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sabato 4 giugno 2016

Rebellion - Il caso Litvinenko

Regia: Andrey Nekrasov
Origine: Russia
Anno: 2007
Durata:
105'








La trama (con parole mie): il ventitre novembre del duemilasei muore a Londra, a seguito di un avvelenamento da polonio 210, Alexandr Litvinenko, ex agente dei servizi segreti russi divenuto un fermo oppositore del regime di Putin ed un dissidente rispetto alle colpe che gli stessi organi di controllo dei quali faceva parte affermava avessero in relazione ad eventi tragici come gli attentati a Mosca del novantanove, imputati ai terroristi ceceni.
Il suo amico e confidente, il regista Andrey Nekrasov, grazie a filmati di repertorio ed interviste raccolte nel corso degli anni e della vita da esule di Litvinenko, costruisce un documento che accusa pubblicamente il governo Putin e denuncia - grazie anche alle citazioni di personaggi fondamentali come quello della giornalista Anna Politkovskaja - tutte le ombre di quella che, più che democrazia, appare dittatura mascherata.








Non credo di avere mai avuto il carattere migliore, per poter pensare di sopportare idee totalitarie o "di regime", a prescindere dalle posizioni politiche - anche perchè, di fatto, quando si raggiungono gli estremi si finisce per essere sempre paurosamente simili -: fin dall'adolescenza, ho manifestato uno spiccato senso di ribellione rispetto al potere costituito così come all'arroganza di chi lo esercita, e quando non ho potuto contrastarlo apertamente, ho sempre cercato, in qualche modo, di fregarlo senza che potesse accorgersene.
Ricordo vagamente dai telegiornali la morte di Litvinenko, ex agente segreto russo divenuto dissidente del governo Putin, giunta sulla scia dell'ancora più clamorosa uccisione di poco precedente della giornalista Anna Politkovskaja, le polemiche sul ruolo dell'Italia nello stesso avvelenamento, le accuse ed i processi ovviamente finiti in fumo una volta sedimentatasi la notizia: onestamente, io stesso dopo il clamore del momento avevo accantonato la questione fino a quando, grazie a Julez ed alle sue dritte rispetto allo streaming di Mymovies, ho recuperato questo Rebellion - Il caso Litvinenko, un accorato omaggio del suo regista Andrey Nekrasov allo stesso ex agente segreto, frutto della collaborazione e dell'amicizia che si era creata tra i due nel corso degli anni.
Da appassionato di documentari, devo ammettere che questo Il caso Litvinenko non è, cinematograficamente parlando, il meglio che si possa chiedere: è fazioso, poco obiettivo, arrangiato probabilmente con mezzi limitati e molto influenzato dalla componente emotiva del suo autore, pronto a fare leva anche su immagini molto forti - i bambini ceceni di un suo lavoro precedente, lo stesso Litvinenko sul letto di morte - pur di testimoniare un dramma che noi occidentali abbiamo vissuto soltanto attraverso la narrazione filtrata dei media, asserviti ai grandi poteri o no, che fossero.
Eppure, per quanto non perfetto, questo lavoro assume una grande importanza in quanto testimonianza della determinazione e della passione di chi lotta contro il sistema quando lo stesso pare senza controllo, travolto dalla febbre del Potere e tutto quello che dallo stesso consegue: pulite oppure no, colpevoli in cerca di redenzione o semplicemente martiri, persone come Litvinenko sono simboli ai quali non si dovrebbe mai rinunciare, perchè stimoli fondamentali non solo nelle lotte per i diritti civili, ma anche e soprattutto per il Diritto principale, quello della Libertà.
Di pensiero, opinione, culto e qualsiasi altra cosa possa passarvi per la mente.
Certo, pensare di essere in qualche modo paladini super partes apparirà sempre esagerato, ma le voci di chi continuerà ad avere il coraggio di dire anche solo semplicemente no, o denunciare qualcosa che non si ritiene giusto, saranno le basi per società speriamo più giuste che si costruiranno - sempre speriamo - in futuro: in fondo, le vite e le morti di tutti questi combattenti sono state fondamentali per garantire a tutti noi, nel pieno degli Anni Zero, anche quel poco di Diritti che abbiamo o che crediamo di avere, o che i nostri antenati non potevano neppure sognare per il più fortunato dei loro discendenti.
Senza dubbio i Putin, i despoti ed i tiranni continueranno ad esistere ed imperversare, ma sapere che c'è qualcuno che non ha paura di battersi contro di loro anche quando la morte arriva a bussare alla sua porta, è assolutamente confortante.
E li fa sembrare tutti molto più deboli di quanto non vogliano apparire circondati da tutto quel Potere.





MrFord





"Ti muovi sulla destra poi sulla sinistra
resti immobile sul centro
provi a fare un giro su te stesso, un giro su te stesso."
Franco Battiato - "Il ballo del potere" -





martedì 8 marzo 2016

Suffragette

Regia: Sarah Gavron
Origine: UK
Anno: 2015
Durata: 106'






La trama (con parole mie): siamo nel millenovecentododici in Inghilterra, e Maud Watts, madre di un figlio, donna da sempre attenta ad obbedire alle regole - anche scomode - ed abituata al lavoro in lavanderia fin dalla tenera età, viene a contatto casualmente con un'azione sovversiva organizzata dalle Suffragette, attiviste del movimento femminista pronte a lottare con tutte le forze affinchè il voto venga garantito alle donne ed una retribuzione equa possa essere una realtà a parità di sforzo e di lavoro.
Presa coscienza della condizione che lei stessa e molte nella sua situazione vivono ogni giorno in fabbrica o a casa, Maud decide di avvicinarsi alle sue colleghe che già militano nel movimento, dapprima come spettatrice, dunque come parte attiva alla causa: la nuova direzione politica presa dalla giovane costerà a quest'ultima la tranquillità in famiglia, il posto di lavoro e sacrifici inimmaginabili per una madre, ma tenendo fede al motto della fondatrice delle Suffragette, Emmeline Pankhurst, "mai arrendersi", la "nuova" Watts lotterà fino in fondo per i suoi diritti e quelli di milioni di donne come lei.










