno attraversando l'oceano sarà un'incredibile storia di musica e di vita.




A volte non c'è davvero bisogno di troppi giri di parole: Searching for Sugar Man è un grande film, nonchè uno dei migliori documentari che mi sia capitato di vedere nel corso delle ultime stagioni cinematografiche.
Ma prima dei premi, dei riconoscimenti al Sundance e alla notte degli Oscar, prima della ribalta e della distribuzione addirittura in Italia, prima della musica stessa e di una vicenda che pare talmente incredibile da essere stata scritta proprio per un film, il lavoro di Malik Bendjelloul - bravissimo davvero, questo ragazzo svedese di chiare origini extraeuropee, che ha finito per curare praticamente ogni aspetto del suo lavoro, dalla regia, al montaggio, fino alle bellissime sequenze arricchite dai disegni animati, anch'essi opera della sua mano - è un inno alla vita come raramente se ne incontrano nel corso del cammino che intraprendiamo giorno dopo giorno, un esempio di quello che fa la differenza tra chi non riesce a gestire la fama ed il successo e chi, al contrario, decide di vivere quello che il destino gli ha riservato, prendendo quello che ha come parte della sua storia - e, come scrivevo poco sopra, che storia -.
Sixto Rodriguez, cantautore di origini messicane nato e cresciuto nella Detroit dei lavoratori e dei losers della grande tradizione del folk - e non solo - made in USA, all'inizio degli anni settanta compone ed incide due dischi in grado di strabiliare gli addetti ai lavori, album brevi ed intensi che raccontano le vite consumate lungo una Frontiera che di mitico non ha proprio nulla, almeno sulla carta, fatta di calli alle mani e storie di periferia, lavori perduti e sconfitte che non lasciano spazio alle vittorie, speranze perdute un giorno dopo l'altro, schiacciate dalla forzata sopravvivenza.
Due dischi che gente alle spalle di artisti come Marvin Gaye o i Cure non esita neppure un secondo a definire epocali, considerando Rodriguez come uno dei massimi interpreti della musica americana, perfino oltre quello che è stato, è e sarà sempre Bob Dylan: eppure, questi due album monumentali finiscono inspiegabilmente nel dimenticatoio di tutte quelle proposte che, una volta immesse sul mercato discografico, si perdono in un oblio quasi mitologico - altro che Frontiera annichilita dal quotidiano e dal lavoro -.
Così, Sixto Rodriguez scompare. Definitivamente.
Senza sapere di essere diventato quasi per caso una leggenda all'altro capo del mondo, in Sudafrica, in un contesto sociale in cui i suoi testi attecchiscono e divengono uno dei più importanti stimoli della lotta contro l'apartheid, nonchè riferimento per un artista in grado di influenzare generazioni intere: e mentre rimbalzano le voci di un suo suicidio, della sua morte sul palco o per overdose, perduto tra le pagine del mito, Sixto Rodriguez aleggia ancora, come un fantasma, anche se nessuno dei suoi fan lo sa.
E sulle sue tracce si mossero, sul finire degli anni novanta, il proprietario di un negozio di dischi ed un giornalista musicale, pronti a mettere tutte le energie possibili in campo per arrivare a scoprire il vero destino di quell'uomo che avevano imparato a conoscere dietro ogni nota, e la voce rotta da un sentimento profondo di comunione con i perdenti di cui cantava.
E se pensate che questo possa essere già molto, non avete ancora scoperto il meglio.
Spesso mi capita di citare il John Ford de L'uomo che uccise Liberty Valance, con quel suo "Nel West, quando la Realtà incontra la Leggenda, vince la Leggenda".
Qui pare esattamente il contrario: e quello che la vita ha riservato a questa sorta di eroe della musica dei nostri tempi vissuto da fantasma per quasi un trentennio, è un passaggio di lirismo quasi magico che neppure il Cinema di fiction sarebbe riuscito a rendere nello stesso semplice, travolgente modo: una finestra che si apre, un volto che si affaccia sulla strada.
Quella strada cantata tante volte, anni e anni prima, e ancora ogni giorno, in modo diverso, ma ugualmente forte, deciso, pieno di passione.
Una strada diversa da quella di una fama internazionale, di denaro e groupie, e chi più ne ha, più ne metta.
Una strada fatta di tre donne, ed un bimbo nato dall'altra parte del mondo, pronto in qualche modo a raccogliere la sua eredità.
Un'eredità di musica, senza dubbio, ma soprattutto di dignità, forza, coraggio, solidità.
Anche quando non si è altro che un fantasma per le strade di una città che non regala niente a nessuno, costruita sulle spalle dei lavoratori della vita.
Searching for Sugar Man è una lezione, ed un grande film.
Perchè insegna che la passione non è subordinata al successo, come molta della cultura del mondo in cui viviamo pare suggerire.
E insegna anche che la generosità e la forza non nascono dalla fama stessa, ma arrivano dritti dalle ferite che ci ricordano che è impossibile crescere senza farsi male.
E quando abbiamo qualcuno da proteggere, e a cui mostrare il cammino, è ancor più inevitabile.
Caro Rodriguez, non ho mai conosciuto la tua musica, ma è come se fossi stato sempre con me.
Ed anche ora che correrò a comprare i tuoi dischi, credimi, non penserò che sarà finita con qualche pezzo - peraltro magistrale - ascoltato camminando per le strade del mondo.
Non penserò che sarà mai finita, perchè non lo è.
Fino a quando non arriva il momento di scomparire.
E forse non basterà neppure quello.


