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lunedì 9 marzo 2020

White Russian's Bulletin



Se la scorsa settimana mi pareva assurdo stare a scrivere dal quasi epicentro italiano della psicosi collettiva del Coronavirus, a questo giro mi sembra di essere precipitato in una sorta di fiera dell'assurdo: metri di distanza, attività chiuse, zone rosse e regioni rosse, casini all'italiana per qualcosa che, a conti fatti, ci danneggerà a livello economico e sociale alla stregua di una guerra. Ma tant'è. Spero solo di non impazzire troppo, considerato il livello da "animale in gabbia" che mi pare di stare raggiungendo.
Intanto, ecco quello che è passato da queste parti in settimana.


MrFord



BRITTANY RUNS A MARATHON (Paul Downs Colaizzo, USA, 2019, 104')

Brittany non si ferma più Poster

Pescato quasi a caso dal bacino di Prime memore delle buone parole spese da Ink, Brittany runs a marathon - inascoltabile il titolo italiano - è stato una vera e propria sorpresa in una di quelle serate in cui il rischio di crollo da divano è altissimo: la storia della protagonista e della sua rinascita - fisica e mentale - attraverso la passione per la corsa con l'obiettivo di correre la Maratona di New York, oltre a rendere bene come commedia indie, centra perfettamente lo spirito di sacrificio e la passione di chiunque pratichi sport con dedizione e costanza, finendo addirittura per commuovere proprio nel passaggio più importante della suddetta Maratona.
Quando a Brittany la prima mentore del running dice che "non si corre per arrivare primi, ma per arrivare alla fine" c'è il succo dei sacrifici piccoli e grandi che si compiono quando una disciplina - a prescindere da quale sia - ci conquista: in tutta la fatica espressa dalla protagonista ho rivisto ogni singola goccia di sudore che, negli ultimi quasi tre anni, ho sentito scendermi sulla pelle con il crossfit, e la gioia che si prova quando si sente dentro di aver dato tutto quello che si poteva per portare se stessi al traguardo, a prescindere da quale sia o da quanto ci sia voluto per arrivarci.




I PREDATORI DELL'ARCA PERDUTA (Steven Spielberg, USA, 1981, 115')

I predatori dell'arca perduta Poster

Le serate Cinema dei Fordini si moltiplicano in questo periodo di chiusura forzata delle scuole, e nel corso di questa settimana, oltre a Predator - che non ho ripostato considerato quante volte è stato citato da queste parti -, hanno portato i piccoli del Saloon a conoscere un altro personaggio cult per la mia generazione e non solo, Indiana Jones.
Attratti dall'ambientazione che a loro ha ricordato i due Jumanji con The Rock e dalle gag che il vecchio Indy regala - la più famosa, quella del colpo di pistola al nemico pronto ad esibirsi nelle sue evoluzioni con la spada, ancora oggi funziona alla grande -, I predatori dell'Arca Perduta, oltre a rimanere un fantastico film d'avventura, ha permesso anche di iniziare ad illustrare ai Fordini la Storia della Seconda Guerra Mondiale e del nazismo, che a scuola ancora, per ovvi motivi, non hanno affrontato. 
Una visione che ha confermato il valore di uno dei prodotti più pop e meglio realizzati degli anni ottanta.




L'OCCHIO DEL MALE (Bjorn Larsson, Svezia, 1999)

L'occhio del male

Da queste parti Bjorn Larsson avrà sempre un posto d'onore grazie a quello che, ad oggi, è uno dei miei romanzi preferiti di tutti i tempi, La vera storia del pirata Long John Silver. Anni prima che regalasse a noi tutti quel Capolavoro ed in anticipo su eventi storici come l'11 settembre, Larsson raccontò una storia di razzismo e terrorismo ambientata nella Parigi multietnica legata a doppio filo alla memoria storica della guerra in Algeria ed alla realizzazione di un progetto che avrebbe portato nuove stazioni della metropolitana effettivamente esistenti.
I destini di Ahmed, Rachid e Alain, tutti e tre segnati dal conflitto in Algeria ma figli di posizioni ed esperienze diverse - il primo ateo, sposato con una francese e disilluso rispetto all'essere umano, il secondo fondamentalista guidato dalla fede cieca, il terzo codardo e razzista, mosso dall'odio e dall'ignoranza - si incrociano coinvolgendo le persone a loro più vicine.
Un romanzo teso e sicuramente molto avanti con i tempi, impreziosito da lampi di grande stile ma anche, a suo modo, forse incompleto. Senza dubbio, però, una lettura da non perdere per chi ama il genere.


lunedì 16 dicembre 2019

White Russian's Bulletin



Altra settimana di transizione, per il Bulletin, figlio dell'ormai stanchezza da divano che mi coglie inesorabilmente la sera, degli impegni in famiglia, al lavoro e con la palestra che portano via gran parte delle energie mentali e fisiche: prima, però, di avventurarci nelle classifiche di fine anno, sono riuscito comunque a portare a casa un altro sabato sera Cinema con i Fordini, una serie e una novità da sala. Di questi tempi, direi un bottino abbastanza importante.


MrFord



LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA (James Mangold, USA/Francia, 2019, 152')

Le Mans '66 - La grande sfida Poster


Come chi mi conosce o frequenta il Saloon da un pò di tempo ben sa, il mio rapporto con i motori non è esattamente idilliaco: anzi, per usare un eufemismo, direi che meno sto con le mani su un volante e meglio sto. Eppure, paradossalmente, fin da bambino sono sempre stato affascinato dalle storie legate ai grandi piloti - soprattutto di Formula Uno -, associando le stesse alle imprese sportive che, probabilmente per merito della passione di mio padre per lo sport in genere, sono state parte di una mitologia domestica importante negli anni della mia formazione.
James Mangold, ottimo artigiano del Cinema che negli anni mi ha regalato piccole gioie come Identità o Walk the line, porta sullo schermo una vicenda che non conoscevo, quella della storica edizione del sessantasei della ventiquattro ore di Le Mans, una delle gare automobilistiche con maggior fama e memoria storica di sempre: in particolare, quell'edizione portò a confronto i due colossi Ford e Ferrari, e a collaborare l'ex asso del volante Carroll Shelby ed il meccanico e spigoloso pilota Ken Miles. Mangold, sfruttando una struttura molto classica ed appoggiandosi a due certezze come Damon e Bale - e devo ammettere che, nonostante il talento, in questo caso ho apprezzato di più il primo -, porta in scena il classico racconto in pieno stile Oscar che coinvolge ed emoziona, una sorta di versione old school di Rush cui manca forse l'impatto di una rivalità effettiva - di fatto, è la storia di un'amicizia - ma riesce comunque a raccontare una storia e ad emozionare.
Curiosa l'interpretazione macchiettistica del team Ferrari, sempre "troppo italiano", o quantomeno italiano visto da occhi a stelle e strisce, ma è un peccato veniale all'interno di un lavoro sicuramente ben strutturato.




JACK RYAN - STAGIONE 1 (Prime Video, USA, 2018)

Jack Ryan Poster

Pescato dal catalogo Prime, che ultimamente in casa Ford sta facendo da concorrente a Netflix, e giunto più in sordina del previsto da queste parti - in fondo si parla di territori molto fordiani -, la versione da piccolo schermo di Jack Ryan, eroe nato dalla penna di Tom Clancy, ha portato una ventata di action spionistica quasi più cinematografica che seriale, convincendo episodio dopo episodio portando in scena una vicenda dal sapore di primi Anni Zero senza per questo sembrare datata o fuori tempo massimo, risultando solida sia per quanto riguarda il comparto tecnico che per il cast - e pensare che non sono un fan di John Krasinski e Abbie Cornish - ed alimentando una tensione che con gli ultimi episodi cresce con buona intensità.
Un prodotto dunque interessante che potrebbe raccogliere il testimone dell'ormai classico 24 regalandone però al pubblico una versione più realistica e meno da fumetto, legata a tematiche importanti come la guerra al terrorismo e rappresentata da un main charachter che unisce la componente fisica dell'eroe di genere ad una mentale che, in questi casi, non ci si aspetta proprio.




