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lunedì 16 dicembre 2019

White Russian's Bulletin



Altra settimana di transizione, per il Bulletin, figlio dell'ormai stanchezza da divano che mi coglie inesorabilmente la sera, degli impegni in famiglia, al lavoro e con la palestra che portano via gran parte delle energie mentali e fisiche: prima, però, di avventurarci nelle classifiche di fine anno, sono riuscito comunque a portare a casa un altro sabato sera Cinema con i Fordini, una serie e una novità da sala. Di questi tempi, direi un bottino abbastanza importante.


MrFord



LE MANS '66 - LA GRANDE SFIDA (James Mangold, USA/Francia, 2019, 152')

Le Mans '66 - La grande sfida Poster


Come chi mi conosce o frequenta il Saloon da un pò di tempo ben sa, il mio rapporto con i motori non è esattamente idilliaco: anzi, per usare un eufemismo, direi che meno sto con le mani su un volante e meglio sto. Eppure, paradossalmente, fin da bambino sono sempre stato affascinato dalle storie legate ai grandi piloti - soprattutto di Formula Uno -, associando le stesse alle imprese sportive che, probabilmente per merito della passione di mio padre per lo sport in genere, sono state parte di una mitologia domestica importante negli anni della mia formazione.
James Mangold, ottimo artigiano del Cinema che negli anni mi ha regalato piccole gioie come Identità o Walk the line, porta sullo schermo una vicenda che non conoscevo, quella della storica edizione del sessantasei della ventiquattro ore di Le Mans, una delle gare automobilistiche con maggior fama e memoria storica di sempre: in particolare, quell'edizione portò a confronto i due colossi Ford e Ferrari, e a collaborare l'ex asso del volante Carroll Shelby ed il meccanico e spigoloso pilota Ken Miles. Mangold, sfruttando una struttura molto classica ed appoggiandosi a due certezze come Damon e Bale - e devo ammettere che, nonostante il talento, in questo caso ho apprezzato di più il primo -, porta in scena il classico racconto in pieno stile Oscar che coinvolge ed emoziona, una sorta di versione old school di Rush cui manca forse l'impatto di una rivalità effettiva - di fatto, è la storia di un'amicizia - ma riesce comunque a raccontare una storia e ad emozionare.
Curiosa l'interpretazione macchiettistica del team Ferrari, sempre "troppo italiano", o quantomeno italiano visto da occhi a stelle e strisce, ma è un peccato veniale all'interno di un lavoro sicuramente ben strutturato.




JACK RYAN - STAGIONE 1 (Prime Video, USA, 2018)

Jack Ryan Poster

Pescato dal catalogo Prime, che ultimamente in casa Ford sta facendo da concorrente a Netflix, e giunto più in sordina del previsto da queste parti - in fondo si parla di territori molto fordiani -, la versione da piccolo schermo di Jack Ryan, eroe nato dalla penna di Tom Clancy, ha portato una ventata di action spionistica quasi più cinematografica che seriale, convincendo episodio dopo episodio portando in scena una vicenda dal sapore di primi Anni Zero senza per questo sembrare datata o fuori tempo massimo, risultando solida sia per quanto riguarda il comparto tecnico che per il cast - e pensare che non sono un fan di John Krasinski e Abbie Cornish - ed alimentando una tensione che con gli ultimi episodi cresce con buona intensità.
Un prodotto dunque interessante che potrebbe raccogliere il testimone dell'ormai classico 24 regalandone però al pubblico una versione più realistica e meno da fumetto, legata a tematiche importanti come la guerra al terrorismo e rappresentata da un main charachter che unisce la componente fisica dell'eroe di genere ad una mentale che, in questi casi, non ci si aspetta proprio.




