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lunedì 23 settembre 2019

White Russian's Bulletin



Proseguono - incredibilmente - i post in anticipo e programmati del Saloon, guadagnati a partire dalle purtroppo ormai lontane vacanze estive e che finiranno per presentare titoli freschi d'uscita in differita di qualche settimana: a questo giro tocca a serie e film che hanno imperversato poco dopo il rientro e prima che Venezia dichiarasse i suoi vincitori, nell'attesa anche qui di scoprire se saranno davvero tali anche quando giungeranno al mio bancone.
Intanto, tra serial killers e mostri, la compagnia qui è ben assortita.


MrFord



MINDHUNTER - STAGIONE 2 (Netflix, USA, 2019)

Mindhunter Poster


Chi frequenta il Saloon da qualche anno sa bene quanto abbia nel tempo sponsorizzato e caldeggiato la lettura di Mindhunter di John Douglas, autobiografia dell'omonimo agente FBI tra i fondatori dell'Unità di analisi comportamentale del Bureau: da quello stesso lavoro, oltre a numerosi romanzi e film di genere, due anni fa era stata tratta una serie molto interessante legata alla nascita della stessa unità, costruita su una serie di interviste svolte nelle carceri americane con protagoniste le superstar di questo decisamente inquietante mondo.
Gente come Manson, Kemper, Bergowitz e soci che, grazie alle chiacchierate con gli agenti, fornivano informazioni sempre più utili per comprendere - o tentare di farlo - cosa accade nella mente di un serial killer: alle spalle una prima stagione decisamente convincente, gli autori ed il cast tornano a confermare quanto di buono era stato fatto grazie all'incrocio di momenti cult - l'incontro con Manson -, indagini tese - gli omicidi di Atlanta - ed un lavoro ottimo sulla costruzione dei protagonisti, talmente buono da oscurare quello che, sulla carta, dovrebbe essere il main charachter in favore delle sue "spalle".
A questo si uniscono una regia che rispecchia in pieno lo stile di uno dei suoi "deus ex machina" David Fincher ed un'inquietudine diffusa ma mai gridata, più che altro suggerita e serpeggiante, quasi come quando tornando a casa in una notte tempestosa si ha il timore di essere seguiti.
Mindhunter è quel timore che diventa realtà.




IT - CAPITOLO DUE (Andy Muschietti, Canada/USA, 2019, 169')

It - Capitolo due Poster


It è stato - a prescindere dalla comunque dubbia qualità del film tv - uno dei supercult dell'infanzia di questo vecchio cowboy, grazie ad una storia di amicizia in pieno stile Goonies o Stand by me e all'interpretazione pazzesca di Tim Curry nel ruolo di Pennywise, charachter strepitoso creato da Stephen King che rappresentava e rappresenterà, fondamentalmente, la paura che il mondo può esercitare su ognuno di noi, con tutto il suo potere di celare mostri anche dietro il più innocuo degli angoli. Il primo capitolo di questa nuova versione firmata Muschietti mi aveva colpito molto favorevolmente, il lavoro di Bill Skarsgard era stato strepitoso e l'atmosfera in stile Stranger Things aveva rispolverato lo spirito di "quei tempi".
Con Julez abbiamo approfittato di una delle serate da "libera uscita di coppia" regalate dalla sempre preziosa suocera Ford per chiudere i conti con il Clown Danzante, portandoci a casa spunti notevoli e qualche dubbio: il prodotto è solido e ben realizzato, Skarsgard spacca ancora e in modo ancora diverso - la capacità del ragazzo di passare da patetico a inquietante spostando solo le sopracciglia è degna dei migliori trasformisti -, il "mostro" dietro Pennywise, chiaramente legato al bullismo e ai suoi surrogati, è ben portato sullo schermo, il vecchio Bowers - interpretato da Teach Grant - è perfetto, così come l'utilizzo di Stan non come esempio di vigliaccheria ma di coraggio e collante per i suoi amici.
Di contro, senza dubbio è mancato il coinvolgimento emotivo - del resto, anche io, come i Perdenti, sono invecchiato parecchio dal mio primo incontro con It -, alcuni passaggi non convincono pienamente e l'impressione è che Derry non sia stata calcolata a dovere - in alcuni momenti pare quasi che il gruppo di amici sia solo in tutta la città -, senza contare che, a proposito di giochi con il finale - mitica la comparsata di King, tanto per rimarcare le cose -, mi è mancato quello della tanto vituperata miniserie televisiva con Bill e Audra.
La visione, comunque, rende, e tra gli entusiasti e i criticoni mi metto nel mezzo, apprezzando un lavoro che, probabilmente, sarà sempre troppo stretto al materiale portato sulla pagina dal Re del brivido.





