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lunedì 2 maggio 2016

Zona d'ombra - Una scomoda verità

Regia: Peter Landesman
Origine: USA, UK, Australia
Anno: 2015
Durata: 123'







La trama (con parole mie): a seguito della tragica fine dell'ex leggenda dell'NFL Mike Webster, il patologo di origini nigeriane Bennet Omalu, lontano dal football e dal giro d'affari che alimenta, viene assalito dal dubbio che l'uomo possa aver incontrato la morte a causa dei danni cerebrali causati dai colpi subiti sul campo da gioco.
Convinto dai rilevamenti clinici effettuati e spinto da accadimenti simili che hanno colpito altri giocatori ed ex giocatori, Omalu, affiancato dal suo responsabile Cyril Wecht e dall'ex medico dei Pittsburgh Stealers Julian Bailes, pubblica un saggio di neurologia che è l'inizio di una vera e propria battaglia tra i suoi studi e la sua coscienza di medico e l'opposizione di una sorta di "lobby" costituita da tifosi, medici compiacenti, dirigenti e chiunque tragga un profitto dal football professionistico: Omalu sarà costretto a subire pressioni, ricatti, minacce ed umiliazioni, ma non abbandonerà la sua posizione rispetto alla pericolosità ed alle conseguenze di una carriera da giocatore sui campi NFL.











Per quanto non l'abbia mai seguito da vero appassionato, ho sempre adorato il football americano.
Come bene lo definisce nel corso del film il Julian Bailes di Alec Baldwin, "è uno sport terribile e violento, ma è anche poesia": ed è assolutamente così.
Dalle magie dei quarterback e dei ricevitori alle battaglie delle difese, l'esaltazione che riesce a creare lo spettacolo a stelle e strisce per eccellenza è senza ombra di dubbio qualcosa di unico, che il Cinema ha omaggiato in diverse occasioni: per la prima volta, con questo Concussion - assurdo, come sempre, l'adattamento italiano, considerato il riferimento alle commozioni cerebrali dell'originale - viene mostrato il lato oscuro del palcoscenico più seguito dagli sportivi statunitensi, ovvero le terribili conseguenze fisiche per gli atleti con una carriera ad alti livelli sui campi dell'NFL alle spalle.
Così come per il wrestling - altra grande passione made in USA del sottoscritto -, infatti, nel corso degli anni si è avuta testimonianza eclatante di quanto devastante sia stato l'impatto delle carriere sui loro protagonisti, con una lunga lista di morti purtroppo divorati dallo show business anche una volta spenti tutti i riflettori: ma se per i miei vecchi amici lottatori dello sport entertainment i problemi principali vengono dall'abuso di sostanze dopanti ed antidolorifici, per i protagonisti dello show NFL si tratta, principalmente, di conseguenze devastanti legate ai ripetuti colpi alla testa che, nonostante bardature e caschi, finiscono per logorare il cervello dell'atleta, sballottato nella scatola cranica neanche fosse il contenuto di uno shaker per un cocktail migliaia di volte nel corso di una carriera.
Bennet Omalu, patologo di origini nigeriane trapiantato a Pittsburgh, nei primi anni zero ingaggiò una vera e propria lotta - pur se ideologica - con il colosso NFL a seguito di una serie di studi che, di fatto, confermavano i rischi per i giocatori di football, quasi calcare i campi fosse l'equivalente di essere accaniti fumatori, considerate le probabilità di ritrovarsi ad affrontare la ribattezzata CTE una volta appeso il casco al chiodo - e, in alcuni casi, anche prima -.
Concussion racconta, con il piglio tipico della pellicola anni novanta che capita spesso di rivedere volentieri in televisione, una battaglia civile atipica condotta da un uomo che più di ogni altra cosa sogna di essere americano e di viverne il sogno e che, al contrario, finisce per trovarsi a minare le certezze di uno dei capisaldi di quello stesso sogno, il football professionistico: guidati da un Will Smith insolitamente bravo - in lingua originale, la sua resa del nigeriano trapiantato negli States è ottima -, assistiamo ad una pellicola a metà tra lo sportivo ed il sociale solida e ben costruita, forse non particolarmente originale o ricca di colpi di genio in termini registici o di sceneggiatura, eppure ben calibrata e piacevole da seguire, pronta a raccontare una storia che, considerato come sono andate - e stanno andando - le cose rispetto al grande carrozzone NFL, finisce per porre lo spettatore di fronte ad un dilemma che potremmo definire senza troppi problemi morale: è giusto che tutto prosegua nonostante le ovvie conseguenze - stando alle stime che scorrono prima dei titoli di coda, pare che il ventotto per cento dei giocatori sia concretamente esposto al rischio di CTE - una volta che le stesse sono state rese note - di nuovo, una cosa come quella che accade ai fumatori con le sigarette - o andrebbero attuate delle contromisure per salvaguardare la salute degli atleti?
Il lavoro di Landesman non suggerisce una risposta o prende una posizione, piuttosto segue da vicino la vicenda di un uomo che, come molti in tutto il mondo, vorrebbe essere americano più di ogni altra cosa e si trova a fronteggiare il lato oscuro di un sogno che, comunque, non è e probabilmente non sarà mai disposto ad abbandonare: una cosa senza dubbio già sentita, a tratti retorica, eppure in grado di colpire, e a fondo.
Del resto, gli Stati Uniti sono proprio come il football: sopra le righe, sguaiati e spesso terribili.
Eppure il brivido che danno è qualcosa di unico al mondo.





