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martedì 22 marzo 2016

Brooklyn

Regia: John Crowley
Origine: Irlanda, UK, Canada
Anno: 2015
Durata:
111'







La trama (con parole mie): siamo all'inizio degli anni cinquanta quando la giovane Eilis, senza prospettive nella natia Irlanda, coglie l'opportunità tramite amicizie della sorella maggiore Rose di emigrare negli Stati Uniti, a New York, stabilendosi presso una donna che affitta camere a ragazze giunte in cerca di fortuna nella Grande Mela a Brooklyn, mantenendo come contatto un prete di origini irlandesi.
I primi tempi sono difficili, resi ancora più amari dalle difficoltà di adattamento e dalla nostalgia di casa, ma quando il lavoro comincia ad ingranare, un corso da contabile le porta i primi riscontri anche in termini di riconoscimenti ed un ragazzo di origini italiane, Tony, la corteggia, le cose cambiano ed Eilis finisce per sentirsi felice come mai le era capitato prima.
Quando, però, un avvenimento terribile la costringe a tornare in Irlanda per qualche tempo, la ragazza scopre di avere la possibilità di sfruttare tutte le occasioni mai avute prima della sua partenza: basteranno, a questo punto, il legame con Tony e la promessa fattagli prima di separarsi da lui per farla tornare negli USA?












Da spettatore ormai navigato, è curioso quanto, a volte, sia allo stesso tempo confortante e poco stimolante imbattersi in visioni come quella di Brooklyn.
La pellicola firmata da John Crowley, di recente candidata - tra le altre cose - all'Oscar per il miglior film, è a tutti gli effetti la tipica proposta hollywoodiana - anche se, per una volta, la produzione non è a stelle e strisce - buona per questo periodo dell'anno, patinata il giusto, emozionante quanto basta, perfetta come una sorta di favola da grande schermo pronta a fare contenti tutti senza, di fatto, far gridare nessuno al miracolo.
Eppure, nonostante i limiti che di norma soprattutto i radical più hardcore ed i cinefili in generale finiscono per detestare, occorre ammettere che la visione risulti molto piacevole, in equilibrio perfetto tra il troppo da mainstream selvaggio ed una scintilla autoriale da Sundance europeo: la vicenda della Eilis di Saoirse Ronan - che, a livello attoriale così come fisicamente, continua a convincermi poco -, pronta a mostrare le difficoltà dell'emigrante pronte ad amplificarsi una volta che lo stesso torna a calpestare la terra natìa, colpisce in maniera diretta e genuina, senza particolari picchi in termini di potenza o resa ma neppure senza alcuna caduta, una storia semplice e "straight" di quelle che fanno bene al cuore ed accompagnano una visione anche discretamente realistica, per quanto legata a qualche concessione - l'epilogo con il ribaltamento del ruolo di Eilis sulla nave rispetto al suo primo viaggio - che appare quasi doverosa in casi come questo.
Il grande merito di Brooklyn - oltre al fatto di aver comunque guadagnato l'attenzione di Julez, partita con i peggiori propositi - è stato quello di rievocare alla memoria del sottoscritto le atmosfere di serie animate dal sapore d'infanzia come Candy Candy - anche se, in questo caso, non troviamo antagonisti crudeli e morti a raffica - e rappresentare in qualche modo un omaggio ad un Cinema d'altri tempi, rievocato in parte anche dallo stesso script nel momento in cui viene citato uno dei titoli più importanti realizzati dal Maestro John Ford, Un uomo tranquillo, tra le pellicole più stupefacenti legate alla semplicità ed ai "vecchi valori di una volta", uscita in sala proprio negli anni in cui sono ambientate le vicende di Eilis.
Certo, nulla che faccia gridare al miracolo, ma tutto sommato una pellicola pulita che fa tornare alla mente quando eravamo bambini ed andavamo dalla nonna timorosi di pomeriggi di noia salvo poi scoprire che, nei racconti o nelle sorprese, la vecchia signora in questione sapeva comunque quali tasti premere per ribaltare in positivo tutte le attese: in un certo senso, Brooklyn ha il sapore delle caramelle che passata una certa età paiono non avere più lo stesso gusto, o di un camino acceso nel pieno dell'inverno, sdraiati sul divano con un whisky e qualcuno accanto, o una spiaggia d'estate, carichi dell'energia che ancora non si è tramutata in nostalgia da fine delle vacanze.
Interessante, inoltre, l'analisi della doppia natura di un posto piccolo e della mentalità da paese - l'Irlanda, in questo caso - e quello del grande mondo della città - New York e gli States -, filtrati attraverso la storia di Eilis sia in positivo che in negativo: in fondo, a prescindere dal luogo in cui si decide di vivere la propria vita, ci troveremo sempre e comunque ad affrontare difficoltà, momenti più o meno bui, sconfitte e vittorie, pianti e sorrisi di speranza.
In un certo senso, vale lo stesso discorso per il Cinema: un titolo come Brooklyn, che mostra tratti da tipica favola di grana grossa per il pubblico mainstream, porta in dono anche la genuina voglia di raccontare una storia senza troppi fronzoli tipica dei titoli di nicchia ma non d'autore a tutti i costi.
A questo punto, saremo liberi di scegliere se vivere questo viaggio male, come una traversata in nave sotto coperta con la burrasca pronta a farci vomitare anche l'anima, o se evitare di appesantirci troppo, salire sul ponte e goderci il vento e la prospettiva di qualcosa che tanto male, in fondo, non farà.






