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lunedì 11 dicembre 2017

L'uomo di neve (Tomas Alfredson, UK/USA/Svezia, 2017, 119')





Tutti gli avventori del Saloon sanno benissimo quanto ami Jo Nesbo ed il suo personaggio principe, Harry Hole, detective alcolista e tormentato che, sulla pagina, ha girato il mondo e stanato serial killers in Norvegia dalla fine degli anni novanta a oggi, seguendo o quasi per età il suo creatore.
E chi segue questo vecchio cowboy conosce bene anche tutte le riserve che nutrivo a proposito di questa trasposizione cinematografica de L'uomo di neve, romanzo che lanciò il già citato Nesbo nell'Olimpo dei best sellers internazionali, in parte date dal fatto che si trattasse del settimo romanzo della saga e non del primo, in parte legate alle assurde scelte di casting - Fassbender sarà pure bravo e famoso, ma con Hole non c'entra proprio una fava secca, per non parlare della tostissima Bratt trasformata in una specie di bambolina indie -, in parte perchè se di norma il romanzo è superiore al film ispirato dallo stesso la sensazione, in questo caso, era quella di un replay del terrificante - e non in senso buono - Io sono leggenda di qualche anno fa, che da un Capolavoro della Letteratura snaturato portò sullo schermo una merda fumante.
Purtroppo, rispetto a L'uomo di neve, i timori si sono rivelati più che fondati.
Conscio, mi rendo conto, dell'influenza del romanzo, ho finito per considerare non solo assurdo l'adattamento - forzatamente cambiato per la maggior parte delle vicende narrate -, ma anche l'utilizzo dei particolari - tutti i fan di Hole sanno che il suo veleno favorito è il Jim Beam, noto bourbon americano, mentre nella pellicola il detective, che più che un alcolista pare essere vulnerabile alla bevuta facile e poco più, compare solo ed esclusivamente in compagnia di bottiglie di vodka da discount -, senza considerare il ritmo soporifero e l'intensità non pervenuta che ha trasformato Hole da personaggio ferito, tormentato ed in qualche modo romantico nel senso letterario del termine al tipico protagonista da giallo cinematografico scandinavo buono per gli appassionati di thriller da seconda serata nel weekend televisivo.
Un calvario per un appassionato come il sottoscritto che, anche se osservato cercando di rimanere all'esterno dei panni di fan della saga letteraria, finisce per risultare anonimo e privo di personalità, la più classica operazione prettamente commerciale pronta ad approfittare dello spettatore occasionale o del sentito dire senza alcun rispetto o considerazione per l'opera d'ispirazione o per l'intelligenza degli spettatori.
Un peccato mortale considerate le potenzialità di autore, serie e personaggio, che, continuo a ribadirlo, meriterebbero un'attenzione maggiore ed un panorama da piccolo schermo nella sua versione meglio curata - un nome solo: HBO -, piuttosto che trasposizioni così prive di personalità da risultare identiche a qualsiasi altra abbia regalato al pubblico uno dei registi dalla concentrazione di Valium più importante degli ultimi anni, Tomas Alfredson, che pare essere in grado di trasformare anche adrenalina pura in una bella tazza di camomilla.
Come se tutto questo non bastasse viene fornita una spiegazione assolutamente priva di originalità rispetto all'originale delle giustificazioni che muovono l'Uomo di neve, si preferisce un finale "giustizialista" e si finisce per perdere inesorabilmente il rapporto ed il legame che si stabilisce tra main charachter ed antagonista: un fallimento, dunque, su tutta la linea per quanto mi riguarda, e che porta alla delusione di aver visto, più che un film oggettivamente brutto o da incazzatura, una terribile occasione sprecata considerato il materiale dal quale si partiva.