STAR WARS EPISODIO IV - UNA NUOVA SPERANZA (George Lucas, USA, 1977, 121')

Guerre stellari Poster

Il sabato sera Cinema dei Fordini questa settimana ha iniziato uno dei percorsi più importanti per un cinefilo, anticipato rispetto a quanto pensassi dall'esaltazione mostrata soprattutto dalla Fordina per il trailer del nono e ultimo capitolo della Saga, motivata principalmente da Chewbacca, diventato l'idolo della più piccola del Saloon.
A fronte, dunque, degli oltre quarant'anni dall'uscita e della stanchezza, sono rimasto sorpreso di quanto bene abbiano preso questo cult i ragazzi, incuriositi da particolari e personaggi differenti - uno tutto per i droidi, l'altra tutta per Chewbacca, uniti contro un Darth Vader che ancora vedono come il Male assoluto - ed ora curiosi di proseguire nel cammino delle avventure di Luke Skywalker e soci: senza ombra di dubbio Una nuova speranza resta una pietra miliare del genere e non solo, capace di raccontare una storia universale trasformandola in un giocattolone magico che colpisce ad ogni età e a prescindere dai propri gusti in fatto di strade da percorrere.
E' forse il film simbolo ed il più completo della Saga, quello che giustamente viene preso come modello e riferimento, è sempre una pacchia da guardare e nonostante gli anni invecchia alla grandissima: non è il mio favorito - e sono curioso di scoprire come prenderanno i Fordini L'impero colpisce ancora, a questo proposito -, ma indubbiamente è un titolo che non può mancare nella formazione di un amante della settima arte.
Che la Forza sia con noi.

martedì 12 novembre 2019

White Russian's Bulletin



Nuova settimana di visioni e nuovo ritardo ormai standardizzato per la pubblicazione del Bulletin, che alterna recuperi da piccolo schermo a novità sul grande, passando per la consueta tappa che prevede una certa dose di Prime o Netflix settimanali.
Nulla che fosse clamoroso, ma visioni oneste e a loro modo solide che hanno accompagnato le sempre più difficili - in termini di capacità di restare svegli - serate da divano in casa Ford: considerate le aspettative della vigilia legate alla maggior parte dei titoli in questione, direi che è andata anche più che bene.


MrFord




THE WALL (Doug Liman, USA, 2017, 88')

The Wall Poster


Pescato praticamente per caso dalla piattaforma di Prime - ultimamente utilizzata come alternativa a Netflix -, firmato dal Doug Liman di Edge of tomorrow e The Bourne Identity, legato a doppio filo al filone dei film di guerra made in USA ispirati ai fatti dell'ultimo decennio figli dell'Undici Settembre e legati a Iraq e Afganisthan nella migliore tradizione di Peter Berg - pur senza essere così spiccatamente patriottico -, The Wall è stata una piacevole sorpresa nonostante sulla carta si presentasse come la più clamorosa delle tamarrate a stelle e strisce.
Strutturato come un thriller di stampo teatrale - due personaggi e la voce di un terzo, uno spazio ristretto -, il lavoro di Liman sfiora, volontariamente o no, tutte le possibili sequenze da retorica a stelle e strisce con cammino già indirizzato verso il più ovvio dei finali per poi diventare una coraggiosa parabola discendente rispetto alla crudeltà della guerra, all'impossibilità ad uscirne davvero, alla sensazione di dover e voler prevalere necessariamente sull'avversario pensando di avere sempre le ragioni e le giustificazioni per farlo.
Con questo non voglio caricarlo di un peso e di un valore forse troppo grande, ma penso si tratti di uno di quei titoli che, erroneamente, finiscono per essere sottovalutati per partito preso.
Un pò come quando, in guerra, credi di essere inevitabilmente dalla parte giusta.





SCARY STORIES TO TELL IN THE DARK (Andre Ovredal, USA/Canada, 2019, 108')

Scary Stories to Tell in the Dark Poster


L'horror ad Halloween, o nel periodo della Notte delle streghe, è più o meno una tradizione almeno quanto quello da visione estiva, con risultati spesso - purtroppo, per un appassionato del genere come questo vecchio cowboy - ben lontani dai fasti dei cult che hanno popolato gli incubi dei fan negli anni settanta e ottanta.
Per quanto abbia sempre discretamente stimato il lavoro di Andre Ovredal - interessante Autopsy, molto bello The troll hunter -, credevo che, con questo Scary stories to tell in the dark, sarei andato incontro all'ennesimo titolo usa e getta buono per il periodo e per le bottigliate di rito, senza pensare che potesse in qualche modo risultare interessante: al contrario, però, complici una cornice dal sapore vintage ben realizzata ed una struttura che mi ha riportato alla mente quella che fece la fortuna, insieme al suo protagonista, del franchise di Nightmare, ho trovato Scary stories to tell in the dark un valido intrattenimento per il periodo ed i film che si vanno cercando di conseguenza, con la giusta dose di "teen", una parte horror che pare più simile al gusto di Del Toro che non allo scare jump ed un paio di buone idee.
Forse, in alcuni punti, un pò troppo facile in termini di scrittura e legato probabilmente per esigenze di produzione ad un finale che potrebbe essere facilmente agganciato ad un secondo capitolo, ma sono leggerezze che si perdonano ad un titolo che ha più da sorprendere che non da essere bottigliato.
Considerato il genere, è già un successo così.





24: LIVE ANOTHER DAY (FOX, USA, 2014)

24: Live Another Day Poster


Jack Bauer è sempre stato uno degli idoli action di casa Ford fin dai primi tempi della convivenza con Julez: e nonostante 24 fosse un prodotto prettamente action e tagliato con l'accetta come il suo protagonista, nel corso della sua lunga permanenza in televisione è riuscita a regalare alcune stagioni davvero notevoli per intensità, gestione del tempo, colpi di scena e twist narrativi.
A distanza di non so neppure io quanto dalla visione dell'ultima stagione regolare, abbiamo deciso di recuperare la mini che nel duemilaquattordici riportò lo spigolosissimo - per usare un eufemismo - agente segreto sugli schermi, chiudendone in qualche modo la saga senza per questo negarsi lo sfizio di lasciare un'eventuale porta aperta ad un ritorno.
Solo dodici episodi, questa volta, ma la stessa azione di sempre portata in dono dallo stesso Bauer di sempre: reazionario, violento, pronto a fare quello che vuole e quando vuole, additato come un pazzo o un traditore un pò da chiunque e puntualmente portato a sbugiardare chiunque non gli dia credito, se necessario con mezzi non propriamente ortodossi.
Anche in questo caso, tra le vie di una Londra non proprio pronta ad ospitare il furioso agente americano, troviamo colpi di scena, tradimenti, morti, attentati e scontri a fuoco come se piovessero, a dimostrazione che, nonostante un certo appannamento narrativo, il charachter di Bauer era qualcosa di davvero notevole e funzionale per il suo genere e forse non solo, che anche in questo caso, nonostante il tempo si faccia sentire, ricorda a tutti quanti quanto sul piccolo schermo sia difficile - se non impossibile - trovare uno spaccaculi del suo calibro.


lunedì 18 febbraio 2019

White Russian's Bulletin



A questo giro di giostra il Bulletin si presenta incredibilmente più corposo in termini di numero di titoli passati al Saloon negli ultimi sette giorni, quasi l'avvicinarsi della Notte degli Oscar avesse stimolato una ripresa rispetto alla parte finale del duemiladiciotto, una delle più lontane dalla settima arte che possa ricordare di aver vissuto: recuperi, nuove visioni, come di consueto serie che accompagnano i pasti o le serate di stanca di casa Ford. Un pò di tutto, insomma. E, strano a scriversi, per la maggior parte anche valido.


MrFord


OLTRE LA NOTTE (Fatih Akin, Germania/Francia, 2017, 106')

Oltre la notte Poster


Fatih Akin è sempre stato un piccolo idolo, da queste parti, ed il recupero di Oltre la notte, accolto più che bene dalla blogosfera, era doveroso da tempo: il regista turco/tedesco racconta l'odio, l'amore, la vendetta, la passione con la stessa forza dei suoi primi lavori - La sposa turca e Ai confini del paradiso -, appoggiandosi ad un'interpretazione pazzesca di Diane Kruger, che vive il suo personaggio quanto e più di se stessa.
Tensione costante dal primo all'ultimo minuto - incredibile quanto ad ogni passaggio ci si aspetti accada qualcosa -, atmosfere che mi hanno ricordato Polanski, tematiche importanti ed attuali gestite ed affrontate da un punto di vista non solo diverso, ma anche coraggioso e legato a molteplici interpretazioni e punti di vista.
Un film a suo modo imperfetto e figlio dell'istinto, che lascia il segno anche e soprattutto per l'istinto stesso.