STAR WARS EPISODIO IV - UNA NUOVA SPERANZA (George Lucas, USA, 1977, 121')

Guerre stellari Poster

Il sabato sera Cinema dei Fordini questa settimana ha iniziato uno dei percorsi più importanti per un cinefilo, anticipato rispetto a quanto pensassi dall'esaltazione mostrata soprattutto dalla Fordina per il trailer del nono e ultimo capitolo della Saga, motivata principalmente da Chewbacca, diventato l'idolo della più piccola del Saloon.
A fronte, dunque, degli oltre quarant'anni dall'uscita e della stanchezza, sono rimasto sorpreso di quanto bene abbiano preso questo cult i ragazzi, incuriositi da particolari e personaggi differenti - uno tutto per i droidi, l'altra tutta per Chewbacca, uniti contro un Darth Vader che ancora vedono come il Male assoluto - ed ora curiosi di proseguire nel cammino delle avventure di Luke Skywalker e soci: senza ombra di dubbio Una nuova speranza resta una pietra miliare del genere e non solo, capace di raccontare una storia universale trasformandola in un giocattolone magico che colpisce ad ogni età e a prescindere dai propri gusti in fatto di strade da percorrere.
E' forse il film simbolo ed il più completo della Saga, quello che giustamente viene preso come modello e riferimento, è sempre una pacchia da guardare e nonostante gli anni invecchia alla grandissima: non è il mio favorito - e sono curioso di scoprire come prenderanno i Fordini L'impero colpisce ancora, a questo proposito -, ma indubbiamente è un titolo che non può mancare nella formazione di un amante della settima arte.
Che la Forza sia con noi.

martedì 16 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, UK/USA, 2017, 115')




In uno dei loro pezzi più noti ed apparentemente semplici, i Beatles cantavano "All you need is love".
Detta così, senza associarla ai Fab Four, parrebbe quasi una frasetta del cazzo da Baci Perugina, o romanzo rosa di dubbio gusto ed indubbia (bassa) qualità.
Ma come spesso accade, nella semplicità risiede qualcosa di talmente grande da mangiarsi tutto il resto, perfino quando il mondo attorno crolla pezzo dopo pezzo, e l'unica strada che pare possibile per lo stesso è quella di andare inesorabilmente a puttane, senza usare troppi giri di parole.
Ed è quella la direzione che pare aver preso la vita ad Ebbing, Missouri, uno di quei piccoli centri persi tra il nulla e l'addio eastwoodiani in cui tutti sanno tutto di tutti ed i peccati sono al contempo ben nascosti sotto i tappeti eppure alla mercè delle voci che danno buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio: c'è un Capo della polizia che è il ritratto dell'uomo d'altri tempi, con un bel tumore al pancreas e non si capisce se troppa condiscendenza o troppo poco coraggio, il suo protetto che vive in bilico tra bullismo e razzismo, e per sfogare la rabbia di una vita ben al di sotto degli standard che i suoi fumetti probabilmente gli fanno sognare preferisce affogare il dolore nell'alcool o gettando pubblicitari falliti dalle finestre dopo averli pestati, un venditore di auto usate che cerca con il cuore, le bugie ed una strana e silenziosa determinazione a non essere visto sempre e solo come un nano, miserie umane e speranze più o meno in pezzi che s'infrangono, divampano, esplodono contro tre manifesti che cercano di portare a galla una verità terribile piuttosto che rimanere confinati nella tranquillità di un silenzio troppo pesante.
E poi c'è lei, Mildred.
Mildred che è una donna che ha dovuto farsi le ossa a fronte di un marito violento che esibisce una fidanzata che potrebbe essere la loro figlia morta, bruciata e violentata proprio sulla strada di quei manifesti, che lavora e non ha paura di dire quello che pensa e fare quello che vuole, che ha deciso, perduto l'amore, di sopravvivere grazie all'odio.
Perchè è quello, che resta in piedi nei posti persi tra il nulla e l'addio, le case polverose delle speranze infrante.
Quello che pompa il sangue nel cuore di Mildred, in quello di Dixon, che scorre sotto le strade di Ebbing, Missouri. Quello che si è portato via una ragazza nel peggiore dei modi, e che trascina da sotto i tappeti in cui vengono nascosti male i peccati tutto quello che di peggiore può rimanere dei peccati stessi, dal rancore alla paura. E di nuovo, all'odio.
Lo stesso che trasforma una risata o un momento talmente assurdo dall'essere divertente in una delle sequenze più disturbanti del passato recente, che apre vecchie ferite e si compiace nel cospargerle con il sale del rimorso e dei sensi di colpa, e trasforma qualsiasi confronto in una sorta di guerra.
Per chi in guerra ci è andato perdendo fin troppo della sua umanità, e per chi è rimasto, e combatte ancora più duramente tutti i giorni.
E proprio quando, come nella notte più buia, l'unica strada che pare possibie è quella di andare inesorabilmente a puttane, ecco che ritorna quella frase semplice semplice.
All you need is love.
Una cosa apparentemente banale che si porta dietro il segreto del mondo, anche quando pare non ci sia davvero un cazzo per cui anche solo sognare di essere felici, o lottare, o difendere.
Perchè, come scriveva Hesse, "Senza una madre non si può amare, senza una madre non si può morire", o come ricorda Willoughby a Dixon, "Non puoi essere un buon poliziotto senza amore".
L'amore ti da la dimensione di quello che vuoi proteggere, e la forza per dimostrare che anche le cose peggiori, a volte, possono prendere una direzione diversa da quella che si possa pensare.
Non è detto che possano comunque finire bene, o che da qualche parte l'odio non possa generare altro odio.
Ma chi è pronto a scommettere su quella semplice frase, ha senza dubbio spalle abbastanza larghe per sopportare il dolore e volontà abbastanza forte per iniziare un viaggio che possa portare oltre.
Quello che accadrà si potrà sempre decidere un passo dopo l'altro.



