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venerdì 10 febbraio 2017

Fuocoammare (Gianfranco Rosi, Italia/Francia, 2016, 114')




Se c'è una categoria di film che detesto più dei titoli prepotentemente radical chic, sono quelli che si mascherano da lavori pane e salame e celano sotto la superficie un'aura di supponenza ancora più fastidiosa di quelle emanate da chi se la mena a priori: un pò come quando mi capita di incrociare il cammino di gente che si professa "comunista" e poi finisce per cascare nel vecchio gioco da Fattoria degli animali, in cui tutti sono uguali, ma alcuni più uguali di altri.
Con Gianfranco Rosi era già successo qualche anno fa, ai tempi di Sacro GRA, che trovai lento, pesante, talmente costruito da risultare fastidioso, ed è capitato una volta ancora con questo suo titolo incensato e premiato - questa volta è stato l'Orso d'oro a Berlino, senza contare la candidatura all'Oscar duemiladiciassette per il miglior documentario -, Fuocoammare.
Personalmente, sono sempre stato un grande fan dei documentari: così come i film di fiction, infatti, se ben gestiti essi possono raccontare con uguale coinvolgimento e potenza una storia con il vantaggio costituito dal fatto che si tratti di una cronaca, di qualcosa di vero.
Per vicissitudini lavorative, una decina di anni fa ebbi l'occasione, per tre edizioni, se non ricordo male, di fare parte della giuria di un concorso dedicato proprio ai documentari organizzato dall'ottimo Spazio Oberdan a Milano: in una di queste occasioni, visionai il lavoro di una regista svizzera che, accanto al marito, aveva iniziato a strutturare un lavoro incentrato sulla vita nel cortile del palazzo in cui vivevano, collocato in una delle zone più multietniche di quella che poteva essere Ginevra, anche se non ricordo di preciso la città.
Un lavoro pianificato giorno per giorno, che più o meno a metà della sua lavorazione incontrò un ostacolo imprevisto: il marito della donna, infatti, improvvisamente morì.
Era inverno, quando successe, e lei si limitò a riprendere il loro salotto al buio con la finestra che mostrava una tempesta di neve all'esterno: raramente ho visto un'immagine, neanche quando si parlava di produzioni ben più grandi, così poetica e sentita.
Purtroppo quel documentario arrivò secondo dopo una battaglia tra noi giurati durata almeno un paio d'ore, decisa dalla spinta degli organizzatori - il suo avversario era firmato da un regista italiano ben visto dagli stessi - e dal "tradimento" del Presidente di giuria, che cambiò il suo voto per rompere un equilibrio che pareva potesse durare in eterno.
Ho immaginato Fuocoammare e Gianfranco Rosi ammanicati proprio come il film che vinse quel piccolo festival.
Perchè trovo davvero difficile pensare che in una grande manifestazione come la Berlinale - per quanto possa effettivamente essere possibile che una giuria si prenda una cantonata - un lavoro freddo e calcolato tanto quanto posticcio come questo possa essere accolto come una sorta di miracolo, quando la mia impressione è stata principalmente quella dello sfruttamento di un fenomeno divenuto un tristissimo oggetto di cronaca - i drammi dei migranti che giungono dall'Africa a Lampedusa - per atteggiarsi a narratore "alto" di un regista cui non frega nulla delle storie che racconta.
Se Rosi avesse deciso di partire dal cuore dell'Africa insieme ai migranti ed affrontare il viaggio per giungere in Sicilia accanto a loro, o avesse dato uno spessore ad immagini buone per me giusto per Studio Aperto, sarebbe stato un discorso differente: scegliere, invece, di alternare drammi amplificati dall'occhio dietro la macchina da presa - non che voglia sottovalutare quello che vivono questi disperati, sia chiaro - alla vita di una famiglia locale legata al mare, a quello che da e che toglie, mi è parso comodo ed ipocrita, lontano dal concetto che ho sempre ammirato del documentario, legato all'entrare così tanto in quello che si vuole portare sullo schermo da sporcarsi le mani e non solo.
Una bocciatura, dunque, completa e sonora, che mi invoglia, al contrario, a recuperare prodotti di tutt'altro spessore come Workingman's death o L'incubo di Darwin, e riproporli qui al Saloon come vero contraltare di roba come questa.




MrFord




mercoledì 30 settembre 2015

Taxi Teheran

Regia: Jafar Panahi
Origine: Iran
Anno: 2015
Durata: 82'






La trama (con parole mie): Jafar Panahi, colonna del Cinema iraniano, regista pluripremiato in tutto il mondo, condannato dal regime ed impossibilitato ad esercitare la sua professione, gira il suo terzo lavoro di contrabbando mettendosi in gioco in prima persona, sfruttando un mezzo così ricco di storie come il taxi per raccontare, criticare, affrontare con ironia, rabbia e quasi complicità la società iraniana e tutte le sue contraddizioni.
Specchiandosi nei passeggeri occasionali e non di una giornata di lavoro, tra incidenti stradali, dibattiti sull'utilizzo della pena di morte, ricordi, situazioni al limite del surreale, Panahi cerca di dare voce alla gente della strada che potrebbe non avere mai la possibilità di comunicare al mondo a causa della difficoltà, in Iran, di realizzare un film effettivamente "distribuibile".