Chiunque mi conosca abbastanza bene, sa quanto le donne siano da sempre una delle debolezze principali del sottoscritto.
Ho sempre considerato l'altra metà del cielo decisamente più sveglia di quella dove sto io, più sfaccettata e complessa, più affascinante, senza dubbio più rompipalle ed in grado di gestire il rapporto tra ragione ed istinto meglio di quanto non si sia in grado di fare noi maschietti.
Un'altra cosa che ritengo sia sacra - e lo ritengo ancora di più da quando l'ho potuto vivere con i miei occhi ed i miei sensi dal giorno della nascita del Fordino - è il loro ruolo di madri: un ruolo che non ho mai considerato come "stai a casa e bada ai figli e se non mi stiri bene la camicia sono schiaffi che volano", quanto come un privilegio che a noi primati sarà sempre, purtroppo, negato.
Non mi è mai capitato, anche tornando indietro nel tempo, di pensare che le donne avessero qualcosa meno degli uomini, dai tempi dell'asilo - ricordo la guerra tra i maschi della classe rossa, quella del sottoscritto, e la gialla, dalla quale rimasi saggiamente fuori, unico tra gli aspiranti "gladiatori", e guadagnai una settimana di giardino circondato dalle fanciulle, in barba ai miei amici tutti confinati in castigo in classe - alle esperienze lavorative, dagli scontri ideologici a quelli verbali, dal conquistare all'essere conquistato.
Con questo non mi voglio certo ergere a paladino del mondo in rosa, che fin dall'alba dei tempi, pur messo sempre alle strette dai tentativi maschili, è riuscito non solo a tenere alta la testa, ma a cambiare la Storia e la società con le sue sole forze: una delle realtà più solide in grado di mostrare questo spirito indomito è senza dubbio quella delle Suffragette, che agli inizi del Novecento lottarono con tutti i mezzi in loro possesso in modo da spingere la società anglosassone verso decisioni epocali - e sacrosante - come il voto alle donne ed il riconoscimento dei loro diritti sui figli - emblematico il caso del bambino della protagonista di questo film, pur se solo accennato rispetto all'economia della trama principale -.
Il merito del lavoro di Sarah Gavron è proprio quello di testimoniare, attraverso fatti locali parte di un confronto e di un insieme più ampi, il coraggio e la passione che queste tostissime signorine mostrarono a tutti coloro i quali non le credevano non solo abbastanza stabili per poter votare, ma anche e soprattutto abbastanza per comparire da pari in società: Suffragette non sarà comunque un film destinato a fare la Storia della settima arte - per certi versi, resta molto convenzionale e dal taglio quasi televisivo -, ma a volte sono le piccole cose e gli avvenimenti casuali - si veda la sequenza più importante e ben riuscita della pellicola, l'incidente al Derby del giugno del millenovecentotredici, destinato a cambiare radicalmente gli equilibri in campo rispetto al voto alle donne - a dare inizio a qualcosa di molto più grande ed importante.
Dunque ben vengano lavori come questo, resi più forti dall'impegno e dalla partecipazione delle attrici - molto brava la Mulligan, e perfino meno fastidiose del solito la Bonham Carter e la Streep - e necessari come ogni pellicola ben costruita e legata ad una delle colonne portanti della società: i diritti civili.
E pensare alle Suffragette, alle mie colleghe, alle madri, a Julez - che, ai tempi, sarei sicuramente dovuto andare a recuperare in carcere più e più volte, e sarei stato fiero di farlo -, alle realtà che conosciamo anche quando la nostra predatoria ed istintiva natura di uomini non prende il sopravvento, alle signore ucraine responsabili delle pulizie del mio posto di lavoro che hanno promesso vodka per festeggiare oggi con noi e si stupiscono di ogni piccolo aiuto e gentilezza ricevuta qui quando la maggior parte dei loro stipendi finisce per mantenere mariti nullafacenti in patria, mi fa sperare che il percorso delle donne sia soltanto all'inizio.
E me lo fa sperare anche e soprattutto il fatto che il loro percorso è anche il nostro.
Perchè senza madri, senza mogli, o amiche, o amanti, non saremmo altro che un gruppo di scimmioni alla ricerca di un qualsiasi buco in un albero.
E non sarebbe una vita altrettanto bella.




MrFord




"Oh don't lean on me man
cause you can't afford the ticket
I'm back on Suffragette City
oh don't lean on me man
cause you ain't got time to check it
you know my Suffragette City
is outta sight... She's all right."
David Bowie - "Suffragette city" -






martedì 17 novembre 2015

Pride

Regia: Matthew Warchus
Origine: UK, Francia
Anno: 2014
Durata: 119'






La trama (con parole mie): siamo nella Londra della lotta per i diritti dell'era tatcheriana, e Joe, giovane aspirante fotografo chiuso dalla famiglia incontra Mark, attivista più che emancipato pronto a lottare con tutte le forze per esprimere se stesso e la sua libertà. Assieme a lui e ad un ristretto gruppo di compagni di manifestazione fonderanno un movimento che finirà per diventare uno degli sponsor più importanti della lotta del Sindacato dei minatori, legandosi ad una comunità gallese che sulla carta non ha nulla a che spartire con gay, lesbiche ed alternativi assortiti.
Al primo incontro tra i due gruppi, le differenze e gli ostacoli da superare parranno insormontabili, ma un passo dopo l'altro l'aggregazione e l'umanità finiranno per dare vita ad una delle realtà più intense ed efficaci di un'era senza dubbio difficile per tutto quello che riguardava i diritti civili.