MrFord






"Place where I rest is on my born day
bust it, sometimes I sit back and just reflect
watch the world go by and my thought connect
I think about the time past and the time to come."
Mos Def - "Brooklyn" -





venerdì 2 ottobre 2015

Big game - Caccia al Presidente

Regia: Jalmari Helander
Origine: Finlandia, UK, Germania
Anno:
2014
Durata: 90'






La trama (con parole mie): Oskari è un quasi tredicenne finlandese figlio di un grande cacciatore, pronto al rito di passaggio che, nel giorno del suo compleanno, lo vedrà trascorrere ventiquattro ore da solo nelle foreste del Nord del suo Paese in modo da riportare un trofeo di una preda a chi lo aspetta al campo base.
William Moore è il Presidente degli Stati Uniti: l'uomo più potente dello Stato più potente del mondo.
In volo sull'Air Force One con destinazione Helsinki per una conferenza, però, non sa che una talpa nel suo equipaggio, pagata da un gruppo di terroristi che li attendono a terra, progetta di far precipitare il velivolo, uccidere la scorta e rapirlo per poi chiudere la pratica in diretta web.
Quando la capsula di salvataggio del Presidente viene trovata da Oskari, però, il copione già scritto dagli attentatori cambia: il giovane aspirante cacciatore, infatti, sarà una spina nel fianco più tosta del previsto.










Una delle cose che mi ricorderà maggiormente questo duemilaquindici cinematografico sarà senza dubbio il tentativo - voluto o no, nessuno lo saprà mai davvero - di tornare, almeno per quanto riguarda l'action ed i popcorn movies, ad una dimesione più vicina possibile a quella che ha reso noti gli anni ottanta: l'esagerazione sguaiata pane e salame senza ritegno alcuno.
Ai tempi dell'uscita in sala di Big Game, lo scorso giugno, bollai il prodotto come uno dei tanti fondi del barile che vengono raschiati per la stagione estiva in sala, non preoccupandomi troppo di recuperarlo, se non finendo per imbattermici praticamente per caso quando l'estate volgeva ormai al termine, in una serata per la quale avevo bisogno del minimo impegno e del minimo sforzo, considerato che avevo deciso di allenarmi durante la visione ed avere tempo, la mattina successiva, di prepararmi per il primo giorno di asilo del Fordino.
A conti fatti, il lavoro di Jalmari Helander, regista finlandese più noto come sceneggiatore relativamente giovane che non si sa con quali stratagemmi sia riuscito a guadagnare la direzione di un prodotto da lui anche scritto con un budget non da poco ed un cast che comprende nomi decisamente importanti come Samuel Jackson, Ray Stevenson, Felicity Huffman e soprattutto Jim Broadbent, uno più noto per il Teatro ed i film d'autore che per prodotti come questo, è una schifezzona trash che non avrebbe sfigurato nel pieno degli eighties in grado di mescolare Cliffhanger ai film di formazione per pre-adolescenti, eppure, devo ammetterlo, il suo sporco lavoro d'intrattenimento l'ha svolto alla grande.
Certo, se vi aspettate una cosa profonda legata alla formazione del piccolo protagonista - con un volto quasi felino che cinematograficamente funziona alla grande - o una logica dietro le scelte dello script avete sbagliato indirizzo - e anche di parecchio -, ma se l'idea è quella di spegnere il cervello e seguire l'evoluzione di un film d'avventura in campo aperto - bellissime le locations delle riprese bavaresi, nonostante la vicenda sia ambientata in Finlandia - allora avrete trovato pane per i vostri denti: piccolo protagonista in cerca di riscatto figlio di un padre troppo ingombrante, Presidente USA tendenzialmente vigliacco e dal poco carattere pronto a prendersi a sua volta una rivincita, un paio di villains da fumettone - Ray Stevenson ed il capo dei terroristi - ed un altro da film di spionaggio, esplosioni, battute, momenti di quasi epica action - il salto del giovane Oskari, il volo dentro il congelatore - e tutto quello che serve per lasciare che il cervello si prenda un ultimo weekend off prima di affrontare l'autunno e tutto quello che ne consegue.
Di fatto nulla, o quasi, nel corso dell'ora e mezza scarsa segue un filo logico che potrebbe mostrare un qualsiasi nesso con la realtà, ma in questi casi va benissimo così, alla facciazza del floppone che è stato negli USA questo film e della curiosa nuova tendenza del Cinema finnico, che pare più votato al trash che non all'autorialità come ai tempi di Kaurismaki.
Lasciati dunque a casa i lamentoni ed i radical chic, potrete mettere a letto i bambini - almeno quelli piccoli, perchè secondo me dalle elementari in poi roba come questa è una pacchia, considerato anche il protagonista - e godervi questa roboante - era parecchio che non vedevo così tante esplosioni in un film dove non comparisse un action hero dei miei - schifezzona dall'inaspettato potenziale d'intrattenimento: vi assicuro che sarà un toccasana almeno quanto quella volta in cui avete detto al vostro capo cosa veramente pensate di lui o vi siete presi, a sorpresa di chi vi sta intorno, un'inaspettata rivincita sul Destino.
O qualunque sua incarnazione convinta di poter avere la meglio su di voi.




