Visualizzazione post con etichetta Jim Sturgess. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Jim Sturgess. Mostra tutti i post

giovedì 7 dicembre 2017

Geostorm (Dean Devlin, USA, 2017, 109')





Se c'è una cosa che mi fa incazzare in quanto strenuo sostenitore del Cinema americano anche di grana grossa sono le produzioni che danno ragione ai radical che bersagliano il suddetto Cinema americano per passatempo: quelle merdate da multisala nel weekend perfette per lo spettatore occasionale cui non fregherebbe nulla di quello che guarda, divertenti neppure per sbaglio, ironiche nei loro sogni più sfrenati o qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente per giustificare il prezzo del biglietto.
Certo, già dal trailer Geostorm lasciava presagire ben poco di buono - nonostante la presenza del fordiano Gerard Butler, che nonostante abbia infilato negli anni una serie di pellicole da incubo continua a starmi simpatico -, e potevo sospettare che sarebbe andata com'è andata, ma sinceramente non immaginavo che si sarebbe potuto fare peggio anche dei peggiori disaster movies degli ultimi anni, roba da far apparire Emmerich una specie di genio della settima arte.
Trama già vista e sentita, dinamiche trite e ritrite, un cast nutrito in cerca di grana, soluzioni implausibili, terribile finale retorico: davvero tutto quello che non vorrei chiedere alle tamarrate di questo stampo, anche e soprattutto considerato che nel corso dei centonove minuti non sono riuscito a divertirmi neppure per sbaglio, passando il tempo a sperare che si giungesse presto alla conclusione.
Interessante segnalare, oltre al livello davvero basso dell'intera produzione - che pare un cocktail di tutti i suoi predecessori anni novanta, oltre ad una versione "da serie C" di Armageddon - la caduta libera della carriera di Robert Sheehan, qualche anno fa idolo delle prime due stagioni di Misfits, destinato per molti a divenire uno dei giovani volti più promettenti del panorama mondiale ed ora finito a fare il caratterista, senza tra le altre cose neppure eccellere.
L'unica consolazione dell'essermi imbarcato in questa scellerata visione è la consolazione di aver trovato uno dei candidati più forti per la classifica dedicata al peggio del duemiladiciassette, nonostante la concorrenza quest'anno sia davvero agguerrita: ma quella tra le posizioni più alte di quella top ten  è la "tempesta" migliore che questa roba possa sperare di essere in grado di provocare.
Vi lascio immaginare quali siano le altre.




MrFord




lunedì 29 luglio 2013

La migliore offerta

Regia: Giuseppe Tornatore
Origine: Italia
Anno: 2013
Durata: 124'





La trama (con parole mie): Virgil Oldman è uno dei critici d'arte e specialisti in aste più apprezzati del mondo. Schivo e solitario per natura, passa la maggior parte del suo tempo libero a proteggersi dal contatto con l'esterno e ad organizzare acquisti mirati insieme al suo vecchio amico Billy Whistler in modo da rendere la sua personale collezione di ritratti di donna sempre più consistente.
Quando viene contattato da una giovane intenzionata a commissionargli la valutazione delle opere ereditate dai genitori per organizzare un'asta delle stesse, Virgil viene travolto dallo strano mondo della ragazza, che soffre di agorafobia e vive reclusa nella villa di famiglia che sogna, un giorno, di poter vendere per poter tornare ad uscire e conquistare quel "fuori" che le è sempre mancato.
Tra i due, così diversi eppure in qualche modo simili, comincia ad instaurarsi un legame sempre più profondo, che dai primi conflitti li porterà a vivere una storia d'amore intensa ed unica quanto la collezione dello stesso Oldman.
Cosa sarà più importante, alla fine? L'arte o la vita? E all'asta per il cuore di Virgil chi farà la migliore offerta?