Il mio primo contatto con il mondo gay - anche se suona davvero brutto, scritto in questo modo - risale all'estate del novantanove, quando iniziavo l'esperienza all'interno dello storico Virgin Megastore di Piazza Duomo, a Milano.
Fabio, che ancora oggi è uno dei miei più cari amici, allora non viveva qui sotto la Madunina, e dopo esserci incrociati per caso alle visite mediche, dopo il primo giorno di lavoro propose un brindisi a me e a Giorgia, che con noi aveva condiviso quel momento "storico": eravamo tre più o meno ventenni che ancora non sapevano che cosa avrebbero fatto della loro vita, e nel mio caso di un ragazzino che ancora ragionava con una mentalità da quartiere, pur non celando per nulla la volontà di cercare qualcosa oltre, che fossero i confini italiani o in generale della vita di tutti i giorni.
Rimasti soli, Fabio, di punto in bianco, se ne uscì dicendo: "Mi sembri uno che gira per locali, non è che per caso conosci qualche posto figo a Milano, non necessariamente per eterosessuali?", così a freddo che quasi pensai di aver sentito male.
Fino a quel momento, almeno che io sapessi, non avevo mai avuto un confronto così diretto con il concetto di gay, e rimasi più perplesso che altro, fino a quando tutto passò dall'imbarazzo alla condivisione ed allo scherzo: proprio negli anni di Virgin, ad un concerto degli Interpol, ricevetti anche la prima dichiarazione di un altro collega nel frattempo aggiuntosi alla brigata, ed imparai a conoscere da vicino una realtà che, ai tempi in cui andavo a scuola, era considerata distante anni luce dalla vita di tutti i giorni.
Fortunatamente, le epoche segnano il passo ed anche la società - pur se con molte difficoltà - finisce per cambiare ed evolversi: questi cambiamenti, costruiti nel molto piccolo dei rapporti tra persone - probabilmente, se avessi risposto a Fabio in maniera offensiva, le cose sarebbero state molto diverse e più povere, per me come per lui - e nel molto grande da tutti i coraggiosi che si sono battuti per essere quello che sono vengono portati sullo schermo con un cuore grandissimo da Matthew Warchus, che pur sfruttando un modello piuttosto furbo e convenzionale regala allo spettatore una pellicola genuina, sincera, toccante e divertente, interpretata da un gruppo di attori affiatato ed impreziosita da un contesto storico cui, nonostante sia dichiaratamente più "americano" che "british", sono molto legato, ovvero quello delle lotte di classe dell'epoca tatcheriana, forse una delle più buie vissute dai nostri amici anglosassoni.
Pride racconta, ispirandosi ad una storia vera, la formazione di un movimento che riuscì a costruire un legame tra i più improbabili che allora - ma anche oggi, in una certa misura - si potrebbero immaginare: quello tra un gruppo di giovani attivisti gay - e lesbiche - e di una piccola comunità di minatori gallesi che, con ogni probabilità, non avevano mai lasciato il loro paese in tutta la vita, abituati ad una routine di lavoro e sociale che non andava oltre il matrimonio e la birra: il bello è che da confronti come questo, e dal confronto con chi è diverso, per esperienze, inclinazioni e passioni, da noi, si finisce sempre per arricchire il bagaglio che ci portiamo dietro nella nostra vita di viaggiatori e soprattutto di uomini e donne liberi.




MrFord




"If I should fall from grace with god
where no doctor can relieve me
if I'm buried 'neath the sod
and still the angels won't receive me."
The Pogues - "If I should fall from grace with God" -





lunedì 2 marzo 2015

Selma - La strada per la libertà

Regia: Ava DuVernay
Origine: USA, UK
Anno:
2014
Durata:
128'
 




La trama (con parole mie): Martin Luther King, leader afroamericano fondamentale nella lotta per la conquista di diritti civili fino ai primi anni sessanta negati alla sua gente dai salotti della Casa Bianca e dal rapporto con Lyndon Johnson fino alle marce di protesta, ritratto in uno dei momenti cruciali della sua carriera politica ed esistenza.
A Selma, in Alabama, si visse infatti nel sessantacinque una delle stagioni più importanti della lotta per il voto degli afroamericani ed alcuni dei drammi più terribili legati alla conquista di diritti che ogni uomo dovrebbe acquisire alla nascita: sostenuto da gente comune, avversari politici come Malcolm X, il suo entourage e la famiglia, il Dottor King dovrà fare fronte alle difficoltà organizzative, personali, politiche e legate all'ignoranza manifestata dagli estremisti bianchi in modo da portare a termine quello che sarà ritenuto un atto dimostrativo pacifico fondamentale per conquiste che ancora oggi hanno importanza nella società.








