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venerdì 10 febbraio 2017

Fuocoammare (Gianfranco Rosi, Italia/Francia, 2016, 114')




Se c'è una categoria di film che detesto più dei titoli prepotentemente radical chic, sono quelli che si mascherano da lavori pane e salame e celano sotto la superficie un'aura di supponenza ancora più fastidiosa di quelle emanate da chi se la mena a priori: un pò come quando mi capita di incrociare il cammino di gente che si professa "comunista" e poi finisce per cascare nel vecchio gioco da Fattoria degli animali, in cui tutti sono uguali, ma alcuni più uguali di altri.
Con Gianfranco Rosi era già successo qualche anno fa, ai tempi di Sacro GRA, che trovai lento, pesante, talmente costruito da risultare fastidioso, ed è capitato una volta ancora con questo suo titolo incensato e premiato - questa volta è stato l'Orso d'oro a Berlino, senza contare la candidatura all'Oscar duemiladiciassette per il miglior documentario -, Fuocoammare.
Personalmente, sono sempre stato un grande fan dei documentari: così come i film di fiction, infatti, se ben gestiti essi possono raccontare con uguale coinvolgimento e potenza una storia con il vantaggio costituito dal fatto che si tratti di una cronaca, di qualcosa di vero.
Per vicissitudini lavorative, una decina di anni fa ebbi l'occasione, per tre edizioni, se non ricordo male, di fare parte della giuria di un concorso dedicato proprio ai documentari organizzato dall'ottimo Spazio Oberdan a Milano: in una di queste occasioni, visionai il lavoro di una regista svizzera che, accanto al marito, aveva iniziato a strutturare un lavoro incentrato sulla vita nel cortile del palazzo in cui vivevano, collocato in una delle zone più multietniche di quella che poteva essere Ginevra, anche se non ricordo di preciso la città.
Un lavoro pianificato giorno per giorno, che più o meno a metà della sua lavorazione incontrò un ostacolo imprevisto: il marito della donna, infatti, improvvisamente morì.
Era inverno, quando successe, e lei si limitò a riprendere il loro salotto al buio con la finestra che mostrava una tempesta di neve all'esterno: raramente ho visto un'immagine, neanche quando si parlava di produzioni ben più grandi, così poetica e sentita.
Purtroppo quel documentario arrivò secondo dopo una battaglia tra noi giurati durata almeno un paio d'ore, decisa dalla spinta degli organizzatori - il suo avversario era firmato da un regista italiano ben visto dagli stessi - e dal "tradimento" del Presidente di giuria, che cambiò il suo voto per rompere un equilibrio che pareva potesse durare in eterno.
Ho immaginato Fuocoammare e Gianfranco Rosi ammanicati proprio come il film che vinse quel piccolo festival.
Perchè trovo davvero difficile pensare che in una grande manifestazione come la Berlinale - per quanto possa effettivamente essere possibile che una giuria si prenda una cantonata - un lavoro freddo e calcolato tanto quanto posticcio come questo possa essere accolto come una sorta di miracolo, quando la mia impressione è stata principalmente quella dello sfruttamento di un fenomeno divenuto un tristissimo oggetto di cronaca - i drammi dei migranti che giungono dall'Africa a Lampedusa - per atteggiarsi a narratore "alto" di un regista cui non frega nulla delle storie che racconta.
Se Rosi avesse deciso di partire dal cuore dell'Africa insieme ai migranti ed affrontare il viaggio per giungere in Sicilia accanto a loro, o avesse dato uno spessore ad immagini buone per me giusto per Studio Aperto, sarebbe stato un discorso differente: scegliere, invece, di alternare drammi amplificati dall'occhio dietro la macchina da presa - non che voglia sottovalutare quello che vivono questi disperati, sia chiaro - alla vita di una famiglia locale legata al mare, a quello che da e che toglie, mi è parso comodo ed ipocrita, lontano dal concetto che ho sempre ammirato del documentario, legato all'entrare così tanto in quello che si vuole portare sullo schermo da sporcarsi le mani e non solo.
Una bocciatura, dunque, completa e sonora, che mi invoglia, al contrario, a recuperare prodotti di tutt'altro spessore come Workingman's death o L'incubo di Darwin, e riproporli qui al Saloon come vero contraltare di roba come questa.




MrFord




martedì 22 marzo 2016

Brooklyn

Regia: John Crowley
Origine: Irlanda, UK, Canada
Anno: 2015
Durata:
111'







La trama (con parole mie): siamo all'inizio degli anni cinquanta quando la giovane Eilis, senza prospettive nella natia Irlanda, coglie l'opportunità tramite amicizie della sorella maggiore Rose di emigrare negli Stati Uniti, a New York, stabilendosi presso una donna che affitta camere a ragazze giunte in cerca di fortuna nella Grande Mela a Brooklyn, mantenendo come contatto un prete di origini irlandesi.
I primi tempi sono difficili, resi ancora più amari dalle difficoltà di adattamento e dalla nostalgia di casa, ma quando il lavoro comincia ad ingranare, un corso da contabile le porta i primi riscontri anche in termini di riconoscimenti ed un ragazzo di origini italiane, Tony, la corteggia, le cose cambiano ed Eilis finisce per sentirsi felice come mai le era capitato prima.
Quando, però, un avvenimento terribile la costringe a tornare in Irlanda per qualche tempo, la ragazza scopre di avere la possibilità di sfruttare tutte le occasioni mai avute prima della sua partenza: basteranno, a questo punto, il legame con Tony e la promessa fattagli prima di separarsi da lui per farla tornare negli USA?