MrFord




"There is no turning back from this unending path of mine
serpentine and black it stands before my eyes
to hell and back it will lead me once more
It's all i have as i stumble in and out of grace
I walk through the gardens of dying light."
H.I.M. - "The path" - 





martedì 29 aprile 2014

Il lercio

Regia: Jon S. Baird
Origine: UK
Anno:
2013
Durata: 97'





La trama (con parole mie): Bruce Robertson è un detective della polizia di Edinburgo in lizza per un'importante promozione alle prese con l'indagine legata all'omicidio di un giovane turista giapponese avvenuto per mano di un gruppo di balordi locali. Robertson, ossessionato dalle figure della moglie e della figlia, è preda, giorno dopo giorno, di una discesa nella spirale della dipendenza da alcool e droghe e di un allucinato viaggio interiore che lo porta a confrontarsi con i fantasmi del suo passato, le bassezze commesse verso i colleghi, gli amici e più in generale il resto degli esseri umani ed un crescendo che non gli permette più di distinguere la realtà dal delirio.
Riuscirà l'arcigno poliziotto a vincere se stesso e sopravvivere alle sue debolezze? Il caso verrà risolto? A chi andrà la promozione?








Irvine Welsh è da sempre un autore piuttosto ostico, per il sottoscritto. Che si parli di romanzi o di pellicole tratte dagli stessi, finisco sempre per impiegare un pò ad apprezzare il lavoro del ruvido scrittore scozzese: come se dovesse farsi il culo, perchè possa volergli davvero bene.
Il lercio è stato un'ottima interpretazione di questa curiosa consuetudine: in una serata di stanca di quelle in cui vorresti semplicemente abbandonarti sul divano e dormire fino alla fine dei tempi, il lavoro allucinato di Jon S. Baird - che, più che di noir e crime, pare cibarsi della stessa materia di Paura e delirio a Las Vegas e John dies at the end - ha faticato a carburare, lottando con le unghie e con i denti per passare dallo sconnesso tentativo di stupire di un nuovo regista affacciatosi sulle scene ad un ritratto notevole di un dramma di dipendenza e (dis)umanità assoluta.
James McAvoy, che di norma siamo abituati a vedere recitare la parte del "buono", fornisce una delle prove più convincenti della sua carriera accollandosi il peso di un charachter che, di buono, ha davvero poco o nulla, un protagonista sgradevole ed ingombrante di quelli che si finisce per osservare come se fossero scarafaggi rivoltati, più per curiosità sociologica che non per empatia.
Il suo Bruce Robertson, con fantasmi del passato annessi, è il cardine di una struttura sconnessa quanto lui, che rimbalza come una scheggia impazzita sullo schermo tra una sbronza, una striscia di coca, una scopata improvvisata ed una orchestrata alle spalle e ai danni di qualcuno, e se dev'essere qualcuno meglio che sia un collega, o un punto di riferimento da sfruttare non appena dovesse capitare l'occasione.
