Ho sempre pensato, dai ricordi d'infanzia - come ho già scritto nel post dedicato alla prima stagione - al retaggio - un nonno Partigiano -, dallo spirito alle prese di posizione, di avere un legame particolare con il concetto di Resistenza.
Un concetto, per quanto mi riguarda, non tanto legato all'idea di essere contro a prescindere, per partito preso, quanto più che altro al motto "hold fast" dei marinai e dei pirati, dell'aggrapparsi alla vita fino all'ultimo, al partecipare, al far sentire al mondo e soprattutto al Potere - inteso anch'esso come concetto - che si è vivi e mai domi.
Perchè è questo il bello della vita: vivere.
Ed il bello della seconda stagione de La casa di carta, per molti versi - soprattutto in termini di scrittura - inferiore alla prima, è che si esprima questo concetto principalmente e paradossalmente attraverso la morte: perchè nell'addio a due dei protagonisti ho trovato il succo di quello che io inseguo, sento, desidero per certi versi dalla vita.
L'affrancarsi dal Potere, in qualunque modo sia esso inteso, la Resistenza, da quella che portiamo avanti ogni giorno quando cerchiamo di fare finta che il nostro lavoro sia solo un lavoro e non la maggior parte del tempo che passiamo lontani da chi amiamo, che viviamo sulla pelle, che porta il cuore a battere per rabbia, passione, desiderio, e chi più ne ha, più ne metta, il sentirsi presenti, pronti ad aggredire ogni giorno anche quando si è così stanchi da pensare di mollare, e dormire il più profondo dei sonni.
E poco importa di una sceneggiatura poco plausibile - anche meno rispetto a quella della prima stagione -, di innesti e dimenticanze, di imperfezioni e via discorrendo: la vita, per quanto mi riguarda, la passione, il desiderio, la Resistenza, sono sempre quelli che vincono, a prescindere da chi siano i "buoni" e chi i "cattivi", da quale parte della barricata si voglia stare, anche se, per quanto mi riguarda, so benissimo dove mi vedo.
Mi vedo a sognare un'isola, a pensare di sfruttare il denaro non in quanto tale, ma come mezzo per vivere, a morire tra le braccia dei miei figli, dicendo loro che gli voglio bene, a combattere a mio modo ogni giorno per mostrare di essere presente, vivo, combattivo, pronto a guardare in faccia quello che accade e a prendere quello che desidero.
In fondo, La casa di carta racconta la storia - implausibile, ma è bello così - di un sogno: quello di essere contro, di tentare di trovare la propria strada, di sbagliare, di essere un cattivo anche quando nel mondo ci sono tanti cattivi tra i buoni, di immaginare che possano esistere sentimenti più grandi di regole, leggi, poteri costituiti.
Che esista una vita oltre i soldi, il lavoro, le case di carta: che esista un'isola in cui rifugiarsi, che costa sacrifici e speranze e sogni infranti, ma che possa cullare come la più generosa delle madri.
Che valga ogni sacrificio, ogni goccia di sudore e di sangue, ogni sofferenza, ogni addio.
Che valga la battaglia, la testa alta, una certa dose di incoscienza e supponenza.
Resistere, per vivere.
Perchè vivere è resistere.
Anche quando si perde. Anche quando si muore.
L'importante sarà averlo fatto per un motivo così grande.
MrFord