In quello che, con ogni probabilità, sarà ricordato come l'anno dei biopic - almeno rispetto ai film candidati nelle categorie principali degli Oscar -, una proposta come Selma era davvero un rischio: trattando una tematica importante ma potenzialmente pericolosa - in termini di resa finale e trabocchetti legati alla retorica - come quella dei diritti civili passando attraverso una delle figure cardine legate agli stessi, Martin Luther King, Ava DuVernay di fatto ha deciso di scommettere sulla sua capacità di narratrice mettendo probabilmente in conto di finire, in caso di fallimento, per essere ricordata come la conciliante regista del The butler di questa stagione.
Fortunatamente per noi la coraggiosa donna dietro la macchina da presa è riuscita nell'impresa di trovare il giusto equilibrio e consegnare all'audience un film artigianale e privo di chissà quali spunti "alti" eppure solido e potente, sobrio e di pancia, interpretato alla grande da tutti i i suoi protagonisti e pronto a raccontare le vicende legate a Selma, Alabama - uno dei centri nevralgici della lotta di quegli anni - senza essere schiacciato dagli stessi e dai loro interpreti - Tim Roth, Tom Wilkinson e David Oyelowo su tutti -: la presenza, infatti, nel ruolo di protagonista, di Martin Luther King - e, seppur solo per una breve parentesi, di Malcolm X - non inficia la narrazione che resta legata a doppio filo ad una città e ad una zona, quella del profondo Sud, che ancora oggi mostra di avere problemi legati alla gestione dei rapporti tra bianchi e neri.
Una narrazione che non solo non patisce le oltre due ore di durata, ma che ha il potere di intrattenere il pubblico come il più riuscito dei blockbuster d'autore hollywoodiani e ad un tempo soddisfare quantomeno in parte il desiderio di una certa asciuttezza di fondo del pubblico più di nicchia e della critica: interessanti, in questo senso, il confronto tra l'approccio assolutamente passionale del Dottor King e del suo entourage contrapposto a quello degli organismi di controllo statunitensi, ben rappresentati dai report "battuti a macchina" all'inizio di ogni sequenza dai riscontri storici documentati, neanche ci trovassimo all'interno di un file della CIA o dell'FBI fino ad ora secretato e rivelato all'opinione pubblica nella sua interezza.
Dovendo pensare a quello che dovrebbe essere il classico blockbuster artigianalmente di livello superiore che si finisce per vedere e rivedere sempre con grande piacere - come fu The Help tre anni or sono - traendo una lezione importante anche in termini di contenuti, Selma sarebbe un ritratto perfetto, senza dubbio superiore agli spenti The Imitation Game e La teoria del tutto ed in linea con uno stile ed un approccio che riescono a mescolare il piglio del documentario, o della serie tv di qualità a quello del Cinema in grado di riunire lo spettatore occasionale e l'appassionato.
Tutte qualità non da poco, che si traducono al loro meglio più che nelle scene madri - la marcia nei suoi due tentativi, l'uccisione del ragazzo nella caffetteria - in quelle apparentemente marginali e legate al mondo più privato del Dottor King - il suo rapporto con Mahalia Jackson, le difficoltà con la moglie - ed alle incertezze che il Presidente Johnson ebbe rispetto all'appoggio dato al grande leader afroamericano.
Da questo punto di vista - ma non solo - il lavoro della DuVernay si può considerare un grande successo, ed un importante sguardo su una cittadina che, per quanto piccola e geograficamente lontana dai veri luoghi di potere USA, rappresentò il fulcro di una rivoluzione fondamentale per quella che, con tutte le sue imperfezioni, è la società attuale: la marcia di King e la sua lotta, unite, seppur distanti per ideologia, a quelle di Malcolm X, ebbero il compito di formare le nostre coscienze di bianchi prima ancora di quelle degli afroamericani, giunti alla vigilia di un cambiamento sacrosanto ed epocale nella loro vita sociale.
E forse, a ben vedere, una Selma - almeno in termini astratti, o di coraggio - servirebbe a volte anche oggi, non fosse altro che per sensibilizzare una società che troppo spesso si maschera dietro un finto progressismo.



MrFord



"One day when the glory comes
it will be ours, it will be ours
one day when the war is won
we will be sure, we will be sure
oh glory."
John Legend - "Glory" - 




venerdì 14 marzo 2014

The butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca

Regia: Lee Daniels
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 132'





La trama (con parole mie): Cecil Gaines, cresciuto tra le piantagioni segnate dalle ingiustizie negli anni venti, attraversa quasi un secolo di Storia americana prestando servizio come maggiordomo alla Casa Bianca, in equilibrio tra Presidenti ed amministrazioni dal piglio a volte assolutamente agli antipodi e la crescita dei due figli, provando sulla pelle non solo il percorso del movimento dei Diritti civili ma anche le speranze degli anni cinquanta, la rottura dei sessanta, la morte di Kennedy, il Vietnam, l'altro lato della medaglia durante l'amministrazione Reagan e, per finire, ormai vecchio, l'elezione di Obama.
Il pubblico si mescola al privato quando la neutralità per professione di Cecil verrà messa a dura prova dal rapporto con la moglie e specialmente con il figlio maggiore Louis, fin dai tempi dell'Università affiliato ai movimenti più estremi legati alla lotta affinchè gli afroamericani potessero finalmente ottenere gli stessi diritti dei bianchi.