MrFord



giovedì 7 dicembre 2017

Geostorm (Dean Devlin, USA, 2017, 109')





Se c'è una cosa che mi fa incazzare in quanto strenuo sostenitore del Cinema americano anche di grana grossa sono le produzioni che danno ragione ai radical che bersagliano il suddetto Cinema americano per passatempo: quelle merdate da multisala nel weekend perfette per lo spettatore occasionale cui non fregherebbe nulla di quello che guarda, divertenti neppure per sbaglio, ironiche nei loro sogni più sfrenati o qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente per giustificare il prezzo del biglietto.
Certo, già dal trailer Geostorm lasciava presagire ben poco di buono - nonostante la presenza del fordiano Gerard Butler, che nonostante abbia infilato negli anni una serie di pellicole da incubo continua a starmi simpatico -, e potevo sospettare che sarebbe andata com'è andata, ma sinceramente non immaginavo che si sarebbe potuto fare peggio anche dei peggiori disaster movies degli ultimi anni, roba da far apparire Emmerich una specie di genio della settima arte.
Trama già vista e sentita, dinamiche trite e ritrite, un cast nutrito in cerca di grana, soluzioni implausibili, terribile finale retorico: davvero tutto quello che non vorrei chiedere alle tamarrate di questo stampo, anche e soprattutto considerato che nel corso dei centonove minuti non sono riuscito a divertirmi neppure per sbaglio, passando il tempo a sperare che si giungesse presto alla conclusione.
Interessante segnalare, oltre al livello davvero basso dell'intera produzione - che pare un cocktail di tutti i suoi predecessori anni novanta, oltre ad una versione "da serie C" di Armageddon - la caduta libera della carriera di Robert Sheehan, qualche anno fa idolo delle prime due stagioni di Misfits, destinato per molti a divenire uno dei giovani volti più promettenti del panorama mondiale ed ora finito a fare il caratterista, senza tra le altre cose neppure eccellere.
L'unica consolazione dell'essermi imbarcato in questa scellerata visione è la consolazione di aver trovato uno dei candidati più forti per la classifica dedicata al peggio del duemiladiciassette, nonostante la concorrenza quest'anno sia davvero agguerrita: ma quella tra le posizioni più alte di quella top ten  è la "tempesta" migliore che questa roba possa sperare di essere in grado di provocare.
Vi lascio immaginare quali siano le altre.




