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mercoledì 23 maggio 2018

La casa di carta - Stagione 2 (Netflix, Spagna, 2018)







Ho sempre pensato, dai ricordi d'infanzia - come ho già scritto nel post dedicato alla prima stagione - al retaggio - un nonno Partigiano -, dallo spirito alle prese di posizione, di avere un legame particolare con il concetto di Resistenza.
Un concetto, per quanto mi riguarda, non tanto legato all'idea di essere contro a prescindere, per partito preso, quanto più che altro al motto "hold fast" dei marinai e dei pirati, dell'aggrapparsi alla vita fino all'ultimo, al partecipare, al far sentire al mondo e soprattutto al Potere - inteso anch'esso come concetto - che si è vivi e mai domi.
Perchè è questo il bello della vita: vivere.
Ed il bello della seconda stagione de La casa di carta, per molti versi - soprattutto in termini di scrittura - inferiore alla prima, è che si esprima questo concetto principalmente e paradossalmente attraverso la morte: perchè nell'addio a due dei protagonisti ho trovato il succo di quello che io inseguo, sento, desidero per certi versi dalla vita.
L'affrancarsi dal Potere, in qualunque modo sia esso inteso, la Resistenza, da quella che portiamo avanti ogni giorno quando cerchiamo di fare finta che il nostro lavoro sia solo un lavoro e non la maggior parte del tempo che passiamo lontani da chi amiamo, che viviamo sulla pelle, che porta il cuore a battere per rabbia, passione, desiderio, e chi più ne ha, più ne metta, il sentirsi presenti, pronti ad aggredire ogni giorno anche quando si è così stanchi da pensare di mollare, e dormire il più profondo dei sonni.
E poco importa di una sceneggiatura poco plausibile - anche meno rispetto a quella della prima stagione -, di innesti e dimenticanze, di imperfezioni e via discorrendo: la vita, per quanto mi riguarda, la passione, il desiderio, la Resistenza, sono sempre quelli che vincono, a prescindere da chi siano i "buoni" e chi i "cattivi", da quale parte della barricata si voglia stare, anche se, per quanto mi riguarda, so benissimo dove mi vedo.
Mi vedo a sognare un'isola, a pensare di sfruttare il denaro non in quanto tale, ma come mezzo per vivere, a morire tra le braccia dei miei figli, dicendo loro che gli voglio bene, a combattere a mio modo ogni giorno per mostrare di essere presente, vivo, combattivo, pronto a guardare in faccia quello che accade e a prendere quello che desidero.
In fondo, La casa di carta racconta la storia - implausibile, ma è bello così - di un sogno: quello di essere contro, di tentare di trovare la propria strada, di sbagliare, di essere un cattivo anche quando nel mondo ci sono tanti cattivi tra i buoni, di immaginare che possano esistere sentimenti più grandi di regole, leggi, poteri costituiti.
Che esista una vita oltre i soldi, il lavoro, le case di carta: che esista un'isola in cui rifugiarsi, che costa sacrifici e speranze e sogni infranti, ma che possa cullare come la più generosa delle madri.
Che valga ogni sacrificio, ogni goccia di sudore e di sangue, ogni sofferenza, ogni addio.
Che valga la battaglia, la testa alta, una certa dose di incoscienza e supponenza.
Resistere, per vivere.
Perchè vivere è resistere.
Anche quando si perde. Anche quando si muore.
L'importante sarà averlo fatto per un motivo così grande.