Passata la consueta ed annuale sbornia da Oscar, ed approcciato The butler con un discreto ritardo rispetto alle uscite in sala, mi sono chiesto come possa essere stato possibile che, a rappresentare il classico stile all'ammmeregana di grana grossa fosse Capitan Findus, piuttosto che questo drammone firmato da Lee Daniels, regista afroamericano che già non aveva convinto il sottoscritto ai tempi di Precious.
The butler, infatti, porta in dote quelli che sono tutti i valori - in positivo e in negativo - che di norma richiede l'Academy, rappresentando di fatto il classico filmone hollywoodiano in grado di unire impegno civile e lacrima facile cercando di apparire decisamente più autoriale di quanto non sia in realtà: forse la presenza del ben più solido 12 anni schiavo - in più di un senso legato a questo film - ha finito per penalizzare il lavoro di Daniels, che pure, con tutti i suoi limiti, non avrebbe sfigurato tra i candidati, soprattutto se paragonato alle già citate avventure in mare aperto di Tom Hanks o anche al sopravvalutato Gravity.
Devo dire, infatti, di essere uscito dalla visione decisamente più sorpreso in positivo che non in negativo - come mi aspettavo -, e di non aver avuto particolari istinti bottigliatori osservando il ritratto degli States in black visti attraverso gli occhi del Cecil Gaines di Forest Whitaker - che sfodera, tra le altre cose, una signora interpretazione - neppure nei suoi momenti più retorici o negli spot pro-Obama da piena campagna elettorale fuori tempo massimo del finale, godendomi questa pellicola per quello che è, ovvero il più classico dei classici blockbuster sociali che tanto piacciono ai nostri cugini a stelle e strisce, specie quando si tratta di lavarsi la coscienza da porcate di più o meno grosso calibro - e la storia dei conflitti razziali trabocca delle suddette, dagli episodi di Selma, in Alabama, citati anche nella splendida Eve of destruction di Barry McGuire, alle morti di Malcolm X e Kennedy -.
Del resto, la confezione è ottima - pur se oltremodo patinata -, la sceneggiatura regge - nonostante alcune parti ed amministrazioni siano soltanto sfiorate e perdano dunque di fascino - ed il cast conferma di essere da grandi occasioni, a partire dal protagonista passando per sorprese in positivo - Lenny Kravitz, sempre più lanciato nella sua nuova veste di attore -, conferme - ottimo Alan Rickman nel ruolo di Reagan, il più interessante tra i Presidenti portati sullo schermo - e piccoli piaceri - Yaya Alafia, che fa passare in secondo piano le questioni prettamente tecniche della recitazione -: la cosa migliore, comunque, del lavoro di Daniels resta l'analisi del rapporto tra Cecil e suo figlio Louis, in grado di mostrare il conflitto di due generazioni vissute in epoche decisamente diverse ed il loro modo di reagire di fronte ad un problema che tocca entrambe.
In questo senso, il passaggio migliore della visione lo riserva il confronto nel corso della cena che vede Cecil scoprire l'emancipazione della donna del figlio e l'affiliazione dello stesso alle neonate Black Panthers, in completa opposizione rispetto al regime di silenzio e tacito accordo per la sopravvivenza che, di fatto, lui stesso ha mantenuto per tutta la vita, che si trattasse della sua professione o del rapporto con i bianchi in generale: è interessante così notare lo scontro tra la passione tipica della giovinezza e l'importanza del sacrificio della maturità, pronte a darsi battaglia per poi avvicinarsi con il passare del Tempo, fino ad arrivare ad una comunione d'intenti insperata in grado di superare anche grandi drammi - il destino del figlio minore di Cecil -.
Non saremo di fronte, certo, al film dell'anno, o a qualcosa che si discosti dal più scontato dei melodrammi made in USA, eppure tutto funziona, e seppur lontano da cose più riuscite come The help, anche The butler porta a casa la pagnotta con mestiere ed un pizzico di furbizia, e si lascia guardare dando il suo contributo rispetto alla memoria di eventi che sarebbe decisamente meglio per tutti non si ripetessero in futuro, nonostante ciò che i detti sanciscono a proposito della Storia.




MrFord




"Mother, mother (hoo-ooo)
there's too many of you crying
brother, brother, brother (hoo-ooo)
there's far too many of you dying
you know we've got to find a way
to bring some lovin' here today
(God don't feel your lovin' today)
yeah."
Marvin Gaye - "What's going on" - 




giovedì 3 maggio 2012

The rum diary

Regia: Bruce Robinson
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 120'



La trama (con parole mie): Paul Kemp, sregolato giornalista appena giunto nella Porto Rico nei primi anni sessanta, trova lavoro presso il quotidiano che gli Usa controllano nell'ottica dell'assetto politico del periodo, reso instabile dalle tensioni tra gli Usa e il blocco sovietico.
Stretta amicizia con gli scombinati colleghi Sala e Moberg, tra un rum ed una scorribanda in macchina, l'uomo ha giusto il tempo di trovare un canale che potrebbe portarlo alla sicurezza e al denaro per poi bruciarlo prendendosi una cotta da antologia per la donna di Sanderson, eminenza grigia dell'isola le cui influenze si fanno sentire a tutti i livelli: la lotta per il suo cuore e per la libertà di stampa locale faranno da stimoli alla carriera futura del giornalista, pronto per la prima volta nella sua vita a tracciare la rotta della sua professionalità - e non solo -.




