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lunedì 6 gennaio 2020

White Russian's Bulletin


Alle spalle i Ford Awards ed i festeggiamenti di fine anno, torna il Bulletin portando in dono tutto quello che, nel periodo delle vacanze natalizie, è passato sugli schermi del Saloon, dalle novità in sala alle serie, dai recuperi ai titoli appena usciti.
In alcuni casi ci sono state ottime sorprese che potrebbero essere protagoniste dei Ford Awards il prossimo anno, in altri, purtroppo, anche delusioni.


MrFord



SCRUBS - STAGIONE 4 (ABC, USA, 2004)

Scrubs: Medici ai primi ferri Poster

Prosegue il recupero di casa Ford dell'ormai classicissima Scrubs, che nonostante il tempo che passa continua a risultare divertente e fresca, pronta ad allietare pranzi e cene facendo impazzire perfino i Fordini. Nel corso della quarta stagione, oltre alle vicissitudini sentimentali sia della solidissima coppia Turk/Carla, si assiste al passaggio professionale dei ragazzi una volta terminato il periodo di praticantato, senza che questo però limiti le pressioni ricevute dal mitico Kelso e dall'ancor più mitico Cox, che resta uno dei charachters più azzeccati di sempre.




STAR WARS EPISODIO IX - L'ASCESA DI SKYWALKER (J.J. Abrams, USA, 2019, 142')

Star Wars: L'ascesa di Skywalker Poster

Ricordo bene l'esaltazione che provai quando vidi per la prima volta il trailer di quello che, almeno sulla carta, dovrebbe o avrebbe dovuto essere l'ultimo capitolo della saga di Star Wars: considerata la qualità dell'Episodio VII e, seppur con un calo, dell'VIII, speravo in una chiusura davvero col botto per la terza trilogia, in barba all'altalenante seconda.
Purtroppo, però, le aspettative sono state deluse a seguito di un film davvero poco memorabile, che alterna poche buone idee e momenti da pathos figlio di un ultimo capitolo a lunghi minuti di ordinaria amministrazione e scelte discutibili - era davvero necessario il ritorno di Palpatine? -: un vero peccato, perchè se, con tutti i suoi punti deboli, la già citata seconda trilogia era partita malissimo per chiudersi molto bene - La vendetta dei Sith è un gran film che andrebbe rivalutato - questa ha imboccato il percorso inverso, e considerato come era iniziata, non può che essere una perdita per tutti i fan di questo universo così ricco e mitico.




THE WITCHER - STAGIONE 1 (Netflix, USA, 2019)

The Witcher Poster

Tanto Star Wars è stata la sorpresa in negativo delle Feste, quanto The Witcher è stata quella in positivo: tratta da un popolare videogioco ed interpretata da Henry Cavill - che non mi aveva mai convinto -, pensavo che si sarebbe rivelata una mezza porcata da abbandonare dopo il primo episodio. Al contrario, invece, non solo il protagonista funziona molto meglio da Geralt di Rivia che da Superman, ma gli autori sono riusciti a trovare il giusto mezzo tra la tamarrata, l'opera pulp violenta ed ironica, l'iconografia nerd da giocatori di ruolo e l'atmosfera giusta per conquistare il pubblico a più livelli - si pensi solo alla coppia formata dal Witcher e il bardo, perfetto nel diventare la sua spalla comica - costruendo un giocattolone piacevole e divertente, che mi ha fatto venire una gran voglia di provare la versione videoludica ed alimentato l'hype per la seconda stagione, prevista per il duemilaventuno.
Sinceramente, dono molto volentieri il soldo al mio Witcher.


martedì 1 ottobre 2019

White Russian's Bulletin



Alle spalle lo special organizzato con il mio rivale Cannibal Kid e spinto dall'uscita della sua ultima fatica, ho deciso di dedicare il poco tempo delle visioni settimanali all'inizio del recupero della filmografia tarantiniana, sulla scia dell'operazione che feci qualche anno fa con Kubrick.
Oltre, dunque, ad affrontare l'ultima fatica del ragazzaccio di Knoxville, ho deciso, archiviato la scorsa settimana il suo debutto con Le iene, di riportare al Saloon quelli che forse sono i suoi due lavori più noti e celebrati, Pulp Fiction e Kill Bill.


MrFord



KILL BILL - VOLUME 1 (Quentin Tarantino, USA, 2003, 111')

Kill Bill - Volume 1 Poster

Kill Bill fu il primo Tarantino che vidi in sala. Ai tempi dell'uscita de Le iene e Pulp fiction ero troppo piccolo, e quando arrivò Jackie Brown ancora non mi ero avvicinato al Cinema "d'autore" da appassionato: ricordo bene che le attese e l'hype erano davvero altissime, anche perchè fino a quel momento il buon Quentin non mi aveva mai deluso.
Ricordo anche che uscii dalla sala pervaso da una sensazione d'incompiutezza, come se il regista avesse voluto semplicemente divertirsi inserendo in una cornice realizzata come al solito alla grande tutte le sue passioni, le sue fisse, le sfumature dell'essere, in una buona misura, un nerd cinematografico fatto e finito, ma che mancassero sia la forza distruttiva che la profondità dei suoi lavori precedenti.
Certo, la Sposa è un personaggio indimenticabile, il film ha una colonna sonora incredibile, la parte tecnica ed alcune idee sono strepitose, eppure, nonostante potrebbe essere considerato il film forse più amato di Tarantino - almeno dal grande pubblico -, Kill Bill, e soprattutto questa prima parte, non è mai stato uno dei miei preferiti. Parlando, ovviamente, sempre del lavoro dell'autore.
Resta comunque un divertissement con i fiocchi, ma poco di più.