Un ruolo non facile davvero, che il buon McAvoy porta in scena con un piglio assolutamente convincente, supportato da un cast di spalle di prim'ordine - dal veterano Jim Broadbent a Eddie Marsan, uno dei migliori caratteristi anglosassoni, senza dimenticare attrici come Pollyanna McIntosh, sottovalutata ed ancora poco sfruttata interprete dello splendido The Woman di Lucky McKee: l'insieme delle interpretazioni, accanto ad una costruzione forse lenta - considerando la durata effettiva della pellicola - ma efficace, contribuiscono a condurre lo spettatore - disorientato o sconvolto che sia - dalle parti di un finale da urlo, impreziosito - anche se si tratta soltanto di una chicca da cinefili - da titoli di coda a cartoon a dir poco perfetti, che mi hanno riportato alla mente l'effetto che, pensando alla cultura UK, hanno sempre avuto sul sottoscritto le opere di Orwell, uno dei più grandi geni della Letteratura di tutti i tempi.
Per essere un crime movie da superamento del dolore decisamente scorretto ed assolutamente lercio - per l'appunto -, il lavoro di Baird funziona alla grande, riuscendo ad andare oltre i pregiudizi, lo spaesamento iniziale - almeno del sottoscritto -, una fluidità non proprio da manuale ed una materia decisamente poco in grado di rendere l'operazione "simpatica" a chi la osserva dall'altra parte dello schermo: un plauso, dunque, a Welsh e allo spirito con il quale è stato tradotto in immagini e trasformato in un Ulisse psichedelico di rimembranze dal sapore di whisky e James Joyce, che sarà pure stato irlandese, ma doveva avere più di un'affinità con i cugini - seppur più freddi, esperienza personale - compatrioti di William Wallace.
Per un detective strafatto, senza controllo e completamente in mano ai suoi demoni, direi che non è cosa da poco.




MrFord



 
"Your beauty makes me feel alone
I look inside but no one's home
screw that
forget about that
I don't want to think about anything like that."
Therapy? - "Screamager" - 




venerdì 11 gennaio 2013

Cloud Atlas

Regia: Tom Tykwer, Lana Wachowski, Andy Wachowski
Origine: Germania, USA, Hong Kong, Singapore
Anno: 2012
Durata: 172'
 



La trama (con parole mie): attraverso il Tempo e lo Spazio, assistiamo all'incrocio tra esistenze che si snodano dall'ottocento delle colonizzazioni e dello schiavismo ad un futuro remoto in cui le cose paiono non essere poi cambiate di molto, dal nostro presente agli anni trenta del Regno Unito, passando attraverso la Seoul del prossimo secolo e la San Francisco degli anni settanta.
Vite, morti, amori, imprese e fallimenti che passano attraverso una voglia che ricorda una cometa e l'eterna disputa che vede il Potere opposto alla Resistenza: c'è chi cade e chi riesce ad abbracciare il successo, chi combatte e chi tradisce, chi allarga le spalle affinchè la speranza divampi e chi, al contrario, porterà sempre e solo acqua al suo mulino.
E chi, più semplicemente, non sarà solo.
Questa è la grande giostra delle esistenze. Buttatevi, se avete coraggio.