WHEN THEY SEE US (Netflix, USA, 2019)

When They See Us Poster


Proprio quando Chernobyl pareva già avere la strada spianata per conquistare il titolo di serie dell'anno del Saloon, ecco giungere su questi schermi When they see us, miniserie targata Netflix dedicata all'eclatante caso dei 5 di Central Park, accusati ingiustamente sul finire degli anni ottanta per questioni prevalentemente razziali di stupro e costretti a subire riformatorio e carcere per buona parte della loro giovinezza.
Ammetto che, per la durezza e la rabbia, al termine del primo episodio ho avuto il dubbio se proseguire nella visione, considerato che lavori come questo - o come Diaz, o Sulla mia pelle, o qualsiasi altro che tocchi il tasto dell'ingiustizia - finiscono per solleticare il mio lato ribelle, "da bombarolo", come canterebbe De Andrè e mi ricorderebbe Julez come monito: fortunatamente, ho proseguito.
E ho avuto la fortuna di incrociare il cammino con uno dei titoli più sentiti, potenti e vivi degli ultimi anni, che dovrebbe toccare chi è genitore, perchè un calvario del genere è inconcepibile da provare dall'altra parte, per chi è vivo, perchè farsi privare della giovinezza non è nulla rispetto a qualsiasi risarcimento, perchè questa è una ferita aperta nel cuore degli USA almeno quanto l'Undici Settembre, a prescindere dal numero delle vittime. E perchè gente come Trump, più che occupare posizioni di potere che influenzano il mondo, dovrebbe giusto scaldarsi il culo sulla poltrona del salotto senza rischiare di compromettere cose decisamente più grandi della loro limitata visione del mondo.
Per quanto mi riguarda, i 5 di Central Park, o di Harlem, o come li vogliamo chiamare, potrebbero essere Presidenti. Ma non credo gli interesserebbe.
Perchè, per quello che hanno dovuto subire e per quello che vogliono costruire, credo vogliano per prima cosa occuparsi davvero degli altri.
E che i loro figli possano non passare quello che hanno passato loro.





LE IENE (Quentin Tarantino, USA, 1992, 99')

Le iene Poster


Spinto dalla curiosità per l'ultimo Tarantino, sono andato a rispolverare il primo.
E a distanza di ventisette anni - quasi non ci credo sia passato così tanto tempo -, Le iene sa ancora essere una bomba atomica pronta a prendere a calci in culo una marea di pellicole uscite dopo di lei, ed altre che ancora devono vedere la sala.
Il primo film del buon Quentin è un dramma shakespeariano che pare una versione hard boiled di Americani, un concentrato di dialoghi pazzeschi e tensione continua, interpretazioni e scene cult ed un vero e proprio manuale per lo sceneggiatore: dall'apertura da antologia nella caffetteria alle prove da infiltrato, passando per il taglio dell'orecchio ed il finale senza speranza, Tarantino mescola i Cani arrabbiati al Bardo, il classicismo con sangue e merda, le risate al dramma profondo.
E lo fa con uno stile impeccabile, unico, indimenticabile.
Le iene, come altri titoli firmati dal regista di Knoxville, va visto, rivisto, vissuto, più che recensito o spiegato. E' il colpo di genio, la rottura, quel qualcosa che qualsiasi fan aspetta, e prega di vivere sulla pelle nel momento in cui esplode.