MrFord



 

domenica 13 marzo 2016

La quinta onda

Regia: J. Blakerson
Origine: USA
Anno: 2016
Durata: 112'







La trama (con parole mie): da un giorno all'altro, la Terra viene avvicinata e successivamente attaccata da una razza aliena che pare voler "purificare" il nostro mondo per poi occuparlo. Dunque, attraverso disastri naturali, epidemie e l'esclusione di qualsiasi forma di energia, gli invasori finiscono per ridurre la popolazione tanto da spezzarla in gruppi distinti raccoltisi per resistere e cercare di sopravvivere.
Cassie Sullivan, persi entrambi i genitori nel corso delle ondate di invasione degli alieni, lotta con le unghie e con i denti per proteggere ed accudire il fratellino Sam, che ora è sua responsabilità: quando il campo in cui vivono accoglie un gruppo di soldati che non solo paiono avere mezzi funzionanti ed energia a disposizione, ma anche armi, che propone di separare adulti e bambini prevedendo per questi ultimi il trasferimento al loro campo base, Cassie rimane separata dal fratello, ed inizia un viaggio in solitaria verso lo stesso campo che la porterà a fare un incontro che potrebbe cambiarle la vita.
Nel frattempo Sam scopre che l'esercito progetta di sfruttare i più giovani come nuova forza per contrastare gli alieni, finalmente decisi a scendere in campo.
Ma sarà davvero così?












Esistono film che nascono, di fatto, per essere compromessi validi su più fronti: con il proprio compagno o compagna, con il tempo, la stanchezza, il lavoro e gli impegni che la vita ci riserva.
In questa grande categoria si possono trovare tamarrate da divertimento sfrenato, prodotti clamorosamente brutti ed altri che, fondamentalmente, risultano inutili ed innocui: La quinta onda, tratto da una saga letteraria di stampo teen di quelle che paiono essere sbocciate un pò ovunque negli ultimi anni, appartiene senza ombra di dubbio all'ultima categoria.
Sfruttato come riempitivo durante un pomeriggio casalingo in una settimana in cui le malattie del periodo hanno colpito un pò tutti in casa Ford, si è rivelato giusto un accompagnamento un pò insipido buono da guardare senza troppa attenzione, un cocktail annacquato che mescola i ricordi di Independence Day ai più recenti Maze Runner e Hunger Games, dal sapore di già visto e rimaneggiato dal primo all'ultimo minuto, finale aperto da saga compreso.
Dai protagonisti agli antagonisti - spiccano Chloe Grace Moretz e Liev Schreiber - alla tematica dell'attacco alieno filtrata attraverso l'utilizzo dei giovani come nuova leva per poter andare verso il futuro, tutto pare tagliato con l'accetta e telefonato, eppure La quinta onda non risulta essere il tipico prodotto in grado di fare incazzare o sconvolgere per la sua bruttezza, quanto più portare ad una constatazione di inutilità di fondo del prodotto, che, tra le altre cose, pare non aver convinto neppure il grande pubblico, mettendo di fatto in dubbio anche la prosecuzione della saga di Cassie e soci.
L'unica cosa interessante da segnalare - e che nel corso delle ultime stagioni si sta facendo sentire sempre di più, parlando di settima arte - è l'influenza evidente che il mercato dei videogiochi pare avere avuto sull'intero progetto, in particolare gli sparatutto in stile Call of duty che ormai sono un vero e proprio must tra i giovanissimi, specializzati nel gioco online tanto da costruire non solo team, ma anche amicizie e rivalità proprio grazie a questi contatti virtuali.
Per il resto, tutto scorre abbastanza in fretta, entro un'oretta dalla visione avrete dimenticato tutto e l'esperienza sarà parsa tutto sommato indolore: forse sono troppo vecchio per queste stronzate, come si diceva ai miei tempi, ma l'impressione è che si sia trattato dell'ennesimo tentativo di portare in sala il pubblico occasionale dei giovanissimi, in special modo i gruppi di adolescenti o pre-adolescenti giocando su una protagonista femminile di richiamo ed una cornice di scontri tipicamente maschile, senza dimenticare la tematica della Famiglia e condendo il tutto con i più tipici alieni pronti a sostituirsi agli uomini noti fin dagli anni cinquanta.
In tutta onestà, a meno che non abbiate un paio d'ore da riempire a tutti i costi di notte o durante una sessione intensiva di pulizie, non mi sbilancerei consigliandovi la visione de La quinta onda, ma neppure di evitarlo neanche fosse la peggiore delle schifezze possibili ed immaginabili, perchè i film davvero pessimi, in fondo, sono altri.
La quinta onda è, più che altro, qualcosa che passa e va, senza aggiungere nulla ad un genere che, di suo, pare aver esaurito negli anni ottanta la sua vena migliore.