MrFord


"Sugarman
won't ya hurry
coz I'm tired of these scenes
for a blue coin
won't ya bring back
all those colours to my dreams
silver majik ships, you carry
jumpers, coke, sweet MaryJane."
Rodriguez - "Sugar Man" -


lunedì 9 luglio 2012

Il dittatore

Regia: Larry Charles
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 83'




La trama (con parole mie): Aladeen, dittatore del piccolo stato arabo di Wadiya, è messo alle strette dall'ONU rispetto alle sue intenzioni a proposito delle armi di distruzione di massa e alla chiusura al resto del mondo. In procinto di viaggiare a New York per chiarire la sua posizione, il leader ignora che il suo vice Tamir trama alle sue spalle in modo da sostituirlo con un sosia che sia una marionetta pronta a seguire i suoi "consigli" da eminenza grigia, e dichiari ufficialmente il passaggio a Repubblica di Wadiya firmando una costituzione che sia il viatico per le grandi società petrolifere mondiali per mettere finalmente radici in loco.
Aladeen, scampato alla morte e solo sul suolo americano, dovrà trovare il modo di affermarsi di nuovo come vero se stesso ed equilibrare le sorti del suo Paese e del suo governo.




Come ben sapranno, ormai, tutti i frequentatori del saloon di vecchia data - e forse anche quelli più "freschi" -, considerati il pane e salame, Kevin Smith, i buddy movies sbracati da Apatow in giù e gli action più beceri possibili, dalle parti di casa Ford non ci si scandalizza certo per la volgarità o la sguaiatezza di una pellicola.
Al contrario, di solito ci si fanno sopra quattro risate alla facciazza di benpensanti e moralisti.
Esistono però alcuni fenomeni che, pur basati su idee a tratti assolutamente valide ed in grado di strappare qualche momento di ilarità, non riescono neppure lontanamente a convincermi che stia assistendo a qualcosa di particolarmente interessante, degno di nota o anche semplicemente utile per del sano divertimento da zero neuroni: in Italia una reazione di questo tipo è innescata tendenzialmente da cose come I soliti idioti, mentre guardando oltreoceano - o Manica, considerate le origini del loro protagonista - i primi titoli che mi tornano alla mente sono quelli portati sullo schermo dalla premiata ditta Larry Charles/Sacha Baron Cohen.
Fin dai tempi di Ali G non ho mai negato la chance di una visione al lavoro della suddetta coppia, e sempre dai tempi di Ali G non mi pare sia cambiato nulla rispetto al risultato ottenuto: la mancanza di misura ed una volgarità che qui da noi potrebbe essere associabile ai peggiori tra i cinepanettoni finiscono per schiacciare sotto il loro peso anche gli spunti più interessanti e le riflessioni presenti dietro il non sense e lo humour nero.
Il dittatore, ultimo prodotto di quella che potrebbe essere definita una serie, non è da meno: scritto per essere una sorta di parodia della situazione internazionale riferita alle tensioni tra l'Occidente a stelle e strisce e l'Oriente del petrolio ed una critica allo stesso sistema statunitense - uno dei pochi momenti effettivamente efficaci, con la descrizione del protagonista e despota Aladeen di una dittatura, confusa con quello che è, di fatto, il sistema politico e sociale made in Usa e non solo -, finisce per divenire una sorta di caricatura di se stesso almeno quanto il suo protagonista, un Baron Cohen che dai tempi delle sue prime comparse nei panni del già citato Ali G pare non essersi evoluto per nulla, come attore e come comico.
I momenti al limite dell'imbarazzo sono moltissimi, così come le scivolate nel cattivo gusto pronte a minare la credibilità di un film che fa tutto il possibile - e anche di più - per distruggere le poche idee messe sul piatto a suon di volgarità gratuite che, purtroppo, non risultano neppure così simpatiche, irresistibili o divertenti come vorrebbero essere - le leccate di ascelle o le classiche battute sempre attorno a razza e sesso finiscono per stancare quasi subito -, e la stessa struttura della pellicola appare slegata e poco logica - anche in questo caso, sarà pure un film demenziale, ma questo non deve necessariamente significare che debba essere curato in maniera demenziale -.
Osservando le peripezie di Aladeen mi è tornato alla mente un film passato per assurdo come questo ed in realtà tra i titoli più interessanti dello scorso anno, quel Four lions entrato prepotentemente nella classifica dei migliori venti titoli fordiani del 2011: in quel caso Morris prese un argomento scottante e sempre d'attualità come quello della jihad e lo trasformò in un ritratto agghiacciante delle vite che la stessa ha inghiottito soprattutto negli ultimi vent'anni, senza dimenticare, in tutto questo, un tocco sagace nella piena tradizione della comicità britannica.
Quello che Baron Cohen pare essersi ormai lasciato alle spalle per trasformarsi in tutto e per tutto in un prodotto figlio della cultura che spesso e volentieri tende a sbeffeggiare.