Lo ammetto: ho approcciato La migliore offerta - vincitore netto degli ultimi David di Donatello - con ben più di una perplessità, dalla confezione apparentemente laccata al regista, Giuseppe Tornatore, uno dei cineasti nostrani più amati e premiati all'estero dal sottoscritto sempre considerato fin troppo sopravvalutato.
Come spesso accade, poi, nei casi in cui le aspettative partano dal basso, ho finito non solo per considerare il film decisamente ben riuscito, ma anche per ritenerlo forse uno dei migliori del buon Tornatore, in grado senza dubbio di orchestrare con un piglio ed un respiro assolutamente internazionali un cast in grande spolvero riuscendo a portare sullo schermo tutto il fascino di una vicenda che intreccia un gusto ed una cornice assolutamente radical chic con un incedere a metà tra il melò ed il thriller di rimembranze polanskiane.
Sorretto come sempre con esemplare bravura da un ottimo Geoffrey Rush, l'impianto narrativo legato alla sceneggiatura scritta dallo stesso regista sfrutta alla perfezione il gioco di specchi fornito dalla storia d'amore tra i due protagonisti attirando l'audience in una direzione senza mostrare - almeno alla luce del sole, un pò come la giovane ed agorafobica Claire - quelli che sono i suoi reali intenti, scomodando grandi temi come l'Amore e l'Arte in modo che i piccoli dettagli, gli ingranaggi di un automa pronto a svelare la Verità, non possano essere individuati ed assemblati dallo spettatore, più impegnato a perdersi nel gioco delle parti che avvicina progressivamente Virgil e la già citata Claire - impagabili i loro litigi da ragazzini da una parte all'altra del muro - che non a cogliere il filo che lega tutti i misteriosi e splendidi ritratti che Oldman colleziona un'asta dopo l'altra grazie all'apporto del fedele amico Billy Whistler e lo stesso banditore, un uomo che si rifugia dal mondo eppure lo anela disperatamente, perso negli occhi, nei sorrisi e nei lineamenti di ognuna di quelle misteriose donne che custodisce nel suo caveau privato.
E in questo continuo rimbalzare di cuori, nella complessa lotta che parallelamente porta Virgil e Claire a specchiarsi l'uno nell'altra, si inserisce il solo apparentemente semplice e lineare personaggio di Robert, vero e proprio deus ex machina del riscopertosi in balìa dei sentimenti Oldman pronto ad aprire al suo interlocutore un mondo nuovo, ben più complesso e sfaccettato di quello delle opere e dei dipinti che lui conosce così a fondo, nel pubblico come nel privato: quello dell'amore e dell'universo femminile.
Ed ecco scendere prepotentemente in campo il concetto della "migliore offerta", tutto quello che ci giochiamo nell'asta più importante, quella per il cuore di chi ci sta di fronte: e tanto più profondi saranno i nostri sentimenti per lei, tanto più accanita sarà la concorrenza, più alto il rischio, più vibrante l'attesa di quel martello che batte il colpo che ci assegnerebbe la vittoria.
Ma davvero l'amore è un'asta? Un gioco al rialzo? Un azzardo? Una compravendita?
E' possibile imprigionare in un dipinto - o in dieci, cento, mille - l'essenza di una vita, di una storia, di qualcosa pronto a travolgerci e portarci via tutto quello che abbiamo?
Nessuno potrà mai dirlo.
Non potrà Claire, impegnata a rappresentare se stessa.
O Billy, generosamente coccolato dal suo ruolo di gregario.
O Robert, che rimetterà insieme i pezzi dell'automa in grado di rivelare la Verità senza poterla scoprire davvero.
O Virgil, che dovrà ricominciare da capo, e scoprire cosa accade quando la pagina è voltata, la tela vuota, lo specchio in pezzi.
A volte la migliore offerta è accettare di essersi buttati ed avere perso, ed essere ancora più desiderosi di ricominciare.


MrFord


"I just called to say I want you to come back home
I found your picture today
I swear I'll change my ways
I just called to say I want you to come back home
I just called to say, "I love you. Come back home""
Kid Rock feat. Sheryl Crow - "Picture" -


venerdì 1 marzo 2013

Upside down

Regia: Juan Solanas
Origine: Canada, Francia, Argentina
Anno: 2012
Durata: 107'




La trama (con parole mie): nel profondo dell'universo esiste un sistema solare unico nel suo genere, all'interno del quale esistono due pianeti gemelli a gravità invertite che ruotano attorno ad un unico Sole.
Adam e Eden, appartenenti il primo al mondo più basso - quello povero e operaio - e la seconda a quello più alto - tecnologicamente più avanzato, ricco ed impeccabile - si incontano per caso osservandosi dagli estremi dei due mondi, ancora adolescenti: la loro storia d'amore subisce però una brusca interruzione quando Eden perde la memoria a seguito di uno dei loro incontri clandestini.
Dieci anni dopo Adam, mai rassegnatosi all'idea di avere perso l'amore della sua vita, scopre che Eden lavora per la multinazionale che coordina gli scambi energetici tra i due mondi e decide di fare tutto il possibile per riconquistarla.