MrFord




martedì 31 gennaio 2017

La La Land (Damien Chazelle, USA, 2016, 128')




"Nel West, quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda".
Su questa frase tratta dal meraviglioso L'uomo che uccise Liberty Valance di John Ford ho costruito molta della mia personale mitologia legata alla meraviglia del Cinema, a quel miracolo che, dai tempi di Melies, ha regalato magie a generazioni e generazioni di spettatori in tutto il mondo parlando spesso e volentieri del Graal di quasi tutti coloro che sono mossi da passione: i sogni.
Quei sogni che sono la materia di tutto - impossibile dimenticare Il mistero del falco -, dei quali Hollywood nella golden age dei grandi studios è stata forse il simbolo più splendente.
La Hollywood dei colori sgargianti, degli amori folli e dei musical, simbolo dell'unione tra il Cinema, per l'appunto, e la magia delle sette note: nel corso della mia carriera di spettatore, molti titoli figli di quell'epoca e molti altri appartenenti alla categoria, da West Side Story a Moulin Rouge!, mi sono entrati nel cuore rapendolo come in un ballo travolgente ed appassionato - e tutti quelli che mi conoscono ben sanno che, in quel senso, ho la stessa mobilità di un grizzly uscito cinque minuti prima dal letargo -.
Nel West, si diceva, quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda.
Damien Chazelle, regista del più che discreto - ma in parte sicuramente sopravvalutato - Whiplash, deve ben saperlo, perchè confeziona per due ore piene un pezzo di Cinema strepitoso, dal travolgente piano sequenza in apertura alla mimica facciale tra la provocazione e l'imbarazzo che Ryan Gosling ed Emma Stone raccontano alla perfezione per rendere la storia d'amore dei due protagonisti di una vicenda fotografata, musicata, diretta e montata alla perfezione, che, pur non avendo ancora visionato la maggior parte dei candidati ai prossimi Oscar, sarebbe un'ingiustizia non si portasse a casa quantomeno i premi nelle categorie tecniche.
Ma non si limita a questo: come, infatti, fu qualche stagione fa per il sorprendente The Artist, anche in questo caso un regista attuale rispolvera con mano ispirata ed una capacità che sconfina dall'omaggio e porta ad un nuovo livello il concetto di Classico tutto quello che, sulla carta, poteva apparire ormai morto e sepolto, come il jazz che Sebastian tanto tiene a mostrare per quello che è a Mia, e invece si trasforma in qualcosa che è già esistito eppure ha il sapore di futuro, che forse è più tecnica che non emozione pura - in questo senso, il già citato Moulin Rouge! stravince in quanto a scossoni e lacrime versate - ma travolge e lascia con la sensazione, nonostante l'hype altissimo che lo precedeva, di aver assistito ad uno spettacolo destinato a lasciare il segno ed essere considerato un riferimento dalle generazioni future, magari di quelli che ispireranno qualcosa simile nello spirito a questo tra una trentina d'anni.
Ma si parlava di West, realtà e leggenda.
Perchè la zampata vera sta tutta lì, a prescindere da quanto magica e strabiliante - per quanto mi riguarda, sempre tecnicamente parlando - possa risultare la visione: la zampata delle grandi occasioni, dei grandi film.
Sebastian che siede al piano, sei anni dopo aver conosciuto Mia.
Un gesto, un accordo, un brano, un film, un sogno.
Qualcosa che avrebbe potuto cambiare la sua vita, e quella dell'amata.
Peccato che il West, ed il Cinema, dove la leggenda vince, siano le meraviglie che ogni giorno ci fanno sgranare gli occhi o chiuderli - se si tratta di una canzone - per immaginare quello che potrebbe accadere se fossimo in un film, o nel ritornello del pezzo che più amiamo e ad ogni ascolto ci fa pensare che i sogni possano realizzarsi, e di essere i protagonisti di una di quelle meravigliose cavalcate su pellicola.
Ma la realtà è un'altra cosa.
Anche per Mia e Sebastian.
Nella realtà, che in questo caso coincide con la nostra, non vince la leggenda.
Cosa resta, dunque, oltre ad una manciata di sogni?
Sedere al nostro pianoforte, qualunque esso sia, e ringraziare chi abbiamo amato, amiamo ed ameremo per sempre per aver vissuto quei sogni accanto a noi.
Che si siano realizzati, oppure no.