ARMADA (Ernest Cline, USA, 2015)


Tornato agli standard di lettura di quasi cinque anni fa, subito dopo Winslow ed in attesa di Nesbo ho deciso di buttarmi su un altro fordiano acquisito, Ernest Cline, che qualche anno fa mi conquistò con Ready Player One. Purtroppo, però, questo Armada risulta patire la sindrome del "sequel" - anche se di sequel non si tratta -, rimanendo lontano anni luce - per usare un termine che piacerebbe all'autore - dal romanzo che lo portò alla ribalta: i riferimenti sono divertenti, si fa leggere, per chiunque sia nato o cresciuto negli anni ottanta regala senza dubbio qualche chicca, eppure pare la versione fan - e Hollywood - service del già citato lavoro portato sugli schermi - a mio parere senza successo - da Spielberg.
I tempi di narrazione lasciano più di un dubbio, alcuni passaggi vengono giustificati in poche righe, l'atmosfera vintage pare più nerd che non sincera, vissuta e amata, quasi come Armada fosse la versione da sfigato rancoroso di quello che era stata la "rivincita dei nerd" di Player One.
Un peccato, perchè finisce per far dubitare di un autore che prometteva davvero un gran bene, anche se, dall'altra parte, ha avuto il merito di alleggerire come un cuscinetto il passaggio tra due mostri come Winslow e Nesbo.


martedì 29 dicembre 2015

Ford Awards 2015: i film (N°30-21)

La trama (con parole mie): prosegue la carrellata della Top 40 fordiana legata al duemilaquindici in sala, salendo di decina e categoria per incontrare alcune delle pellicole più premiate ed incensate dell'anno, indubbiamente valide ma da queste parti non meritevoli neppure della Top 20.
Accanto a loro sorprese, conferme e l'impressione che, con gli ultimi dodici mesi, tutti noi si sia assistito ad un ritorno al passato - ed al futuro, in un certo senso - davvero spassoso e ricco di piacevoli visioni.


N°30: FURY di DAVID AYER


Il genere bellico, così come il Western, è un retaggio che mi porto dentro fin dai tempi dei film con John Wayne visti sul divano con mio nonno, legati a situazioni e valori che, fortunatamente per molti versi, la nostra generazione ha potuto solo vedere al Cinema, o scoprire sui libri.
Il lavoro di David Ayer offre l'ennesimo, ottimo spaccato del dramma assurdo della Guerra, e nonostante molte imperfezioni, regala anche momenti di grande emozione.

N°29: STILL ALICE di RICHARD GLATZER E WASH WESTMORELAND



Raccontare drammi legati a malattie non è mai facile, considerati i rischi di retorica sempre dietro l'angolo. Still Alice riesce nell'impresa - pur non eccellendo - riuscendo addirittura a far apparire Kristen Stewart come un'ottima interprete.
E raccontando la Famiglia prima della malattia stessa.

N°28: WHIPLASH di DAMIEN CHAZELLE



Titolo più che incensato ai tempi dell'ultima edizione degli Oscar, considerato una sorta di nuovo Attimo fuggente, a me è parso un discreto prodotto teso e molto di pancia, pur se decisamente da sminuire almeno rispetto alle suddette critiche.
Gran lavoro degli interpreti, ottimi gli spunti di riflessione, tanto clamore.
Un posto in questa classifica, ad ogni modo, lo meritava.

N°27: BIRDMAN di ALEJANDRO GONZALES INARRITU


Ed eccoci giunti ad uno dei titoli più premiati e discussi dell'anno: tecnica ineccepibile, grande confezione ed interpretazioni, pioggia di premi, gran parte di pubblico e critica convinti.
Eppure. Eppure per me resta solo un enorme esercizio di stile che per due terzi si sarebbe potuto trovare nella Top 10 e che con l'ultima mezzora precipita di almeno una ventina di posizioni.

N°26: STRAIGHT OUTTA COMPTON di F. GARY GRAY


Biopic con due palle d'acciaio legato ad uno dei gruppi fondamentali del panorama hip hop mondiale di tutti i tempi, gli NWA che furono la palestra di Ice Cube e Dr. Dre.
Colonna sonora imperdibile, grande cuore, qualche pecca ma tanta voglia di raccontare una storia che tutti gli appassionati di musica e chiunque voglia aprire le proprie frontiere sociali dovrebbero ascoltare e vedere narrata almeno una volta.