MrFord





"I ain't got a fever got a permanent disease
it'll take more than a doctor to prescribe a remedy
I got lots of money but it isn't what I need
gonna take more than a shot to get this poison out of me
and I got all the symptoms count 'em 1, 2, 3."
Bon Jovi - "Bad medicine" - 





lunedì 1 febbraio 2016

Joy

Regia: David O. Russell
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 124'






La trama (con parole mie): Joy è una giovane donna che, fin dall'infanzia, ha coltivato senza arrendersi i propri sogni ed un talento particolare nell'inventare oggetti che potessero migliorare la vita di tutti i giorni alle persone. Incapace di non prendersi cura della propria famiglia, dai genitori disequilibrati e divorziati, ai due figli, all'ex marito - che vive sotto il loro stesso tetto -, rimbalzando tra lavori saltuari e sogni alimentati dalla visione che l'amorevole nonna ha di lei, quasi per riprendersi dallo sconforto dell'amara quotidianità Joy disegna ed elabora un mocio in grado di strizzarsi da solo senza l'utilizzo delle mani, con una struttura smontabile che permette allo stesso di essere lavato in lavatrice e, dunque, riutilizzato come fosse nuovo ogni volta.
Per poter finanziare il suo progetto, chiede aiuto al padre ed alla sua nuova fidanzata, finendo per rimanere intrappolata in una sorta di impresa a conduzione famigliare e mandata alla ribalta nel mondo delle televendite televisive: riuscirà Joy a realizzare il suo sogno, e ad affermare la sua indipendenza ed abilità?












Frequentatori assidui del Saloon o no, penso sia chiaro quanto il sottoscritto sia profondamente legato alla cultura ed all'approccio made in USA: il concetto di seconda possibilità, quello di outsider pronto ad uscire alla distanza grazie alla determinazione, il riconoscimento del talento a prescindere dal nome o dai contatti, lo spirito indomito e molto legato alla Famiglia, alla terra - una cosa che fa molto vecchio West o Via col vento - mi hanno sempre fatto pensare che, sotto molti aspetti, sarei stato molto meglio in terra americana che non qui, nel vecchio stivale, e nonostante le loro contraddizioni, assurdità e follie amerò sempre i nostri amici stars and stripes larger than life.
Devo ammettere, inoltre, di avere anche una certa familiarità con il concetto di vendita, il confronto con il pubblico ed il rapporto che si ha con qualcuno con il quale, fondamentalmente, si trova un equilibrio che possa soddisfare il più possibile entrambi: dunque, sulla carta, Joy aveva tutte le caratteristiche per trovare terreno fertile, in casa Ford, considerata anche e soprattutto la presenza di una delle attrici maggiormente amata da queste parti - per motivi non solo attoriali -, Jennifer Lawrence.
Purtroppo, però, pur non presentandosi affatto come un brutto film - ma, al contrario, come uno di quei prodotti godibili ai quali si finisce sempre per dare un'occhiata quando passano in tv senza di fatto annoiarsi mai davvero - ed avendo coinvolto emotivamente il sottoscritto più del precedente American Hustle, Joy è risultato non solo assolutamente convenzionale rispetto al classico schema del film sulle seconde possibilità e l'American dream, ma anche quel particolare tipo di prodotto a stelle e strisce che, se affrontato da chi, al contrario di questo vecchio cowboy, è allergico agli USA ed al loro Cinema, finisce per alimentare la già scarsa simpatia rispetto agli stessi.
In questo senso David O. Russell, che fino a qualche anno fa - soprattutto con l'ottimo Il lato positivo - pareva lanciato verso una carriera molto più "alta", conferma i sospetti già nutriti rispetto al già citato American Hustle di essere "solo" un artigiano particolarmente dotato, ma certo non un cineasta in grado di raccogliere l'eredità dei grossi calibri della settima arte made in USA: come già sottolineato, la pellicola in sè funziona, è ben realizzata e poggia sulle spalle di un'ottima Jennifer Lawrence, sempre bravissima e bellissima - nonostante il rischio che possa diventare una sorta di nuova e giovane Meryl Streep diviene ad ogni stagione più grande -, supportata da un cast altrettanto ben assemblato - ho trovato molto funzionali soprattutto Bradley Cooper, che qualche anno fa, ai tempi di Alias, non avrei neppure lontanamente immaginato in grado di maturare in questo modo, ed Edgar Ramirez -, un comparto tecnico ed una colonna sonora efficaci ed una tipica evoluzione emozionale pronta a toccare le corde giuste per solleticare la lacrimuccia.
Peccato che, a conti fatti, e come giustamente ha sottolineato anche Julez, si tratti di un film come ne esistono e ne esisteranno tanti, troppi altri - per essere rudi, il tipico titolo un pò ruffiano del periodo degli Oscar -, o un prodotto - per sfruttare un paragone attinente all'argomento trattato dalla pellicola - che non ha nulla per spiccare neppure se messo in mano ad un venditore fenomenale - in questo caso, la stessa Jennifer di noi tutti -: elementi, inoltre, come la voce narrante della nonna ed un paio di spunti quasi favolistici finiscono per spingere troppo il pedale sullo zucchero facile, finendo per alimentare i dubbi perfino di un americano d'adozione come il sottoscritto.
Interessante, invece, il tema della Famiglia con tutti i suoi aspetti più o meno piacevoli, legato a doppio filo a figure apparentemente presenti eppure profondamente negative - il padre, la sorellastra - ed altre scombinate eppure decisamente positive - l'ex marito -: non voglio, comunque, far scontare troppo la pena a Joy, che in tutta onestà mi è parso un lavoro genuino e di pancia, e che mi sono comunque goduto, quanto semplicemente ammettere la delusione rispetto al suo regista ed al risultato, che sta stretto al Cinema americano ed alle sue potenzialità.