MrFord







"So close your eyes, for thats a lovely way to be
aware of things your heart alone was meant to see
the fundamental loneliness goes whenever two can dream a dream together."
Frank Sinatra - "Wave" -






venerdì 11 gennaio 2013

Cloud Atlas

Regia: Tom Tykwer, Lana Wachowski, Andy Wachowski
Origine: Germania, USA, Hong Kong, Singapore
Anno: 2012
Durata: 172'
 



La trama (con parole mie): attraverso il Tempo e lo Spazio, assistiamo all'incrocio tra esistenze che si snodano dall'ottocento delle colonizzazioni e dello schiavismo ad un futuro remoto in cui le cose paiono non essere poi cambiate di molto, dal nostro presente agli anni trenta del Regno Unito, passando attraverso la Seoul del prossimo secolo e la San Francisco degli anni settanta.
Vite, morti, amori, imprese e fallimenti che passano attraverso una voglia che ricorda una cometa e l'eterna disputa che vede il Potere opposto alla Resistenza: c'è chi cade e chi riesce ad abbracciare il successo, chi combatte e chi tradisce, chi allarga le spalle affinchè la speranza divampi e chi, al contrario, porterà sempre e solo acqua al suo mulino.
E chi, più semplicemente, non sarà solo.
Questa è la grande giostra delle esistenze. Buttatevi, se avete coraggio.