A volte capita che un film senza particolari pretese, tendenzialmente patinato, con un cast che gioca sull'ordinaria amministrazione ed una regia senza alcun picco, tratto come se non bastasse da un romanzo di un autore cult eppure privo di una sceneggiatura che possa dare anche un minimo di mordente alla storia riesca a conquistare senza, di fatto, averne alcun merito.
E' il caso di The rum diary, promosso e distribuito come una versione vintage di Paura e delirio a Las Vegas - l'autore dei romanzi è lo stesso, il mitico Hunter S. Thompson -, lontano anni luce dalla potenza di quello che vorrebbero venderci come il suo predecessore, eppure in grado di incollarmi allo schermo con lo stesso piacere che mi pervade quando vedo e rivedo fino allo sfinimento pellicole che sono considerate cult in casa Ford, pur non facendo leva su una vicenda particolarmente avvincente o ben scritta.
Non so se sia stata la crescente passione del protagonista per Amber Heard, l'ambientazione caraibica, il rum o la tendenza dei giornalisti portati sullo schermo da Depp, Michael Rispoli e Giovanni Ribisi di perdersi dentro e fuori se stessi come solo chi conosce bene l'alcool sa e può fare, o il fascino di un'epoca in cui la lotta poteva essere vissuta come un viaggio o un'esperienza, ma non ho avuto un solo istante di cedimento dall'inizio alla fine, e pur non sentendomi particolarmente coinvolto, mi sono lasciato cullare da una pellicola senza particolari pretese - del resto, Bruce Robinson resta un signor nessuno - capace comunque di trasportarmi nel pieno del periodo che fotografa, accarezzandomi con quel gusto per la siesta ed il tempo rubato al normale e quotidiano incedere dello stesso tipico del concetto di Sud che tanto mi attrae.
A rendere il tutto un cocktail ancora più piacevole da mandare giù sorso dopo sorso il confronto tra Kemp ed i suoi due antagonisti, lo scorbutico scribacchino e direttore del giornale Lotterman - un ottimo Richard Jenkins che impersona alla grande il tipico esecutore servo del potere dalle nevrosi pronunciate - e l'odioso arricchito Sanderson - un sempre efficace Aaron Eckhart -, uomo dallo stile madmeniano e dai modi spocchiosi di chi pensa che il denaro ed il potere rendano, di fatto, una persona migliore di tutte le altre: la scombinata gang formata da Depp e i suoi, di contro, si porta sulle spalle tutto lo scoordinato panesalamismo che tanto è amato qui al saloon, regalando momenti al limite del grottesco - la bistecca nel locale, l'inseguimento con l'incendio del poliziotto, il collirio allucinogeno - che sono stati, di fatto, una vera e propria pacchia per il sottoscritto.
Ma è la passione amorosa che coglie Kemp travolgendolo ad aver in qualche modo vinto ogni mia resistenza rispetto all'apprezzamento di questo film, giocata tutta nella sequenza della macchina lanciata a tutta velocità e della sfida tra lo stesso giornalista e Chenault, simbolo di un gioco di seduzione chiaro fin dal primo incontro dei due eppure funzionale ed onesto, proprio come il resto della pellicola.
Non chiedetemi, dunque, di difendere a spada tratta un film che è sicuramente un'opera minore che finirà ben presto nel dimenticatoio della maggior parte della critica e degli spettatori: in questo senso, non ho proprio nulla da dire rispetto alla resa - tecnica ed artistica - di The rum diary.
Eppure, c'è qualcosa nel suo sonnacchioso incedere cui è davvero difficile resistere: un gioco di sguardi sornione, o una sbronza che pare non averci colpiti, e dopo un buon numero di cocktail, decisi ad alzarsi per andare in bagno o cambiare locale, ci inchioda alla sedia come fosse il più potente degli incantesimi.
Un progressivo abbandono che è un massaggio da rollìo di barca e rumore di onde sul bagnasciuga, sole sulla pelle leggermente sudata di una donna che non ci basterà sfiorare con il pensiero e rum che tocca corde che non credevamo neppure più di avere.
Prima della sveglia, della lotta, della presa di una coscienza che ci porterà avanti lungo la strada, perdersi così, lentamente, è un piacere indescrivibile.
Qualcosa che, se non si appartiene a quella categoria di strambi zingari esploratori di vita, potrà sembrare inutile, insensato e privo di interesse.
Come questo film.
Fortunatamente per me, nella ciurma di quella nave destinata probabilmente a finire a fondo, sono una figura di spicco per natura.


MrFord


"I get knocked down 
but I get up again
you're never going to keep me down
Pissing the night away 
pissing the night away
He drinks a whisky drink
He drinks a vodka drink
He drinks a lager drink
He drinks a cider drink
He sings the songs that remind him 
of the good times
He sings the songs that remind him 
of the better times."
Chumbawamba - "Tub Thumping" -
 
 


mercoledì 7 marzo 2012

Larry Flynt - Oltre lo scandalo

Regia: Milos Forman
Origine: Usa
Anno: 1996
Durata: 129'



La trama (con parole mie): vita, "genio" e sregolatezze di Larry Flynt, pioniere del porno e della libertà di stampa che a partire dalla fine degli anni settanta si fece carico di una vera e propria battaglia contro i pregiudizi e le azioni di forza nate per chiudere la bocca a chiunque potesse, negli States, mettere in imbarazzo i valori inviolabili della Famiglia, dello Stato e di Dio.
Un personaggio scomodo e controverso, clamorosamente basso ed idealmente altissimo, che attraverso le sue pubblicazioni - Hustler prima di ogni altra -, le dichiarazioni ed una partecipazione assolutamente fisica alla lotta è ancora oggi uno degli esempi più importanti per chiunque voglia intraprendere una carriera editoriale e non solo, che si tratti di Usa oppure no.