SE LA STRADA POTESSE PARLARE (Barry Jenkins, USA, 2018, 119')

Se la strada potesse parlare Poster


Barry Jenkins aveva già conquistato il mio cuore di spettatore con Moonlight, che forse ero stato tra i pochi a preferire al pur stupendo La La Land. Se la strada potesse parlare è un titolo più sommesso di quello che ha portato alla ribalta il regista, più canonico, meno visibile e vendibile. 
Ed è anche un titolo che può apparire meno di quanto non sia in realtà.
In fondo, si tratta di una storia d'amore, di qualcosa di semplice, fin troppo, che pare confezionato per una conferma nella notte delle statuette più ambite del Cinema.
Eppure, Se la strada potesse parlare è decisamente qualcosa in più: è una storia che contrasta l'odio raccontando la rabbia e l'indignazione dal punto di vista dell'amore, la fantasia di un libro o di un film con quello che sarebbe il compromesso della realtà - splendida l'evoluzione finale -, eleganza trasformata in semplicità da una Jenkins ispiratissimo che mi ha riportato alla mente i migliori James Gray e Wong Kar Wai, intensità pazzesca di tutto il cast.
Una storia che, se non fosse vera, lo diventerebbe grazie alle sue immagini.




RALPH SPACCA INTERNET (Phil Johnston&Rich Moore, USA, 2018, 111')

Ralph spacca Internet Poster


Approfittando - o cercando di sopravvivere - ad una giornata intera passata con i Fordini reduci dall'influenza chiusi in casa, ho approfittato per recuperare Ralph spacca Internet, sequel del piacevole Ralph spaccatutto di qualche anno fa e primo film visto dal Fordino ad una festa di una compagna di scuola in sala senza di noi, in linea con il periodo di pre-adolescenza che sta vivendo.
La Disney, ad ogni modo, continua a sapere quello che fa, e con questo secondo Ralph riesce a dare un colpo al cerchio e uno alla botte divertendo i piccoli e strizzando l'occhio ai grandi con l'introduzione di Internet come mondo da scoprire per Ralph e Vanellope ed una serie di trovate metacinematografiche davvero sfiziose - il passaggio nel mondo delle principesse Disney è forse la parte meglio riuscita della pellicola -: il ritmo c'è, il messaggio anche, ci si diverte e alla fine, come è giusto che sia, si trova anche il giusto spazio per i sentimenti. Bene così.




TITANS - STAGIONE 1 (Netflix, USA, 2018)

Titans Poster


In un periodo di stallo rispetto alle proposte da piccolo schermo da poter associare ai pasti senza turbare troppo i Fordini siamo incappati grazie al bacino di Netflix in Titans, una sorta di versione DC Comics degli X-Men marvelliani: conosco poco delle storie a fumetti di questi charachters essendo sempre stato un fan di Mamma Marvel - curioso che i due che conoscevo meglio, Batman e Robin esclusi, siano Hawk e Dove, praticamente sconosciuti -, dunque mi sono avventurato nella visione libero da confronti e pregiudizi vari. A prima stagione finita posso dire che il tentativo è stato fatto e a tratti è risultato anche apprezzabile, ma l'atmosfera decisamente televisiva ed un finale troppo aperto - tanto che con Julez pensavamo non fosse neppure l'ultimo episodio - hanno penalizzato il risultato. Dovessimo decidere di affrontare la season two, posso solo sperare in una ripresa.




NON CI RESTA CHE IL CRIMINE (Massimiliano Bruno, Italia, 2019, 102')

Non ci resta che il crimine Poster

Il Cinema italiano, si sa, da queste parti ha sempre vita difficile, a meno che non sia figlio delle grandi stagioni del passato. Di recente, però, complici un paio di attori ed una giusta dose di leggerezza, ho imparato ad apprezzare anche qualcosina di nostrano buona per accompagnare qualche serata senza pensieri. Non ci resta che il crimine può essere inteso in questo senso: senza troppe pretese, Massimiliano Bruno ed una squadra di caratteristi consolidata portano a casa una versione molto pane e salame di Ritorno al futuro in salsa Banda della Magliana che diverte ed intrattiene, non fa strappare i capelli ma conserva una sua dignità, tra il ricordo dei Mondiali dell'ottantadue ed un riscatto verso la vita di chi pensa di essere sconfitto dalla stessa.
Ennesima conferma della funzionalità della coppia Gassman/Giallini.


venerdì 27 aprile 2018

Homeland - Stagione 6 (Showtime, USA, 2017)





Nel corso delle ultime stagioni, pochi serial possono vantare di avere avuto un impatto simile a Homeland sul pubblico e gli appassionati: ricordo ancora oggi con i brividi le prime due annate di questa proposta che mescola dramma, attualità, spionaggio ed azione, talmente cariche di tensione da risultare a tratti addirittura insostenibili, e rese esplosive - in tutti i sensi - dalla coppia formata da Damien Lewis e Claire Danes, perfetti per i ruoli loro ritagliati dagli autori.
Con il tempo e la morte del personaggio di Brody - interpretato da Lewis, per l'appunto - Homeland è riuscita nella non facile impresa di mantenere sempre molto alta la qualità del suo prodotto pur risultando più fredda nell'approccio, orfana di un charachter tra i più memorabili mai giunti sul piccolo schermo ma pronta a contenere i danni sfruttando la crescita del maestro della protagonista - il Saul Berenson di Mandy Patinkin che per me rimarrà sempre e comunque l'Inigo Montoya de La storia fantastica - e l'inserimento di un nuovo "compagno" - il Peter Quinn più immortale di Ciro Di Marzio, interpretato da Rupert Friend -.
Con questa stagione numero sei, l'azione torna sul suolo statunitense dopo gli anni trascorsi da Carrie in Medio Oriente ed in Europa, ricordando quasi più nell'evoluzione un'annata di 24 che non i dubbi e le paure dei primi anni, sfruttando il dissenso creato ad arte all'indirizzo della Presidente eletta, osteggiata dall'interno e dall'esterno da un gruppo disposto a tutto pur di ribaltare la decisione popolare finendo per dare inizio ad un'escalation nell'abuso di potere della stessa futura Presidente USA che pare, con il season finale, pronta a scavalcare - a quanto sembra anche dalle anticipazioni della settima stagione, a breve in rampa di lancio negli States - dalla realtà alla distopia abbandonando definitivamente i binari estremamente realistici dai quali era partita.
Una scelta che potrebbe risultare un azzardo, in positivo o in negativo, e che pone qualche dubbio quantomeno sulla chiusura dell'ennesima stagione solida seppur non travolgente, che vede un Quinn creduto morto - almeno dal sottoscritto - in chiusura della quinta stagione tornare in una veste decisamente non facile, Dar Adal divenuto una sorta di eminenza grigia con la quale fare i conti e tutti i giochi di potere legati alla Presidenza pronti a risultare ben più pericolosi e macchinosi di qualsiasi piano terroristico orchestrato da una minaccia esterna.
In fondo, sono molti i detti pronti a ricordare quanto pericoloso possa essere chi sta al nostro fianco rispetto a chi affrontiamo a viso aperto, e guerre civili, dittature e ferite nella Storia dell'Umanità sono pronte a testimoniare quanto, in passato, i peggiori disastri per i popoli hanno trovato la loro origine e la loro forza proprio nel cuore dei paesi che le genti chiamavano casa: in questo senso, la nuova direzione data ad Homeland potrebbe significare un tentativo per sensibilizzare rispetto a quanto il Potere possa corrompere e rivoltare gli uni contro gli altri oppure il naufragio di una proposta tra le più interessanti che il piccolo schermo abbia avuto la fortuna di regalare al pubblico.
In attesa di scoprirlo con la settima stagione, in casa Ford si continua a correre il rischio per battersi accanto a Carrie Mathison, che con tutti i suoi difetti, è riuscita a costruire qualcosa che forse neppure lei, fin dal principio, si sarebbe aspettata: qualcosa che spero davvero possa mantenersi vitale quanto la sua pur problematica eroina.