MrFord




 

lunedì 16 febbraio 2015

Whiplash

Regia: Damien Chazelle
Origine: USA
Anno:
2014
Durata:
107'





La trama (con parole mie): il giovane e promettente batterista Andrew, figlio di un professore di liceo intenzionato a diventare un grande della musica jazz, affronta la sfida più importante della sua vita quando, al primo anno di una delle più prestigiose scuole di New York, viene selezionato per l'orchestra della stessa da Fletcher, il professore più temuto dell'istituto, un uomo noto per il suo temperamento esplosivo e per i metodi decisamente militari.
Salito alla ribalta grazie ad una casualità, Andrew si trova dapprima ad essere l'astro nascente dell'orchestra e ad abbandonare ogni legame che lo possa distrarre dalla musica, dunque vittima prescelta di Fletcher, in bilico tra la crisi e l'abisso.
Un drammatico incidente - dentro e fuori la scena - allontanerà il ragazzo dalla batteria e dall'ambiente per qualche mese, prima che l'incontro con lo stesso ex insegnante apra di nuovo le porte del jazz ad Andrew: come andrà il suo ritorno dietro casse e pedali?








C'è stato un momento della mia vita - coincidente, grossomodo, con il passaggio tra il quarto ed il quinto anno delle superiori -, in cui scrivevo ogni giorno, cercando di mettere tutto me stesso nella pagina che avevo di fronte: una cosa che continuo a fare ancora oggi, giorno più, giorno meno, soprattutto grazie al blog, ma senza dubbio portata avanti con un approccio differente.
Ai tempi ero un vero stronzo, speravo che le mie storielle da adolescente finissero sempre entro il mese perchè vedevo molti miei amici prodigarsi per un regalo allo scoccare del fatidico primo "versario", trattavo la maggior parte delle persone che avevo attorno con supponenza e ritenevo grandi le stronzate che buttavo sulla carta, neanche fossi un novello Rimbaud o cazzate di questo genere.
E mi sentivo come Andrew in un momento preciso di Whiplash.
Quello in cui il suo ex insegnante Fletcher dichiara di non aver mai avuto un Charlie Parker da tramutare in Bird.
E tu, che te lo senti dire, pensi ancora di esserlo.
In questo senso, il film di Damien Chazelle descrive molto bene il rapporto tra insegnanti ed allievi e tra genitori e figli - la figura del padre dello stesso Andrew, delineata solo sullo sfondo, risulta di gran lunga la più profonda ed interessante della pellicola -, e riesce a fotografare molto bene - oltre allo stesso prodotto, confezionato davvero alla grande nella sua parte tecnica - la sensazione che si accarezza quando, all'inizio della propria vita - perchè, di fatto, gli anni dell'adolescenza e quelli appena successivi sono solo il principio del viaggio che si compie nel mondo -, si pensa di essere più speciali degli altri, soprattutto se si accarezzano sogni di natura artistica.
Per quella che è stata la mia esperienza personale posso dire che è senza dubbio vero che alcuni di quelli che sacrificano tutto - ma proprio tutto - finiscono per raggiungere il successo ambito, ma che non sempre il prezzo da pagare vale quello stesso successo: la discussione a tavola di Andrew con i parenti a proposito di Charlie Parker è emblematica, in questo senso.