MrFord


"I was so right (so right)
so right
thought I could turn emotion
on and off
I was so sure
so sure (I was so sure)
but love taught me
who was, who was, who was the boss."
Diana Ross - "The boss" -


venerdì 16 marzo 2012

Homeland - Stagione 1

Produzione: Showtime
Origine: Usa
Anno: 2011
Episodi: 12



La trama (con parole mie): Nicholas Brody, un marine fatto prigioniero nel corso dello svolgimento del suo dovere e creduto morto per otto anni, viene ritrovato in un bunker in Iraq.
Parallelamente, l'agente della CIA Carrie Mathison scopre tramite un informatore che un marine è passato dalla parte del nemico: la donna è convinta che il traditore sia proprio Brody, guidato dallo sceicco Abu Nazir, e che stia preparando un attentato sul suolo americano.
Il confronto tra i due, progressivamente sempre più vicini e clamorosamente simili nei rispettivi fanatismi, porterà a galla i fantasmi e le motivazioni di entrambi, fino a giungere al momento in cui i piani dei terroristi punteranno dritti al vice Presidente degli Stati Uniti.




A volte, più che l'azione e quello che le danza attorno, l'importante sono le sensazioni, le illusioni, le ossessioni. Insomma, le parti più umane - clamorosamente imperfette, ed altrettanto inesorabilmente vere - del nostro essere animali sociali. O soltanto animali.
L'istinto, e forse qualcosa in più.
Homeland è una serie profondamente radicata in un tempo presente, nata dalle paure coltivate negli States negli anni appena successivi l'undici settembre, stretta in un abbraccio spesso e volentieri mortale a quella filosofia del terrore - e della lotta al - tanto cara al bushismo, nonchè vestito che cade a pennello su quasi un decennio di storia occidentale, eppure costruita su sentimenti, paure, sogni e bisogni di personaggi che fanno della loro umanità qualcosa di assolutamente fuori dal tempo, oltre la CIA, i conflitti per il petrolio e le armi di distruzione di massa, il fanatismo politico e religioso, i doppi e tripli giochi, la politica.
Il lavoro svolto dagli sceneggiatori su Carrie Mathison e Nicholas Brody, soprattutto nei momenti in cui questi due pianeti quasi gemelli si ritrovano in rotta di collisione, è notevole, profondamente umano ed assolutamente reale, quasi stessimo parlando, più che di qualcuno che conosciamo bene e a fondo, di noi stessi: la loro partita - che poi, a ben vedere, partita non è, perchè segnata da troppe pedine e giocatori attorno - risulta più interessante quanto più i due vengono portati a contatto, sfornando una delle coppie più emozionanti e trascinanti che il piccolo schermo abbia visto nelle sue ultime stagioni.
Certo, non è facile poter sposare la spy story e l'action politico alternativo, l'intrigo ed il ritmo serrato, la quotidianità con le partite a scacchi dei nomi altisonanti e dei burattinai nascosti, e Homeland è ancora lontano dall'aver esploso tutto il suo potenziale: eppure c'è qualcosa, nella glaciale compostezza di Brody, o nella caotica determinazione di Carrie, in grado di conquistare inesorabilmente un pubblico che, più che vederli giungere alla vera rivelazione conclusiva, al loro scontro decisivo, pare quasi finire a fare il tifo per loro, perchè tutto si muova in modo che i pezzi del puzzle che rappresentano finiscano per combaciare, tanto perfetti risulterebbero uno accanto all'altro.
Homeland è una storia di due ossessioni, di egoismi, fallimenti e continue ritirate strategiche: è un manuale di tattica per chi pensa che la politica possa essere solo parole così come l'action soltanto bossoli, esplosioni e sangue.
Homeland non è quello che sembra, come i suoi protagonisti.
Tutti, dal primo all'ultimo.
Dagli ottimi Damian Lewis e Claire Danes all'imperscrutabile Mandy Patinkin, tornato in grande spolvero dopo i tempi di Criminal minds, tutto il cast pare lavorare in modo da seguire la componente "nascosta" dello script e mettere all'angolo lo spettatore, giocando con le sue sensazioni mescolando le carte in tavola ad ogni mano, da abile stratega. O politico.
Sempre che le due cose non coincidano clamorosamente.
Una serie che raccoglie il lascito di 24 e lo trasforma da sfogo di rabbia mosso da una ferita ancora aperta ad una sottile strategia labirintica, pronta a sedurci e portarci al suo centro - o almeno sarà quello che crederemo - per poi abbandonarci a noi stessi, e fare da spettatrice a quello che potrebbe essere il nostro ritorno, o il nostro ultimo atto.
A voi la scelta.
Il destino.
E da che parte sta.


MrFord


"So far from my homeland
I'm lost in time
my soul's still searchin'
for that peace of mind
those sacred landscapes
come miles around
and my heart's still beatin'
for those country grounds."
Europe - "Homeland" -


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