MrFord



 

martedì 20 marzo 2018

Ore 15:17 - Attacco al treno (Clint Eastwood, USA, 2018, 94')




Non è stato facile approcciare l'ultimo lavoro di Clint Eastwood, mio nonno cinematografico nonchè quello che considero il John Ford della nostra epoca: senza girarci troppo intorno, penso infatti che 15:17 - Attacco al treno, ispirato al tentativo di attentato sul convoglio che da Amsterdam viaggiava verso Parigi il ventuno agosto duemilaquindici impedito principalmente dall'intervento di tre ragazzi americani in viaggio attraverso l'Europa, due dei quali legati ad esperienze militari negli States - e che lo stesso Clint ha voluto, con tutti i rischi e le conseguenze del caso, come interpreti di se stessi sul grande schermo -, abbia deluso praticamente tutti.
Ha deluso il grande pubblico che ne ha dichiarato un successo molto limitato al botteghino - complici, probabilmente, la campagna pubblicitaria che l'ha presentato come un film d'azione serrata quando la descrizione degli eventi è mio parere giustamente collocata nel solo quarto d'ora conclusivo e la presenza di attori chiaramente non professionisti -, i fan Dem del Clint impegnato ed autoriale - pronti a prendere posizioni estreme e quasi radicali contro il loro ex idolo -, i fan decisamente meno Dem - che probabilmente si aspettavano una versione antiterrorismo di Terminator, o cose simili -: in pratica, il vecchio Eastwood ha finito per ritrovarsi con più nemici di quanti se ne sarebbe trovati girando un documentario che esaltasse la figura di Donald Trump.
Ora, io non ho mai fatto mistero delle mie posizioni politiche - decisamente lontane da quelle del Nostro Dirty Harry -, non ho mai sognato di arruolarmi, o di pensare che i miei figli possano avere fin da piccoli familiarità con le armi - pur se giocattolo -, non ho mai sentito vicini i valori di Dio e Patria tipici di un certo approccio, non ho mai giustificato la guerra come atto umano - in termini di etica ed intelligenza -, ho vissuto i racconti dei miei nonni - uno reduce della Campagna d'Africa, l'altro partigiano - e negli occhi di nessuno ho visto esaltazione, o attorno ai loro corpi un'aura mitica da supereroi. Si trattava - e si tratta - di persone normali, con i loro limiti, il loro modo di intendere e vedere le cose ed il mondo, i loro difetti, i loro pregi, alle prese con eventi decisamente oltre l'ordinario.
Ed è questa, a mio parere, l'idea più importante dietro questo film.
Che non sarà certo il migliore di Clint, non tira fuori emozioni o grandi storie, non coinvolge o sconvolge - se non chi va alla ricerca della polemica politica a tutti i costi -, ma fotografa bene la realtà.
La realtà che dice che siamo persone normali. Lo siamo quando crediamo di essere nel giusto, quando facciamo del bene e quando, al contrario, facciamo del male, quando lottiamo e quando cerchiamo semplicemente di vivere la vita.
Attacco al treno, a ben guardare, racconta il viaggio in Europa di tre amici d'infanzia che vogliono divertirsi e vedere il mondo prima di diventare troppo grandi per rimorchiare a caso e sbronzarsi in discoteca neanche stessimo guardando il filmino delle vacanze di un nostro conoscente in una qualsiasi serata in compagnia. Può apparire banale, inutile, poco rilevante rispetto all'evento che, dal titolo al trailer, dovrebbe raccontare.
Ma è proprio questo il segreto. La normalità. Skarlatos, Stone e Sadler sono ragazzi normali.
Potranno avere valori di riferimento diversi dai miei, ma in fondo girano in Europa come tutti fanno a vent'anni pensando solo a scoprire nuovi posti, bere e trovare più ragazze possibili.
E sinceramente, da non sostenitore della guerra, delle armi e di tutto il resto, mi sta discretamente sul cazzo il fatto che possano rischiare di essere fatti fuori da qualcuno che, a sua volta, è cresciuto con valori di riferimento diversi dai miei.
Perchè al posto loro potrei esserci io quindici anni fa, o i miei figli tra quindici anni.
Personalmente spero che ai Fordini non venga mai l'idea di arruolarsi ed andare a combattere da qualche parte nel mondo rischiando di non tornare a casa, continuerò a mantenere le mie posizioni politiche - assolutamente diverse da quelle di Clint - per tutta la vita, a pensare che non è un arma a rendere più sicuro il mondo, ma uno stato mentale così come uno sociale.
Eppure, fossi stato su quel treno, sarei stato felice che Skarlatos, Stone e Garland fossero lì con me.
E lo sono anche se su quel treno non c'ero.
Sono anche felice di aver visto questo film, perchè se è ovvio che non sia il migliore di uno dei registi migliori degli ultimi quarant'anni - forse, addirittura, uno dei suoi peggiori -, è chiaramente il segno della grande intelligenza dell'uomo dietro la macchina da presa.
Che sarà pure un vecchio repubblicano senza ritegno con il quale, probabilmente, politicamente non riuscirei ad andare d'accordo neppure dopo esserci bevuti una ventina di birre a testa con qualche shot di Jack Daniels in mezzo senza capire più neppure dove ci si trovi, ma da uomo d'esperienza e testa pensante ha mostrato la normalità e, ammettiamolo, la banalità del Male.
Ma fortunatamente, anche del Bene.



MrFord




lunedì 5 giugno 2017

Boston - Caccia all'uomo (Peter Berg, Hong Kong/USA, 2016, 133')





Fin dall'infanzia, complice una certa formazione cinematografica, letteraria e musicale, non ho mai nascosto di amare profondamente gli States, con i loro eccessi, i loro difetti e quella carica che li ha resi - nel bene e nel male - noti in tutto il mondo.
Ricordo benissimo il mio primo viaggio oltre i confini italiani, ottobre del novantaquattro, quando mi ritrovai per le strade di una Grande Mela che parevano uscite dritte dai film, con i negozi aperti ventiquattro ore, una mescolanza di razze e stili di vita che allora qui ci sognavamo, gli squilibri ed il grande calore di una popolazione che potrà senza dubbio spaventare, a volte, ma che ben rappresenta il potere della passione, della partecipazione.
In un'epoca segnata da atti terroristici sanguinosi - New York, Bruxelles, Londra, Parigi, Nizza, Berlino, Boston solo per citarne alcuni -, in cui la violenza chiama violenza senza il minimo rispetto per gli ideali cui afferma di rifarsi - più volte mi è capitato di affermare e pensare che non esista religione, per chi commette atti di questo genere, solo sete di sangue e grande confusione in testa - si è sentito, visto e letto tutto ed il contrario di tutto.
In questi casi, la prima cosa che mi viene da pensare è che la differenza la possano fare sempre le persone. La partecipazione, la passione, la presenza, la volontà, per l'appunto, dei singoli individui pronti a divenire collettivo può e deve essere l'unica risposta a questi atti.
Peter Berg è, probabilmente, il regista più a stelle e strisce - seguendo un certo tipo di approccio un pò tamarro e un pò cazzuto tipico di quella filosofia made in USA che fa spesso e volentieri storcere il naso ai radical europei - attualmente in circolazione, ed in tutta onestà, lo adoro proprio per questo: dalla strepitosa Friday Night Lights allo sguaiatissimo Battleship, passando per la produzione di Ballers e storie vere portate sullo schermo come Lone Survivor e Deepwater, Berg si è fatto il simbolo di quell'americanesimo da retorica, patriottismo e grande cuore che non ho mai nascosto di amare, e che se incanalato nella giusta direzione, diventa una grande lezione per culture dedite al lamento ed al piangersi addosso come la nostra.
Non mi aspettavo, però, che avrebbe potuto addirittura sorprendermi.
Perchè questo Boston non è solo un atto d'amore dichiarato per la passione statunitense - per certi versi, per quanto completamente diverso, è riuscito addirittura a ricordarmi Sully -, ma anche e soprattutto un tesissimo thriller ispirato - purtroppo - a fatti realmente accaduti, una dichiarazione d'amore per una delle città più importanti degli USA, un film corale di pregevole fattura e ritmo da cardiopalma, pronto a scatenare non solo il coinvolgimento dell'audience, ma anche e soprattutto la voglia di mostrare a chiunque ed in nome di qualunque "religione" possa pensare di sporcarsi di sangue le mani che ci sarà sempre qualcuno pronto a mostrare, con atti di coraggio piccoli e grandi, che con il terrore non si può vincere un cuore che batte.
Non è una questione di buoni contro cattivi - gli States hanno provocato, seppur in modo differente, vittime innocenti in tutto il mondo, inutile prendersi in giro -, ma di coscienza collettiva da gente comune, che a fronte di una tragedia si rimbocca le maniche e, se necessario, rompe anche il culo a chi ha provato a mettere a rischio le vite di chi ama.
E come non capirli, dico io.
Ricordo bene quando chiusi il post dedicato ai fatti terribili di Nizza lo scorso anno proprio con il motto di Friday Night Lights: "Clear eyes, full hearts, can't lose".
A Boston, malgrado tutto, ha vinto la vita.
Come dovrebbe sempre essere.
E Berg l'ha raccontato con la passione di chi vuole mostrare proprio questo.