Personalmente, ho sempre trovato Milos Forman un regista di quelli da ringraziare che continuino ad esistere: pellicole come Qualcuno volò sul nido del cuculo, Amadeus o Man on the moon sono i simboli più noti di una carriera incredibile soltanto negli ultimi anni viziata, forse, da una certa noia - si veda il certo non riuscito L'ultimo inquisitore -.
Larry Flynt rappresenta - oltre che un grande ritorno dell'autore originario della Repubblica Ceca sul grande schermo dopo una pausa che durava dal 1989 - un viaggio in quella che fu la specialità del regista dai tempi dell'incredibile lavoro svolto su Mozart, ovvero un biopic atipico, in grado di mostrare luci ed ombre dei suoi protagonisti, personaggi spesso combattuti e scomodi per l'epoca in cui vissero: l'ispiratore di questo film, nonchè fondatore della rivista Hustler, rientra perfettamente nella categoria, e paga nella sua rappresentazione soltanto la lunga inattività di Forman, che - forse per non rischiare troppo, data la materia non facile - ai tempi evitò di esagerare concentrando il successo del lavoro finito principalmente sulla splendida interpretazione di Woody Harrelson - un pò quello che farà Van Sant con Sean Penn per Milk -, limitando quello che indubbiamente resta il suo talento e fornendo una prova generale dell'ancora più efficace e successivo Man on the moon.
La cosa davvero fondamentale di una pellicola come questa resta, comunque e a prescindere dalla settima arte, l'importanza data dalla battaglia che intraprese - a fasi alterne nella sua certo non regolata esistenza - Larry Flynt, un vero e proprio pioniere della libertà di stampa e di idee, un paladino grazie al quale oggi - non solo a lui, sia chiaro - possiamo pensare di poter continuare a scrivere sui nostri blog esponendo quelle che possono essere idee condivisibili oppure no, che si parli di Cinema, attualità, politica, di quello che accade nel grande mondo o nel piccolo della nostra quotidianità.
Il coraggio mostrato da Forman - e da Harrelson - nel portare sullo schermo un personaggio tanto importante quanto clamorosamente e potenzialmente sgradevole, un antieroe nel senso effettivo del termine, sono un esempio di quanto fondamentali siano state le lotte del protagonista delle stesse, raccontate con un piglio classico - quasi inusuale per il regista - nel corso di una pellicola in grado di avvincere e tenere inchiodati alla poltrona anche i più accesi detrattori delle opere di Flynt, probabilmente mossi anch'essi dall'istinto che guida ogni essere umano, sia esso celato oppure no: il sesso - cardine della carriera e della vita del vecchio Larry - è e resta uno dei principali motori delle nostre esistenze, sia esso mosso dai sentimenti o dall'animalità che indubbiamente ci portiamo dentro, ed il suo sdoganamento - avvenuto nonostante l'opposizione del Potere, della Chiesa, di un attentato che gli costò le gambe, la dipendenza da farmaci e la breve parentesi come cristiano redento - tramite la figura di questo magnate dell'industria del porno ma soprattutto della carta stampata rappresenta uno dei più clamorosi successi dell'uomo della strada nella sua lotta per il diritto di parola, espressione ed esercizio di una mente libera della storia non solo degli Usa, ma dell'Occidente del dopoguerra.
Certo, questo tipo di imprese e la loro importanza finiscono, almeno in parte, per soffocare la resa della pellicola, a tratti schiacciata dal peso della materia trattata, eppure non ne limitano la forza e l'incisività anche a distanza di ormai quindici anni, grazie ad un narratore d'eccezione dietro la macchina da presa e ad un cast ispiratissimo, dal già citato Harrelson a Courtney Love - che tornerà anche in Man on the moon accanto al regista - e un ottimo Edward Norton, allora praticamente un esordiente.
Un biopic, dunque, non perfetto, eppure inseribile nella migliore tradizione del genere, in grado di coinvolgere e sensibilizzare il pubblico rispetto ad uno degli argomenti che a noi blogger dovrebbero stare a cuore più di molti altri: non il sesso - che comunque continuerà ad essere tra i primi -, bensì la libertà di esprimere le proprie idee senza pensare che qualcuno, soltanto ritenendole scomode o sconvenienti, possa ritenerci colpevoli di averle espresse e fare in modo che un'altra libertà - quella di vivere - ci sia negata.
In questo senso - che è tutto tranne che religioso - senza dubbio, Larry Flynt è stato praticamente un dio.
E Milos Forman il suo profeta.
Giusto per non far mancare una certa qual provocazione anche qui, nel polveroso saloon.


MrFord


"E come le supposte abitano in blisters full-optional,
con cani oltre i 120 decibels e nani manco fosse Disneyland,
vivon col timore di poter sembrare poveri :
quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,
in costante escalation col vicino costruiscono :
parton dal pratino e vanno fino in cielo, han più parabole sul tetto 
che S. Marco nel Vangelo."
Frankie Hi Energie MC - "Quelli che benpensano" -

sabato 17 dicembre 2011

Alì

Regia: Michael Mann
Origine: Usa
Anno: 2001
Durata: 157'



 La trama (con parole mie): dal 1964 al 1974, dalla vittoria del primo titolo mondiale dei Massimi contro il superfavorito Sonny Liston all'incredibile incontro a Kinshasa opposto a George Foreman, la vita dentro e fuori dal ring del leggendario Mohammed Alì, orgoglioso rappresentante della cultura afroamericana e campione indimenticabile della "nobile arte", dall'amicizia con Malcolm X all'ascesa di Don King.
Un personaggio già allora divenuto mitico ed uno tra gli sportivi più noti, contestati ed amati della Storia, che rinunciò al suo nome e alla chiamata alle armi ma mai ad una dignità che è sempre valsa più di una cintura, da Cassius Clay ad "Alì bumayè".