KILL BILL - VOLUME 2 (Quentin Tarantino, USA, 2004, 137')

Kill Bill - Volume 2 Poster


La saga della Sposa, che probabilmente andrebbe vista come un'unica pellicola, in sala e di conseguenza per l'home video fu spezzata in due, finendo per farmi rivalutare l'intera operazione grazie ad una seconda parte decisamente più efficace ed intensa della prima: merito dell'addestramento di Pai Mei, della parte dedicata a Budd, fordiano fino al midollo, e del destino del main charachter che si compie nel decisivo confronto con la sua nemesi nonchè ex amato Bill.
Certo, il lungo monologo di quest'ultimo legato alla "filosofia di Superman" è stato fin troppo sopravvalutato, ma è un peccato veniale all'interno di quella che è una vera e propria fiera dei peccati veniali, una pellicola bellissima e realizzata alla grande che, di contro, non manifesta, se non a sprazzi, un'anima vera.
Kill Bill, in un certo senso e per quanto popolare sia, è il lavoro più "fighetto" di Tarantino, quello in cui non ha voluto osare pur osando il più possibile, e se da un lato merita il successo che ha avuto, dall'altro continuo a trovare assurdo, da appassionato di Cinema, che abbia avuto più fortuna di lavori - come il già citato Jackie Brown - che gli sono decisamente superiori.
Kill Bill, del resto, è come la Sposa: da una parte un angelo sceso dal cielo, dall'altro una fastidiosa pertica succhiacazzi.




C'ERA UNA VOLTA A... HOLLYWOOD (Quentin Tarantino, USA, 2019, 161')

C'era una volta a... Hollywood Poster


Nel corso degli anni, ad ogni nuova uscita firmata dal vecchio Quentin, l'attesa ha sempre giocato un ruolo importante, quasi fondamentale. 
Del resto, quando sei un fenomeno, il pubblico si aspetta che sempre e comunque tu sarai un fenomeno, senza se e senza ma.
Una sorta di condanna, si potrebbe pensare.
E così C'era una volta a Hollywood si trasforma, per i non cinefili o per chi si aspetta il sangue di Kill Bill o la rivoluzione di Pulp Fiction, una sorta di "so tutto io" di un appassionato della settima arte che si diverte a mettersi un gradino - e forse di più - al di sopra dello spettatore medio, che probabilmente riconoscerà Bruce Lee e poco più per oltre due ore di vera e propria goduria da divoratori di film: eppure, nonostante l'apparente sterilità, anche questo C'era una volta a... Hollywood è una raccolta di scene cult - lo scontro tra Cliff e Bruce Lee, la visita di Cliff alla fattoria della Manson Family, la scena del western con protagonista Rick Dalton alle prese con il rapimento di una bambina -, il consueto stile, la colonna sonora sempre strepitosa, ottime interpretazioni ma soprattutto una mezzora finale da urlo, figlia della tendenza più recente di Tarantino di mostrare la potenza del Cinema nel riscrivere addirittura la Storia, cambiando le carte e andando oltre il Destino, il già scritto.
Probabilmente c'è chi non riesce a giustificare un film di quasi tre ore che assume la sua dimensione solo nel finale, ma per chi, come me, ama lo sport, sa bene che a volte basta anche un secondo per cambiare una partita, un incontro, una vita: ed è facile passare dal fallimento più completo alla gloria.
O viceversa. 
In questo senso, C'era una volta a... Hollywood è un film da Zona Cesarini, che allunga la zampata proprio quando tutti, seduti ai propri posti, aspettavano i supplementari o i calci di rigore, e lo fa con una rovesciata che neppure i cazzo di Holly e Benji si sarebbero potuti immaginare.
Un esecuzione così straordinaria da rendere impossibile il fatto di lasciare il culo poggiato alla sedia.
Occorre alzarsi ed applaudire. Fosse anche che questo Quentin vi sia stato sul cazzo almeno un pò.




PULP FICTION (Quentin Tarantino, USA, 1994, 154')

Pulp Fiction Poster


Nel corso della sua relativamente breve Storia, la settima arte ha regalato al suo pubblico alcuni titoli oggettivamente indiscutibili, film che hanno segnato intere generazioni di spettatori, appassionati, futuri registi o attori: mi vengono in mente cose come Apocalypse Now, La sottile linea rossa, 2001, Ran, Aurora, 8 e 1/2, tanto per citarne alcuni.
E in mezzo a tutti questi mostri sacri, c'è un titolo che di sacro non ha proprio nulla, ma che gode e costruisce la sua grandezza a partire, più che dal profano, da quello che si nasconde sotto il profano: Pulp Fiction.
Palma d'Oro a Cannes nel novantaquattro - non mi stancherò mai di ricordare che il Presidente della Giuria era un signore di nome Clint Eastwood -, cult assoluto per qualsiasi nuova generazione almeno fino a Kill Bill - ma in questo caso è un pò come paragonare Ghali a Frankie Hi NrG -, manuale di sceneggiatura, festival di scene cult, una delle colonne sonore migliori di tutti i tempi, dramma e grottesca comicità, massaggi ai piedi e colpi al cuore.
Personalmente, credo esistano pochi titoli che siano riusciti ad influenzare il mio amore per il Cinema come Pulp Fiction: lo vidi ai tempi dell'ultimo anno di superiori, in ritardo rispetto all'uscita, su una videocassetta di un compagno di classe che l'aveva registrato sull'allora TelePiù, e niente fu lo stesso, dopo quella volta.
Fu come comprendere in due ore e mezza la magia di tutti gli Scorsese e i Coppola che erano passati prima e trovare un ponte ideale per tutto quello che sarebbe venuto dopo.
E il bello è che Pulp Fiction è uno di quei titoli che non può essere recensito, raccontato, spiegato: va vissuto. Punto e basta. Perchè è venuto per risolvere problemi. E quanto cazzo è bravo nel farlo.
Perchè sono venticinque anni, eppure è ancora un "cazzo, che botta, che botta cazzo".