MrFord




sabato 9 aprile 2016

Premonition - Solace

Regia: Afonso Poyart
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 101'







La trama (con parole mie): l'agente Joe Merryweather, a seguito di una serie di omicidi insoluti che stanno mettendo in grave difficoltà l'FBI, con la collega Katherine Cowles convince a tornare dal suo ritiro - avvenuto due anni prima di quegli eventi a seguito della morte per malattia della figlia - il sensitivo John Clancy, per anni collaboratore dell'agenzia, che pare dotato di un potere di chiaroveggenza ai limiti del superumano.
Quando le tracce conducono i tre al punto di connessione tra gli omicidi - il fatto che le vittime siano tutte affette da malattie terminali -, inizia per i detectives una caccia che li condurrà ad un confronto prima con loro stessi e le luci ed ombre delle loro anime, e dunque con il resposabile delle morti, che pare possa essere dotato di un potere molto simile - se non superiore - a quello di Clancy.











La lunga storia d'amore tra i thriller e le crime stories ed il Saloon continua ad essere ben lontana dall'esaurirsi, considerata l'attrazione che questo tipo di pellicole - anche quando, di fatto, si parla di intrattenimento spicciolo e non di cult - continua ad esercitare su tutti i suoi occupanti - Julez in primis, fan hardcore del genere morti ammazzati -: questo Solace - adattato vergognosamente in Premonitions -, uscito in sala sul finire del duemilaquindici, di grana grossissima, semplice nello svolgimento e figlio di una regia che vorrebbe essere cool firmata da Afonso Poyart - che nei momenti delle "visioni" di Clancy ed Ambrose pare sfogare uno stile videoclipparo passato di moda un paio di decenni or sono -, non è stato da meno, finendo per intrattenerci senza colpo ferire nonostante i numerosi difetti.
La vicenda del confronto tra il sensitivo "buono" da sempre collaboratore dell'FBI segnato da un lutto che l'ha portato ad isolarsi dal mondo intero e quello "cattivo", pronto a spingere il suo collega dall'altra parte al limite, ed oltre, è scorrevole e poco nociva, ben ritmata e, dopo una prima parte un pò troppo semplice - al limite del thriller da Italia Uno, come mi è capitato di sottolineare alla signora Ford - con la seconda finisce addirittura per avere un cambio di marcia convincente e stimolare perfino qualche riflessione non indifferente rispetto al ruolo dei cosiddetti "angeli della morte", serial killers che scelgono come bersagli malati terminali o persone ormai prossime all'ultimo saluto: la posizione di Ambrose, quella di chi vede come un atto di carità risparmiare sofferenza e patimenti a chi è destinato comunque a morire, e quella di Clancy, che stimolato da Merryweather crede nel tempo guadagnato, e non perduto, è tutt'altro che scontata, specie se legata ai trascorsi dello stesso Clancy ed al percorso compiuto da sua figlia.
Carne al fuoco dunque tutt'altro che stopposa o insipida per un film dalle pretese certo non alte, che porta sullo schermo il moribondo preferito dei fan di Grey's Anatomy Jeffrey Dean Morgan, un Anthony Hopkins che ormai marcia da una ventina d'anni sullo stesso registo, una Abbie Cornish meno convincente del solito ed un Colin Farrell dall'apparenza meno zozza del solito: una proposta buona, insomma, per una bella serata senza troppe pretese, consci del fatto che il risultato potrebbe finire per sorprendervi tanto in positivo quanto in negativo a seconda di quelle che saranno le vostre aspettative, che non aggiunge nulla al genere ma non rappresenta neppure una di quelle pellicole per le quali ci si ritrova a scagliare maledizioni sul tempo perduto a guardarle.
Il paragone, poi, tra la pietà per chi conosciamo ed amiamo e la tendenza a preservare e "salvare" dei perfetti sconosciuti è decisamente interessante, pronto a spostare il centro di gravità del lavoro di Poyart dal thrilling ed i serial killers al concetto di eutanasia - non per nulla Solace indica il sollievo, cosa che, forse, sarebbe stato carino spiegare ai responsabili degli adattamenti nostrani -, da sempre interessante sia a livello personale che sociale.
Un film scarsino, dunque, capace però di regalare perfino qualche sorpresa profonda.
Di questi tempi e con questo tipo di proposte, direi che non è poi così terribile.