Vent'anni fa avrei detto che sarebbe stato meglio morire attorno ai trent'anni circondato dall'aura di genio assoluto, ora penso che non c'è genio che tenga, o opera immortale che compensi la sensazione che provo quando il Fordino mi sorride, o mi abbraccia, o quando si va a prenderlo al nido, e gli si illumina il viso appena ci vede.
Del resto, all'epoca avrei odiato un insegnante come Fletcher - bravo J. K. Simmons, anche se non così miracoloso come mi è capitato di leggere in giro -, tanto quanto avrei amato un Keating: la verità è che nessuno dei due è un buon insegnante, e nessuno dei due sarà mai in grado di fare quello che un insegnante ha il compito di fare, quasi come fosse un padre.
Proteggere i suoi allievi.
Non tanto da lui, o dalla materia di studio, quanto dal mondo attorno, che non regala niente a nessuno, neppure ai cosiddetti "grandi".
Tanto Fletcher forza la mano rischiando di tarpare le ali ai talentuosi più fragili, tanto Keating rischia il tutto per tutto illudendo anche i non talentuosi di potercela fare.
E la cosa più terribile è che non si arriverà mai ad una soluzione, in questo senso: perchè quello dell'insegnante è un ruolo terribilmente scomodo, una sorta di genitore senza legami affettivi, privo del vantaggio che gli stessi legami di sangue possono portare: l'insegnante è qualcuno del quale possiamo anche fare a meno, nel momento in cui la magia si spezza.
Eppure, allo stesso modo, deve essere presente, e farci sentire quanto sia importante che non si molli, che si dia il meglio, che ci si guardi le spalle per non cadere.
Osservando le cose da questa prospettiva il lavoro di Chazelle non fa una grinza, è tosto e tenace come l'insegnante più interessante o come lo studente più promettente, regge il ritmo e regala anche momenti di ottimo Cinema: eppure, saranno le fin troppo numerose recensioni entusiastiche o la sensazione di aver assistito "soltanto" ad uno sfoggio davvero notevole di tecnica e capacità di avvincere il pubblico, ma non credo di aver avuto di fronte, a conti fatti, un Charlie Parker.
In questo senso c'è un signore che di insegnamenti e rapporti tra padri e figli se ne intende parecchio che, ormai quasi trent'anni fa, è riuscito senza ombra di dubbio a portare sullo schermo non, per l'appunto, lo stesso Charlie Parker, ma Bird.
Quel signore di chiama Clint Eastwood, forse il punto d'incontro migliore tra Keating e Fletcher.
E la cosa curiosa è che, nel corso dell'imminente notte degli Oscar, a vincere non sarà il vecchio cowboy tanto quanto Chazelle, giovane che con ogni probabilità si crede un genio.
Non lo è.
Ma non merita neppure di essere preso a calci.
Quantomeno a priori.
Merita di essere compreso, palleggiato tra un abbraccio ed un rimprovero.
E poi di nuovo nella mischia.
Pronto ad un assolo che potrebbe essere decisivo.