martedì 3 settembre 2019

Notte Horror 2019 Edition - La casa del diavolo



E' strano, mettersi a scrivere questo post. Per un sacco di motivi.
Senza dubbio, perchè non ricordo neppure quando è stata l'ultima volta in cui mi sono messo al servizio del blog in questo modo.
Poi perchè questo è un film che ho sempre adorato, ma che appartiene ad un'altra mia epoca, al periodo wild in cui tredici anni fa lo vidi per la prima volta. Cazzo, se sono tanti, tredici anni.
Non da ultimo il fatto che allora pensavo che Rob Zombie avrebbe avuto le carte in regola per raccogliere il testimone di Tarantino e Rodriguez, mentre ora lo considero solo un pallone gonfiato ed un regista terribile.
La casa del diavolo è cazzuto, violento e tosto come lo ricordavo.
E in grado di sfidare il pubblico. Di ribaltare le parti perchè è proprio vero che è così.
Nel corso della nostra vita, a prescindere dalle estremizzazioni cinematografiche - che poi non vanno tanto lontano dagli orrori di situazioni reali -, tutti siamo stati vittime e carnefici, abbiamo fatto soffrire e sofferto, siamo stati quelli da consolare o gli stronzi da insultare.
Il bello de La casa del diavolo, oltre al lavoro eccezionale sul concetto di Famiglia e sull'ironia che si nasconde dietro l'assurdità degli estremismi, è proprio questo.
In Natura, del resto, ogni creatura è predatore e preda, in una qualche misura: dunque nel momento in cui, per istinto, piacere o appetito, ti cibi di una creatura, è giusto in qualche modo che la memoria suoni un campanello d'allarme rispetto al fatto che potrebbe essercene un'altra, in giro, pronta a cercare proprio te.
E in un mondo costruito sulle sfumature, non esistono Bene o Male assoluti, e chi si professa portatore di uno o dell'altro, in realtà, finisce per dispensare la stessa amara medicina.
In un certo senso, rispetto ai tempi, mi sono sentito piuttosto distante, colonna sonora a parte, dal film, quasi come se avessi deciso di ascoltare un disco dei Nirvana, dei Pearl Jam, dei R.E.M. o dei Radiohead, o incontrato per caso una vecchia cotta dei tempi del liceo: un'epoca che potrebbe essere magica, mitica o qualsiasi altro aggettivo esaltante, ma ormai alle spalle.
Eppure, il lavoro di Rob Zombie è carnoso e carnale, e anche se ora non mi coinvolge più emotivamente come in quell'ottobre del duemilasei in cui lo vidi per la prima volta, nel pieno del mio periodo senza controllo, riconosco il tentativo che il regista fece, portando ad un livello decisamente superiore il precedente La casa dei mille corpi: quel finale che rievoca grandi coppie come Thelma e Louise o Butch Cassidy e Sundance Kid, poi, è ancora da pelle d'oca, legato a chiunque abbia ancora qualche sogno selvaggio e segreto che coltiva nel cassetto.
Certo, tutto questo è strano, se riferito ad un titolo che dovrebbe passare in una rassegna dedicata all'horror e ai ricordi che le carrellate estive ha sempre suscitato lo stesso, e che al massimo dovrebbe preoccuparsi di spaventi, tensione, sangue e tutto il circo che ne consegue: ma è un pò come aspettarsi divertimento assicurato da un clown.
I clown possono essere tristi, soli, inquietanti, spaventosi.
Fermarsi all'etichetta non conviene mai.
Un pò come pensare che il mondo sia tutto Bianco o Nero, Bene o Male.
Meglio essere un Free Bird, e lottare per trovare almeno una parvenza di equilibrio tra le sfumature.


MrFord


La casa del diavolo Poster

lunedì 17 giugno 2019

White Russian's Bulletin



Settimana particolare, per il Saloon, che tra lavoro e primi assaggi di vacanze riesce non solo ad essere puntuale nelle pubblicazioni dei post, ma anche a recuperare titoli più impegnati ed impegnativi, in barba alla stagione che, per eccellenza, richiede una bella pausa ai nostri neuroni provati dalla quotidianità.
Una settimana dunque non ricca in termini numerici - del resto, ormai, i sette/dieci film di qualche anno fa me li scordo - ma decisamente stimolante.


MrFord



THE PERFECTION (Richard Shepard, USA, 2018, 90')

The Perfection Poster

Ogni giorno di più Netflix consolida non solo la sua presenza in termini di bacino di utenza, ma anche l'impatto che, nel tempo, ha avuto e sta avendo sul Cinema come lo abbiamo sempre inteso: da parecchio, infatti, penso che il futuro della settima arte vada cercato non tanto - purtroppo - nella realtà delle sale ma in quello dell'on demand fatto esplodere proprio da Netflix stesso, allo stato attuale una realtà con la quale fare i conti non solo pensando alle serie tv ma anche ai titoli che, fino al suo avvento, sarebbero stati esclusivamente destinati alla distribuzione "tradizionale".
Diretto da Richard Shepard, che si era fatto volere gran bene da queste parti per Dom Hemingway, questo The Perfection, giunto sugli schermi di casa Ford spinto dal tam tam della blogosfera, si è rivelato una visione non perfetta ma senza dubbio in grado di rimanere impressa per argomenti alti - i continui plot twists, le differenti vedute e ribaltamenti del revenge movie - e bassi - il trash molto anni novanta stile Boxing Helena, una gran bella sequenza lesbo che fa sempre la sua figura, un'altro passaggio divenuto subito argomento di discussione che non è così clamoroso ma senza dubbio un esperimento mai o raramente provato -, poco plausibile ma guardabilissimo, un buon modo per avere conferma che il Cinema, quando ci sono idee, può essere sempre stimolante anche quando, tornando sul titolo, la perfezione resta ben lontana.