N°25: SELMA di AVA DUVERNAY


Legato a doppio filo ad uno degli eventi più importanti della Storia dei Diritti Civili negli States, il lavoro della DuVernay, che pensavo si sarebbe rivelato come profondamente retorico, ha contraddetto le aspettative fornendo un ritratto di Martin Luther King equilibrato e profondo, riuscendo a toccare il cuore e la pancia, l'indignazione e l'orgoglio di chiunque abbia a cuore non solo i diritti degli altri, ma anche e soprattutto i propri.
N°24: WILD di JEAN MARC VALLEE


Altro biopic, ed altro titolo che, rispetto alle aspettative della vigilia, si è rivelato un ottimo e sorprendente prodotto figlio dell'esperienza, della pancia e delle emozioni.
Un road movie costruito passo dopo passo, un percorso verso la rinascita di una protagonista indimenticabile, interpretata alla grande ed esempio per tutti quelli che, come il sottoscritto, sono inclini a perdere la strada maestra.

N°23: TERMINATOR - GENISYS di ALAN TAYLOR 


Da fan hardcore dei primi due capitoli della saga di Terminator firmati da James Cameron, ero molto scettico rispetto al ripescaggio del personaggio, soprattutto dopo due prodotti decisamente scarsi come il pessimo numero tre e lo pseudo autoriale Salvation, ma Taylor e l'autoironia di Schwarzy hanno dissipato ogni dubbio.
Negli ultimi anni, solo Expendables 2 mi aveva fatto divertire tanto, in sala.

N°22: UN DISASTRO DI RAGAZZA di JUDD APATOW


Apatow torna in sala sfruttando il talento di Amy Schumer - che mi sta anche cordialmente sul cazzo - di fatto realizzando il primo buddy movie della sua carriera dal punto di vista femminile: una rom com insolita e divertente, scorretta e commovente nella migliore tradizione del film pane e salame tanto amato dal sottoscritto.

N°21: SOUTHPAW di ANTOINE FUQUA


Tamarro, scontato, retorico, tagliato con l'accetta. 
Dite pure quello che volete, fatta eccezione per l'ineccepibile performance di Gyllenhaal, e non potrò che darvi ragione.
Eppure, da padre e da outsider, ho adorato incondizionatamente Southpaw, perfetta parabola sul riscatto e sull'amore per i propri figli.
Fatica, botte, peccatori e l'innocenza di occhi che ci guardano come se fossimo unici. Non potevo resistere.


To be continued... 

lunedì 2 marzo 2015

Selma - La strada per la libertà

Regia: Ava DuVernay
Origine: USA, UK
Anno:
2014
Durata:
128'
 




La trama (con parole mie): Martin Luther King, leader afroamericano fondamentale nella lotta per la conquista di diritti civili fino ai primi anni sessanta negati alla sua gente dai salotti della Casa Bianca e dal rapporto con Lyndon Johnson fino alle marce di protesta, ritratto in uno dei momenti cruciali della sua carriera politica ed esistenza.
A Selma, in Alabama, si visse infatti nel sessantacinque una delle stagioni più importanti della lotta per il voto degli afroamericani ed alcuni dei drammi più terribili legati alla conquista di diritti che ogni uomo dovrebbe acquisire alla nascita: sostenuto da gente comune, avversari politici come Malcolm X, il suo entourage e la famiglia, il Dottor King dovrà fare fronte alle difficoltà organizzative, personali, politiche e legate all'ignoranza manifestata dagli estremisti bianchi in modo da portare a termine quello che sarà ritenuto un atto dimostrativo pacifico fondamentale per conquiste che ancora oggi hanno importanza nella società.