MrFord




 

domenica 15 gennaio 2017

24 - Stagione 8




In questi primi quasi sette anni di Saloon, accanto a novità e scoperte, si è dato ampio spazio, che si parli di Cinema come di piccolo schermo, ai recuperi di titoli divenuti cult per un motivo o per un altro, ai tempi della loro uscita, snobbati dal sottoscritto: uno di quelli più goduriosi è stato senza ombra di dubbio quello di 24, celebratissima da tutti gli amanti dell'action e non solo ai tempi di Lost e giunta al Saloon quando negli States quasi si avviava alla sua (prima) conclusione proprio con questa season numero otto.
La corsa del mitico Jack Bauer, dunque, al termine di otto anni costruiti da momenti memorabili, innumerevoli uccisioni, terroristi neutralizzati e governi - anche statunitensi - rovesciati, giunge al termine nel modo più onorevole, lontana dai fasti del momento migliore della serie - direi senza dubbio le stagioni dalla tre alla cinque - ma sempre in grado di intrattenere qualsiasi pubblico, dai poco avvezzi all'action ai tamarri, dai vecchi fan come il sottoscritto ai nuovi come il Fordino, che non vedeva l'ora di vedere il sempre leggermente reazionario Bauer arrabbiarsi per "spaccare tutto".
A rendere ancora più divertente un'ottava stagione che, ai tempi, segnò il commiato dell'agente speciale americano, un ritmo ed una serie di twists ben orchestrati - nonchè il ritorno di vecchi nemici come Logan - pronti a recuperare terreno su una settima che, indubbiamente, segnava il passo rispetto ad una proposta, come scrissi ai tempi, decisamente figlia degli anni del "bushismo" che, nel pieno dell'era di Obama, trovava poco terreno fertile.
Interessante, comunque, vedere Jack dapprima coinvolto suo malgrado nel tipico intrigo da potenziale attentato che l'aveva visto protagonista in diverse occasioni nel corso di questa cavalcata dunque al centro di un gioco delle parti da infiltrato con la mafia russa e la sua vecchia fiamma Renee Walker, prima di dedicarsi al testa a testa con i potenziali terroristi ed agli intrighi politici pronti a coinvolgere le più alte cariche dello Stato: in questo senso, ottima la scelta di rendere più fragile il personaggio del Presidente Taylor - il primo a non risultare, almeno finora, profetico, rispetto a quanto mostrato da questa serie - e di permettere il rientro di Logan, così come di spostare l'azione dalla strada della prima parte ai corridoi del potere della seconda, sfruttando come collante l'interessante charachter di Dana Walsh, partita in sordina e finita alla grande regalando una delle scene più clamorose pensate per Jack Bauer, forse il protagonista da "sconti a nessuno" più tosto dai tempi del Dirty Harry di Eastwood.
Certo, non si potrà mai pretendere di trovarsi di fronte il titolo che cambia la vita come per i già citati Lost o Breaking Bad, così come l'atmosfera assolutamente ludica di chicche del calibro di Alias, ma 24 è e resta parte integrante della storia delle serie televisive, una sorta di risposta del piccolo schermo al Die Hard figlio della settima arte, con un protagonista che difficilmente i fan dimenticheranno, e che non vedo l'ora di tornare a vedere in azione nel sequel andato in onda un paio d'anni or sono che, almeno per ora, chiude il discorso con il franchise mantenendo inalterata la squadra vincente Bauer/O'Brien in attesa del reboot atteso per febbraio, che cambiando protagonista potrebbe, purtroppo, non avere la stessa fortuna dell'originale.
A prescindere da tutto, da come sono andate o come andranno le cose, senza dubbio Jack Bauer avrà sempre un posto speciale, nel cuore del sottoscritto e degli spettatori: fosse anche solo per essere uno dei migliori scacciapensieri in un'epoca in cui, purtroppo, alcuni avvenimenti incredibili - e non in senso buono - hanno finito per trovare più spazio nella realtà che non nella fiction.



MrFord



 

mercoledì 12 ottobre 2016

Eye in the sky - Il diritto di uccidere (Gavin Hood, UK/Sud Africa, 2015, 102')



Ricordo bene quando, nel periodo di vacanza al mare, accanto all'intrepida suocera Ford, in una serata in terrazza con il vento che arrivava dalla spiaggia e si pensava che l'estate non potesse finire mai, ci buttammo nella visione di Good Kill, prodotto dallo stesso Andrew Niccol di Lord of war - piccolo cult da queste parti - ed incentrato sulle ombre della guerra filtrata attraverso l'utilizzo dei droni.
Un prodotto non male, centrato per alcune cose, poco a fuoco per altre, che ben si inseriva in un ideale percorso tracciato da prodotti di ben altra caratura come The Hurt Locker, American Sniper o Zero Dark Thirty.
Questo Eye in the sky, uscito piuttosto in sordina dalle nostre parti e snobbato discretamente dal sottoscritto principalmente a causa del suo regista, quel Gavin Hood che non ho mai amato nei suoi tentativi più autoriali - Il suo nome è Tsotsi - così come in quelli prettamente mainstream - Wolverine: Origins -: caldeggiato, però, da un paio di colleghi fidati e recuperato in lingua originale, in un pomeriggio di relax in solitaria - evento raro in casa Ford, e propiziato alle prime esperienze sportive del Fordino -, si è rivelato una vera e propria sorpresa.
Costruito sulle regole del thriller classico più che su quelle del film bellico ed incentrato sul gioco delle parti tra USA, Gran Bretagna e servizi segreti africani rispetto alla cattura - prima - ed all'eliminazione - poi - di alcuni tra i sospettati più pericolosi ricercati dai due colossi occidentali, radunatisi in una comune abitazione per addestrare due potenziali attentatori suicidi, dalle questioni legali alle responsabilità effettive di chi si ritrova, a migliaia di chilometri di distanza, a premere il pulsante che darà la morte ad un numero imprecisato di persone, colpevoli oppure no, Eye in the sky centra il bersaglio, e lo fa alla grande.
Supportato da un cast di prim'ordine - sempre ottima Helen Mirren, bravissimo Alan Rickman, che morì nel corso della post produzione di questo film, alla cui memoria è dedicato - e scandito da un ritmo ad orologeria che tiene inchiodati dall'inizio alla fine nonostante, di fatto, non si parli per nulla di un film "di guerra" in senso letterale del termine e l'azione fisica resti molto ai margini, il lavoro di Gavin Hood ha dalla sua il grande merito di portare a galla questioni etiche e domande che difficilmente abbandoneranno lo spettatore anche al termine della visione, pronte a stimolare confronti ed eventuali discussioni: in questo senso, una frase pronunciata dal charachter del già citato Alan Rickman finisce per far male quanto una ferita aperta, "Non dica mai ad un soldato che non conosce il prezzo della Guerra".
In questo senso, quale posizione prendereste voi?
Stareste con i politici inglesi, pronti a lasciare andare i due potenziali attentatori suicidi perchè in caso di effettiva messa in opera dei propositi degli stessi si vincerebbe la guerra mediatica contro chi li ha armati?
O con quelli statunitensi, che di fronte all'idea di avere sotto tiro tre bersagli importanti non hanno intenzione di guardare in faccia a nessuno, danni collaterali compresi?
O con il generale anglosassone che prima di dare inizio all'operazione passa a comprare le bambole per quelle che potrebbero essere le sue nipoti prima di affrontare la possibilità che una bambina che potrebbe avere la loro età rischia la morte in nome di una causa più grande, quella della guerra della quale "ogni soldato conosce il costo"?
Con chi deve premere il grilletto che farà partire il missile dall'altro capo del mondo e che ha scelto un lavoro in aeronautica perchè gli permetteva di saldare i debiti maturati con il college o con chi deve sottostimare i danni dell'impatto in modo che venga approvata la missione, a prescindere dai propri sensi di colpa, dalle remore morali o dai rischi prettamente professionali?
Con i genitori di una bambina che potrebbe morire, che non favoreggiano gli estremisti ma che, spinti da una tragedia, potrebbero cominciare a prendere in considerazione come unica alternativa ad un invasore straniero che da migliaia di chilometri spazza via i loro figli?
La Guerra, purtoppo, e come la Storia insegna, non ha una ragione o un torto, ma sempre un costo: dall'antichità fino a Churchill, passando per Turing, sono molti gli esempi di sacrifici compiuti in nome di una vittoria - effettiva o no, è tutto da vedere - e spesso il punto di vista ed il lato della barricata cambia la percezione delle cose.
Quello che è certo, è che si tratta di un'espressione del peggio che l'Uomo può fornire alla civiltà ed al pianeta, che si parli di antichi campi di battaglia o di droni dalla tecnologia avanzatissima in grado di fare cose che fino a qualche anno fa pensavamo fossero fantascienza.
Per il resto, è difficile prendere una posizione che, in caso di conflitto, non sia mossa dall'istinto di sopravvivenza.