BILLIONS - STAGIONE 3 (Showtime, USA, 2018)

Billions Poster

Quando si parla di serie tv, una delle cose più difficili che si possa immaginare è trovare quei titoli in grado di mantenere alto lo standard stagione dopo stagione, senza banalizzare i personaggi principali o le situazioni, cadere nel troppo melodrammatico o nello scontato, cominciare a non giustificare più nulla o quasi.
Billions, partito e sviluppatosi in sordina rispetto ad altri titoli saliti alla ribalta delle cronache negli ultimi anni, al terzo giro di giostra può senza troppi patemi dichiararsi parte della categoria: attorno al rapporto in continua evoluzione - e che evoluzione! - tra Chuck Rhoades e Bobby Axelrod gli autori hanno predisposto un'architettura complessa di situazioni e comprimari profondi e credibili, giustificando ogni colpo di scena, lasciando che i due main charachters prendessero binari diversi e apparentemente di direzioni opposte per poi riportarli drasticamente vicini, e in un modo che non ci si sarebbe potuti aspettare tornando alle due stagioni precedenti e ad una parte di questa, pur spesa con Chuck e Axe alle prese con nemici diversi da loro stessi.
Come sempre grande lavoro attoriale di Giamatti e Lewis, solida la scrittura ed avvincente il prodotto, anche per chi, come questo vecchio cowboy, di borsa e legislazione capisce più o meno quanto di danza classica: inutile dire che l'hype per la season four partita in primavera è già altissimo.




IL TRADITORE (Marco Bellocchio, Italia/Francia/Brasile/Germania, 2019, 135')

Il traditore Poster

Ricordo bene, ai tempi delle medie - parliamo dei primi anni novanta -, quando a scuola qualcuno "la cantava" e veniva additato come un "Buscetta", una spia, una persona che andava e doveva essere emarginata. Nella logica di ragazzini spesso insensibili per età e spessore culturale, si seguiva la moda ispirata dalle vicende del più noto tra i collaboratori di giustizia in anni in cui la Mafia insanguinava l'Italia simbolicamente come non aveva mai fatto prima, gli anni di Falcone e Borsellino, due dei più grandi personaggi pubblici che il nostro Paese abbia mai conosciuto nella sua Storia.
Bellocchio, regista inossidabile in pieno stile Clint - per quanto, politicamente, i due non potrebbero essere più diversi -, autore di film grandiosi come I pugni in tasca, L'ora di religione, Buongiorno notte, Vincere, mostra uno dei personaggi più controversi di quel periodo da un lato che non ci aspetteremmo, il più terribile, naturale, sfaccettato di tutti: quello umano.
Tommaso Buscetta era un criminale, eppure nel corso di oltre due ore serratissime per piglio e ritmo, nel suo rapporto con Cosa Nostra ed i suoi esponenti - mostrati nella banalità terribile del loro male e dell'ignoranza che circondava figure come quelle di Riina - e soprattutto con il già citato Falcone - la scena più bella della pellicola, il loro ultimo saluto, è da brividi - quella che emerge dalla pellicola è la sua componente umana, la stessa che rende l'Uomo l'animale più pericoloso che esista ma anche quello in cui, in una misura o nell'altra, da appartenenti alla specie ci riconosciamo.
E così, pur essendo assolutamente dalla parte di Falcone, pur essendo contrario al concetto di "spione" non per omertà ma per correttezza, ho finito a passare ogni minuto della visione mettendomi dal lato della barricata di Buscetta, osservando le scelte che, in situazioni estreme, è necessario compiere per tutelare se stessi ed i propri figli, osservando uno Stato spesso e volentieri più criminale dei criminali - clamorose le apparizioni di Andreotti -, il degrado morale che colpisce non solo la società ma anche le associazioni a delinquere, mi sono ritrovato in lui quando dichiara sempre a Falcone "Riina ha sempre preferito esercitare il potere che fottere, io no. Io ho sempre amato le donne". E a conti fatti, ho riflettuto che, se fossi stato l'ultimo di diciassette figli in una famiglia povera della Palermo degli anni venti e trenta, se fossi cresciuto in un ambiente che lasciava ben poche possibilità di scelta, da uomo che ama più le donne e la famiglia che non il potere, forse sarei finito esattamente come lui.
Avrei stimato Falcone perchè avrei invidiato il suo coraggio e la sua integrità, mentre io sarei stato banalmente un peccatore, per dirla alla vecchia maniera.
Essere umani è sfaccettato, ma anche clamorosamente semplice.
Raccontarlo, però, è una cosa da Maestri. Come Bellocchio.


lunedì 13 maggio 2019

White Russian's Bulletin



Settimana fiacca, qui al Saloon, rimbalzata tra Game of thrones, le semifinali - spettacolari - di Champions League e il Salone del Libro di Torino, dove Julez ha avuto la fantastica prima esperienza da autrice. Del resto, a dispetto degli anni d'oro della blogosfera, quando pur di schiaffarmi il mio film o due al giorno perdevo il sonno, per ora preferisco vivere il più possibile e, al massimo, crollare sul divano la sera senza preoccuparmi troppo. In fondo, essere perfetti e sempre incrollabili alla lunga stufa. E forse neppure alla lunga. I Gallagher sottoscriverebbero.