A volte il mondo della blogosfera riserva sorprese a dir poco curiose.
Seguendo la programmazione dei post ed avendo un grosso anticipo - di oltre un mese, giorno più, giorno meno - capita spesso che pubblichi quando ormai il film visto - ed il post scritto - sono solo un appannato ricordo sepolto negli archivi della mente obnubilata dall'età che avanza e dall'alcool: una cosa, però, della quale sono certo, è di avere preparato una recensione - anche abbastanza lunga - a proposito di Upside down, descrivendone l'indubbio fascino visivo così come l'inutilità dello script, banalotto e scontato.
Dunque, ieri sera, Blogger deve aver deciso di giocarmi uno scherzetto - probabilmente su suggerimento del mio antagonista Peppa Kid - ignorando bellamente le mie precedenti disposizioni e andando a postare la bozza che preparo sempre prima di scrivere il pezzo vero e proprio.
Come se non bastasse, essendo uscito con mio fratello ed avendo finito per ubriacarmi come una merda, ho scoperto solo a mattina inoltrata dell'inconveniente.
La cosa divertente è che la non recensione sia passata per una specie di genialata provocatoria rispetto ad una pellicola inutile come quella di Juan Solanas, che effettivamente non aggiunge praticamente nulla alla storia delle visioni dello spettatore, e anzi, a tratti riesce perfino ad annoiare un pò.
Dunque faccio outing con questo pippone sicuramente più palloso e meno divertente del fhdjkfhdfsjkhsdfkjs che era prima e dichiaro pubblicamente di non averlo fatto di proposito, anche se, alla fine, non mi metterò di certo a recuperare quel poco che è rimasto della visione dal mio cervellino per schiaffarlo da queste parti, ora che il danno è fatto.
Sappiate solo che, effetti speciali a parte - davvero notevoli -, Upside down offre davvero poco, e non rappresenta di certo una delle visioni imperdibili di questo 2013 che ha riservato, anche nel genere, sorprese ben più gradite e consistenti - come giustamente sottolineava sempre il Cucciolo, Cloud Atlas -.
Comunque, sappiate che ho molto gradito il vostro apprezzamento per la non recensione che non ho scritto.
Ora vi voglio un pò più bene.


MrFord


"Uptown girl
she's been living in her uptown world
I bet she never had an back street guy
I bet her mama never told her why."
Billy Joel - "Uptown girl" -



venerdì 11 gennaio 2013

Cloud Atlas

Regia: Tom Tykwer, Lana Wachowski, Andy Wachowski
Origine: Germania, USA, Hong Kong, Singapore
Anno: 2012
Durata: 172'
 



La trama (con parole mie): attraverso il Tempo e lo Spazio, assistiamo all'incrocio tra esistenze che si snodano dall'ottocento delle colonizzazioni e dello schiavismo ad un futuro remoto in cui le cose paiono non essere poi cambiate di molto, dal nostro presente agli anni trenta del Regno Unito, passando attraverso la Seoul del prossimo secolo e la San Francisco degli anni settanta.
Vite, morti, amori, imprese e fallimenti che passano attraverso una voglia che ricorda una cometa e l'eterna disputa che vede il Potere opposto alla Resistenza: c'è chi cade e chi riesce ad abbracciare il successo, chi combatte e chi tradisce, chi allarga le spalle affinchè la speranza divampi e chi, al contrario, porterà sempre e solo acqua al suo mulino.
E chi, più semplicemente, non sarà solo.
Questa è la grande giostra delle esistenze. Buttatevi, se avete coraggio.