MrFord




venerdì 15 luglio 2016

Nizza


Difficilmente, da queste parti, si parla di attualità.
Ho sempre preferito tenere politica, cronaca e vita di tutti i giorni fuori dal Saloon, quasi per imitare la magia operata dal Cinema quando, in sala, restano solo il potere dello schermo e delle sue storie a portarci via, in un altro mondo, da un'altra parte.
Eppure, ieri sera, ho sentito qualcosa, una pulsione che non era stata così forte rispetto ad alcuno degli attentati terroristici operati in Francia, Belgio e Turchia negli ultimi mesi.
Non riesco a spiegarmi se questa pulsione sia mossa dal fatto che, ormai, questi atti di follia si manifestino quasi come scene di film, quegli action che tanto amo all'interno dei quali arriva sempre l'eroe indistruttibile a fare il culo a strisce ai cattivi di turno e che sono un modo naif e molto semplice di filtrare la realtà ed i suoi problemi, oppure se è perchè sia avvenuto nel giorno che, storicamente - essere francesi oppure no conta relativamente - ricorda Libertà, Uguaglianza, Fraternità.
Non mi è mai capitato di avere paura di questo tipo di cose - forse ho sempre pensato che sarebbe stato come darla vinta a chi vuole vivere nel terrore -, e fin dai tempi dell'undici settembre duemilauno non ho mai sostenuto chi ha predicato la violenza e l'odio come risposte - in fondo, non possono che alimentare il succitato odio -: ho sempre cercato di andare oltre, di non pensare che l'arabo accanto a me in metropolitana fosse pronto a farsi saltare o ad aprire il fuoco con un'arma, o preferire restare a casa, piuttosto che prendere un aereo e scoprire un altro pezzo di mondo.
Ieri sera, invece, il primo pensiero è andato ad Alessandro Leone e Rebecca Demetra, che io sogno possano crescere e scoprire proprio il mondo, magari andare a studiare o lavorare all'estero in modo da avere una scusa per seguirli: i loro occhi sono pieni di curiosità e delle magia che solo i bambini regalano alle cose, occhi innocenti che non hanno ancora conosciuto le tonnellate di merda che la vita mette di fronte a tutti noi, a chi più e a chi meno.
E ho dovuto fare uno sforzo razionale sovrumano per non lasciarmi travolgere dall'istinto di voler combattere questa massa di stronzi e l'odio che riescono a scatenare in un'altra massa di stronzi - che ora alle presidenziali americane correrà a votare per Trump facendone un nuovo Bush, o darà voce ai LePen o ai Salvini qui nel Vecchio Continente - con le loro stesse armi, per non avere paura che un giorno i Fordini possano trovarsi da qualche parte sulla Terra, pronti a partire o a tornare, a festeggiare o semplicemente a godersi la vita, e qualche sacco di merda con in testa un pericoloso mix di follia ed ignoranza possa togliere loro tutto quello che hanno.
Al lavoro, uno dei ragazzi che si occupa della sicurezza è senegalese, musulmano osservante e praticante, una delle persone più fedeli - nel senso religioso del termine - che abbia mai conosciuto, sempre pronto a sorridere, a giocare con i bambini e a dichiarare che la violenza - verbale e fisica - sia una delle assurdità più grandi del mondo: non l'ho mai visto, effettivamente, in questi anni, una sola volta anche solo irritato.
Ricordo che, ai tempi degli attentati in Belgio, mi disse di essere sconcertato, perchè chi manovra questi killer e riempie loro la testa di bugie non solo non conosce il Corano, ma della religione e dei precetti che la stessa vorrebbe fossero seguiti non sa nulla: e lui per primo, che crede eccome, non rinuncerebbe mai alla sua vita per qualcosa che, detto sempre da credente, non sa neppure se esista davvero.
Dice sempre che ama vivere, proprio come me.
E forse, chissà, è questa la risposta.
Amare la vita come se si fosse bambini, spalancare gli occhi e la mente, scoprire il mondo, i suoi confini e le sue varietà, confrontarsi fieri con la paura e l'ignoranza e l'odio, e non distogliere mai lo sguardo: l'uomo è assurdo e crudele, ma anche capace di atti di coraggio, di fede e d'amore straordinari.
Io non credo debba esserci nulla di straordinario, nel vivere.
Perchè vivere è già straordinario.
Ed io voglio vivere. Voglio che i miei figli vivano.
Nessuno potrà prevedere nulla - del resto le casualità ed il destino sono sempre beffardi e "lostiani" -, nessuno può sapere nulla - ed in questo, sono felice di essere un ateo miscredente -, nessuno, da una parte o dall'altra delle barricate di questa guerra sempre più assurda, potrà costringermi con l'odio, la paura, l'ignoranza e la violenza,  di vivere e godere della vita quanto più mi sarà possibile.
E spero di poter insegnare questo, ai miei figli.
E quando avvenimenti come quelli di Nizza scuotono le coscienze, più che rifugiarsi in hashtag e catene su Facebook, pensare che negli occhi dei bambini, curiosi e vivi, e nell'esempio di chi ha trovato una risposta per affrontare queste domande - da Gandhi a Falcone e Borsellino - c'è già tutto quello di cui abbiamo bisogno per superare l'ennesima prova con la quale la parte peggiore della nostra umanità ci mette a confronto.
Qualche hanno fa, nella splendida serie Friday Night Lights, tutta americana, con Julez ci emozionammo ascoltando un motto che mai come oggi sento adatto alla situazione: "Clear eyes, full hearts, can't lose".
Gli occhi ed i cuori di chi vuole vivere.
Gli occhi di chi ha già vinto.
Nonostante il dolore, nonostante la paura, nonostante l'odio.




MrFord

sabato 4 giugno 2016

Rebellion - Il caso Litvinenko

Regia: Andrey Nekrasov
Origine: Russia
Anno: 2007
Durata:
105'








La trama (con parole mie): il ventitre novembre del duemilasei muore a Londra, a seguito di un avvelenamento da polonio 210, Alexandr Litvinenko, ex agente dei servizi segreti russi divenuto un fermo oppositore del regime di Putin ed un dissidente rispetto alle colpe che gli stessi organi di controllo dei quali faceva parte affermava avessero in relazione ad eventi tragici come gli attentati a Mosca del novantanove, imputati ai terroristi ceceni.
Il suo amico e confidente, il regista Andrey Nekrasov, grazie a filmati di repertorio ed interviste raccolte nel corso degli anni e della vita da esule di Litvinenko, costruisce un documento che accusa pubblicamente il governo Putin e denuncia - grazie anche alle citazioni di personaggi fondamentali come quello della giornalista Anna Politkovskaja - tutte le ombre di quella che, più che democrazia, appare dittatura mascherata.








Non credo di avere mai avuto il carattere migliore, per poter pensare di sopportare idee totalitarie o "di regime", a prescindere dalle posizioni politiche - anche perchè, di fatto, quando si raggiungono gli estremi si finisce per essere sempre paurosamente simili -: fin dall'adolescenza, ho manifestato uno spiccato senso di ribellione rispetto al potere costituito così come all'arroganza di chi lo esercita, e quando non ho potuto contrastarlo apertamente, ho sempre cercato, in qualche modo, di fregarlo senza che potesse accorgersene.
Ricordo vagamente dai telegiornali la morte di Litvinenko, ex agente segreto russo divenuto dissidente del governo Putin, giunta sulla scia dell'ancora più clamorosa uccisione di poco precedente della giornalista Anna Politkovskaja, le polemiche sul ruolo dell'Italia nello stesso avvelenamento, le accuse ed i processi ovviamente finiti in fumo una volta sedimentatasi la notizia: onestamente, io stesso dopo il clamore del momento avevo accantonato la questione fino a quando, grazie a Julez ed alle sue dritte rispetto allo streaming di Mymovies, ho recuperato questo Rebellion - Il caso Litvinenko, un accorato omaggio del suo regista Andrey Nekrasov allo stesso ex agente segreto, frutto della collaborazione e dell'amicizia che si era creata tra i due nel corso degli anni.
Da appassionato di documentari, devo ammettere che questo Il caso Litvinenko non è, cinematograficamente parlando, il meglio che si possa chiedere: è fazioso, poco obiettivo, arrangiato probabilmente con mezzi limitati e molto influenzato dalla componente emotiva del suo autore, pronto a fare leva anche su immagini molto forti - i bambini ceceni di un suo lavoro precedente, lo stesso Litvinenko sul letto di morte - pur di testimoniare un dramma che noi occidentali abbiamo vissuto soltanto attraverso la narrazione filtrata dei media, asserviti ai grandi poteri o no, che fossero.
Eppure, per quanto non perfetto, questo lavoro assume una grande importanza in quanto testimonianza della determinazione e della passione di chi lotta contro il sistema quando lo stesso pare senza controllo, travolto dalla febbre del Potere e tutto quello che dallo stesso consegue: pulite oppure no, colpevoli in cerca di redenzione o semplicemente martiri, persone come Litvinenko sono simboli ai quali non si dovrebbe mai rinunciare, perchè stimoli fondamentali non solo nelle lotte per i diritti civili, ma anche e soprattutto per il Diritto principale, quello della Libertà.
Di pensiero, opinione, culto e qualsiasi altra cosa possa passarvi per la mente.
Certo, pensare di essere in qualche modo paladini super partes apparirà sempre esagerato, ma le voci di chi continuerà ad avere il coraggio di dire anche solo semplicemente no, o denunciare qualcosa che non si ritiene giusto, saranno le basi per società speriamo più giuste che si costruiranno - sempre speriamo - in futuro: in fondo, le vite e le morti di tutti questi combattenti sono state fondamentali per garantire a tutti noi, nel pieno degli Anni Zero, anche quel poco di Diritti che abbiamo o che crediamo di avere, o che i nostri antenati non potevano neppure sognare per il più fortunato dei loro discendenti.
Senza dubbio i Putin, i despoti ed i tiranni continueranno ad esistere ed imperversare, ma sapere che c'è qualcuno che non ha paura di battersi contro di loro anche quando la morte arriva a bussare alla sua porta, è assolutamente confortante.
E li fa sembrare tutti molto più deboli di quanto non vogliano apparire circondati da tutto quel Potere.