Dovessi giudicare questo inizio 2013 cinematografico, penso che la mente correrebbe al volo all’idea di meraviglia: ancora stupito dal miracolo di Ang Lee con il suo Vita di Pi ecco che mi ritrovo sbigottito di fronte al lavoro a sei mani di Tom Tykwer, Andy e Lana Wachowski.
Perché Cloud Atlas – che a giudicare dai trailer che avevo avuto modo di vedere in rete ed il sala mi pareva un polpettone di quelli che avrei letteralmente affossato a bottigliate – ha ribaltato completamente i pronostici funerei della vigilia incantando casa Ford per le quasi tre ore della sua durata nonostante un Tom Hanks che io avrei rispedito sull’isola di Cast away a calci in culo ed un piglio generale che paga più di un tributo alla retorica hollywoodiana come grande tradizione – e distribuzione – vuole.
Eppure l’affresco di questo mosaico di esistenze che si snodano attraverso una manciata di secoli di Storia passata, presente e futura funziona a meraviglia, emoziona ed arriva dritto al cuore dell’audience come soltanto i grandi film di genere riescono a fare, riuscendo nel contempo a mescolare avventura, dramma, sci-fi, fantasy, commedia, amore e morte tirando le fila di uno script ottimo – la cura nei raccordi tra le epoche è quasi maniacale, e da ex sceneggiatore, pur se di fumetti, non ho potuto che apprezzare la cosa – che sequenza dopo sequenza finisce per regalare allo spettatore inizialmente disorientato un climax conclusivo in cui il dialogo a più livelli temporali pare muoversi con una tale sincronia da annullare ogni piano di narrazione per presentarsi come un unico, grande coro ad una voce.
Dalle vicende di Ewing – idealista avvocato ai tempi degli imperi coloniali – a quelle di Sonmi – destinata ad una vita ed una morte da lavoratrice nella nuova Seoul del futuro – la cometa che segna la pelle di alcuni tra i protagonisti mostra particelle delle singole gocce che compongono un oceano immenso ed affascinante, magico e complesso nelle sue espressioni positive o negative – perfetta la scelta di affidare più ruoli agli attori attraverso le epoche finendo per ritagliare addosso agli stessi anche un background ben definito, da quelli controversi di Tom Hanks a quelli oscuri di Hugo Weaving, passando per i sognatori positivi di Jim Sturgess e Halle Berry neanche ci trovassimo in una versione blockbuster del magnifico Holy motors -.
Quando, ormai più di due anni fa, Christopher Nolan stupì il mondo con il suo Inception, ricordo di aver scritto che il regista della trilogia del Cavaliere oscuro aveva raccolto il testimone di Matrix rendendo possibile quello che lo stesso Matrix non era stato in grado di essere e diventare.
Con le immagini di Cloud Atlas ancora negli occhi, la sua sinfonia di esistenze ed epoche, le pulsioni che lo rendono, di fatto, un film legato a doppio filo ai concetti di Libertà ed espressione di se stessi – tanto da ricordare, a tratti, anche V per vendetta, realizzato dall’allievo prediletto dei registi James McTeigue – e che passa attraverso la prova di forza di Sonmi – “Quando ad un uomo togli tutto, non hai più alcun potere su di lui” – e quella di Ewing – “Un oceano non è che l’insieme di un’infinità di singole gocce” -, i Wachowski hanno finalmente realizzato il loro personalissimo Inception, di fatto chiudendo un cerchio ed affermando a gran voce tutto il visionario talento mostrato fino ad ora soltanto in parte.
Sicuramente rispetto al cerebrale e chirurgico Nolan un lavoro come Cloud Atlas risulta indubbiamente larger than life e di grana più grossa, ma non siamo certo qui a contestare lo stile, quando il risultato è così coinvolgente e di ampio respiro: e dai toni da commedia nera della vicenda dell’editore interpretato da Jim Broadbent nel nostro presente al futuro remoto in stile a metà tra Apocalypto ed Avatar riusciamo a trovare scintille di magia come solo la settima arte sa produrre, brividi legati al dramma sentimentale del giovane compositore di quella che diverrà la composizione Cloud Atlas così come al vintage della San Francisco anni settanta che strizza l’occhio al Cinema impegnato dei tempi, la danza tra gli alberi della nave dello schiavo liberatosi con le sue sole forze e la “defenestrazione” del critico radical chic – una sequenza già cult dalle parti del Saloon -, per esplodere letteralmente nella Seoul di Sonmi, che ha riportato alla mente e soprattutto al cuore di questo vecchio cowboy tutta la poesia per immagini di 2046. Mica roba da poco.
Tutto questo senza dimenticare che, mascherata da spettacolone giocato su effetti e trucco, troviamo una riflessione profonda sul valore del “tutto scorre”, una sorta di respiro cosmico all’interno del quale ci muoviamo senza mai finire, in un modo o nell’altro, di farne parte – e in questo senso si torna a ricordare il già citato Vita di Pi -.
Può anche essere che con l’imminente arrivo del Fordino io mi sia rammollito, ed abbia subito una regressione che permetta di fare breccia nel mio cuore anche a pellicole inevitabilmente ad ampio raggio come questa, eppure quello che ho provato dall’inizio alla fine del suddetto film è stato pura, piena, clamorosa gioia.
Gioia nata dall’amore per la settima arte, e gratitudine per ogni momento magico che la stessa riesce a regalarmi.
E se lo scopo ultimo di questa “lanterna magica” è quello di lasciare a bocca aperta, allora Cloud Atlas ne è un’espressione potente come poche.