Dovessi giudicare questo inizio 2013 cinematografico, penso che la mente correrebbe al volo all’idea di meraviglia: ancora stupito dal miracolo di Ang Lee con il suo Vita di Pi ecco che mi ritrovo sbigottito di fronte al lavoro a sei mani di Tom Tykwer, Andy e Lana Wachowski.
Perché Cloud Atlas – che a giudicare dai trailer che avevo avuto modo di vedere in rete ed il sala mi pareva un polpettone di quelli che avrei letteralmente affossato a bottigliate – ha ribaltato completamente i pronostici funerei della vigilia incantando casa Ford per le quasi tre ore della sua durata nonostante un Tom Hanks che io avrei rispedito sull’isola di Cast away a calci in culo ed un piglio generale che paga più di un tributo alla retorica hollywoodiana come grande tradizione – e distribuzione – vuole.
Eppure l’affresco di questo mosaico di esistenze che si snodano attraverso una manciata di secoli di Storia passata, presente e futura funziona a meraviglia, emoziona ed arriva dritto al cuore dell’audience come soltanto i grandi film di genere riescono a fare, riuscendo nel contempo a mescolare avventura, dramma, sci-fi, fantasy, commedia, amore e morte tirando le fila di uno script ottimo – la cura nei raccordi tra le epoche è quasi maniacale, e da ex sceneggiatore, pur se di fumetti, non ho potuto che apprezzare la cosa – che sequenza dopo sequenza finisce per regalare allo spettatore inizialmente disorientato un climax conclusivo in cui il dialogo a più livelli temporali pare muoversi con una tale sincronia da annullare ogni piano di narrazione per presentarsi come un unico, grande coro ad una voce.
Dalle vicende di Ewing – idealista avvocato ai tempi degli imperi coloniali – a quelle di Sonmi – destinata ad una vita ed una morte da lavoratrice nella nuova Seoul del futuro – la cometa che segna la pelle di alcuni tra i protagonisti mostra particelle delle singole gocce che compongono un oceano immenso ed affascinante, magico e complesso nelle sue espressioni positive o negative – perfetta la scelta di affidare più ruoli agli attori attraverso le epoche finendo per ritagliare addosso agli stessi anche un background ben definito, da quelli controversi di Tom Hanks a quelli oscuri di Hugo Weaving, passando per i sognatori positivi di Jim Sturgess e Halle Berry neanche ci trovassimo in una versione blockbuster del magnifico Holy motors -.
Quando, ormai più di due anni fa, Christopher Nolan stupì il mondo con il suo Inception, ricordo di aver scritto che il regista della trilogia del Cavaliere oscuro aveva raccolto il testimone di Matrix rendendo possibile quello che lo stesso Matrix non era stato in grado di essere e diventare.
Con le immagini di Cloud Atlas ancora negli occhi, la sua sinfonia di esistenze ed epoche, le pulsioni che lo rendono, di fatto, un film legato a doppio filo ai concetti di Libertà ed espressione di se stessi – tanto da ricordare, a tratti, anche V per vendetta, realizzato dall’allievo prediletto dei registi James McTeigue – e che passa attraverso la prova di forza di Sonmi – “Quando ad un uomo togli tutto, non hai più alcun potere su di lui” – e quella di Ewing – “Un oceano non è che l’insieme di un’infinità di singole gocce” -, i Wachowski hanno finalmente realizzato il loro personalissimo Inception, di fatto chiudendo un cerchio ed affermando a gran voce tutto il visionario talento mostrato fino ad ora soltanto in parte.
Sicuramente rispetto al cerebrale e chirurgico Nolan un lavoro come Cloud Atlas risulta indubbiamente larger than life e di grana più grossa, ma non siamo certo qui a contestare lo stile, quando il risultato è così coinvolgente e di ampio respiro: e dai toni da commedia nera della vicenda dell’editore interpretato da Jim Broadbent nel nostro presente al futuro remoto in stile a metà tra Apocalypto ed Avatar riusciamo a trovare scintille di magia come solo la settima arte sa produrre, brividi legati al dramma sentimentale del giovane compositore di quella che diverrà la composizione Cloud Atlas così come al vintage della San Francisco anni settanta che strizza l’occhio al Cinema impegnato dei tempi, la danza tra gli alberi della nave dello schiavo liberatosi con le sue sole forze e la “defenestrazione” del critico radical chic – una sequenza già cult dalle parti del Saloon -, per esplodere letteralmente nella Seoul di Sonmi, che ha riportato alla mente e soprattutto al cuore di questo vecchio cowboy tutta la poesia per immagini di 2046. Mica roba da poco.
Tutto questo senza dimenticare che, mascherata da spettacolone giocato su effetti e trucco, troviamo una riflessione profonda sul valore del “tutto scorre”, una sorta di respiro cosmico all’interno del quale ci muoviamo senza mai finire, in un modo o nell’altro, di farne parte – e in questo senso si torna a ricordare il già citato Vita di Pi -.
Può anche essere che con l’imminente arrivo del Fordino io mi sia rammollito, ed abbia subito una regressione che permetta di fare breccia nel mio cuore anche a pellicole inevitabilmente ad ampio raggio come questa, eppure quello che ho provato dall’inizio alla fine del suddetto film è stato pura, piena, clamorosa gioia.
Gioia nata dall’amore per la settima arte, e gratitudine per ogni momento magico che la stessa riesce a regalarmi.
E se lo scopo ultimo di questa “lanterna magica” è quello di lasciare a bocca aperta, allora Cloud Atlas ne è un’espressione potente come poche.