MrFord




"A little less conversation, a little more action please
all this aggravation ain't satisfactioning me
a little more bite and a little less bark
a little less fight and a little more spark
close your mouth and open up your heart and baby satisfy me
satisfy me baby."
Elvis Presley - "A little less conversation" - 






domenica 2 febbraio 2014

Colpo di fulmine - Il mago della truffa


Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Origine: USA
Anno:
2009
Durata:
98'




La trama (con parole mie): Steven Russell, poliziotto dalla vita integerrima ed esemplare, a seguito di un incidente d'auto decide di scoprire le carte della sua esistenza dichiarando finalmente la sua omosessualità ed abbandonando famiglia e forze dell'ordine per dedicarsi alla libertà e alla truffa, campo che gli permette di eccellere e distinguersi più di quanto non abbia mai fatto.
Finito in carcere, l'uomo conosce Philip Morris, giovane detenuto anch'egli omosessuale, e tra i due nasce un amore destinato a cambiare le esistenze di entrambi, segnando di fatto la condotta più o meno lecita di Russell, che pur di vivere accanto all'uomo della sua vita finirà per portare all'estremo le sue abilità uniche nel raggiro, l'inganno e l'arte della fuga.





A volte capita che prodotti decisamente interessanti - vuoi per la pessima distribuzione italiana, colpevole di avere, in questo caso, anche snaturato il titolo originale e decisamente più evocativo I love you Philip Morris - ci passino sotto il naso senza essere notati e vengano riscoperti piacevolmente a distanza di anni, un pò come una banconota ritrovata piegata in qualche pantalone abbandonato da tempo nell'armadio: è proprio il caso di questa frizzante e dolceamara commedia carceraria con protagonisti Jim Carrey e Ewan McGregor, interessante critica alla società della forma tipica degli States benestanti in mano ai self made men pronti a mostrare ad ogni occasione il loro potere economico, politico e sociale.
Glenn Ficarra e John Requa, che più di recente hanno conosciuto gli onori della cronaca grazie al riuscito Crazy, stupid, love costruiscono una pellicola veloce ed arguta, che pesca a piene mani dall'esempio - pur superiore - del Prova a prendermi spielberghiano e consegna al pubblico un charachter tra i migliori della carriera di Jim Carrey, un personaggio geniale quanto caotico, travolgente nelle scelte di vita - la soddisfazione di vivere un'esistenza libero dai dettami della società "imposta" - quanto nei sentimenti - il legame con Philip Morris - eppure preda dei propri vizi e dei demoni quanto e più delle sue appena citate virtù.
Interessante, in questo senso, scoprire che, come l'Abagnale interpretato da Di Caprio in Prova a prendermi, anche Steven Russell sfodera una gamma potenzialmente infinita di risorse intellettive e di prontezza di spirito - emblematico, oltre alle numerose fughe dagli istituti di pena, il caso della sua pur breve carriera di direttore finanziario -, quasi il messaggio fosse una volta ancora quello passato attraverso una dichiarazione d'amore incondizionata per il talento, per quanto messo all'opera in campi non propriamente leciti.
Liberamente tratto dalla reale esistenza di Russell, Colpo di fulmine - Il mago della truffa è un ottimo esempio di pellicola in grado di combinare elementi autoriali, un piglio veloce da visione più che godibile, ottime interpretazioni ed una colonna sonora non solo azzeccata, ma anche in grado di regalare una panoramica degli anni che videro il protagonista districarsi - in tutti i sensi - dalle catene della Legge: e naturalmente, per quanto criticabile possa essere - ma lo è davvero? - la sua condotta, ci si ritrova tutti lì, a tifare spudoratamente per questo incredibile criminale pieno di risorse, pronto ad ogni sfida a giocare una posta sempre più alta, fino a realizzare addirittura l'impensabile per riguadagnare la vita senza limiti e lontano non solo dalle costrizioni, ma anche dalla volontà sociale di tenere al guinzaglio i suoi membri.
In questo senso trovano una dimensione addirittura poetica le immagini delle nuvole riferite alla giovinezza di Russell stesso, che con la scoperta della sua omosessualità divengono più che altro simboli di una battaglia contro il sistema che, seppur destinata, nella normalità dei casi, ad essere inesorabilmente persa, continua ad essere dichiarata dallo spirito di un uomo che non conosce catene o forzature, nell'amore così come rispetto alla fedina penale.
E per quanto possa risultare da molti punti di vista criticabile, mi sento di sostenere pienamente il charachter di Jim Carrey, trascinato da un'abilità, un intelletto ed una passione che, probabilmente, neppure le persone che lo hanno amato di più - l'ex moglie, il primo storico fidanzato, il candido Philip Morris - sono riusciti a percepire e vivere davvero appieno: considerato come, a volte, finisce per funzionare il nostro mondo, sarebbe forse più utile dare spazio a qualche genio preda di un pò troppe sregolatezze che a burocrati apparentemente rispettosi di ogni codice pronti a nascondere in modi ben peggiori dei più abili truffatori la loro vera natura di approfittatori.