MrFord


"If you're lost you can look and you will find me
time after time
if you fall I will catch you I'll be waiting
time after time."
Cindy Lauper - "Time after time" -


lunedì 2 luglio 2012

Euro 2012 - La finale

La trama (con parole mie): e così i sogni si sono infranti proprio sul più bello. 
Nella finalissima di questo Europeo l'Italia dei miracoli si infrange contro le Furie rosse spagnole, che centrano una storica triplete bissando il successo di quattro anni fa e ribadendo la vittoria ottenuta al Mondiale in Sudafrica.
Una partita che per gli Azzurri non è praticamente mai iniziata, che segna nel modo più amaro la fine di questo torneo ma che resta un punto di partenza importante per rialzarsi e cominciare a lavorare imparando dalla lezione subita.



"Ogni maledetta domenica si vince o si perde: l'importante è vincere o perdere da uomini", gracchia sornione il mitico coach D'Amato in Ogni maledetta domenica.
Ed è così che va, nello sport.
Questo Europeo dei miracoli, iniziato con una compagine azzurra tra le meno amate e supportate del passato recente, divenuto una sorta di metafora della rivalsa del nostro Paese rispetto alla crisi e alla situazione politica continentale, si è chiuso come molti di noi non avrebbero voluto: la sconfitta con la Spagna di Del Bosque - squadra impareggiabile, inutile girarci attorno - è stata netta, pulita, cristallina.
Le Furie rosse hanno dominato una sfida vinta prima di tutto con la testa e l'atteggiamento, mostrando ai nostri la differenza tra una squadra abituata a vincere e traboccante classe ed un gruppo di sognatori che paiono aver fatto il passo più lungo della gamba: si potrebbe parlare di molte cose, dall'esperienza in campo internazionale dei giocatori iberici alla serata no di quelli italiani, dai capelli tagliati di Balotelli allo scellerato cambio Montolivo/Motta - uscito, sfiga vuole, dopo cinque minuti per infortunio lasciando la squadra in dieci e sancendo, di fatto, la fine delle speranze di un'eventuale, remota rimonta -, dagli infortuni alla stanchezza, dal Pirlo ingabbiato al Fabregas indemoniato.
Ma questi sono argomenti da cronaca sportiva alla ricerca della discussione, e poco altro.
La Spagna ha vinto meritatamente.
E alla grande, mostrando ancora una volta di essere, al momento, la squadra più forte del mondo.
Questo, però, non deve sminuire il percorso fatto dai nostri ragazzi, che contro ogni pronostico sono giunti a questa sera e, soprattutto, sono riusciti a farsi voler bene nonostante tutti i loro limiti: in fondo, questa è una nuova Italia fatta di giovani figli di altre culture e latitudini nati e cresciuti accanto a noi, eredità di tutti quelli che saranno i visi degli Azzurri del futuro.
E' una nuova Italia fatta di tamarri senza ritegno, che rispondono mostrando i muscoli senza dire una parola, perchè quello non è propriamente il loro campo.
E' una nuova Italia che continua ad essere segnata dai soliti, vecchi scandali e dalle magagne che fanno parte del suo dna.
Io stesso non sono contento di molte cose del nostro Paese, e spesso e volentieri sono il primo a criticarlo: ma nonostante tutto, questa resterà sempre la mia casa, il posto in cui mi farebbe piacere tornare anche se finissi a stare all'altro capo del mondo - e credetemi, tornerei in Australia oggi stesso -.
E se è il calcio che ci deve unire, per superficiale che sia, ben venga.
Criticare l'unità che mossa per istinto dal pallone mi pare sempre un pò radical chic.
Perchè è vero, questa è la Terra dei cachi, ma è anche la Patria di Giovanni Falcone, Fabrizio De Andrè, Leonardo Da Vinci, Federico Fellini, Roberto Baggio.
E di Mario Balotelli.
E nostra.
E in qualche modo, andando oltre le preferenze calcistiche o personali, le inclinazioni e le aspirazioni, mi sento Mario Balotelli anche io.
Un ragazzo che vorrebbe spaccare il mondo, poi si guarda attorno e vede il suo Paese senza fiducia in lui.
Quanti di noi si sentono in questo modo?
Molti più di quanto non si crederebbe. O si è disposti ad ammettere.
La verità è una sola: siamo tutti Mario Balotelli.
Siamo l'Italia.
Quindi non possiamo che applaudire questi ragazzi per averci regalato l'emozione di Euro 2012, tornare ad alzarci in piedi come De Rossi con il suo ginocchio sbucciato, ricordarci che siamo gente con la scorza dura, che "tiene i cavalli" - come sono solito ribadire -, e andare avanti.
Nell'ultimo numero del suo Capolavoro - quello Slam Dunk che consiglio a tutti, appassionati di fumetti e non -, il mangaka Takehiko Inoue, sfruttando le parole dell'allenatore del liceo Sannoh, uscito perdente al termine di una sfida incredibile, afferma: "La sconfitta che abbiamo subito oggi costruirà la nostra fortuna di domani".
Coraggio, ragazzi.
Tra due anni, al Mondiale carioca, io sarò ancora qui.
E chissà, forse inizierò dicendomi sfiduciato, scriverò criticando un attaccante che non esulta per esortarlo a lasciarsi andare, farò ironia sugli Azzurri e poi mi ritroverò rapito dalle emozioni, e sarò con loro fino all'ultimo minuto. Al triplice fischio.
"Ancora un altro round", diceva sempre il mio caro, vecchio, Rocky Balboa.
Ancora un altro round, ragazzi.
Ancora un altro round, Italia.
In fondo, a Resistere siamo sempre stati bravi.