Da spettatore ormai navigato, è curioso quanto, a volte, sia allo stesso tempo confortante e poco stimolante imbattersi in visioni come quella di Brooklyn.
La pellicola firmata da John Crowley, di recente candidata - tra le altre cose - all'Oscar per il miglior film, è a tutti gli effetti la tipica proposta hollywoodiana - anche se, per una volta, la produzione non è a stelle e strisce - buona per questo periodo dell'anno, patinata il giusto, emozionante quanto basta, perfetta come una sorta di favola da grande schermo pronta a fare contenti tutti senza, di fatto, far gridare nessuno al miracolo.
Eppure, nonostante i limiti che di norma soprattutto i radical più hardcore ed i cinefili in generale finiscono per detestare, occorre ammettere che la visione risulti molto piacevole, in equilibrio perfetto tra il troppo da mainstream selvaggio ed una scintilla autoriale da Sundance europeo: la vicenda della Eilis di Saoirse Ronan - che, a livello attoriale così come fisicamente, continua a convincermi poco -, pronta a mostrare le difficoltà dell'emigrante pronte ad amplificarsi una volta che lo stesso torna a calpestare la terra natìa, colpisce in maniera diretta e genuina, senza particolari picchi in termini di potenza o resa ma neppure senza alcuna caduta, una storia semplice e "straight" di quelle che fanno bene al cuore ed accompagnano una visione anche discretamente realistica, per quanto legata a qualche concessione - l'epilogo con il ribaltamento del ruolo di Eilis sulla nave rispetto al suo primo viaggio - che appare quasi doverosa in casi come questo.
Il grande merito di Brooklyn - oltre al fatto di aver comunque guadagnato l'attenzione di Julez, partita con i peggiori propositi - è stato quello di rievocare alla memoria del sottoscritto le atmosfere di serie animate dal sapore d'infanzia come Candy Candy - anche se, in questo caso, non troviamo antagonisti crudeli e morti a raffica - e rappresentare in qualche modo un omaggio ad un Cinema d'altri tempi, rievocato in parte anche dallo stesso script nel momento in cui viene citato uno dei titoli più importanti realizzati dal Maestro John Ford, Un uomo tranquillo, tra le pellicole più stupefacenti legate alla semplicità ed ai "vecchi valori di una volta", uscita in sala proprio negli anni in cui sono ambientate le vicende di Eilis.
Certo, nulla che faccia gridare al miracolo, ma tutto sommato una pellicola pulita che fa tornare alla mente quando eravamo bambini ed andavamo dalla nonna timorosi di pomeriggi di noia salvo poi scoprire che, nei racconti o nelle sorprese, la vecchia signora in questione sapeva comunque quali tasti premere per ribaltare in positivo tutte le attese: in un certo senso, Brooklyn ha il sapore delle caramelle che passata una certa età paiono non avere più lo stesso gusto, o di un camino acceso nel pieno dell'inverno, sdraiati sul divano con un whisky e qualcuno accanto, o una spiaggia d'estate, carichi dell'energia che ancora non si è tramutata in nostalgia da fine delle vacanze.
Interessante, inoltre, l'analisi della doppia natura di un posto piccolo e della mentalità da paese - l'Irlanda, in questo caso - e quello del grande mondo della città - New York e gli States -, filtrati attraverso la storia di Eilis sia in positivo che in negativo: in fondo, a prescindere dal luogo in cui si decide di vivere la propria vita, ci troveremo sempre e comunque ad affrontare difficoltà, momenti più o meno bui, sconfitte e vittorie, pianti e sorrisi di speranza.
In un certo senso, vale lo stesso discorso per il Cinema: un titolo come Brooklyn, che mostra tratti da tipica favola di grana grossa per il pubblico mainstream, porta in dono anche la genuina voglia di raccontare una storia senza troppi fronzoli tipica dei titoli di nicchia ma non d'autore a tutti i costi.
A questo punto, saremo liberi di scegliere se vivere questo viaggio male, come una traversata in nave sotto coperta con la burrasca pronta a farci vomitare anche l'anima, o se evitare di appesantirci troppo, salire sul ponte e goderci il vento e la prospettiva di qualcosa che tanto male, in fondo, non farà.






MrFord






"Place where I rest is on my born day
bust it, sometimes I sit back and just reflect
watch the world go by and my thought connect
I think about the time past and the time to come."
Mos Def - "Brooklyn" -





mercoledì 13 maggio 2015

Samba

Regia: Olivier Nakache, Eric Toledano
Origine: Francia
Anno:
2014
Durata: 118'






La trama (con parole mie): Samba è un sans papier nato in Senegal da dieci anni in Francia, lavapiatti con ambizioni da cuoco, uno zio perfettamente integrato a fargli da esempio, un'etica del lavoro solida e la volontà di costruire qualcosa in modo da potersi garantire un futuro una volta deciso di tornare alle origini.
Quando, messo all'angolo da burocrazia ed autorità, finisce in un centro di accoglienza e conosce Jonas - congolese alla ricerca della sua promessa sposa che pare si sia stabilita proprio a Parigi - ed Alice - consulente per la selezione del personale in prestito ad un'associazione che si dedica agli immigrati in recupero da un esaurimento nervoso - la sua vita cambia: costretto a vivere ancor più in segretezza a causa del foglio di via, in bilico tra documenti falsi, impieghi da una notte ed amicizie tanto intense quanto pericolose - il trafficone Wilson - Samba dovrà trovare una sua strada in modo da poter sperare in un futuro lontano da carceri, espulsioni e rischi tradotti in qualsiasi uomo che indossi una divisa, e chissà, coltivare il sogno, oltre che di un lavoro dignitoso e sicuro, anche di un amore.