MrFord



SHAMELESS - STAGIONE 9 (Showtime, USA, 2018)

Shameless Poster

I Gallagher sono sempre stati di casa, al Saloon.
Forse perchè, pur in modo meno "estremo", anche i Ford non sono propriamente un esempio di famiglia da comunione, Mulino bianco e cose del genere, forse perchè il disequilibrio ed il caos che ognuno - anche i più perfettini - porta dentro determina anche il fascino che irradia, forse perchè nelle storie di Frank, Fiona, Lip e via discorrendo si cerca sempre di vivere a fondo e il più possibile, abbiamo sempre finito le loro stagioni con un pò di groppo in gola.
Certo, nell'ultimo paio d'anni le cose procedevano stancamente, e io stesso cominciavo ad auspicarmi una fine gloriosa della serie prima che le cose potessero cominciare a crollare inesorabilmente: con questa stagione nove, invece, pur se non ai livelli delle prime sei, i Gallagher tornano a respirare e dare segni, per l'appunto, di rinnovata vitalità.
Dalla discesa di Fiona a Lip difensore dei deboli, passando per il sempre "scarafaggesco" Frank, nessuno pare davvero mollare, e anzi, la sensazione ora è che i Gallagher abbiano ancora qualche cartuccia da sparare, qualche sbronza da prendere, qualche rovinosa caduta sulla loro strada fosse anche soltanto per rialzarsi in barba al Destino.
E con il faccia a faccia tra Fiona e Frank, l'emozionante addio di quella che è stata la colonna portante dei Gallagher per anni e anni, l'arrivo di un figlio per Lip, il nuovo ruolo di Debbie e l'assetto rivoluzionato dell'intera famiglia, forse c'è davvero da pensare che la chiusura di salvataggio che mi auspicavo lo scorso anno sia più lontana del previsto: in fondo, non sorprendere non sarebbe stato da Gallagher.


martedì 11 settembre 2018

Revenge (Coralie Fargeat, Francia/Belgio, 2017, 108')




- Se c'è una cosa che ho amato dal primo momento e che amo ancora oggi a distanza di anni della blogosfera, è il tam tam che porta alla scoperta di titoli dimenticati o potenzialmente dimenticati dai distributori italiani.

- Coralie Fargeat, praticamente un'esordiente seppure "datata" - ha quarantadue anni -, confeziona un thriller perfetto per il contesto sociale che si è sviluppato negli ultimi anni, dal sapore molto nineties ma ugualmente adattato ai gusti attuali, una specie di remix di un dj di quelli di moda ora che ripesca qualcosa come All that she wants.

- La trama è assolutamente implausibile, così come lo svolgimento, eppure il gioco messo in scena dalla regista funziona, il messaggio è ben chiaro, la cornice fantastica. Montaggio e fotografia sono ottimi, e personalmente ho adorato i colori pastello affiancati ad una violenza che ha riportato alla mente Wolf Creek e The Descent.

- L'idea vincente, a prescindere da tutto, è l'assoluta onestà della Fargeat di portare in scena una metafora e uno spettacolo pop, una versione decisamente più riuscita di Alta tensione di Aja di una quindicina di anni fa: non ci sono pretese, e accanto alle possibili implicazioni impegnate, si regalano momenti ad alto tasso di goduriosa ignoranza.

- Scena sicuramente cult per il sottoscritto resterà il momento lisergico della protagonista nella grotta sotto l'effetto del peyote, così come mitico rimane il marchio del logo della birra sulla ferita cauterizzata: una tamarrata che neppure il più tamarro dei registi finto macho d'azione anni ottanta sarebbe riuscito ad immaginare. Chapeau.

- Altro passaggio notevole è il confronto finale nella villa - stupenda, tra l'altro - tra la protagonista ed il suo ormai ex amante, sanguinoso e giocato sul montaggio in pieno stile tarantiniano. E' chiaro a tutti fin dal principio come andranno a finire le cose, ma ce lo si gusta come se non lo si sapesse.

- Revenge, che tratta temi vecchi come il mondo - anche se fingiamo di no, certe dinamiche probabilmente esistono da sempre ed andrebbero combattute alla radice più che con moralismi o riscatti violenti -, rappresenta alla perfezione quella che è una proposta in grado di accontentare il pubblico occasionale e quello smaliziato, il sacro ed il profano, l'Uomo e la Donna. Merito, probabilmente, di una regista che è stata in grado di raccogliere idee e riflessioni e portarle sullo schermo senza pretese o pipponi. Piuttosto, con tanto sangue, colore e polvere.
Una specie di concessione ad un mondo a prevalenza maschile.



MrFord



 

mercoledì 5 settembre 2018

Giù le mani dalle nostre figlie (Kay Cannon, USA, 2018, 102')




- La scorsa primavera, all'uscita in sala di Giù le mani dalle nostre figlie, commedia a stelle e strisce pop da weekend al multisala, snobbai l'intera operazione nonostante nel cast figurasse John Cena, figura di spicco degli Anni Zero del wrestling intento da qualche tempo e sopraggiunti e superati i quaranta a cercare di costruirsi una carriera nel Cinema come il suo collega The Rock.

- Il rientro dalle vacanze, la voglia di esserci ancora, il tentativo di ristabilire per gradi il contatto con il divano ed il film della sera hanno portato ad un ripescaggio senza impegno che ha avuto risvolti sorprendenti: Giù le mani dalle nostre figlie, nonostante l'orrido titolo italiano, è una commedia divertente, sguaiata e volgare al punto giusto per garantire sane risate, una sorta di versione "per genitori" di Una notte da leoni.

- Proprio John Cena, che dal primo all'ultimo minuto si fa beffe della sua aura da "supermacho", è stato il mattatore della produzione, e benchè non si tratti certo di un grande attore - ma neppure di un attore medio - il wrestler getta il cuore oltre l'ostacolo e fornisce una rappresentazione abbastanza veritiera di quello che sarà questo vecchio cowboy per la Fordina tra una quindicina d'anni - soprattutto rispetto alla sequenza in cui scaraventa il fidanzatino dall'altro lato della stanza -.