MrFord


P. S. In tutto questo, complimenti davvero ad una Spagna in grado di giocare una finale perfetta sotto tutti i punti di vista.
Non sarà la squadra con più cuore al mondo, e le vittorie - come spesso accade - l'hanno forse privata di un pò di simpatia, ma di sicuro, in questo momento resta il meglio del calcio mondiale.

sabato 2 giugno 2012

Ip Man

Regia: Wilson Yip
Origine: Cina
Anno: 2008
Durata: 106'



La trama (con parole mie): siamo sul finire degli anni trenta a Foshan, una città di provincia nel Sud della Cina. Ip Man, Maestro indiscusso di Kung fu e sviluppatore dell'arte del Wing Chun, si rifiuta di prendere allievi e continua a mietere successi sconfiggendo qualsiasi avversario lo sfidi.
La vita è tranquilla, e l'uomo vive tra gli agi con la moglie ed il figlio.
Con l'invasione giapponese, però, la realtà cambia: le scuole di arti marziali vengono chiuse, la popolazione della città sterminata, gli esperti di Kung fu costretti ai lavori più umili e agli scontri con i loro equivalenti nipponici per un sacco di riso a vittoria: quando i soprusi divengono insostenibili, Ip Man, fino a quel momento equilibrato, metterà la sua abilità al servizio dei suoi connazionali divenendo un simbolo di rivolta contro l'occupazione.