Spesso e volentieri giungere al successo non significa, di fatto, essere arrivati a destinazione.
Anzi, più probabilmente, il momento si traduce in un banco di prova ancora maggiore rispetto a tutti quelli affrontati nel percorso che ha portato al successo stesso.
Eric Toledano e Olivier Nakache, dopo l'ottima prova di Quasi amici - sensazione per pubblico e critica di qualche anno fa -, si sono ritrovati di fronte un palcoscenico senza dubbio difficile da affrontare per un regista singolo, e chissà quanto più per una coppia - gli unici, di fatto, ad aver centrato un bis al livello del titolo che diede loro la notorietà, almeno in tempi recenti, sono stati Dayton e Faris con Little Miss Sunshine e Ruby Sparks -, affidandosi per questo al loro attore feticcio Omar Sy e toccando un tema tanto attuale quanto importante, quello dell'immigrazione.
Il risultato, senza dubbio alcuno inferiore al già citato Quasi amici, resta un buon esperimento che ha ricordato al sottoscritto l'altrettanto interessante Tutta colpa di Voltaire di Abdellatif Kechiche prima della consacrazione, pronto a sottolineare problematiche note anche qui da noi in Italia - ed avendo ricoperto il ruolo di insegnante di italiano per stranieri all'interno di un'associazione culturale come quella che porta le strade di Alice e Samba ad incrociarsi ho ricordi ben precisi in merito - e la realtà decisamente scomoda degli immigrati clandestini, dal terrore di essere scoperti e rispediti nel paese d'origine agli espedienti più o meno legali - dai documenti falsi all'ottimo escamotage di Wilson, che sfrutta la simpatia e la confidenza ispirate maggiormente dai brasiliani rispetto agli arabi in genere - messi in pratica per poter sbarcare il lunario e coltivare qualche sogno.
Peccato, però, che accanto ai pregi, Samba mostri il fianco anche ad eccessive concessioni al grande pubblico - soprattutto nel finale, che avrei trovato più efficace in termini più drammatici ed in stile Ken Loach, come appaiono, al contrario, tutti i passaggi legati alle code per il lavoro nella speranza di trovare un posto a giornata, o a settimana - e porti sullo schermo, di fatto, la mancata alchimia di due personaggi che avrebbero dovuto fare il film almeno quanto capitò con - di nuovo - Quasi amici: sarà da imputare ad una mia diffidenza personale, ma ho trovato la Gainsbourg completamente fuori parte per il suo ruolo, ingessata e stitica più come le radical chic possono essere, che non un'instabile donna in carriera giunta al punto di rottura.
Senza contare che, fossi stato in Samba, trovandomi di fronte un manico di scopa abbottonato ed una tipa alternativa, dal piglio grintoso, con piercing e chewing-gum masticato a bocca mezza aperta, io non avrei avuto dubbi rispetto a quale scegliere - ma è anche vero che, probabilmente, io sarei un tipo più simile a Wilson, che non a Samba, se non nel momento in cui lo stesso si fa carico della "missione" di ritrovare la donna di Jonas, conosciuto al centro di detenzione degli irregolari in attesa di conoscere il loro destino -.
Inezie a parte, comunque, pellicole come Samba finiscono per essere ad ogni modo importanti in quanto in grado di presentare una problematica tristemente nota accontentando in quasi egual misura grande pubblico e critica, nonostante in questi casi io continui a preferire un approccio documentaristico all'epopea che, inevitabilmente, conduce a compromessi di norma impossibili da riscontrare nella realtà dall'altra parte dello schermo: in questo senso, non abbiamo bisogno di vedere le cicatrici di Samba per dedurre che non abbia avuto vita facile, così come di quella maglietta portafortuna indossata sotto abiti probabilmente firmati nel giorno del ritorno al lavoro vero di Alice.
Perchè credo che tutti - o almeno, chi ha viaggiato ed ha i mezzi di una persona normale - si sarà sentito almeno una volta nella vita uno straniero, con l'amaro in bocca, la nostalgia di casa e la sensazione di dover lottare anche per un angolo: moltiplicandola di molto, avremmo la vaga idea di quello che prova ogni persona pronta a mollare tutto quello che ha per tentare di costruire una nuova vita altrove.
Certo, ci saranno gli stronzi, i criminali, quelli che se ne approffitano, sempre e comunque.
Ma ci saranno anche quelli come Samba, che finiranno a farsi il culo anche per gli altri.
E a meritare il loro posto nel mondo.
Come ognuno di noi.