MrFord




"Adrenaline starts to flow
you're thrashing all around
acting like a maniac
whiplash."
Metallica - "Whiplash" - 




sabato 7 dicembre 2013

Jobs

Regia: Joshua Michael Stern
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 128'




La trama (con parole mie): dai primi assemblaggi di schede madri nel garage dei genitori in California alla conquista del mondo con l'Ipod, il percorso professionale e personale di Steve Jobs, anima della Apple ed innovatore a tutti i costi, che pur di vedere realizzati i suoi sogni sacrificò spesso e volentieri la componente umana del lavoro.
Dall'università abbandonata ai primi successi, dal conflitto che portò all'abbandono della sua creatura con il consiglio d'amministrazione ed il suo rivale John Sculley, dagli anni settanta degli acidi alla "musica in tasca" del nuovo millennio, uno sguardo sulla vita di uno dei più influenti nomi dell'informatica - e della pop culture - di tutti i tempi scomparso prematuramente nel duemilaundici.






Onestamente, per quanto utente Apple, non mi sono mai interessato più di tanto alla figura di Steve Jobs se non per la sua acquisizione - e primo lancio, di fatto - della Pixar originaria, ed allo stesso modo sono rimasto immune, nel corso degli anni, al fascino da status symbol che i prodotti targati con la mela hanno esercitato negli ultimi quindici anni sul pubblico di tutto il mondo, prendendo spesso e volentieri per il culo amici e colleghi assolutamente Apple-addicted.
A questo si aggiungano il fatto che ai quattro angoli della blogosfera il biopic incentrato sulla vita dell'anima della Apple, Steve Jobs, scomparso nel duemilaundici, ha finito per raccogliere poco più di un pugno di mosche e che personalmente detesti Ashton Kutcher, e la frittata è fatta: non che Jobs sia un titolo difficile da guardare - anzi, per le sue due ore e oltre è più che scorrevole - o in grado di stuzzicare l'incazzatura dell'audience, quanto semplicemente non abbastanza forte da avvincere e coinvolgere come fece qualche anno fa il biopic dedicato ad un altro celebre "antipatico" tecnologico, il Mark Zuckerberg dello splendido The social network.
Il lavoro di Joshua Michael Stern - poco più che un onesto artigiano -, infatti, appare assolutamente privo di originalità e mordente, si dilunga troppo nella prima parte per avanzare a colpi d'accetta nella seconda - a conti fatti, quella più interessante, considerata la sferzata di energia che portò il secondo avvento di Jobs alla Apple giunta alla fine degli anni novanta in profonda crisi -, concede troppa fiducia ad un protagonista costruito a tavolino sia per quanto riguarda la recitazione che nella sua riproposizione "di fiction" e manca completamente del guizzo in grado di trasformare un fin troppo consueto film hollywoodiano in un vero e proprio racconto in grado di trascendere dalla realtà divenendo quasi fiction pur conservando il rispetto per gli accadimenti che possono averlo ispirato.
L'impressione, dunque, è quella di assistere ad uno spettacolo onesto quanto inutile, che scorre via senza colpo ferire, non appassiona e si consegna senza neppure lottare al grande dimenticatoio delle visioni inutili o quasi: certo, ora posso dire di conoscere un pò di più Steve Jobs, che come il già citato Zuckerberg non era propriamente un mostro nei rapporti umani, di aver scoperto che uno dei giganti dell'informatica attuale nacque dalle prospettive di gloria di un gruppo di geniali nerd pronti a fare promesse ben oltre le loro aspettative, e che come il sogno americano ben promette, prima o poi per chi crede e si rimbocca le maniche la ricompensa arriva.
Ma resta decisamente troppo poco perchè Jobs stia alla storia del Cinema quanto il personaggio che l'ha ispirato sta a quella della nostra società attuale, così come mancano all'appello il respiro retorico del blockbuster destinato ai grandi incassi o le ambizioni autoriali di una proposta d'essai: nulla, dunque, che possa davvero lasciare il segno nel corso e al termine della visione, e che rende faticoso anche scrivere qualcosa che vada oltre al "ne carne ne pesce" che sto cercando di tradurre in qualcosa di più del paio di righe che meriterebbe il lavoro di Stern.
Sarebbe stato preferibile assistere ad uno spettacolo da bottigliate, più divertente da recensire e che, senza dubbio, avrebbe stimolato di più anche un amante delle sfide come fu Steve Jobs.


MrFord



"Oh peace train sounding louder
glide on the peace train
come on now peace train
yes, peace train holy roller."
Cat Stevens - "Peace train" - 




giovedì 19 luglio 2012

Contraband

Regia: Baltasar Kormakur
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 109'




La trama (con parole mie):  Chris Farraday è un ex mago del contrabbando, un Houdini dei traffici navali ritiratosi da qualche anno per aprire una propria attività legale e badare alla moglie e ai due figli.
Quando il cognato Andy, giovane dalle ambizioni simili a quelle del "vecchio" Chris, si mette nei guai per un trasporto finito male, l'uomo è costretto a riprendere la mano con i suoi trascorsi e tornare a bordo di una nave per organizzare un affare di banconote false tra gli States e Panama in modo da coprire il debito del ragazzo.
Purtroppo per lui il lavoro sarà più complicato del previsto, considerata la delicata situazione del suo vecchio socio Sebastian, la mina vagante Tim Briggs pronta a minacciare la sua famiglia e la geografia criminale di Panama, decisamente cambiata dai tempi in cui lui stesso imperversava da quelle parti regolarmente.