MrFord


"If you're lost you can look and you will find me
time after time
if you fall I will catch you I'll be waiting
time after time."
Cindy Lauper - "Time after time" -


martedì 24 luglio 2012

The way back

Regia: Peter Weir
Origine: Australia
Anno: 2010
Durata: 133'




La trama (con parole mie): siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale, e Janusz, che vive nella Polonia spezzata in due da tedeschi e russi, è deportato in un gulag siberiano dopo essere stato accusato di spionaggio. Innocente e convinto a ricongiungersi alla moglie, il giovane decide, con l'aiuto di alcuni detenuti, di fuggire e raggiungere a piedi l'India.
Il viaggio, che prevede una camminata di oltre seimila chilometri attraverso Siberia, Mongolia, Cina e Tibet, sarà una prova di coraggio e resistenza in grado di avvicinare i destini ed i caratteri di uomini completamente diversi l'uno dall'altro e provenienti da diverse realtà e parti del mondo: una vera e propria lotta per la libertà che vedrà il gruppo confrontarsi con la Natura nella speranza di morire - e soprattutto vivere - da uomini liberi.




Dalle parti di casa Ford, il buon vecchio Peter Weir è sempre stato benvoluto: dai cult di formazione come L'attimo fuggente a vere e proprie pietre miliari come Picnic ad Hanging Rock o Gli anni spezzati, senza dimenticare produzioni decisamente più importanti come Master and commander o The Truman Show, non ricordo un solo titolo firmato dal suddetto che mi abbia deluso.
Il gusto del regista australiano, spesso e volentieri legato al confronto tra Uomo e Natura, ha sempre stuzzicato la parte più "wild" del sottoscritto, ed in questo senso The way back rispecchia appieno le aspettative e la tradizione della sua poetica: pur essendo lontano dall'ispirazione dei lavori migliori e presentandosi, di fatto, "soltanto" come un solido film d'avventura, questa sua ultima fatica resta comunque una delle visioni più interessanti di una poco accattivante - fino ad ora - estate, complici uno spirito neanche fossimo nel pieno di un'epopea di Herzog ed un cast in grande spolvero, dal convincente Jim Sturgess alla sempre più lanciata Saoirse Ronan, passando attraverso conferme come Ed Harris e Colin Farrell.
In particolare, ammetto di essermi fin da subito affezionato al personaggio interpretato da quest'ultimo, il criminale russo Valka, tatuatissimo e selvatico, nonchè legato ai codici degli Urka siberiani, elementi cardine del mondo delle Famiglie e delle stelle tipici dell'area malavitosa dell'ex Unione Sovietica: il suo progressivo integrarsi con il gruppo di fuggitivi - dalla minaccia alla protezione, fino al perfetto commiato - è l'esempio dell'ottima gestione che nello script si è tenuta rispetto ai personaggi, molto diversi tra loro eppure ugualmente importanti nell'economia del viaggio, ed approfonditi in modo che tutti possano trovare uno spazio adeguato - una sorta di approccio "lostiano", per usare un termine più vicino ai giorni nostri che non ai tempi della Seconda Guerra Mondiale -.