MrFord




"Solo voy con mi pena
sola va mi condena
correr es mi destino
por no llevar papel
perdido en el corazуn
de la grande Babylon
me dicen el clandestino
yo soy el quiebra ley."
Manu Chao - "Clandestino" - 





sabato 1 novembre 2014

C'era una volta a New York

Regia: James Gray
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 120'




La trama (con parole mie): siamo nel 1921 a Ellis Island, ultimo bastione del controllo dell’immigrazione dei tempi sulla costa Est statunitense. Eva e sua sorella, venute dalla Polonia, sono separate in quanto la seconda risulta essere malata, mentre la prima, abbandonata dagli zii che si erano ripromessi di venire a prendere le giovani per offrire loro un alloggio ed un lavoro, viene approcciata dal losco Bruno, che si offre di aiutarla celando i suoi secondi fini, che prevedono lo sfruttamento della ragazza come prostituta.
Il rapporto tra i due pare una continua lotta, e quando l’illusionista Orlando, cugino di Bruno, entra nell’equazione, la situazione si complica prima di precipitare: Bruno ed Eva saranno costretti a fare fronte comune e scoprire il significato di riscatto e perdono nella speranza di poter sopravvivere ad un tempo ed una città pronti ad inghiottirli.








James Gray, fin dai tempi dell’ottimo esordio Little Odessa, rappresenta non solo uno dei favoriti del Saloon, ma anche uno dei cantori più importanti dell’area di New York, allo stesso modo – con le dovute proporzioni – in cui lo furono prima di lui autori come Scorsese, soprattutto agli esordi – indimenticabili, a parte il celeberrimo cult Taxi driver, Mean streets ed il successivo Fuori orario -: con il dittico The Yards e I padroni della notte, poi, Gray dipinse un affresco durissimo e drammatico della provincia che ribolle oltre i confini della Grande Mela, prendendosi il tempo di scrivere una delle storie d’amore più devastanti del Cinema recente con Two lovers.
C’era una volta a New York – adattamento pessimo dell’originale The immigrant – muove un passo indietro nel tempo per soffermarsi su una delle epoche più affascinanti che caratterizzarono la città che non dorme mai, la stessa di Capolavori come C’era una volta in America – che temo abbia giustificato la scelta dei titolisti nostrani – e dei grandi gangster movies ambientati ai tempi del proibizionismo: in bilico, però, tra crime story e romance, James Gray pare perdersi in quello che, nonostante l’indiscutibile perizia tecnica e resa a livello di immagine – la fotografia è senza dubbio splendida, così come la scelta delle inquadrature e la cura dei costumi -, rappresenta forse il suo primo, vero passo falso, un’incompiuta decisamente troppo lunga e verbosa nella prima parte e frettolosa nella seconda, paradossalmente la più riuscita.
Considerando, infatti, un eventuale pressione dei distributori rispetto ad una versione iniziale decisamente più lunga, anche a distanza di qualche giorno dalla visione non riesco a capire e condividere la scelta del regista di proporre un introduzione inutilmente dettagliata e dilatata lasciando soltanto le briciole – ed un montaggio tagliato con l’accetta – alla conclusione, pronta a sfoderare gli acuti migliori – e gli unici – della pellicola – il tema del perdono e quello del riscatto, rappresentati dai due protagonisti, sono gestiti davvero alla grande, e lasciano senza dubbio il segno -, liberando al contempo le ottime prove di Joaquin Phoenix e Marion Cotillard, che seppur lontana dai fasti di Un sapore di ruggine ed ossa conferma il suo talento anche privata delle doti più “evidenti”.
Meno in parte e convincente Jeremy Renner, che continuo a pensare dovrà ringraziare Kathryn Bigelow vita natural durante per averlo proposto in The hurt locker aprendogli le porte della ribalta internazionale nonostante doti decisamente nella media – se non inferiori – rispetto a suoi colleghi condannati ad un’attesa perenne di riconoscimenti prestigiosi – ne sa qualcosa Leonardo Di Caprio -.
Un dramma a tinte fosche ed una storia di strada che incrociano la mitologia di Sergio Leone con quella del già citato Scorsese, senza per questo rinunciare a dettagli legati alla letteratura classica – assistiamo, di fatto, ad una versione adulta di una sorta di Oliver Twist al femminile – e alla poetica del regista – l’importanza della famiglia, le radici legate alla Fede, il peccato che lastrica la strada per la salvezza – senza però liberare il talento di Gray come altri suoi lavori, finendo per pesare sul pubblico e non avvincere nella misura in cui, probabilmente, lo stesso Gray avrebbe voluto.
Un’occasione mancata, dunque, seppur con grande stile, ed un mezzo passo falso commesso da un regista dal quale, ormai, qui al Saloon ci si aspetta non solo molto, ma anche la definitiva ed assoluta consacrazione: e non bastano un paio di sequenze da urlo – l’inseguimento nei tunnel, la confessione di Eva ed il suo confronto finale con Bruno, il faccia a faccia decisivo tra quest’ultimo e Orlando – per definire un film epocale.
C’era una volta in America è irripetibile.
Anche per un newyorkese appassionato come Gray.