- Il rapporto tra genitori e figlie - a prescindere dal fatto che si tratti di madri o padri -, nonostante le numerose sequenze sguaiate da risata di grana grossa, fa riflettere su quanto la società veda ancora una minaccia il momento di ingresso nel mondo del sesso per le ragazze rispetto ai ragazzi, spesso al contrario di sorelle o amiche incoraggiati e festeggiati soprattutto dai padri alla perdita della virginità. Nonostante io rientri effettivamente nel novero dei genitori già preoccupati per la propria figlia da quel punto di vista e con largo anticipo, ammetto che l'approccio al tema dovrebbe trovare una nuova direzione.

- Ottima la scelta dei tre protagonisti "adulti" e delle loro differenze, spassose le interazioni tra i personaggi e sopra le righe, volgari e clamorosamente divertenti le sequenze di questa sorta di lotta a distanza tra due generazioni, pronta a mostrare attraverso un occhio divertito il legame che resta sempre e comunque tra un genitore ed un figlio.

- Come per Shark, non parliamo anche in questo caso di nulla più di un riempitivo estivo da mente leggera, ma sprofondati nel divano con la finestra spalancata, qualcosa da bere tra le mani ed il pensiero del ritorno al lavoro momentaneamente come allontanato, le risate che ha procurato sono state proprio godute fino in fondo. E va benissimo così.



MrFord



 

mercoledì 22 agosto 2018

1993 (Sky, Italia, 2017)




Ricordo abbastanza bene, considerato che ai tempi ero interessato di politica quasi meno di ora, il periodo che segnò la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra per gli scenari italiani - o almeno così si credeva -: ricordo gli anni terribili degli attentati a Falcone e Borsellino, della paura, dell'illusione venduta e fornita ad hoc sfruttando un momento e le influenze costruite banconota dopo banconota.
Ricordo il suicidio di Gardini e qualcosa di Mani Pulite.
E penso che quella tanto attesa rivoluzione partita dall'operato di Di Pietro sia stata forse una bolla di sapone soffocata dalla comodità della televisione e di promesse altisonanti e chiaramente da vendita di fumo.
Non sarà Gomorra, Romanzo criminale o una serie in grado di cambiare davvero il panorama del piccolo schermo, ma 1993 - come il precedente 1992 - fotografa molto bene un'epoca, le sue ferite e le sue angosce, riuscendo nella non facile impresa di mescolare vicende reali a personaggi di fiction creati ad hoc per ricordare al pubblico o raccontare allo stesso cosa accadde nell'epoca di Mani Pulite: attraverso personaggi come quello del bieco Leonardo Notte - cui Stefano Accorsi, come spesso accade detestabile, presta decisamente bene il volto - o del leghista Bosco, assistiamo all'ascesa inesorabile della "Seconda Repubblica" e della silenziosa sconfitta del tentativo di alcuni uomini di sovvertire un sistema marcio ed incontrollato, finiti alle corde proprio quando il massimo esponente di quel sistema "nuovo" finì per diventare Capo del Governo.
Ma questa è un'altra storia - che probabilmente la produzione si riserva di raccontare in 1994 -: nel frattempo i pezzi vengono mossi sulla scacchiera, simboli dell'avanzamento di un morbo che non fece altro che raccogliere il testimone dei tempi del "silenzio" e trasformare gli stessi in quelli delle dichiarazioni altisonanti e sopra le righe.
Dalla mutazione dello stesso Notte fino all'epilogo della vicenda di Bibi e della sua famiglia, 1993 è come una lenta agonia che, se non fossimo già al corrente di quello che accadde, suonerebbe davvero come una sorta di marcia funebre ed uno dei titoli più pessimistici ed oscuri del panorama italiano: la carne al fuoco è tanta, forse troppa, alcune situazioni ed episodi sono appena accennati, eppure sono chiari i segni di una produzione molto curata e di buon livello almeno per quello che è il panorama nostrano, con il tentativo di presentare un lavoro maturo ed efficace anche se comunque dall'animo pop.
Rispetto alla stagione precedente molte cose cambiano e prendono direzioni estremizzate - il fratello di Bibi, ad esempio -, si ha l'impressione che il pieno potenziale della produzione non sia stato espresso, eppure, forse nel mio caso grazie alla forza dei ricordi, si resta catturati dal racconto e si finisce quasi per desiderare l'arrivo di 1994 oppure tornare con la mente agli anni in cui, in televisione, si guardava La Piovra.
E nonostante gli slogan, continuo a pensare che quello fosse un periodo oscuro e torbido, e lo penso ancora oggi, e dopo aver attraversato gli episodi di 1993, che mi hanno ricordato come e perchè ho iniziato a coltivare alcune idee politiche, o detestare profondamente un certo modo criminale per manipolare e sfruttare il potere e la gente.
Da questo punto di vista, "l'idea di Stefano Accorsi" funziona almeno quanto il suo personaggio, uno dei più viscidi che ricordi negli ultimi mesi da serial televisivi, che penso sguazzerebbe alla grande anche al seguito dei Lannister, o nella Loggia Nera di Twin Peaks: questo perchè il Male ha tanti volti, ma una sola traduzione.
Che purtroppo, spesso è più reale dei mostri che immaginiamo per cercare di tenerla lontana da noi.