Una delle cose per le quali ringrazio maggiormente il mio periodo da radical chic cinefilo è stata la scoperta del Cinema iraniano, tra i più interessanti, profondi e vitali del panorama mondiale: ricordo ancora benissimo la prima volta che mi capitò di affrontare la visione de Il sapore della ciliegia, Capolavoro totale di Abbas Kiarostami, così come quando, proprio a partire dal Maestro, giunsi a scoprire quello che era stato, in più di un senso, un suo allievo, Jafar Panahi.
Gli ottimi Il cerchio e Lo specchio mi colpirono con una forza notevole, e con Oro rosso ebbi l'impressione che dall'Iran avremmo avuto solo doni importanti, come pubblico, rispetto al Cinema: peccato che, a seguito delle sue posizioni opposte a quelle del regime, Panahi stesso abbia passato la maggior parte degli ultimi dodici anni a combattere per la libertà di espressione, artistica e culturale del suo Paese, finendo in carcere e divenendo uno dei bersagli simbolo dell'ordine costituito, finendo per compromettere - nonostante i premi che continua a raccogliere - la sua carriera come regista.
In questo senso, Taxi Teheran è un'opera fondamentale, giustamente riconosciuta come il testamento ironico ma non per questo privo di mordente di un uomo che è stato privato della sua Libertà in un Paese che, nonostante tutto, continua ad amare profondamente, simbolo della determinazione di un Autore che è stato ed è assolutamente importante per il Cinema tutto, e che andrebbe giustamente preso come esempio non soltanto per la sua lotta contro il regime ed il potere, ma anche e soprattutto per la determinazione con la quale insegue la sua vocazione.
Eppure, da amante del lavoro del buon, vecchio, pacioso Jafar, qualcosa in questo suo decisamente incensato lavoro non mi ha convinto fino alla fine: così come accadde, infatti, per Kim Ki Duk nel suo Arirang, mi è parso di notare, in alcuni passaggi di quest'ultimo lavoro di Panahi premiato a Berlino con l'Orso d'oro per il miglior film, un certo compiacimento ed un manierismo mascherato da artigianato low budget totale che ha finito, a tratti, per rendere la visione quasi antipatica, come se lo stesso Panahi avesse fatto il passo più lungo della gamba e tentasse di convincermi rispetto a qualcosa rispetto alla quale, di fatto, sono già assolutamente ed abbondantemente dalla sua parte.
Il tutto senza contare che, rispetto ai già citati film di fiction che fecero la sua fortuna - almeno qui al Saloon - ed al molto interessante Offside, l'utilizzo di una tecnica come quella della ripresa "di fortuna" finisce in più di un'occasione per stuzzicare il dubbio rispetto al fatto che tutto possa essere frutto di un'incredibile e più che convincente operazione di finto realismo a tutti i costi animato, di fondo, dalla finzione cinematografica stessa: non a caso le parti più interessanti appaiono quelle che in qualche modo si prendono gioco della "forma", dal rapporto con il venditore di dvd illegali ed i consigli cinematografici al giovane aspirante regista che chiede un'opinione rispetto a quali titoli acquistare o il rapporto con le due anziane signore preda della loro superstizione e del pellegrinaggio ittico che ne consegue.
Meno riuscita - dal mio punto di vista, si intende - la parte dedicata alla nipote, decisamente troppo costruita per fare davvero breccia nel cuore dello spettatore, e quella dell'incidente, di fatto una sorta di versione hollywoodiana d'impatto trapiantata a Teheran con mezzi di fortuna: con questo non voglio criticare troppo una pellicola che, nella condizione di Panahi, finisce per essere più che fondamentale, quanto più che altro ricordare che le capacità di questo straordinario Autore, a prescindere dalle limitazioni, sono molto, molto maggiori rispetto a quelle che la voglia di convogliare la rabbia potrebbe suggerire.
In un certo senso Panahi, per tornare ad essere il Panahi migliore e mostrare al regime non quello che il regime si aspetta da lui, ma la sua forza, dovrebbe forse smettere almeno per un pò di essere Panahi, ed essere solo un regista che vuole raccontare una storia.
Che, sono sicuro, non faticherebbe a diventare la sua storia.




MrFord




"The days are better, the nights are still so lonely
sometimes I think I'm the only cab on the road
sometimes I think I'm the only cab on the road
watching my breath rise in the sun
pulling myself in two made one
helplessly feel for my phone and drive away."
Train - "Cab" -




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