MrFord





"Ti muovi sulla destra poi sulla sinistra
resti immobile sul centro
provi a fare un giro su te stesso, un giro su te stesso."
Franco Battiato - "Il ballo del potere" -





giovedì 2 giugno 2016

Carlos - Il film

Regia: Oliver Assayas
Origine: Francia, Germania
Anno: 2010
Durata: 160'







La trama (con parole mie): assistiamo alla vicenda che vide, tra il settantaquattro ed il novantaquattro, Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, divenire uno dei ricercati più pericolosi - o ritenuti tali - del mondo, una sorta di rockstar della lotta armata e dei tentativi di rivoluzione che tra Europa, Medio Oriente, Africa e Sud America ai tempi mischiavano ideali e crudeltà.
Uomo di punta a Londra per i gruppi palestinesi in lotta con il Mossad a seguito dell'attentato alle Olimpiadi di Monaco del settanta, dunque leader del raid al raduno dell'Opec a Vienna nel settantacinque prima di divenire un fuggitivo ed un cane sciolto, seguiamo il percorso che trasformò Carlos non solo in un criminale temuto in ogni continente, ma anche una risorsa per governi, aspiranti terroristi, dittatori e chiunque necessitasse di una consulenza e disponesse dei fondi per sostenerla.











L'ambientazione anni settanta mescolata al crime è stata una delle grandi traghettatrici del sottoscritto nei primi anni dell'amore per il Cinema autoriale, da Scorsese a Cimino, passando per Coppola e tutta la grande produzione americana figlia del periodo della New Hollywood ma lontana dalla stessa spesso e volentieri per idee politiche e potenza - intesa come violenza - della messa in scena.
Il segno di quelle visioni, unito alla sempre grande passione per il crime e le storie vere - anche quando romanzate ad uso e consumo dei prodotti di fiction -, rende oggi magnetiche le proposte che, almeno sulla carta, sono in grado di ricordarle, anche quando i risultati non sono clamorosi o esaltanti come ai bei tempi - e mi tornano in mente i recenti Legend, Black mass e Iceman -: Carlos, produzione targata HBO vincitrice del Globe nel duemilaundici come miglior miniserie firmata dall'ottimo Olivier Assayas - autore di Clean e Sils Maria -, è indubbiamente parte della categoria, e da un paio d'anni, ormai, mi attendeva in bluray dopo un acquisto - ormai sono sempre più rari - a scatola chiusa giunto a causa di un'offerta "che non potevo rifiutare" - due euro, il prezzo definitivo per tutti gli appassionati -, in attesa del tempo e della freschezza necessari per approcciarla.
Approffitando, in questo senso, delle tre settimane di ferie prese a cavallo della nascita della Fordina, ho finalmente potuto colmare una delle pochissime lacune rispetto alla mia videoteca "fisica" - che vede, sui penso duemila titoli presenti, direi una quindicina che ancora non sono effettivamente passati dal lettore - confidando nella recensione entusiastica che Bradipo fece di questo titolo qualche anno fa: peccato che, a conti fatti, la versione in mio possesso - quella distribuita a livello cinematografico - perda davvero tantissimo rispetto a quella integrale premiata, per l'appunto, con il Globe e legata al piccolo schermo, risultando non solo troppo patinata - benchè ben realizzata - ma tagliata con l'accetta a tal punto da disorientare lo spettatore ed irritare l'appassionato, concedendo uno spazio spropositato alla prima parte della narrazione - che vede la presentazione del personaggio di Carlos ed il resoconto delle sue prime imprese a Londra e Parigi - per poi sforbiciare sempre più minuto dopo minuto, tanto da sconvolgere per l'appiattimento dell'intera seconda parte, quella che racconta da vicino la lenta caduta - o quantomeno, lo scivolare nel dimenticatoio soprattutto dell'opinione pubblica - di un terrorista divenuto una sorta di rockstar nel corso degli anni settanta, un uomo fuori dal tempo incapace di accettarsi per quello che era stato ed era diventato.
La sensazione, in questo senso - e con le dovute proporzioni - è stata la stessa provata di fronte all'edizione in dvd de I cancelli del cielo di Cimino - che ho prontamente recuperato nella sua quasi versione integrale grazie alla rete, e della quale spero di poter presto scrivere -: un'opera monca, dimezzata rispetto alla sua effettiva struttura e poco incisiva proprio a causa dei tagli operati per poterla presentare anche in sala come fosse un lungometraggio.
Un vero peccato, perchè se distribuita in due parti Carlos avrebbe potuto, di fatto, divenire la sorella gemella dell'ottimo Nemico pubblico dedicato alla figura di Jacques Mesrine, altro personaggio di spicco della criminalità del periodo che vide l'ascesa di questo terrorista così attento al suo successo da risultare quasi in aperto contrasto con la parte più radicale della sua indole.
Ottimo, comunque, il protagonista Edgar Ramirez, pronto a cambiamenti fisici importanti - il passaggio dalla sua versione gonfia e sovrappeso a quella perfettamente in forma è davvero notevole - così come la sensazione di inesorabile e lento tramonto pronto ad abbracciare anche chi è abituato a vivere al massimo perchè nato, cresciuto e formato all'interno di situazioni che non prevedono cali di adrenalina di nessun genere.
Un titolo, dunque, che un appassionato del genere non può perdere, ma che è obbligato, proprio perchè appassionato, a recuperare nella sua versione integrale.
Perchè non farlo sarebbe come non avere un piano di fuga pronto nel momento in cui si prepara un colpo destinato a restare nella memoria.





MrFord





"Through sixty-six and seven they fought the Congo war
with their fingers on their triggers, knee-deep in gore
for days and nights they battled the Bantu to their knees
they killed to earn their living and to help out the Congolese."
Warren Zevon - "Roland the headless thompson gunner" -





mercoledì 27 aprile 2016

Il segreto dei suoi occhi

Regia: Billy Ray
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
111'







La trama (con parole mie): nel pieno della lotta al terrorismo post-undici settembre, un team di investigatori scopre che la figlia di una dei membri dello stesso è stata violentata ed uccisa prima di essere scaricata in un cassonetto accanto ad una moschea già sorvegliata a causa dei possibili legami con cellule pronte ad attaccare Los Angeles.
Quando i sospetti si concentrano su Marzin, un giovane frequentatore della moschea stessa, i coordinatori dell'indagine cercano in tutti i modi di mettere un freno a Ray Kasten, deciso a catturare il colpevole dell'omicidio, in modo da non pregiudicare l'intera operazione: quando i conflitti interni diverranno così evidenti da non poter essere più arginati, Kasten abbandonerà l'incarico ed il tempo trascorrerà.
Tredici anni dopo, convinto di aver ritrovato Marzin sotto un'altra identità, Ray tornerà dai suoi vecchi colleghi in modo da riaprire il caso che ha sconvolto le loro vite: ma le cose non andranno come poteva sperare.