MrFord




 

mercoledì 30 maggio 2018

Deadpool 2 (David Leitch, USA, 2018, 119')










In un certo senso, Deadpool - forse il mio personaggio Marvel favorito dell'età adulta - sta al me stesso attuale quanto Spider Man - forse il mio personaggio Marvel favorito dell'infanzia e prima adolescenza - sta al me stesso dei tempi delle medie e delle superiori: fuori dagli schemi, sboccato, sempre pronto a fare casino o rompere qualche regola, a vivere alla giornata o fare la parte del cattivo pur manifestando un aperto desiderio di calore, passione, famiglia e tutte queste cose sdolcinate da film per famiglie.
Nonostante l'annuncio della presenza di Cable - assolutamente fantastica la battuta a proposito di Thanos pronunciata da 'Pool - e l'impatto della Domino di Zazie Beetz, alla vigilia della visione avevo l'enorme timore che il secondo capitolo delle avventure del mutante chiacchierone potessero risentire del desiderio della produzione di andare sul sicuro, o di edulcorare in qualche modo una proposta che - e gli incassi confermano - è ormai nota in tutto il mondo.
Fortunatamente, non è stato così.
Certo, manca l'effetto sorpresa del primo capitolo e la sensazione che tutto nasca come pretesto per il già annunciato ed attesissimo da questo vecchio cowboy X-Force diretto da Drew Goddard pare più che un sospetto, eppure Deadpool 2 funziona dall'inizio alla fine, diverte da matti, rompe la quarta parete, suona scorretto e gode e si diverte come il suo protagonista, uno di quei charachters che non solo definisce la fortuna di chi l'ha creato, ma che rende la dimensione dell'idea geniale dello stesso.
Tutto questo senza contare la consueta scorrettezza, una colonna sonora ancora una volta da urlo, la proposta fantastica di una X-Force dal destino fantozziano, e due personaggi assolutamente bistrattati nella saga cinematografica dedicata agli X-Men come Colosso e Fenomeno finalmente resi degnamente, nonchè rispettosi di quelle che sono le loro controparti sulla pagina disegnata.
In un certo senso, si potrebbe pensare a Deadpool come al South Park dei film di supereroi, al punto di rottura di un genere ormai tanto amato quanto odiato, ad un circo che conosce il suo jolly, il matto, l'appeso, colui che viene per rompere tutti gli schemi, farsi beffe dei sentimenti, estremizzare tutto il possibile per mostrare quanto le cose semplici che di norma paiono scontate e sentimentali siano importanti: oppure al fatto che Wade Wilson è perfetto così com'è, con le sue intemperanze, le cicatrici, le battute ed il desiderio, gli eccessi di protagonismo e quelli di autocompatimento.
E' perfetto perchè non c'è niente di perfetto, in Deadpool, che ad un costume fighissimo affianca un aspetto orribile, che ad un attore che ho sempre considerato un cane maledetto regala l'intepretazione ed il charachter della carriera - altra scena cult l'autografo come Ryan Reynolds -, che a quello che parrebbe la versione sboccata e senza controllo della pellicola di supereroi butta in faccia come vomito tossico il bello dell'essere tamarri e non vergognarsene.
E come se non bastasse, l'equilibrio che si crea tra Deadpool e Cable, neanche fossero Terence Hill e Bud Spencer, è assolutamente perfetto, in linea con i loro interpreti ed i personaggi, frecciate metacinematografiche e momenti assolutamente cinematografici da multisala e slow motion.
Del resto, uno come lui riesce ad unire, più che dividere: ispira gli sfigati che vorrebbero la sua scioltezza, gli stronzi che si ritrovano nel suo atteggiamento, i duri che sognano di essere più malleabili, il Potere che più di ogni altra cosa desidera mettere a tacere chiunque parli troppo.
In poche parole, X-Force.
Il gruppo mutante - e di supereroi - definitivo.
Quello giusto per tutti quelli che frequentano i margini e i confini.
Da una parte e dall'altra.
E con la voglia di superarli.




MrFord




martedì 29 maggio 2018

Ballers - Stagione 3 (HBO, USA, 2017)







Orfano - o quasi, considerato quanto ancora influiscono sulla cultura pop - dei mitici action heroes figli degli anni ottanta, un vecchio tamarro come me non può che essere felice e grato dell'esistenza di Dwayne Johnson, ormai ex The Rock che per una decina d'anni buona fece sognare - accanto al suo rivale più importante in WWE Stone Cold Steve Austin - i fan di wrestling di tutto il pianeta: il ragazzone di origini samoane, infatti, dai tempi in cui decise di lasciare il quadrato e tentare una carriera a tempo pieno sul grande e piccolo schermo, ha fatto passi da gigante, collezionato successi e gran soldi, arrivando perfino a tornare sul ring di tanto in tanto giusto per soddisfare i desideri dei fan - lo dimostra il doppio scontro avvenuto in due edizioni consecutive di Wrestlemania con John Cena, uno degli atleti che ne raccolse il testimone -.
Film tamarri a parte, sono stato fin dal principio fan dell'esperimento di Ballers, nato da una produzione HBO che vedeva tra i produttori protetti fordiani quali Peter Berg e Mark Wahlberg, incentrata sulla carriera post campo da football di un giocatore reinventatosi consulente finanziario ed agente: nel corso delle prime due annate, infatti, avevo visto in questa serie una sorta di sorellina minore di Californication, tra capricci di star, richiami a Jerry McGuire, toni da commedia ed una spruzzata di malinconia.
Non che le cose siano cambiate, o che non mi sia piaciuto seguire le gesta di Spencer e del suo fidato sidekick Joe anche a questo giro, ma l'impressione è stata quella di un "vorrei ma non posso", di un prodotto che pare voler prendere una strada nuova e coraggiosa per poi tornare sui suoi passi per evitare di spiazzare troppo gli spettatori o chissà chi altro.
In qualche modo, ho trovato la gestione dei dieci episodi decisamente schizofrenica, pronta a palleggiarsi tra puntate che parevano riempitivi ed altre pronte a far spalancare gli occhi per la soddisfazione, passaggi che hanno fatto sognare - il discorso di Spencer ai rappresentanti della Lega - ed altri figli del "tutto cambia per non cambiare" tipico delle serie che, e mi dispiace dirlo, arrivano al punto in cui cominciano a mancare le idee - l'anticlimatica chiusura che pare riportare indietro le lancette alla prima stagione -: un'annata, dunque, tra luci ed ombre per Strasmore e soci, che essendo stati confermati per un quarto giro di giostra dovranno rimboccarsi le maniche e cercare di recuperare il terreno soprattutto in termini di direzione di scrittura, considerato che è decisamente più facile per una produzione che non racconti una vera e propria storia ma pezzi di vite che si incrociano - e non parliamo di chissà quali personaggi realmente esistiti, o di fantasia, destinati a cambiare il mondo, ma solo di sportivi con un sacco di soldi e problemi da gente comune amplificati a dismisura - perdere originalità e pubblico, piuttosto che rinnovarsi al meglio e catturarne sempre di più.
Personalmente resto convinto delle potenzialità di Ballers, e credo che con un pò più di decisione ed attenzione questa serie potrebbe continuare a rivelarsi una sorpresa: gli autori devono soltanto non fossilizzarsi sul vecchio Dwayne e le sfanculate che spara a raffica in ogni dove, quanto più decidere cosa fare dei protagonisti e come gestirli permettendo loro di evolversi, invece di fare grandi giri per poi tornare al punto di partenza.
Altrimenti finiranno per fare la fine di Spencer, con le sue ambizioni da pezzo grosso ed il desiderio di paternità, e proprio come lui si troveranno esattamente con quello che ci si ritrova quando si vuole troppo: si finisce per non stringere nulla.