MrFord






"I got a feelin' way down inside
I can't shake it, no matter how I try
you can't touch it, you just know
the earth is gonna shake and the wind is gonna blow
well that's all right
this premonition is killin' me
but that's all right
I must be crazy, I must be seein' things."
John Fogerty - "Premonition" -





martedì 11 marzo 2014

Robocop

Regia: Josè Padilha
Origine: USA, Brasile
Anno: 2014
Durata: 117'





La trama (con parole mie): in un futuro prossimo, nel cuore di una Detroit soggiogata dalla corruzione e dalle corporazioni, il solerte detective Alex Murphy indaga con il partner Lewis mettendo a nudo i problemi della polizia, tanto da essere prima minacciato e dunque tolto di mezzo grazie ad un attentato. Raymond Sellars, proprietario della Omnicorp da tempo in trattativa con il governo USA rispetto all'utilizzo di robot per la sicurezza sul suolo americano, coglie l'occasione al volo e grazie al supporto del geniale Dottor Norton dai resti di Murphy permette sia creato Robocop, un nuovo agente cyborg che unisca alla precisione della macchina il fattore umano fondamentale perchè possa essere accettato dall'opinione pubblica.
L'ex detective, praticamente risorto all'interno di un corpo che non riconosce come il suo, non dimenticherà però la famiglia e la strada che l'ha condotto fino all'essere prigioniero di un grande giocattolo per politici e politicanti: la sua indagine atta a sgominare i corrotti della città e del dipartimento, dunque, riprenderà più decisa di quanto non fosse prima.







Esistono alcune pellicole che hanno avuto senza dubbio il merito di formare il vecchio cowboy ai tempi dei suoi primi passi all'interno del fantastico mondo della settima arte, e che ai tempi furono i primi amori cinematografici miei e di mio fratello, che finivamo, nei periodi di dipendenza da un film, a vedere e rivedere almeno una trentina di volte la settimana, dalla mattina durante la colazione prima di andare a scuola al pomeriggio con la merenda o di sottofondo ai giochi fino ad arrivare alla sera prima di andare a dormire: accanto ai Goonies, alla saga di Rocky, Gremlins, Labyrinth, La storia fantastica e It - senza contare gli action a profusione - si trovava Robocop, pellicola firmata dal visionario Verhoeven ambientata in un futuro prossimo dominato dalla violenza ed incentrata sulla figura di Alex Murphy, agente di polizia massacrato da un gruppo di rapinatori al soldo dei vertici di una corporazione divenuto cyborg pronto passo dopo passo a riconquistare l'umanità perduta.
Ripensandoci ora, forse la visione di quella pellicola poteva essere perfino troppo dura per i due piccoli Ford, che allora si aggiravano attorno ai dodici e sei anni, eppure ricordo che, più che la carneficina che portò alla morte Murphy mi colpì moltissimo tutta la fase di "ricostruzione" dello stesso, così come la progressiva distruzione dell'armatura robotica pronta a scoprire di nuovo il lato umano celebrato dalla battuta di chiusura del film, accompagnata dal gesto decisamente cowboy del poliziotto cyborg memore della trasmissione amata da suo figlio: nonostante, dunque, non ne comprendessi a fondo le venature di critica sociale e politica - non nuove, del resto, al lavoro del regista -, ricordo Robocop come una grande epopea dello sci-fi urbano, una piccola pietra miliare per il genere e non solo.