E' universalmente noto ad appassionati e non di Cinema quanto possa essere difficile realizzare sequel all'altezza degli originali, che possano appassionare e convincere senza risultare copie sbiadite degli stessi, conquistare se possibile una parte di pubblico ancora maggiore - discorso già fatto ieri, tra l'altro, rispetto a Il cacciatore e la regina di ghiaccio -.
Allo stesso tempo, penso sia ancora più difficile realizzare un remake che possa in qualche modo eguagliare il livello - quando è buono - del titolo che l'ha ispirato, riuscendo all'occorrenza anche ad aggiungere qualcosa che ne definisca addirittura una profondità maggiore: in questo senso, in tempi recenti l'unico titolo che posso pensare di inserire in questa categoria è il Millennium di David Fincher, in grado di superare - e neppure di poco - il suo epigono scandinavo, ma parliamo, comunque, di merce molto rara.
Il segreto dei suoi occhi, film cileno vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel duemiladieci, per tematiche, tecnica ed intensità emotiva, aveva fatto breccia nel mio cuore ai tempi della sua uscita, lasciando un segno che ancora oggi posso quasi toccare con mano: l'idea di un remake in salsa a stelle e strisce già di partenza risultava, a prescindere dalla così breve distanza temporale dal suo ispiratore, davvero fuori luogo, anche e soprattutto perchè priva della carica che la questione della dittatura di Pinochet garantiva al lavoro originale di Campanella, qui presente in veste di produttore.
Il risultato, senza dubbio ottimamente portato sullo schermo e reso interessante da un cast di prim'ordine - dalla Kidman ad un'ottima Julia Roberts, passando per Chiwetel Ejiofor -, in grado di funzionare discretamente come thriller a sè stante, finisce però per perdere nettamente il confronto, dimostrandosi ad un tempo privo del carattere necessario per risultare in qualche modo memorabile per chi non ha ancora avuto modo di gustarsi l'originale, della tecnica per emularlo - sequenze come quella dello stadio, per quanto ben trasposte, parlano da sole - e soprattutto in grado di far ricredere chi, come questo vecchio cowboy, lo approcciava con il dubbio che non potesse esserne all'altezza.
Non che questo secondo Il segreto dei suoi occhi sia un brutto film - anzi, oserei dire il contrario -, che non coinvolga - del resto, le tematiche restano profonde ed importanti, pur cambiando l'ordine degli addendi, per dirla come ai tempi della scuola - o non catturi l'attenzione quanto basta per rimanerne avvinti: più che altro, pare mancare la scintilla che distingue i grandi film da quelli che si possono guardare - o riguardare - al loro passaggio in tv ma finiscono per essere sempre e comunque pellicole tra le tante, perse nell'oceano di proposte di un genere - come il thriller - decisamente sfruttato soprattutto oltreoceano.
Un risultato a metà, dunque, per Billy Ray ed il suo cast, di quelli che funzionano ma non convincono, non hanno nulla di cui rimproverarsi ma, allo stesso tempo, che possa davvero distinguerli dal resto: sarei comunque eccessivo se affermassi di non essermi goduto la visione - e quasi mi sentirei di consigliarla a tutti coloro che ancora non avessero visto l'originale, fosse anche solo un tentativo per approcciare il genere -, o allo stesso tempo promuoverlo senza riserve.
Va riconosciuto, comunque, a regista ed attori l'impegno profuso ed il coraggio di mostrare una certa comunanza di idee con la pellicola d'ispirazione nonostante, di fatto, in questo caso si parlasse del decisamente più politicamente corretto mercato distributivo statunitense ed internazionale.
Niente di perfettamente riuscito, dunque, ma un tentativo: e, chiedetelo pure a Ray, un tentativo, a volte, è in grado di fare la differenza rispetto a silenzi pesanti come macigni.





MrFord





"I saw you creeping around the garden
what are you hiding?
I beg your pardon don't tell me "nothing"
I used to think that I could trust you
I was your woman
you were my knight and shining companion
to my surprise my loves demise was his own greed and lullabies."
Lana Del Rey - "Big eyes" - 





martedì 12 aprile 2016

Attacco al potere 2

Regia: Babak Najafi
Origine: USA, UK, Bulgaria
Anno: 2016
Durata:
99'







La trama (con parole mie): Mike Banning, uomo di punta del servizio di sicurezza del Presidente degli Stati Uniti Benjamin Asher, medita il ritiro in vista della nascita di suo figlio, quando la morte del Primo Ministro inglese lo costringe ad un'ultima missione legata alla sicurezza del suo capo nel corso del viaggio a Londra per i funerali del "collega".
Appena prima che inizino le esequie ufficiali, però, un attacco su larga scala spazza via i Capi di Stato del mondo occidentale uno dopo l'altro grazie ad un'operazione di alto livello d'infiltrazione e dispiego di mezzi e risorse coordinata dal mercante d'armi Aamir Barkawi, che due anni prima ha visto morire a causa di un'offensiva guidata da un drone la figlia nel corso del suo matrimonio: un'offensiva decisa dal G8 a seguito dei legami dello stesso Barkawi con i terroristi più pericolosi del mondo che aveva lui come bersaglio.
Banning ed Asher, soli ed allo sbaraglio, dovranno fare fronte alla minaccia degli uomini di Barkawi e cercare di portare a casa la pelle, magari sovvertendo i piani della loro nemesi nel mentre.











Non smetterò mai, ma proprio mai, di adorare le tamarrate.
Pellicole a neuroni zero in grado di risollevare il morale ed esaltare neanche si potesse tornare bambini e godersi l'ultimo videogioco uscito o simulare il proprio film o cartone animato preferito al parco con gli amici, ovviamente da protagonisti.
Qualche anno fa, quando uscì in sala Olympus has fallen, rimasi a metà tra lo sconvolto ed il divertito, a fronte di una delle porcate più grosse di grana grossa a stelle e strisce ed anche, c'è da ammetterlo, di una delle più divertenti: Gerardone Butler, prendendo a modello 24 - ed è un bene - ed il franchise di Taken - ed è un male - aveva portato sullo schermo un nuovo eroe tutto ammeregano in grado di rinverdire i fasti della mia epoca favorita - gli anni ottanta, per chi non lo sapesse - senza per questo apparire troppo serio o preso da se stesso - "Di cosa sei fatto?" "Bourbon e cattive scelte", impagabile -.
Con il secondo capitolo, accolto anche dal sottoscritto con più di un interrogativo, devo ammettere che l'operazione non solo è stata replicata, ma ha finito quasi per essere più comprensibile nella portata della prima, sarà anche per il passaggio, al timone di regia, dal decisamente più "alto" Antoine Fuqua a Babak Najafi, che è noto principalmente per aver diretto qualche episodio di Banshee, giusto per rimanere in territori decisamente tamarri.
Partito con una seriosità forse eccessiva, questo secondo capitolo di Attacco al potere si evolve - fortunatamente - come un classico action movie in cui l'eroe spaccaculi non solo spacca i culi e compie la sua missione alimentando il sacro fuoco del patriottismo, ma regala nel farlo chicche a profusione, da quel "Vaffanculo io!? Vaffanculo tu!" che avrebbe potuto pronunciare uno qualsiasi dei beniamini eighties alla risposta al Presidente: "E se non torni?" "Se non torno, lei è fottuto".
Da brividi.
Considerata la wannabe visione a stelle e strisce di Desconocido, Attacco al potere 2 - o London has fallen, decisamente più adeguato - è stata una vera e propria manna dal cielo con tutti i suoi limiti, in barba ai radical, ai pregiudizi rispetto a questo tipo di pellicola - che, devo ammetterlo, nel mio periodo più integralista di spettatore avrei più che detestato - ed all'ostilità aperta di molti appassionati di fronte ad un genere che non deve chiedere altro se non botte, esplosioni, situazioni inverosimili e buoni che rompono il culo ai cattivi come se non ci fosse un domani.
Viviamo in un mondo che non nasconde certo pericoli, distrutto dal Potere - "Quest'auto è a prova di proiettile, non di politico!" - e dai giochi legati allo stesso che vedono cadere vittime pescate sempre e soltanto dalla gente comune - da una parte e dall'altra della barricata -, destinata al ruolo di "danno collaterale" senza neppure che le sia chiesto che pensa in proposito, dunque sognare o anche solo immaginare che, a prescindere da tutto, possa esistere un eroe pronto a togliere a tutti le castagne dal fuoco e vincere non solo è confortante, ma anche e soprattutto piacevole quando si vuole staccare la spina e non considerare che debba necessariamente avere la meglio la paura, o ancora peggio, il pregiudizio silenzioso e non ammesso, che è anche peggiore.
Personalmente, io voglio pensare di poter viaggiare dove voglio senza dare credito alla politica del terrore spinta dai governi e da chi - apparentemente - è in guerra con gli stessi, voglio godermela facendo il tifo per il Gerardone e pensare che, per la mia famiglia, farei assolutamente altrettanto.
A prescindere da dove sia nato, dal mio credo politico o religioso, e dalla mia indole.
Oppure non voglio pensarci troppo.
E semplicemente, godermi Attacco al potere 2.
Meno dannoso e più divertente.






MrFord






"London calling to the imitation zone
forget it, brother, you can go it alone
London calling to the zombies of death
quit holding out, and draw another breath
London calling, and I don't wanna shout
but while we were talking, I saw you nodding out
London calling, see we ain't got no high
except for that one with the yellowy eyes."
The Clash - "London calling" - 






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