Come ben sapranno gli avventori abituali del saloon, il sottoscritto è da sempre - anche se nel mio periodo da finto radical chic dedito alle sole visioni d'autore cercavo di nasconderlo - un grandissimo fan dei film di botte, specie se ben realizzati e coreografati come si conviene.
Dai cult del trash come Kickboxer o Senza esclusione di colpi alle pellicole storiche con protagonista Bruce Lee - sto preparando una full immersion con un recupero dei suoi film più noti -, fino ai recenti Undisputed 2 e 3 con l'incredibile Scott Adkins/Boyka , mi sono sempre divertito come un bambino quando si trattava di stare stravaccato sul divano con gli occhi sgranati di fronte a colpi che paiono quasi impossibili da eseguire o lotte all'ultimo respiro - che, a ben guardare, è quello che succede anche quando mi dedico all'adorato wrestling -: grazie al mio fratellino Dembo, che per farsi perdonare dell'agghiacciante Ong Bak si è presentato a casa Ford omaggiandomi del bluray di questa pellicola firmata Wilson Yip, ho aggiunto un altro tassello al grande mosaico dei titoli di questo genere. E, devo ammetterlo, un tassello di tutto rispetto.
Ambientato nell'affascinante cornice della Cina degli anni trenta, Ip man racconta la storia molto romanzata dell'omonimo Maestro di Kung fu cui si deve la diffusione mondiale dello stile Wing Chun, che divenne celebre anche per aver fatto da mentore ad un giovanissimo Bruce Lee nel periodo 1954/1957: la pellicola di Wilson Yip, oltre a mostrare duelli e scontri ottimamente realizzati, si concentra sul patriottismo mostrando la fiamma della ribellione che lo stesso Ip Man contribuì ad accendere nei cuori dei cinesi oppressi dall'invasione giapponese che impegnò i nipponici su due fronti anche durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale.
Il passaggio dagli agi mostrati nella prima parte agli stenti della seconda - così come i valori granitici del Maestro - ricordano molto l'approccio che ebbe Ron Howard nel portare in scena le vicende di James Braddock nel suo Cinderella man, e culminano in una delle sequenze di lotta più impressionanti che mi sia capitato di vedere negli ultimi anni - nonchè una delle migliori della pellicola -, che vede Ip Man fronteggiare dieci esponenti della scuola di Kung Fu giapponese spinto dalla rabbia per aver assistito all'uccisione di un altro Maestro avvenuta proprio dinanzi ai suoi occhi: un passaggio esemplare anche per chiarire a quale livello di controllo giungano esperti di questo calibro, che nel corso delle loro sfide tendono ad accompagnare o mimare i colpi più devastanti portati all'indirizzo dell'avversario.
Clamorosa, tra l'altro, la velocità d'esecuzione di Donnie Yen, protagonista assolutamente in parte per un ruolo che, in Cina, ha un'aura mitica almeno quanto quella del ben più noto in Occidente Bruce Lee, e che regala scariche di pugni e parate da rimanere a bocca aperta.
Se, da un lato, la fotografia di un mondo che lentamente crolla e la volontà di ribellione contro il regime imposto dai nipponici risultano interessanti almeno quanto i combattimenti, il film scivola con il finale in una retorica di grana molto grossa che limita - e di molto - il suo potenziale, di fatto rendendo vana la costruzione al limite dell'ironia riferita al suo protagonista nella prima metà dell'opera: un vero peccato, perchè senza una chiusura che ha quasi il sapore della propaganda neanche fossimo ancora nel periodo in cui Eisensteijn si trovava a dover magnificare l'Unione Sovietica nascente Ip Man avrebbe avuto tutte le caratteristiche del cult, imponendosi come termine di paragone per tutti i titoli di genere.
Ad ogni modo, gli appassionati come il sottoscritto troveranno pane per i loro denti e finiranno per recuperare anche il sequel - che vedrà la scena spostarsi ad Hong Kong ed un riferimento conclusivo al legame tra Ip Man e Bruce Lee -, riscoprendo un'esaltazione che solo le migliori pellicole di combattimento sanno offrire: per i non avvezzi, invece, l'ambientazione storica potrebbe addirittura rivelarsi utile per superare lo scoglio delle botte da orbi.
Quello che conta sarà cercare di non badare troppo alla retorica e concentrarsi sulla sostanza: in fondo, per quanto crogiolarsi nel sentimentalismo sfrenato sia una pratica nel Cinema molto diffusa e di successo, qualche scarica di cazzotti ben assestata da sempre tutt'altra soddisfazione.


MrFord


"Broke your jaw once before
spilt your blood upon the floor
you broke my leg in return
so let's sit back and watch the bed burn
well love sticks sweat drips
break the lock if it don't fit
a kick in the teeth is good for some
a kiss with a fist is better than none
a-woah a kiss woth a fist is better than none."
Florence + The Machine - "Kiss with a fist" -


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