Purtroppo, però, in questo caso non stiamo parlando di un cult inossidabile degli anni ottanta, ma della sua controparte - non sarebbe corretto definirlo un remake, tanto lontano è il lavoro di Josè Padilha dall'originale - del Nuovo Millennio, un prodotto estremamente commerciale figlio del tipico fenomeno di abbruttimento del buono che potrebbe trovarsi in qualche regista salito agli onori della cronaca non statunitense prontamente fagocitato e reso più piatto ed anonimo grazie al buco nero costituito dalle majors in cerca di sempre "nuovi" e lucrativi blockbusters: onestamente non ho mai amato particolarmente il cineasta brasiliano - non avevo apprezzato neppure Tropa de elite, il suo lavoro più noto ed incensato -, e sono stato scettico a proposito di questa operazione fin dalla visione del primo trailer, più simile ai videogiochi in stile Crysis e Call of duty che non all'idea che stava alla base del prodotto originale per apparire interessante a questo vecchio cowboy, per quanto tamarro possa di fatto essere.
Come Julez ben potrà testimoniare, la visione non è riuscita a piegare il pregiudizio e le cattive vibrazioni che l'hanno preceduta, così come ad eclissare, almeno in parte, il ricordo del riferimento eighties, che per quanto potesse non essere preso in considerazione come un effettivo termine di paragone ha finito per infestare tutta la visione, dal gusto della regia - decisamente troppo, troppo legata al mondo videoludico quella di Padilha, così frenetica nel montaggio da rendere decisamente confuse almeno metà delle sparatorie proposte - al semplice look del personaggio - impersonale e freddo quello del Robocop attuale, nonostante la mano lasciata umana che ovviamente farà la differenza nel finale rispetto a quella robotica -, senza contare la cattiveria di fondo dei due prodotti - la pellicola di Verhoeven era un concentrato di violenza quasi pulp, droga, tradimenti, corruzione e chi più ne ha, più ne metta all'interno della quale lo stesso Murphy, dato per morto e persa di fatto la famiglia, finiva per ritrovare la sua umanità spinto dai ricordi e dalla forza di volontà, invece che dalla zuccherosa chiusura probabilmente imposta dalla produzione di questa nuova versione - e lo spessore dei personaggi - da Bob Morton, passato da yuppie in carriera senza scrupoli a luminare della scienza dai grandi scrupoli morali, fino alla scomparsa del mitico Clarence Buddicher, responsabile della morte di Murphy e della sua crudele anticamera, qui neppure presente -.
Un fallimento su tutta la linea che non avrebbe neppure bisogno dell'originale per essere catalogato come un titolo inutile e dimenticabile e che la presenza di un riferimento assolutamente cult non fa che rendere ancora peggiore - come di recente era accaduto all'Oldboy di Spike Lee, più che sbiadita imitazione dell'inimitabile riferimento -: posso capire che la crisi di idee conduca ad operazioni commerciali pronte a raccogliere i fan di titoli già noti, ma se i risultati finiscono per essere questi allora tanto vale che le majors si concentrino su soggetti inediti di poco spessore, piuttosto che svilire  script, charachters o titoli di riferimento.
Se non altro, vecchi fan accaniti come il sottoscritto potrebbero approcciare la visione con qualche pregiudizio - poi puntualmente confermato - in meno.