L'estate, come se ci fosse davvero bisogno di ricordarlo, è e resta la stagione simbolo del relax e dell'abbandono delle alte mire intellettuali, il momento nell'anno in cui anche il cervello finisce per cercare refrigerio in proposte che lo massaggino senza impegno in attesa delle nuove avventure dell'autunno: di buona norma, dunque, tra luglio e agosto finiscono per popolare le sale principalmente titoli horror o action dalle pretese molto basse che, in qualche caso, finiscono addirittura per rivelarsi sorprese discretamente piacevoli.
All'inizio del mese scorso era stato Viaggio in Paradiso a farla da padrone, con un ritrovato Mel Gibson in versione action hero, mentre ora tocca a Contraband interpretare la parte del leone nel cuore di questo rovente luglio: in realtà la pellicola firmata Kormakur ricorda più i crime drama tosti delle ultime stagioni, da The departed a The town, che non le sguaiate tamarrate in bilico tra gli eighties ed il gusto figlio dell'estetica di Robert Rodriguez, eppure, nonostante il tono serioso e la qualità che non riesce - ovviamente, direi - a pareggiare lo spessore dei lavori di Scorsese ed Affleck, porta a casa un risultato discreto ed un titolo che riesce a farsi seguire con attenzione ed interesse dall'inizio alla fine nel giusto equilibrio tra il riposo dei neuroni ed un approccio non completamente privo di logica.
Del resto, le vicende criminali risolte in famiglia, condite da amicizie tradite e ferite profonde, sono un must per ogni appassionato del genere fin dai tempi de Il padrino, e la via scelta da Kormakur risulta azzeccata nel mescolare un cast in buona forma e sicuramente in parte - con un Giovanni Ribisi che pare riproporre una versione aggressiva del suo personaggio di The rum diary a fare da jolly sopra le righe - ed una dose corposa di action che passa dalle sparatorie - ottimo lo scontro attorno al furgone portavalori a Panama City - alle lotte contro il tempo - standard, ma ben realizzato, il rocambolesco ritorno sulla nave di Faraday e soci, sempre a Panama -, arrivando addirittura ad impreziosire il risultato finale con un crescendo - quello riferito al contrabbando di denaro falso - che pare un omaggio alle illusioni - di ben altro livello, sia chiaro - cui ci ha abituati Christopher Nolan.
Ben lungi dal sottoscritto l'idea di propinare Contraband come una sorta di oasi per tutti gli appassionati di action d'autore in cerca di un nuovo erede di Michael Mann e delle sue epopee, eppure - specialmente, come già sottolineato, in questo periodo dell'anno - mi sento di poter consigliare senza particolari dubbi la visione per godersi un prodotto che si pone in quel giusto mezzo che vi permetterà di non tenere nascosto il titolo del film che avete visto in sala la sera prima con gli amici e di sentirvi allo stesso tempo adeguatamente gasati dalle capacità di un protagonista "vecchio stampo" e da un compagno/antagonista caratterizzato molto bene da un Ben Foster troppo spesso ai margini delle produzioni che contano, e che in casa Ford è visto più che bene dai tempi dell'ottimo Oltre le regole.
Proprio il personaggio di Sebastian rappresenta uno dei cardini dell'intera storia, forse telefonato in alcuni suoi aspetti eppure accattivante quanto basta per ritagliarsi una grossa fetta di attenzione nonostante un minutaggio sicuramente minore rispetto a quello ovviamente dedicato a Marc Wahlberg/Faraday: la sua fallibilità e la tendenza al caos lo rendono decisamente magnetico anche se confrontato con la forza e la decisione del suo vecchio compare, tanto da incuriosire a proposito di quello che sarebbe stato se a scriverne le gesta fosse stato uno sceneggiatore di alto livello al servizio, per l'appunto, di un Michael Mann nella forma migliore.
Ma già queste domande suonano troppo eccessive, per Contraband e per l'estate.
Ringraziamo che esistano prodotti d'intrattenimento "alti" come questo e godiamoceli.
Prima che arrivi troppo in fretta l'autunno.


MrFord


"Through these fields of destruction
baptisms of fire
I've witnessed your suffering
as the battles raged higher
and though they hurt me so bad
in the fear and alarm
you did not desert me
my brothers in arms."
Dire Straits - "Brothers in arms" -


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