MrFord



"I'm in the mood, the rhythm is right,
move to the music, we can roll all night.
oooh, oooh, slow ride - oooh, oooh ...
slow ride, take it easy - Slow ride, take it easy
slow down, go down, got to get your lovin' one more time
hold me, roll me, slow ridin' woman you're so fine."
The Foghat - "Slow ride" - 




sabato 7 dicembre 2013

Jobs

Regia: Joshua Michael Stern
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 128'




La trama (con parole mie): dai primi assemblaggi di schede madri nel garage dei genitori in California alla conquista del mondo con l'Ipod, il percorso professionale e personale di Steve Jobs, anima della Apple ed innovatore a tutti i costi, che pur di vedere realizzati i suoi sogni sacrificò spesso e volentieri la componente umana del lavoro.
Dall'università abbandonata ai primi successi, dal conflitto che portò all'abbandono della sua creatura con il consiglio d'amministrazione ed il suo rivale John Sculley, dagli anni settanta degli acidi alla "musica in tasca" del nuovo millennio, uno sguardo sulla vita di uno dei più influenti nomi dell'informatica - e della pop culture - di tutti i tempi scomparso prematuramente nel duemilaundici.






Onestamente, per quanto utente Apple, non mi sono mai interessato più di tanto alla figura di Steve Jobs se non per la sua acquisizione - e primo lancio, di fatto - della Pixar originaria, ed allo stesso modo sono rimasto immune, nel corso degli anni, al fascino da status symbol che i prodotti targati con la mela hanno esercitato negli ultimi quindici anni sul pubblico di tutto il mondo, prendendo spesso e volentieri per il culo amici e colleghi assolutamente Apple-addicted.
A questo si aggiungano il fatto che ai quattro angoli della blogosfera il biopic incentrato sulla vita dell'anima della Apple, Steve Jobs, scomparso nel duemilaundici, ha finito per raccogliere poco più di un pugno di mosche e che personalmente detesti Ashton Kutcher, e la frittata è fatta: non che Jobs sia un titolo difficile da guardare - anzi, per le sue due ore e oltre è più che scorrevole - o in grado di stuzzicare l'incazzatura dell'audience, quanto semplicemente non abbastanza forte da avvincere e coinvolgere come fece qualche anno fa il biopic dedicato ad un altro celebre "antipatico" tecnologico, il Mark Zuckerberg dello splendido The social network.
Il lavoro di Joshua Michael Stern - poco più che un onesto artigiano -, infatti, appare assolutamente privo di originalità e mordente, si dilunga troppo nella prima parte per avanzare a colpi d'accetta nella seconda - a conti fatti, quella più interessante, considerata la sferzata di energia che portò il secondo avvento di Jobs alla Apple giunta alla fine degli anni novanta in profonda crisi -, concede troppa fiducia ad un protagonista costruito a tavolino sia per quanto riguarda la recitazione che nella sua riproposizione "di fiction" e manca completamente del guizzo in grado di trasformare un fin troppo consueto film hollywoodiano in un vero e proprio racconto in grado di trascendere dalla realtà divenendo quasi fiction pur conservando il rispetto per gli accadimenti che possono averlo ispirato.
L'impressione, dunque, è quella di assistere ad uno spettacolo onesto quanto inutile, che scorre via senza colpo ferire, non appassiona e si consegna senza neppure lottare al grande dimenticatoio delle visioni inutili o quasi: certo, ora posso dire di conoscere un pò di più Steve Jobs, che come il già citato Zuckerberg non era propriamente un mostro nei rapporti umani, di aver scoperto che uno dei giganti dell'informatica attuale nacque dalle prospettive di gloria di un gruppo di geniali nerd pronti a fare promesse ben oltre le loro aspettative, e che come il sogno americano ben promette, prima o poi per chi crede e si rimbocca le maniche la ricompensa arriva.
Ma resta decisamente troppo poco perchè Jobs stia alla storia del Cinema quanto il personaggio che l'ha ispirato sta a quella della nostra società attuale, così come mancano all'appello il respiro retorico del blockbuster destinato ai grandi incassi o le ambizioni autoriali di una proposta d'essai: nulla, dunque, che possa davvero lasciare il segno nel corso e al termine della visione, e che rende faticoso anche scrivere qualcosa che vada oltre al "ne carne ne pesce" che sto cercando di tradurre in qualcosa di più del paio di righe che meriterebbe il lavoro di Stern.
Sarebbe stato preferibile assistere ad uno spettacolo da bottigliate, più divertente da recensire e che, senza dubbio, avrebbe stimolato di più anche un amante delle sfide come fu Steve Jobs.