In quello che, con ogni probabilità, sarà ricordato come l'anno dei biopic - almeno rispetto ai film candidati nelle categorie principali degli Oscar -, una proposta come Selma era davvero un rischio: trattando una tematica importante ma potenzialmente pericolosa - in termini di resa finale e trabocchetti legati alla retorica - come quella dei diritti civili passando attraverso una delle figure cardine legate agli stessi, Martin Luther King, Ava DuVernay di fatto ha deciso di scommettere sulla sua capacità di narratrice mettendo probabilmente in conto di finire, in caso di fallimento, per essere ricordata come la conciliante regista del The butler di questa stagione.
Fortunatamente per noi la coraggiosa donna dietro la macchina da presa è riuscita nell'impresa di trovare il giusto equilibrio e consegnare all'audience un film artigianale e privo di chissà quali spunti "alti" eppure solido e potente, sobrio e di pancia, interpretato alla grande da tutti i i suoi protagonisti e pronto a raccontare le vicende legate a Selma, Alabama - uno dei centri nevralgici della lotta di quegli anni - senza essere schiacciato dagli stessi e dai loro interpreti - Tim Roth, Tom Wilkinson e David Oyelowo su tutti -: la presenza, infatti, nel ruolo di protagonista, di Martin Luther King - e, seppur solo per una breve parentesi, di Malcolm X - non inficia la narrazione che resta legata a doppio filo ad una città e ad una zona, quella del profondo Sud, che ancora oggi mostra di avere problemi legati alla gestione dei rapporti tra bianchi e neri.
Una narrazione che non solo non patisce le oltre due ore di durata, ma che ha il potere di intrattenere il pubblico come il più riuscito dei blockbuster d'autore hollywoodiani e ad un tempo soddisfare quantomeno in parte il desiderio di una certa asciuttezza di fondo del pubblico più di nicchia e della critica: interessanti, in questo senso, il confronto tra l'approccio assolutamente passionale del Dottor King e del suo entourage contrapposto a quello degli organismi di controllo statunitensi, ben rappresentati dai report "battuti a macchina" all'inizio di ogni sequenza dai riscontri storici documentati, neanche ci trovassimo all'interno di un file della CIA o dell'FBI fino ad ora secretato e rivelato all'opinione pubblica nella sua interezza.
Dovendo pensare a quello che dovrebbe essere il classico blockbuster artigianalmente di livello superiore che si finisce per vedere e rivedere sempre con grande piacere - come fu The Help tre anni or sono - traendo una lezione importante anche in termini di contenuti, Selma sarebbe un ritratto perfetto, senza dubbio superiore agli spenti The Imitation Game e La teoria del tutto ed in linea con uno stile ed un approccio che riescono a mescolare il piglio del documentario, o della serie tv di qualità a quello del Cinema in grado di riunire lo spettatore occasionale e l'appassionato.
Tutte qualità non da poco, che si traducono al loro meglio più che nelle scene madri - la marcia nei suoi due tentativi, l'uccisione del ragazzo nella caffetteria - in quelle apparentemente marginali e legate al mondo più privato del Dottor King - il suo rapporto con Mahalia Jackson, le difficoltà con la moglie - ed alle incertezze che il Presidente Johnson ebbe rispetto all'appoggio dato al grande leader afroamericano.
Da questo punto di vista - ma non solo - il lavoro della DuVernay si può considerare un grande successo, ed un importante sguardo su una cittadina che, per quanto piccola e geograficamente lontana dai veri luoghi di potere USA, rappresentò il fulcro di una rivoluzione fondamentale per quella che, con tutte le sue imperfezioni, è la società attuale: la marcia di King e la sua lotta, unite, seppur distanti per ideologia, a quelle di Malcolm X, ebbero il compito di formare le nostre coscienze di bianchi prima ancora di quelle degli afroamericani, giunti alla vigilia di un cambiamento sacrosanto ed epocale nella loro vita sociale.
E forse, a ben vedere, una Selma - almeno in termini astratti, o di coraggio - servirebbe a volte anche oggi, non fosse altro che per sensibilizzare una società che troppo spesso si maschera dietro un finto progressismo.



MrFord



"One day when the glory comes
it will be ours, it will be ours
one day when the war is won
we will be sure, we will be sure
oh glory."
John Legend - "Glory" - 




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