MrFord



"These vagabond shoes
are longing to stray
right through the very heart of it
New York, New York."
Frank Sinatra - "New York, New York" - 





 

domenica 14 luglio 2013

Cuori ribelli

Regia: Ron Howard
Origine: USA
Anno: 1992
Durata: 140'




La trama (con parole mie): siamo alla fine dell'ottocento, ed in Irlanda imperversano i proprietari terrieri che con gli affitti dei terreni soffocano le esistenze dei contadini. Joseph Donnelly, perduto il padre, insegue il sogno di avere una terra di sua proprietà andando in cerca di vendetta e di Daniel Christie, che possiede i campi per proteggere i quali il suo vecchio ha perso la vita.
Giunto alla tenuta dell'uomo, Joseph scopre di non essere poi così bravo ad uccidere e finisce per fuggire in America con la figlia dello stesso, Shannon, che insegue un desiderio di libertà e modernità.
Giunti a Boston e fintisi fratello e sorella, i due scopriranno il ribaltamento dei destini che li separava nel Vecchio Continente: mentre il primo, infatti, fa fortuna con la boxe e s'imborghesisce, la seconda continua a lavorare come un'operaia criticando i modi da puzza sotto il naso dei ricchi. Quando il legame che si è creato tra i due esplode, il dramma e la separazione li attenderanno al varco, per riunirli soltanto mesi dopo, in Oklahoma, in occasione della grande corsa che prevede l'assegnazione di terre a chiunque riesca a picchettare il proprio angolo di Paradiso sopravvivendo agli altri aspiranti proprietari.







Lo ammetto: ho sempre considerato dei veri e propri guilty pleasures polpettoni come Cuori ribelli.
Curiosamente, questa poco riconosciuta pellicola firmata Ron Howard non era ancora finita tra le mani del sottoscritto, ed è giunta in casa Ford principalmente grazie al contributo di Julez, che rispolverando ricordi di gioventù ed associandola alla mia cara Vento di passioni ha sollecitato questo graditissimo recupero.
Perchè se da un lato prodotti di questo genere rappresentano senza dubbio tutto il peggio che il Cinema americano ha da offrire per quanto riguarda la retorica e la grana grossa della narrazione, dall'altro il lavoro dell'ex Ricky Cunningham di Happy Days è onesto, puntuale, sentito e soprattutto autoironico, cosa che non si potrebbe affatto dire di pellicole simili spacciate per prodotti profondamente autoriali come War horse e Lincoln, che di norma hanno lo straordinario potere di farmi incazzare come un bufalo quando non riescono ad annoiarmi.
Cuori ribelli, al contrario, assume la connotazione di versione pane e salame delle stesse, e cavalcando una storia coinvolgente e volutamente sopra le righe permette allo spettatore di andare oltre anche alle peggiori brutture - i titoli di testa ed il pessimo dolly in stile "anima" conclusivo, per citarne due delle più clamorose - concentrandosi su una vicenda divertita e divertente interpretata da una coppia allora unita anche nella vita reale - curioso pensare alle vicende sentimentali di Tom Cruise e Nicole Kidman, da Giorni di tuono e Cuori ribelli fino al "definitivo" Eyes wide shut - che sfrutta proprio in questo senso il lato più provocatorio e da commedia del romanticismo, lasciando spesso e volentieri spazio agli scambi tra Joseph e Shannon in grado di originare anche le sequenze migliori del film - come le rispettive sbirciate durante la preparazione per la notte a Boston, forse addirittura il pezzo migliore dell'intero lavoro - ed alimentare l'evolversi della trama, suddivisa idealmente in tre atti tra Irlanda - la parte più raffazzonata -, Boston - il momento migliore del racconto, che stizza l'occhio non solo al già citato Vento di passioni ma anche a quello che sarà, dieci anni dopo, Gangs of New York - e l'Oklahoma - pronto a fare da cornice al consueto finalone da kolossal hollywoodiano che, ai tempi ed in questo caso, non servì a trasformare l'opera di Howard nella consueta macchina da soldi e premi che di norma finisce per essere la naturale evoluzione di questo tipo di proposte.
Ma senza soffermarsi troppo sulle questioni tecnico/artistiche rischiando di finire, volente oppure no, a fare lo snob che affibbia una bonaria pacca sulle spalle al mestierante regista di turno con fare di presunta superiorità, mi getto nelle sensazioni positive che titoli di questo genere riescono sempre a lasciare, figli di un'eredità cinematografica effettivamente larger than life ma sempre in grado di parlare ad ogni genere di pubblico ed incarnare, in qualche modo, il senso di meraviglia che per primi stuzzicarono Capolavori come Via col vento: senza contare che il piacere di godersi il divano di casa Ford tutti e tre insieme - anche se per ora per il Fordino non fa alcuna differenza - non ha prezzo rispetto al pensiero della noia d'essai patita di Julez a proposito di alcune scelte troppo estreme del sottoscritto o alle mie stesse pretese a volte decisamente maniacali a proposito delle visioni.
Un bel modo, dunque, per stare insieme e godersela, come un pomeriggio in cui il Cinema intero si trasferisce a casa vostra a favore della Famiglia.
E se il prezzo dev'essere accettare l'esistenza di titoli dal sottotesto retorico ed il richiamo alla lacrima facile, poco importa: la settima arte è anche questo - senza contare che il rapporto tra Joseph e Shannon è riuscito a ricordare molto, seppur fra due poveracci, il continuo provocarsi che ha posto le fondamenta di quello che abbiamo io e Julez oggi -, e sono ben contento che il semplice goderseli dall'inizio alla fine vada oltre ai tentativi di "nobilitarli" raccontando del ribaltamento di ruoli tra i protagonisti nel corso del loro viaggio e dunque del rapporto tra Vecchio e Nuovo Continente, perchè sarebbe come dare ragione ad un borioso proprietario terriero quando qui al Saloon si è sempre appartenuti alla grande schiera dei venuti dalla terra e dalla strada.