In realtà - e nonostante la parte del leone la faccia senza dubbio alcuno il confronto tra l'impresa di questo sparuto gruppo di prigionieri affamati e la Natura in tutte le sue incarnazioni, dal gelo siberiano al deserto mongolo - uno dei temi più interessanti toccati da Weir è quello della lotta per la libertà, diritto sacrosanto di ogni essere umano che anche qui al Saloon non ci si stancherà mai di difendere e proteggere: il punto di vista del regista, lontano dagli standard cui siamo abituati rispetto al periodo e concentrato sulla denuncia degli orrori commessi da Stalin - già fotografati nella meraviglia di Wajda, Katyn -, è lampante, e trova una traduzione perfetta nella ferma decisione del protagonista Janusz di non abbandonare mai il suo obiettivo, anche quando fermarsi potrebbe apparire la decisione più sensata e saggia - il passaggio in Tibet, poco prima di raggiungere l'India -.
Ritagliandosi, poi, momenti più leggeri che aiutano lo spettatore a respirare nelle due ore piene della pellicola - il ruolo di Irena nello scoprire le vite dei suoi compagni di viaggio, la discussione sulla quantità di sale da usare in cucina -, Weir pare tracciare un parallelo tra la lotta dell'Uomo contro l'Uomo per la libertà e quella dell'Uomo contro la Natura per la sopravvivenza: e se quest'ultima appare spietata e terribile, anche nei momenti davvero critici non si ha mai la percezione della stessa, angosciosa agonia che la Storia ci ha più e più volte insegnato ad imporre ai nostri simili, a diverse latitudini ed in opposti contesti politici e sociali.
Gulag sovietici o campi di concentramento nazisti, steppe siberiane o città latino americane, l'Uomo ha vergato tra le pagine dei suoi libri, nei secoli, le trame di vicende abominevoli che imprese come quella di Janusz e compagni - ispirata a fatti reali - ci aiutano a guardare senza dimenticare la speranza: la speranza di non mollare, di muovere un passo dopo l'altro verso quella che dovrebbe essere la condizione fondamentale di ogni esistenza, vivere la propria vita senza doversi guardare continuamente le spalle, e costruire - o cercare di farlo - i propri sogni senza qualcuno che venga a raccontarci che così non può essere, perchè lo ha deciso lui.
Vivere la propria vita da uomini liberi.
Fosse anche per morire nel tentativo di respirare quell'aria così diversa che tutti i giorni ci riempie i polmoni ma che, spesso, non sappiamo valorizzare come dovremmo.
L'aria che si può gustare lontani dalle prigioni.


MrFord


"I want to break free
I want to break free
I want to break free from your lies
you're so self-satisfied I don't need you
I got to break free
God knows, God knows I want to break free."
Queen - "I want to break free" -


giovedì 4 agosto 2011

Across the universe

Regia: Julie Taymor
Produzione: Usa
Anno: 2007
Durata: 133'

La trama (con parole mie): Jude, giovane operaio inglese di belle speranze, decide di mollare tutto e partire per gli Stati Uniti alla ricerca del padre - un militare americano che fu di stanza a Liverpool - e del sogno di una vita lontana dal cantiere navale e più libera: negli States conoscerà Max e Lucy Carrigan, e con loro inizierà un viaggio sentimentale e di crescita che porterà i protagonisti ed i loro amici ad affrontare i grandi cambiamenti dell'epoca della contestazione e del Vietnam ritmando il tutto con nuove versioni dell'immortale campionario dei Fab Four.
Un omaggio ai Beatles e alla loro arte, più che per i fan della prima ora, per il nuovo pubblico della Glee generation.