Chi frequenta il saloon dal principio sa bene quanto dalle parti di casa Ford sia in enorme considerazione Michael Mann, uno dei registi "action" - anche se pare sempre riduttivo considerarlo tale - più importanti che gli Stati Uniti abbiano mai avuto: da Strade violente a The heat, da Insider a Collateral - senza dimenticare lo splendido Nemico pubblico - questo signore ha confezionato alcune tra le pellicole più clamorosamente potenti ed innovative che il genere - e di nuovo non solo - abbia mai prodotto, mostrandosi come uno dei primi cineasti aperti all'utilizzo del digitale non come mero strumento di marketing, bensì come una meraviglia tecnologica da piegare e plasmare per consegnare al pubblico film dallo standard tecnico sempre più alto.
Non è da meno Alì, che Mann girò probabilmente ben conscio della fredda accoglienza che gli avrebbero riservato gli allora appena feriti dall'undici settembre States, saggio di tecnica sopraffina ed utilizzo della macchina da presa come strumento di narrazione per immagini di potenza incredibile, dalla straordinaria apertura sulle note di Sam Cooke all'indimenticabile sequenza della riscoperta dell'Africa di Alì, sostenuto dalla folla per le strade di Kinshasa e dall'incedere del canto "Alì bumayè!" - "Alì, ammazzalo!" - che fu il motore della determinazione dello stesso Muhammad dato per sfavorito contro George Foreman, campione giovane e dirompente che aveva letteralmente distrutto Joe Frazier, l'unico fino a quel momento in grado di battere - pur se solo ai punti - "il più grande".
Più che un film sul pugilato o sulla carriera del suo protagonista, Alì appare come una sorta di manifesto politico: una profonda, sentita ed incredibile - essendo girata da un bianco - pellicola in grado di raccontare le radici, le contraddizioni, la forza e le motivazioni di una lotta - quella per l'uguaglianza sociale e dei diritti - di cui il fu Cassius Clay divenne uno dei simboli più importanti sul finire degli anni sessanta. 
Una lotta che non gli costò la vita - come accadde a Malcolm X, ottimamente interpretato da Mario Van Peebles - ma il titolo, la licenza di boxare e anni di battaglie legali affinchè il suo diritto di non sostenere le decisioni del suo governo e la guerra del Vietnam fosse sempre affermato e mai contraddetto.
Fu un campione scomodo, Muhammad Alì, con i suoi eccessi e le continue prese di posizione per affermare la sua grandezza a cospetto di qualsiasi avversario - sul ring e non -, che continuò a battersi quasi ci fosse qualcosa di ben più grande di un titolo da mostrare al mondo, qualcosa che in quella magica notte del 1974 fu evidente ai cronisti, agli spettatori e agli sportivi, e che ancora oggi è davanti ai nostri occhi, simile alla poesia del movimento che Mann mostra nelle danze che Alì disegnava sul quadrato, "volando come una farfalla e pungendo come un'ape".
Senza dubbio, oltre ad un'eccellenza tecnica che lo stesso ex campione avrebbe apprezzato, un altro grande merito di Mann sta nell'aver motivato Will Smith per quella che, a mio avviso, resta la sua migliore - ed unica, grande - interpretazione, scandita sul quadrato e nella vita privata dell'uomo dietro allo sportivo da una colonna sonora come sempre per i film del buon Michael assolutamente incredibile, capace di spaziare dal soul retaggio della cultura del Sud degli States fino ai richiami africani, figli della culla che non dovrebbe essere riconosciuta solo da chi ne porta i colori, ma da ognuno di noi, perchè bacino di tutte le civiltà ad oggi conosciute.
Alì conobbe sapori diversi e contrastanti, nel corso del suo percorso come pugile, non terminò la sua carriera imbattuto come Rocky Marciano nè riuscì e non finire mai al tappeto come Jake LaMotta, eppure ancora oggi le sue gesta sono tra le più ammirate dell'intero mondo dello sport: perchè Muhammad portò la poesia sul ring, rese possibile l'impossibile, trasformò la leggenda in realtà, mostrando quanto potesse essere clamorosamente vera.
Muhammad Alì che ora - siano i colpi subiti, sia il destino - incrocia i guantoni con un avversario ben più temibile di George Foreman o Joe Frazier - recentemente scomparso -, che ha nel tempo un manager arcigno e nelle sue ripercussioni i colpi più devastanti.
Ma poco importa.
Perchè, in qualche modo, Alì ha già vinto la sua battaglia.
A Kinshasa, nel 1974, o davanti alla tv, sempre allora, io non potevo esserci.
La prima volta che sentii parlare di Alì fu dai racconti di mio padre, quasi fosse un essere mitologico.
Vidi l'incontro con Foreman sapendo già come sarebbe andato a finire, e poi Quando eravamo re, il mitico documentario girato ricordando quel grande evento.
E lo vidi con i brividi, come se mi trovassi lì, in prima fila, a gridare "Alì, bumaye!".
Come vedo con i brividi ora questa meraviglia firmata Michael Mann, che muove la macchina come il suo protagonista danzava sul ring, senza cercare di diventare leggenda.
Sapeva di esserlo già.


MrFord


"As the rhythm designed to bounce
what counts is that the rhymes
designed to fill your mind
now that you've realized the prides arrived
we got to pump the stuff to make us tough
from the heart
it's a start, a work of art."
Public Enemy - "Fight the power" -
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