MrFord


"There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song
dear I hear that beer flows through the faucets all night long
there's treasure for the taking, for any hard working man
who will make his home in the American land."
Bruce Springsteen - "American land" -


venerdì 12 aprile 2013

Io sono Li

Regia: Andrea Segre
Origine: Italia
Anno: 2011
Durata: 92'




La trama (con parole mie): Shun Li, giovane madre cinese giunta in Italia per lavorare nella speranza di portare un giorno con lei il figlio di otto anni, dalla fabbrica tessile di Roma in cui è impiegata da tempo viene trasferita in un bar appena rilevato da alcuni suoi compatrioti a Chioggia, nei pressi di Venezia, in una piccola città di pescatori come quella in cui lei stessa è nata.
Una volta abituatasi al nuovo impiego, la donna viene presa in simpatia da un gruppo di amici del posto tutti in età da pensione: tra loro c'è Bepi, detto il Poeta, che trent'anni prima si trasferì nel piccolo centro lagunare dalla Jugoslavia, e che ora è vedovo e resiste alle richieste del figlio di trasferirsi da lui a Mestre.
Tra i due nasce una sincera amicizia che provoca malumori sia presso i capi di Shun Li che tra gli amici di Bepi, timorosi rispetto al fatto che la ragazza possa volerlo sposare per derubarlo.
Nonostante le brutture della vita, il legame tra i due troverà comunque un modo per conservare il suo significato.






Come tutti noi ben sappiamo la cara, vecchia, Terra dei cachi attraversa un periodo di crisi profonda non solo a livello economico e politico, ma anche cinematografico, mancando da tempo della verve che rese grande la nostra settima arte a cavallo del trentennio che portò dagli anni cinquanta alla fine dei settanta.
Nel corso delle ultime stagioni - se escludiamo le garanzie di Amelio, Bellocchio, Sorrentino e Garrone - l'unico nuovo volto ad aver davvero segnato con il suo passaggio le esperienze dell'audience - e della critica - è stato Giorgio Diritti, che con l'ottimo Il vento fa il suo giro ed il meraviglioso L'uomo che verrà ha regalato due vere e proprie pietre miliari.
Proprio all'eredità di questi due lavori si lega il gioiellino Io sono Li, passato un paio d'anni or sono al Festival di Venezia nelle Giornate degli Autori e pressochè ignorato dalla distribuzione, preoccupata esclusivamente, nell'ambito Italia, di invadere le sale con presunti blockbuster di infima qualità con protagonisti comici presi in prestito dal piccolo schermo: l'opera di Andrea Segre, invece, avrebbe meritato una vetrina decisamente più grande, oltre a riconoscimenti legati alla sua semplicità unita ad un approccio clamorosamente autoriale sia sotto l'aspetto tecnico che di narrazione - meravigliosa la fotografia del veterano Luca Bigazzi, profondo e toccante lo script, degno della grande tradizione del miglior Cinema orientale -.
La vicenda di Li, immigrata cinese che sogna di portare in Italia il figlio di otto anni - rimasto nella sua città natale con il nonno pescatore - ed imprigionata dalle imposizioni dei suoi capi - clamorose le situazioni come quella dei trasferimenti improvvisi, del non sapere quando il proprio debito rispetto a chi ha pagato viaggio e permesso di soggiorno sarà saldato, di non avere giorni liberi se non quando sono i boss a concederli - e dalle voci di una piccola realtà di provincia in cui una straniera più giovane è necessariamente a caccia di un vecchio pronto a cadere nella sua trappola matrimoniale, è portata sullo schermo con rigore e sensibilità, e raccontata concedendo spazio al quotidiano così come a scelte estetiche legate ad un approccio "alto", che ugualmente non pesano in nessun caso sulla visione rendendola in qualche modo radical chic.
Ed il rapporto tra Bepi e Li, nella sua complessa semplicità, è uno dei più commoventi che di recente mi sia capitato di vivere attraverso lo schermo: due "stranieri" che si ritrovano in un Paese che li accetta solo quando stanno al loro posto - ironico e da brividi il dialogo in cui il "Poeta" ricorda alla giovane amica che entrambi "sono stati comunisti" -, il primo incapace di pensare ad un'esistenza che sia lontana dal mare, dal suo casone da pescatore, dai luoghi che lo definiscono e rendono simile al padre della seconda, fedele al culto di un "suo" Poeta - Qu Yuan, una sorta di equivalente del nostro Dante - cui affidare le preghiere e la speranza che, un giorno, il figlio possa raggiungerla in quell'Italia strana e lontana che la riporta, con il paesaggio marino di Chioggia, alle origini da tempo accantonate.
Ed è proprio l'acqua con il suo essere pena e simbolo di libertà l'elemento chiave del lavoro di Segre: l'acqua che porta i sogni galleggianti di Li ed accarezza le reti da pesca di Bepi, cullando le solitudini di entrambi almeno fino al loro incontro.
Una giovane donna che lotta per il proprio bambino ed un vecchio bevitore che combatte per sopravvivere ed affermare il suo diritto di essere dove si trova.
Sono due sopravvissuti, Li e Bepi.
E si sa che il mondo, a quelli come loro, non regala o regalerà mai nulla.
L'unica strada è che quello stesso regalo sia concesso da chi abbiamo di fronte, e sa che si è già oltre gli ordini, le voci, i confini, le imposizioni o le maldicenze.
Il prezzo da pagare sarà sempre alto, ma almeno la pena sarà valsa per qualcosa che pesa quanto un'eredità, un lascito, il senso di un'esistenza che è affondata proprio quando si è trovata lontana dall'acqua che l'ha accompagnata per tutto il suo viaggio.
Ma ci sarà sempre la speranza.
La speranza è lì.
La speranza è Li.
Che illuminerà la laguna di Chioggia con la sua più grande lanterna, dono al suo più grande Poeta.