Dovessi giudicare questo inizio 2013 cinematografico, penso che la mente correrebbe al volo all’idea di meraviglia: ancora stupito dal miracolo di Ang Lee con il suo Vita di Pi ecco che mi ritrovo sbigottito di fronte al lavoro a sei mani di Tom Tykwer, Andy e Lana Wachowski.
Perché Cloud Atlas – che a giudicare dai trailer che avevo avuto modo di vedere in rete ed il sala mi pareva un polpettone di quelli che avrei letteralmente affossato a bottigliate – ha ribaltato completamente i pronostici funerei della vigilia incantando casa Ford per le quasi tre ore della sua durata nonostante un Tom Hanks che io avrei rispedito sull’isola di Cast away a calci in culo ed un piglio generale che paga più di un tributo alla retorica hollywoodiana come grande tradizione – e distribuzione – vuole.
Eppure l’affresco di questo mosaico di esistenze che si snodano attraverso una manciata di secoli di Storia passata, presente e futura funziona a meraviglia, emoziona ed arriva dritto al cuore dell’audience come soltanto i grandi film di genere riescono a fare, riuscendo nel contempo a mescolare avventura, dramma, sci-fi, fantasy, commedia, amore e morte tirando le fila di uno script ottimo – la cura nei raccordi tra le epoche è quasi maniacale, e da ex sceneggiatore, pur se di fumetti, non ho potuto che apprezzare la cosa – che sequenza dopo sequenza finisce per regalare allo spettatore inizialmente disorientato un climax conclusivo in cui il dialogo a più livelli temporali pare muoversi con una tale sincronia da annullare ogni piano di narrazione per presentarsi come un unico, grande coro ad una voce.
Dalle vicende di Ewing – idealista avvocato ai tempi degli imperi coloniali – a quelle di Sonmi – destinata ad una vita ed una morte da lavoratrice nella nuova Seoul del futuro – la cometa che segna la pelle di alcuni tra i protagonisti mostra particelle delle singole gocce che compongono un oceano immenso ed affascinante, magico e complesso nelle sue espressioni positive o negative – perfetta la scelta di affidare più ruoli agli attori attraverso le epoche finendo per ritagliare addosso agli stessi anche un background ben definito, da quelli controversi di Tom Hanks a quelli oscuri di Hugo Weaving, passando per i sognatori positivi di Jim Sturgess e Halle Berry neanche ci trovassimo in una versione blockbuster del magnifico Holy motors -.
Quando, ormai più di due anni fa, Christopher Nolan stupì il mondo con il suo Inception, ricordo di aver scritto che il regista della trilogia del Cavaliere oscuro aveva raccolto il testimone di Matrix rendendo possibile quello che lo stesso Matrix non era stato in grado di essere e diventare.
Con le immagini di Cloud Atlas ancora negli occhi, la sua sinfonia di esistenze ed epoche, le pulsioni che lo rendono, di fatto, un film legato a doppio filo ai concetti di Libertà ed espressione di se stessi – tanto da ricordare, a tratti, anche V per vendetta, realizzato dall’allievo prediletto dei registi James McTeigue – e che passa attraverso la prova di forza di Sonmi – “Quando ad un uomo togli tutto, non hai più alcun potere su di lui” – e quella di Ewing – “Un oceano non è che l’insieme di un’infinità di singole gocce” -, i Wachowski hanno finalmente realizzato il loro personalissimo Inception, di fatto chiudendo un cerchio ed affermando a gran voce tutto il visionario talento mostrato fino ad ora soltanto in parte.
Sicuramente rispetto al cerebrale e chirurgico Nolan un lavoro come Cloud Atlas risulta indubbiamente larger than life e di grana più grossa, ma non siamo certo qui a contestare lo stile, quando il risultato è così coinvolgente e di ampio respiro: e dai toni da commedia nera della vicenda dell’editore interpretato da Jim Broadbent nel nostro presente al futuro remoto in stile a metà tra Apocalypto ed Avatar riusciamo a trovare scintille di magia come solo la settima arte sa produrre, brividi legati al dramma sentimentale del giovane compositore di quella che diverrà la composizione Cloud Atlas così come al vintage della San Francisco anni settanta che strizza l’occhio al Cinema impegnato dei tempi, la danza tra gli alberi della nave dello schiavo liberatosi con le sue sole forze e la “defenestrazione” del critico radical chic – una sequenza già cult dalle parti del Saloon -, per esplodere letteralmente nella Seoul di Sonmi, che ha riportato alla mente e soprattutto al cuore di questo vecchio cowboy tutta la poesia per immagini di 2046. Mica roba da poco.
Tutto questo senza dimenticare che, mascherata da spettacolone giocato su effetti e trucco, troviamo una riflessione profonda sul valore del “tutto scorre”, una sorta di respiro cosmico all’interno del quale ci muoviamo senza mai finire, in un modo o nell’altro, di farne parte – e in questo senso si torna a ricordare il già citato Vita di Pi -.
Può anche essere che con l’imminente arrivo del Fordino io mi sia rammollito, ed abbia subito una regressione che permetta di fare breccia nel mio cuore anche a pellicole inevitabilmente ad ampio raggio come questa, eppure quello che ho provato dall’inizio alla fine del suddetto film è stato pura, piena, clamorosa gioia.
Gioia nata dall’amore per la settima arte, e gratitudine per ogni momento magico che la stessa riesce a regalarmi.
E se lo scopo ultimo di questa “lanterna magica” è quello di lasciare a bocca aperta, allora Cloud Atlas ne è un’espressione potente come poche.


MrFord


"If you're lost you can look and you will find me
time after time
if you fall I will catch you I'll be waiting
time after time."
Cindy Lauper - "Time after time" -


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