Ho sempre ritenuto il musical un genere dalle enormi potenzialità, ricco di spunti e di riferimenti, in grado di stimolare l'estro dei registi ed il talento non soltanto interpretativo ma anche e soprattutto vocale degli attori, tendenzialmente sottovalutato dal grande pubblico.
Eppure, nel corso dei decenni, il Cinema ha conosciuto produzioni divenute Classici e Cult a tutti gli effetti figlie di questa parte di Cinema troppo spesso etichettato dall'audience maschile come "una cosa da donne": niente di più sbagliato, tanto che una perla come il Rocky horror picture show o questo stesso Across the universe - ma sono soltanto due dei numerosissimi esempi che si potrebbero portare - hanno tutte le carte in regola per riuscire ad emozionare l'adolescente inquieta con la voglia di innamorarsi e l'uomo consumato, fosse anche soltanto mosso dall'amore per la musica.
Da questo punto di vista occorre riconoscere diversi meriti all'opera di Julie Taymor, decisamente in grado di adattare il suo linguaggio e la ricca galleria di personaggi a diverse fasce di pubblico, e quando gli stessi non dovessero bastare, ecco irrompere i Beatles a salvare baracca e burattini con la loro musica, universalmente riconosciuta, amata, ascoltata, suonata e risuonata.
Eppure, nonostante l'indubbia qualità del prodotto, le ispirazioni musicali, le invenzioni visive, nel corso delle due ore e passa della visione ho sempre avuto in mente che Across the universe non sarebbe mai stato niente più che "carino", un pò come quando si esce con qualcuno che potrebbe anche piacerci e non avere nulla che non va, ma ad un tempo l'impressione che il cuore suggerisce è che non abbia neanche, e tristemente, qualcosa che davvero va.
Una sorta, volendo fare un paragone cinematografico, di Forrest Gump dei musical in cui tutto pare funzionare, o aggiustarsi, o semplicemente trovare rifugio nelle splendide canzoni dei fantastici quattro di Liverpool, realizzate impeccabilmente ma forse troppo legate da una linea generale tendenzialmente monocorde. Inoltre, l'impressione che tutto si muova in funzione dell'esecuzione delle canzoni stesse e non della storia finisce per minare la valutazione generale di un'opera che, con una mezzora abbondante in meno ed una maggiore attenzione alla sceneggiatura avrebbe avuto tutte le carte in regola per diventare un riferimento per il musical e non solo.
Non mancano le scene interessanti, dalla sequenza del reclutamento di Max per il Vietnam allo splendido passaggio che vede la realizzazione del quadro "strawberry" di Jude, sempre legato a doppio filo alle vicende della guerra, così come l'ottima coreografia - una delle poche davvero degne di nota - giocata sugli anni della spensieratezza da studente di Max e sull'ambiente universitario e ritmata dalle note di "With a little help from my friends", che aiutano a dimenticare passaggi meno fortunati - paradossalmente, quelli che vedono in primo piano gli ospiti illustri Bono e Joe Cocker, irritante il primo e pacchiano il secondo - e il generale appiattimento delle esecuzioni dei brani, a tratti decisamente poco ispirato.
Una mancanza d'ispirazione che non va comunque imputata al cast, perfetto per l'atmosfera dell'opera e decisamente in sintonia con le linee guida del lavoro, da Jim Sturgess a Evan Rachel Wood passando attraverso Joe Anderson, Dana Fuchs e Martin Luther, clamorosamente simili, rispettivamente, a Kurt Cobain, Janis Joplin e Jimi Hendrix.
Il risultato finale, dunque, sta in quel "giusto mezzo" che difficilmente permetterà a questa pellicola di passare alla Storia, ma ugualmente continuerà a garantirle un buon numero di sostenitori cui sarà bastato quel "carino" per affezionarsi senza doverci mettere troppo impegno: peccato, perchè con materia come quella che i Beatles hanno lasciato al mondo e alla musica, le possibilità erano pressochè infinite: una sensazione, questa, del resto non nuova rispetto alla regista, che già con Titus e Frida mi aveva dato la netta impressione di una buona mestierante cui è sempre mancata la zampata in grado di regalare al pubblico un cult a tutti gli effetti, confermata dall'occasione mancata di questo Across the universe.

MrFord

"Hey Jude don't be afraid
you were made to go out and get her
the minute you let her under your skin
then you begin to make it better."
The Beatles - "Hey Jude" -
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...