MrFord


"Ah gimme gimme good water,
ah gimme gimme gimme good water,
ah gimme good water,
please don't refuse me, mister,
I seen your daughter at the oasis
and I'm beginning to blister."
The Who - "Water" -


mercoledì 28 marzo 2012

Cosa piove dal cielo?

Regia: Sebastian Borensztein
Origine: Argentina
Anno: 2011
Durata: 93'



La trama (con parole mie):  Roberto, un metodico e solitario ferramenta di Buenos Aires che vive nel ricordo della madre morta e colleziona notizie ai limiti dell'assurdo ritagliate dalle cronache dei giornali incontra per caso Jun, un giovane immigrato cinese giunto in Argentina dopo la morte grottesca della sua fidanzata - schiacciata da una mucca precipitata dal cielo - alla ricerca dello zio, finendo per vedere la sua routine stravolta da questo nuovo ingresso nella sua vita.
Tra i due nascerà una gestuale amicizia in grado di lasciare un segno profondo nelle scelte e nel futuro di entrambi, passato attraverso un poliziotto di dubbia morale, un amore negato ed un futuro in un Paese di cui non si conosce nulla, neppure la lingua.




Ringrazio il Cinema che a volte, sulla strada lastricata di tamarrate, visioni che passano e vanno e film d'autore più o meno validi, si permetta a noi pellegrini della settima arte di incrociare il cammino con pellicole come questa.
Cosa piove dal cielo?, vincitore all'ultimo Festival di Roma, è uno di quei film che potrebbe apparire - e io stesso quasi ci cascai, ai tempi delle anticipazioni sulle uscite in collaborazione con il Cannibale - come radical chic estremo da saletta d'essai e che, al contrario, risulta pienamente pane e salame, nonchè onesto, diretto e confortante come una coperta di Linus trasformata in fotogrammi: la vicenda di Roberto e Jun, ambientata in una Buenos Aires fattasi piccola piccola, e giocata tutta sulla semplicità del microscopico malgrado i suoi orizzonti si allarghino all'universalità del macroscopico, risulta essere una delle più appassionanti storie di amicizia che gli ultimi mesi abbiano offerto agli schermi di casa Ford, ironica e leggera quanto profondamente drammatica nell'analizzare due delle più importanti tematiche della società attuale, l'immigrazione e la solitudine.
La prima, trasmessa all'audience dal giovane Jun, esule in terra straniera, incapace di parlare una sola parola di spagnolo, sfrutta il lato comico e grottesco dell'incomunicabilità per raccontarne il dramma, senza mai cedere un istante alla facile retorica legata al sociale e all'alternativismo di prendere a priori le parti di qualcuno che non si prenderebbe, nella realtà, mai sotto il proprio tetto.
Esattamente il contrario di quello che fa Roberto, che ha vissuto tutta la vita onorando una madre che non ha mai conosciuto spinto dal senso di colpa legato alla perdita del padre - ottimo il flashback che rivelerà la sua storia -, e proprio come lui spegne la luce ogni sera alle ventitre in punto, senza sgarrare di un solo secondo.
Roberto che ha origini italiane, e da una pagina de L'Unità ha iniziato la sua raccolta di storie assurde, quasi una prova che l'esistenza non sia altro se non una burla del Destino rispetto alla quale siamo tutti pedine sacrificabili.
Eppure, nonostante questo, lui continua a lottare: lotta nel mandare dove meritano - affanculo - clienti poco sopportabili e fornitori furbetti del suo negozio di ferramenta, nell'accogliere Jun a casa sua, e con l'ospite quella nobiltà d'animo che tanto gli decanta la spasimante Mari, nel colpire un poliziotto limitato e prepotente dove fa più male, nell'accettare che la stessa Mari continuerà ad amarlo proprio per l'uomo che è, e non per quello che potrebbe essere.
Il lavoro di Borensztein e la genuina, straordinaria umanità dei suoi protagonisti rende Cosa piove dal cielo? un film "contro" efficace come raramente se ne riescono a trovare, portatore di quella forza di cui noi che come Roberto e Jun viviamo negli angoli nascosti delle grandi città - e dell'esistenza - avremmo bisogno ogni giorno per fronteggiare l'isolamento e la solitudine, l'incomprensione dei Poteri e quella della burocrazia - esemplare la sequenza della disavventura di Roberto all'Ambasciata cinese -.
Il tutto portando la settima arte ad una dimensione più umana, lenta e "piccola" anche se solo nelle apparenze, perchè in grado, nei "porca puttana" di questo eroico ferramenta e nei silenziosi disegni del suo timido apprendista, di affrontare le domande che neppure il Cinema "alto" osa fronteggiare senza alcun trucco, divenendo così a tutti gli effetti una sorta di nuovi Don Chisciotte e Sancho Panza del grande schermo.
Avercene, di combattenti così.
Rudi, solitari e nobili.
Fragili, spauriti e indifesi.
Ognuno con una sensibilità che completa quella dell'altro.
Avercene, e soprattutto, trovare il nostro ideale, che sia dall'una o dall'altra parte.
Così sapremmo scovare sempre il coraggio di portare fino in fondo ogni nostra piccola rivoluzione.