MrFord



"Se il mondo ti confonde, non lo capisci più, 
se nulla ti soddisfa, ti annoi sempre più
scienziati ed ingegneri hanno inventato già 
una generazione di bambole robot."
Alberto Camerini - "Rock and roll robot" - 





venerdì 28 giugno 2013

7 psicopatici

Regia: Martin McDonagh
Origine: UK
Anno: 2012
Durata: 110'




La trama (con parole mie): Marty, uno sceneggiatore in crisi con qualche problema di dipendenza dalla bottiglia, deve stringere i tempi per la consegna del suo ultimo lavoro, chiamato 7 psicopatici, dovendo al contempo gestire il conflittuale rapporto con la fidanzata Kaya e soprattutto l'inseparabile e scombinato amico Billy, che si offre di aiutarlo nella stesura dello script raccontandogli storie decisamente curiose a proposito di killer di esponenti di spicco della mala e di uomini di fede più fedeli alla vendetta che alla religione.
Quando proprio Billy rapisce il cane di un vero boss malavitoso sperando in un riscatto - uno standard per il suo lavoro di "accalappiacani" portato avanti con il socio Hans -, la vicenda dei nostri si complica, e per Marty verrà il momento di affrontare davvero sulla pelle quello che diventerà il copione del suo film.




So già che molti storceranno il naso - almeno in parte - dando un'occhiata al voto che ho deciso di assegnare all'ultima fatica del promettente Martin McDonagh, salito agli onori della cronaca con l'ottimo In Bruges qualche anno fa, considerandola, di fatto, alla pari del suo esordio: io per primo sono ben cosciente del fatto che con 7 psicopatici l'autore britannico abbia dovuto piegarsi a qualche concessione alla grande produzione e alle stelle e strisce, eppure la sua prima esperienza oltreoceano - al contrario di quelle di molti talentuosi registi che finiscono fagocitati dalla "terra promessa" ammmeregana - può senza indugio essere considerata chiusa con un successo, e la consegna al pubblico di una pellicola scombinata e divertente, ironica e nerissima, pulp e da più di un punto di vista malinconica all'interno della quale figura un cast all star è la prova del grande talento di questo nuovo interprete di quella che ormai si può definire l'eredità dei vari Tarantino e Ritchie.
Scritto sfruttando un meccanismo di realtà e finzione e racconto nel racconto che ha la struttura di un allucinato balletto di scatole cinesi sotto acido e costruito sulle ottime interpretazioni dei suoi protagonisti - grande come sempre il vecchio leone Christopher Walken, meraviglioso il caotico Billy di Sam Rockwell, gigioneggiante e mitico Woody Harrelson con il suo Charlie -, 7 psicopatici ha una partenza fulminante, preludio ad una prima parte in grado di stimolare il dubbio che ci si trovi di fronte ad un vero e proprio miracolo, affronta una leggera flessione nella sezione centrale - forse avrebbe giovato una decina di minuti in meno nel momento del viaggio nel deserto di Hans, Marty e Billy - prima di sfoderare un finale decisamente efficace, all'interno del quale al gusto irriverente del grottesco tipico del genere e dell'approccio del regista si lega - come era stato anche per In Bruges - una commozione di fondo che risulta addirittura toccante, presa di coscienza dei propri limiti e della fine che ci attende inevitabile - nonchè figlia di vicende spesso decisamente curiose - simboleggiata alla perfezione dai due charachters di Hans - meraviglioso il rapporto con la moglie, ed il confronto "finale" di quest'ultima con Charlie, da pelle d'oca - e Zachariah, cui Tom Waits regala il pizzico di follia giusto che pare uscito dai suoi dischi migliori, in bilico tra la sbronza, la perdizione ed una lucidità che si riesce ad avere solo quando si è incredibilmente saggi o incredibilmente folli.
O entrambe le cose.
Ma certamente 7 psicopatici non è un film di quelli pronti a piangersi addosso, e accanto alle sequenze più struggenti troviamo una vera e propria miniera d'oro di clamorose chicche, dalla pistola inceppata di Charlie all'approccio bambinesco alla vita e alla morte - e tutto quello che si trova in mezzo - di Billy, dai conigli di Zachariah alla sua rivelazione a proposito di Zodiac - un vero e proprio colpo di genio piazzato dalla penna del regista e sceneggiatore - per giungere al tormentone a proposito del problema di alcolismo di Marty, che - forse per solidarietà tra bevitori - mi ha letteralmente piegato in due in ben più di un'occasione: l'idea di un rimprovero legato alla facilità con cui il protagonista si ritrova ad alzare il gomito venuto da personaggi - o psicopatici!? - abituati ad ammazzare cristiani, tagliarsi la gola da soli o far saltare la testa a vecchiette malate terminali è decisamente curiosa, e contribuisce a fare in modo che l'audience possa prendere coscienza di quanto la vita e la morte siano relative - che ci si trovi ad avere a che fare con pazzi criminali, oppure no - e che proprio quando la direzione di una storia pare essere perduta, basta guardarsi dentro per trovare l'ispirazione in grado di ridefinire la nostra intera esistenza - tematica cara a McDonagh, che aveva già affrontato la questione nel già più volte citato In Bruges -.
Certo, il viaggio che ci condurrà a questa sorta di epifania non sarà certo lastricato di imprese facili e buone intenzioni, eppure, come spesso si dice, sarà proprio quello, alla fine, a dare significato alla destinazione: l'importante sarà fare attenzione a non sbronzarsi così tanto da non ricordare quello che si è detto ed evitare di trovarsi con la testa tra un proiettile vagante e l'altro.


MrFord


"The first cut is the deepest 
baby I know the first cut is the deepest
but when it come to being lucky she's cursed
when it come to loving me she's the worst."
Rod Stewart - "The first cut is the deepest" -



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