MrFord



"Oh peace train sounding louder
glide on the peace train
come on now peace train
yes, peace train holy roller."
Cat Stevens - "Peace train" - 




domenica 14 luglio 2013

Cuori ribelli

Regia: Ron Howard
Origine: USA
Anno: 1992
Durata: 140'




La trama (con parole mie): siamo alla fine dell'ottocento, ed in Irlanda imperversano i proprietari terrieri che con gli affitti dei terreni soffocano le esistenze dei contadini. Joseph Donnelly, perduto il padre, insegue il sogno di avere una terra di sua proprietà andando in cerca di vendetta e di Daniel Christie, che possiede i campi per proteggere i quali il suo vecchio ha perso la vita.
Giunto alla tenuta dell'uomo, Joseph scopre di non essere poi così bravo ad uccidere e finisce per fuggire in America con la figlia dello stesso, Shannon, che insegue un desiderio di libertà e modernità.
Giunti a Boston e fintisi fratello e sorella, i due scopriranno il ribaltamento dei destini che li separava nel Vecchio Continente: mentre il primo, infatti, fa fortuna con la boxe e s'imborghesisce, la seconda continua a lavorare come un'operaia criticando i modi da puzza sotto il naso dei ricchi. Quando il legame che si è creato tra i due esplode, il dramma e la separazione li attenderanno al varco, per riunirli soltanto mesi dopo, in Oklahoma, in occasione della grande corsa che prevede l'assegnazione di terre a chiunque riesca a picchettare il proprio angolo di Paradiso sopravvivendo agli altri aspiranti proprietari.