MrFord


"Don't know what's comin' tomorrow,
maybe it's trouble and sorrow;
but we'll travel the road, sharin' our load,
side by side."
Ray Charles - "Side by side" -


mercoledì 23 novembre 2011

L'ospite inatteso

Regia: Thomas McCarthy
Origine: Usa
Anno: 2007
Durata: 104'



La trama (con parole mie): Walter è un tranquillo professore che da vent'anni ripete le stesse lezioni in un università del Connecticut, limitandosi ad apporre la firma su saggi che non ha neppure scritto, sognando di imparare a suonare il pianoforte in memoria della defunta moglie.
Quando, dovendo presenziare ad un seminario, si troverà a tornare nel suo vecchio appartamento di New York, Walter farà uno degli incontri più importanti della sua vita: Tarek e Zainab, due giovani immigrati non in regola, infatti, sono stati ingannati da un intermediario che ha concesso loro in affitto proprio l'alloggio da anni inutilizzato del professore.
I tre, ed in particolare Walter e Tarek, coltivano da subito un legame d'amicizia unico con le radici affondate nell'incontro tra la musica classica tanto amata dal primo ed i ritmi afro del secondo: quando, per una casualità, il giovane verrà arrestato e la minaccia dell'espulsione dagli States si farà incombente, Walter cercherà in tutti i modi di aiutare il ragazzo.



Devo ammetterlo: mi sento in colpa per avere lasciato da parte Thomas McCarthy per così tanto tempo.
Fortunatamente, l'approdo sugli schermi di casa Ford di Win win ha riportato in auge questo talentuoso volto del panorama alternativo statunitense, ed ha immediatamente indotto a recuperare la pellicola "di mezzo" della sua filmografia persa nel corso degli ultimi anni, quest'ottimo The visitor che, in una certa misura, rappresenta la prova più matura dell'autore del New Jersey, alle prese con una produzione decisamente più importante rispetto al suo esordio dietro la macchina da presa - The station agent, già citato a proposito della sua ultima fatica, giusto ieri - ed una tematica certo non facile, quella dell'immigrazione.
Sfruttando il misurato Richard Jenkins nel ruolo di Walter, infatti, McCarthy racconta con la sua ormai caratteristica onestà di scrittura una storia "sottovoce" legata a doppio filo alla scoperta dell'altro, di se stessi e alla paura serpeggiante dilagata negli States - e non solo - dopo l'undici settembre, tradotta in una denuncia che non grida allo scandalo o cerca lo sconvolgimento dello spettatore, ma sottolinea quanto, a volte, i piccoli drammi possano essere terribili quanto i grandi, da una parte e dall'altra di una frontiera.
Il tutto mantenendo una leggerezza quasi da commedia legata a doppio filo alla rinascita di Walter, che attraverso il passaggio dal pianoforte allo djembe e dalla musica classica a Fela Kuti riscopre se stesso neanche fosse il Lester di American beauty, tornando a vivere per la prima volta dopo un letargo volontario e noioso durato fin troppi anni, se non addirittura da tutta la vita: la scelta di percorrere questa sorta di rivoluzione interiore attraverso i piccoli dettagli - il cambio della montatura degli occhiali, le pause pranzo al parco, le prime jam sessions con i musicisti di strada - è profondamente stimolata da Tarek e da sua madre, personaggio fondamentale nell'economia della pellicola - decisamente più di Zainab - che permette al protagonista di compiere un ulteriore passo in avanti e al film di cambiare marcia, spostando l'attenzione dello spettatore su una sorta di misurato dramma romantico in grado di fare da contrappeso alle vicende del giovane musicista in custodia presso l'immigrazione e sulla via di essere perduto nelle labirintiche pieghe della burocrazia e dell'indifferenza al confine con la quieta violenza degli ingranaggi della stessa.
Ancora una volta rispetto ad un lavoro di McCarthy, non lasciate che un'apparenza retorica possa influenzarne la visione: lasciatevi conquistare dal ritmo lento eppure deciso e da una vicenda che trailer e distribuzione potranno anche aver mascherato da commedia alternativa leggera ma che, in realtà, cela una realtà assolutamente credibile e per nulla buonista o consolatoria, che nel corso di tutta la durata conserva il suo pregio più grande proprio nel saper trasmettere un messaggio e sentimenti forti senza mai avere bisogno di alzare i toni e la voce, ma che avanza sottopelle come l'incedere dei tre tempi delle percussioni.
Un pò come tutto il Cinema di questo ancora troppo poco conosciuto regista: storie come potrebbero essere le nostre, di quelle che, a fronte di una realtà sempre più caotica - quella che vede le luci e i colori di Broadway illuminare sogni e aspettative sempre e solo "in grande" -, resistono con le unghie e con i denti, il cuore e la musica, i sentimenti ed i ricordi: e nell'immagine di Walter finalmente deciso a suonare lo djembe in metropolitana, proprio alla fermata di Broadway - perchè si dice che lì si facciano i soldi, a detta di Tarek - c'è tutta la magia di una vita "normale" che pare aver trovato il suo palcoscenico migliore.

MrFord

"You dey go your way, the jeje way
somebody come bring original trouble
you no talk, you no act
you say you be gentleman
you go suffer
you go tire
you go quench
me I no be gentleman like that."
Fela Kuti - "Gentleman" -

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