Lo ammetto: ho sempre considerato dei veri e propri guilty pleasures polpettoni come Cuori ribelli.
Curiosamente, questa poco riconosciuta pellicola firmata Ron Howard non era ancora finita tra le mani del sottoscritto, ed è giunta in casa Ford principalmente grazie al contributo di Julez, che rispolverando ricordi di gioventù ed associandola alla mia cara Vento di passioni ha sollecitato questo graditissimo recupero.
Perchè se da un lato prodotti di questo genere rappresentano senza dubbio tutto il peggio che il Cinema americano ha da offrire per quanto riguarda la retorica e la grana grossa della narrazione, dall'altro il lavoro dell'ex Ricky Cunningham di Happy Days è onesto, puntuale, sentito e soprattutto autoironico, cosa che non si potrebbe affatto dire di pellicole simili spacciate per prodotti profondamente autoriali come War horse e Lincoln, che di norma hanno lo straordinario potere di farmi incazzare come un bufalo quando non riescono ad annoiarmi.
Cuori ribelli, al contrario, assume la connotazione di versione pane e salame delle stesse, e cavalcando una storia coinvolgente e volutamente sopra le righe permette allo spettatore di andare oltre anche alle peggiori brutture - i titoli di testa ed il pessimo dolly in stile "anima" conclusivo, per citarne due delle più clamorose - concentrandosi su una vicenda divertita e divertente interpretata da una coppia allora unita anche nella vita reale - curioso pensare alle vicende sentimentali di Tom Cruise e Nicole Kidman, da Giorni di tuono e Cuori ribelli fino al "definitivo" Eyes wide shut - che sfrutta proprio in questo senso il lato più provocatorio e da commedia del romanticismo, lasciando spesso e volentieri spazio agli scambi tra Joseph e Shannon in grado di originare anche le sequenze migliori del film - come le rispettive sbirciate durante la preparazione per la notte a Boston, forse addirittura il pezzo migliore dell'intero lavoro - ed alimentare l'evolversi della trama, suddivisa idealmente in tre atti tra Irlanda - la parte più raffazzonata -, Boston - il momento migliore del racconto, che stizza l'occhio non solo al già citato Vento di passioni ma anche a quello che sarà, dieci anni dopo, Gangs of New York - e l'Oklahoma - pronto a fare da cornice al consueto finalone da kolossal hollywoodiano che, ai tempi ed in questo caso, non servì a trasformare l'opera di Howard nella consueta macchina da soldi e premi che di norma finisce per essere la naturale evoluzione di questo tipo di proposte.
Ma senza soffermarsi troppo sulle questioni tecnico/artistiche rischiando di finire, volente oppure no, a fare lo snob che affibbia una bonaria pacca sulle spalle al mestierante regista di turno con fare di presunta superiorità, mi getto nelle sensazioni positive che titoli di questo genere riescono sempre a lasciare, figli di un'eredità cinematografica effettivamente larger than life ma sempre in grado di parlare ad ogni genere di pubblico ed incarnare, in qualche modo, il senso di meraviglia che per primi stuzzicarono Capolavori come Via col vento: senza contare che il piacere di godersi il divano di casa Ford tutti e tre insieme - anche se per ora per il Fordino non fa alcuna differenza - non ha prezzo rispetto al pensiero della noia d'essai patita di Julez a proposito di alcune scelte troppo estreme del sottoscritto o alle mie stesse pretese a volte decisamente maniacali a proposito delle visioni.
Un bel modo, dunque, per stare insieme e godersela, come un pomeriggio in cui il Cinema intero si trasferisce a casa vostra a favore della Famiglia.
E se il prezzo dev'essere accettare l'esistenza di titoli dal sottotesto retorico ed il richiamo alla lacrima facile, poco importa: la settima arte è anche questo - senza contare che il rapporto tra Joseph e Shannon è riuscito a ricordare molto, seppur fra due poveracci, il continuo provocarsi che ha posto le fondamenta di quello che abbiamo io e Julez oggi -, e sono ben contento che il semplice goderseli dall'inizio alla fine vada oltre ai tentativi di "nobilitarli" raccontando del ribaltamento di ruoli tra i protagonisti nel corso del loro viaggio e dunque del rapporto tra Vecchio e Nuovo Continente, perchè sarebbe come dare ragione ad un borioso proprietario terriero quando qui al Saloon si è sempre appartenuti alla grande schiera dei venuti dalla terra e dalla strada.


MrFord


"There's diamonds in the sidewalks, there's gutters lined in song
dear I hear that beer flows through the faucets all night long
there's treasure for the taking, for any hard working man
who will make his home in the American land."
Bruce Springsteen - "American land" -


martedì 19 febbraio 2013

Promised land

Regia: Gus Van Sant
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 106'



La trama (con parole mie): Steve Butler e Sue Thomason lavorano per un colosso della lavorazione dei gas naturali, e si occupano di "conquistare" le aree rurali ancora potenzialmente sfruttabili offrendo ai proprietari una percentuale - irrisoria - sui futuri milionari introiti senza alzare troppo la voce a proposito degli effetti che le trivellazioni possono avere rispetto all'equilibrio ambientale del luogo.
Steve è in rampa di lancio per un salto di qualità nella sua carriera, e pare che anche questo incarico si risolverà con un successo facile facile: ma l'intervento di un ex professore mette in crisi gli abitanti del piccolo centro, e l'arrivo di un ambientalista particolarmente deciso a mettere i bastoni tra le ruote ai due venditori complica ancor più le cose.
Riuscirà Steve a completare l'ennesima "missione" per la Global? O è forse giunto il momento per lui di aprire gli occhi?




Ricordo che vidi Will Hunting in sala, ai tempi dei tempi, in compagnia di due dei folli che riuscivano a sopportare la presenza del Ford adolescente senza dare troppi segni di squilibrio - in fondo, erano molto poco equilibrati anche loro -.
E ricordo quanto bene mi fece quel film apparentemente "minore" di Van Sant, un Autore di quelli con la a maiuscola che era già riuscito a conquistarmi con il magnifico Drugstore cowboy - ancora oggi, forse, la sua pellicola che preferisco -, pur non avendo ancora tutti gli strumenti e le esperienze per apprezzarlo fino in fondo.
A distanza di sedici anni - e quasi mi pare incredibile anche solo pensarlo - il regista di Louisville torna ad unire le forze con Matt Damon, protagonista e sceneggiatore allora come ora con questo Promised land che pare un fratello maggiore e più maturo proprio di Will Hunting, pur non avendo, a livello di storia, nulla in comune se non una sorta di progressivo e prevedibile riscatto emotivo del suo main charachter.
Curioso quanto la critica non stia accogliendo con particolare entusiasmo questo titolo che, per quanto telefonato possa apparire nella sua evoluzione, ha invece il grande merito non solo di unire l'autorialità sfrenata del buon Gus - e limarla in positivo -, il gusto per il Cinema indie e quello dei titoli conciliatori in grado di dialogare con il grande pubblico, ma soprattutto di fornire una fotografia assolutamente vivida di questi tempi di crisi che attanagliano l'ex mondo "da bere" occidentale creando una frattura tra le classi sociali e tra le grandi multinazionali del profitto e la realtà di provincia profonda come mai prima.
Esempi clamorosi e da brividi di questi opposti punti di vista sono proprio Steve e la sua collega Sue, il primo in rampa di lancio per una carriera brillante al soldo della Global e la seconda che vive come eminenza grigia del più giovane e di successo partner lavorativo: Steve che dalla presentazione di sé all'incontro con gli ostacoli che si materializzano nei volti dell'anziano professore in pensione e dell'ambientalista arrembante ha come prima preoccupazione quella di confermarsi come "una brava persona", mentre Sue porta avanti una filosofia certamente più realistica e funzionale ma che lascia scoperti nervi come il rapporto con il figlio o quello che potrebbe nascere con Rob, mitico negoziante locale che vende "chitarre e pistole" oltre a tutto il resto, e che viene riassunta dal quasi drammatico confronto finale tra i due e da quel "è solo un lavoro" che pesa come un macigno da qualunque parte lo si voglia guardare.
Perchè, almeno per quanto mi riguarda, Steve, Sue e tutti gli abitanti delle cittadine perdute tra il nulla e l'addio che visitano in cerca di nuovi, milionari affari - tristi e limitati uomini di provincia, gente di cuore o sognatori delusi in fuga dalle città soffocanti - non sono "solo un lavoro": ma del resto, il sottoscritto è sempre stato dell'idea che si debba lavorare per vivere, e non vivere per lavorare.
Certo, forse non ho mai trovato l'impiego dei sogni, o forse ho coscienza del fatto che non riuscirei a sacrificare le mie passioni per qualcosa che possa essere tradotto in un ruolo, una promozione o un titolo, eppure un film a tratti decisamente amaro come Promised land è riuscito a farmi guardare attorno con la testa un pò più alta, non fosse altro che per l'illusione di chi vuole credere che ogni tanto le cose possano andare diversamente, senza che valgano necessariamente le regole del profitto e dell'apparenza che rendono quel lavoro "solo un lavoro", passando sopra a tutto e a tutti, anche a se stessi.
Da esseri umani abbiamo già tanta merda da ingoiare, e come improvvisati cantanti mezzi sbronzi impegnati in una serata del dilettante lottiamo ogni giorno affinchè si possa trovare un senso nel nostro passaggio su quella grande palla di terra, e perdere tempo con qualcosa che finisce per soffocarci un pò di più è davvero un'inusitata violenza allo specchio.
Così, per una volta, lascio che mi conquisti la telefonata speranza di una Terra promessa che forse non sarà il Paradiso che tanti si aspettano, ma sarà il mio fottuto Paradiso, la porta aperta dalla proprietaria della mia felicità.
O, per dirla come potrebbe Van Sant, My own private Paradise.


MrFord


"The dogs on main street howl, 
'cause they understand, 
If I could take one moment into my hands 
Mister, I ain't a boy, no, I'm a man, 
And I believe in a promised land."

Bruce Springsteen - "Promised land" -



venerdì 7 settembre 2012

La ricerca della felicità

Regia: Gabriele Muccino
Origine: Italia/Usa
Anno: 2006
Durata: 117'




La trama (con parole mie): siamo a San Francisco nei primi anni ottanta, e Chris Gardner, che non conobbe il padre prima dei suoi ventotto anni, venditore di uno scanner medico per il quale ha l'esclusiva, cerca di fare di tutto affinchè il figlio possa sentire sempre la sua presenza.
Il macchinario, però, non si vende neanche a piangere in cinese, nonostante il piccolo Christopher frequenti una scuola economica nel cuore di Chinatown, così, una volta abbandonato dalla moglie, il buon Chris senior deve arrangiarsi tra un ricovero per poveri e la speranza di essere assunto in una grossa agenzia di broker dopo uno stage non retribuito della durata di sei mesi: il sogno americano formato Will Smith e Gabriele Muccino, un inno alla forza dei sogni e all'idea di non mollare, perchè prima o poi, nonostante le sfighe della vita, se continuerai a stare addosso a chi conta, finirai per fare i soldi anche tu.
Che, alla fine, sono la felicità.



Non sono mai stato un grande sostenitore di Muccino, fin dai tempi in cui fece successo e sensazione con L'ultimo bacio.
A dire il vero, avevo discretamente apprezzato il generazionale Come te nessuno mai, eppure direi che quello è rimasto un episodio isolato rispetto alla carriera di un regista che continuo a considerare tendenzialmente paraculo e troppo borghese, per i miei gusti da tamarro pane e salame, sicuramente abile nel costruire una scena dal punto di vista tecnico eppure troppo nevrotico e sopra le righe dalla direzione degli attori all'approccio narrativo.
Così, inesorabilmente e senza alcun patema, mi sono progressivamente allontanato dal suo operato, capitando ogni tanto nel corso di uno zapping rapidissimo di fronte allo scempio che furono Ricordati di me o l'agghiacciante Sette anime - opera seconda del regista in terra americana -: l'ultima Blog War combattuta a suon di vergogne cinematografiche con il mio antagonista Cannibale mi ha invece obbligato a tornare indietro di qualche anno per recuperare un titolo cui avevo per l'appunto felicemente rinunciato, quel La ricerca della felicità che segnò l'esordio - fortunato, tra l'altro, in termini di incassi - di Muccino oltreoceano.
In realtà, rispetto ad uno scempio totale come l'appena citato Sette anime, questo mini polpettone in salsa buonista nel pieno rispetto delle regole del Cinema per famiglie a stelle e strisce con tanto di sogni propinati alla grigliata della domenica pare quasi perdonabile al regista, il cui ego normalmente gigantesco pare fagocitato da quello ancora più grande di Will Smith, che quasi come mai prima recita oltre ogni limite di decenza trasudando una voglia di Oscar - fu candidato per il ruolo di Chris Gardner, in effetti - grande quanto un paio di ville con giardino.
Giusto per tentare il tutto per tutto l'ex principe di Bel-Air sfodera anche il colpo basso del figlio Jaden nel ruolo del piccolo Christopher, finendo solo per mostrare quanto più talento abbia il futuro protagonista del remake di Karate Kid rispetto al noto genitore: personalmente non ho nulla contro il buon Will Smith - detesto in misura decisamente maggiore Muccino -, ma l'ho sempre trovato più consono a ruoli più leggeri e meno "sono un grande attore e aspetto soltanto che l'Academy lo riconosca" che non a drammoni strappalacrime facili facili come questo, fatta eccezione forse soltanto per il magnifico Alì di Michael Mann, ma in quel caso il buon Will ebbe a dirigerlo un signor fuoriclasse.
Ma prima di finire a dedicare l'intero post a regista ed attore protagonista - e so che non potrebbero che esserne felici, considerate le loro manie di protagonismo - vorrei spostare l'attenzione sul film: tecnicamente c'è davvero poco da eccepire, nonostante un eccesso di accademismo classico che alla lunga finisce per annoiare nel corso delle quasi due ore piene di pellicola, ed il comparto tecnico funziona senza sbavature, eppure l'intera storia - ispirata alla reale vicenda di Chris Gardner, che dalla strada divenne un broker di successo nel pieno dei reaganiani anni ottanta - risulta clamorosamente e fastidiosamente patinata, quasi si viaggiasse con il piede costantemente pigiato sull'acceleratore delle scene madri e della commozione indotta tipiche di quei titoli che normalmente chi è abituato a frequentare le sale soltanto di tanto in tanto finisce per considerare filmoni degni di chissà quali recensioni, vantandosi neanche fosse Muccino o Will Smith con i colleghi di lavoro e propinandole agli amici in occasione delle serate cena più film.
Fortunatamente non è mai capitato che mi venisse proposto un titolo di questo tipo in momenti del genere - chissà, forse i miei amici sanno che altrimenti verrebbero travolti dalle bottigliate -, e ringrazio che l'esperimento dello scontro rispetto al peggio del peggio con il mio rivale sia ormai alle spalle per mettere definitivamente una pietra sopra Muccino e la sua carriera.
Certo, ci sono film decisamente più brutti di questo, sia a livello tecnico che realizzativo: in fondo io stesso l'ho seguito senza avvertirne troppo il peso dall'inizio alla fine, e la vicenda narrata giocata sul riscatto e sulla realizzazione dei propri sogni ha sempre il fascino subdolo dell'american dream, eppure i ricatti morali di questo genere tendono sempre a farmi incazzare rispetto all'idea dello stesso script finito in mani decisamente più capaci di mantenere toni sobri ed intimisti invece che lasciarsi andare a momenti a dir poco pessimi come il confronto tra Chris e suo figlio sul campo da basket, in cui nel giro di trenta secondi si passa dal "dedicati ad altro che non sia un pallone" a "non permettere a nessuno di dirti cosa fare dei tuoi sogni, neanche a me". Agghiacciante davvero.
Per non parlare dei continui riferimenti a Jefferson, da fiaba stars&stripes tutta la vita, indigestione di pollo fritto e già che ci troviamo siamo ottimisti e felicemente casa e chiesa.
Da grande fan della cultura Usa, non posso che rimanere di sale di fronte a questa visione retorica ed idealizzata della stessa, come una caramella gigante fatta ingoiare a forza cercando di convincerci ad essere obesi ed orgogliosi di esserlo.
Ovviamente, a portarla in scena non poteva che essere uno dei peggiori elementi del panorama cinematografico della Terra dei cachi, rimasto probabilmente ai tempi dei paninari.


MrFord


"I'm so darn glad he let me try it again
cause my last time on earth I lived a whole world of sin
I'm so glad that I know more than I knew then
gonna keep on tryin'
till I reach the highest ground."
Stevie Wonder - "Higher ground" -

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