MrFord




 

venerdì 25 maggio 2018

You never had it - An evening with Charles Bukowski (Matteo Borgardt, USA/Italia/Messico, 2016, 52')




Quando lessi il primo libro di Bukowski - che, per assurdo, fu il suo ultimo, Pulp - ero decisamente più giovane di ora, non bevevo ed ero ancora preda della timidezza che mi permise di soffrire abbastanza, ai tempi dell'adolescenza, da iniziare a scrivere.
Anche se non lo ricordo, senza dubbio compresi le parole di quello che poteva essere praticamente un nonno - del resto, il vecchio Hank nacque nel millenovecentoventi, come il mio fondamentale nonno materno - solo parzialmente, tanto da rivalutarlo in termini di importanza personale e letteraria molto tempo dopo, una volta presa coscienza io stesso dei tanti alti e bassi della vita, ed una familiarità decisamente maggiore con alcool, sesso e lato bestiale ai tempi ben celato.
Non avevo però mai avuto occasione di confrontarmi con il selvaggio Buck "in persona", e dunque all'incontro quasi casuale con questo documentario/intervista legato a materiale girato nella casa di San Pedro, in California, dello scrittore nei primi anni ottanta da una giornalista italiana non ho potuto che rispondere con una presenza convinta e tutta la voglia di scoprire la parte oltre la macchina da scrivere di quello che, oggi, è uno dei riferimenti letterari indiscutibili di questo vecchio cowboy: curioso, in questo senso, che lo stesso Bukowski affermi che ogni scrittore rappresenti il meglio di se stesso soltanto nel momento in cui, solo, scrive, e che nel resto del tempo finisca per portare al mondo un esempio negativo, o pessimo.
Un quadro che ben racconta la poca fiducia del ruvido Hank verso il genere umano e la società così come l'ammissione senza ipocrisie di una serie di difetti che lo resero lo straordinario cantore della vita e dell'esperienza che era, un pirata come vorrei essere io stesso, con la differenza di almeno una trentina d'anni in più di occasioni da vivere su questa terra.
L'intervista, che tocca tematiche profondamente differenti tra loro, dalla politica, alla scrittura, alla società, passando ovviamente per alcool e sesso, non pare neppure per un istante volta a scoprire o tentare di spiegare Bukowski autore o uomo, quanto più a regalare al pubblico un'immagine genuina e magnetica di una personalità non facile e magica, di quelle che ti invitano sul balcone con panorama della camera in cui scrivono per poi rivelare di aver passato del tempo in quello stesso posto una volta l'anno, senza neppure esserne sicuri.
Del resto, probabilmente se leggesse un tentativo come questo di rendere l'idea di quell'atmosfera, o dei momenti raccontati da questo mediometraggio, lo stesso Bukowski mi manderebbe dritto affanculo, conscio del fatto che non esiste prova migliore se non il faccia a faccia - magari supportati da una robusta dose di alcool - per mostrare davvero quello che si è, o quantomeno quello che si pensa di essere, in barba a buone maniere o aspettative.
Avendo lavorato fino ai cinquanta suonati ed essendo salito alla ribalta soltanto nella maturità, Hank doveva ben sapere come stavano le cose, cosa significasse sopravvivere portando avanti le proprie passioni oppure accandonandole per una scopata o una sbronza, senza guardare in faccia nessuno: sicuramente avrebbe apprezzato non si guardasse in faccia neppure lui, nonostante il bene che alcune sue opere potessero stimolare nel lettore.
Personalmente, io sogno di avere la possibilità di una pensione a cinquant'anni, scrittore oppure no.
E di aggredire la vita il più possibile, e per il più a lungo possibile.
O quantomeno, di farlo con la stessa sfrontatezza del mitico Buck.
Che non significa necessariamente allo stesso modo - in fondo, non bevo vino e ho molta più fiducia nelle persone - ma con una dose di passione molto simile.



MrFord



 

martedì 22 maggio 2018

Black Sails - Stagione 4 (Starz, Sud Africa/USA, 2017)







E' ormai chiaro a chiunque abbia anche solo di striscio frequentato il Saloon il fascino che i pirati esercitano su questo vecchio cowboy, tanto da essere considerati a tutti gli effetti la mia seconda preferenza assoluta in termini di atmosfera, cornice, ambientazione di una storia: in particolare, i charachters figli della penna di Robert Louis Stevenson come John Silver sono diventati, con il tempo, tra i miei preferiti in assoluto quando si parla di Letteratura.
Certo, i pirati romanzati e resi "romantici" dagli scrittori e dal Cinema in realtà sono sempre stati espressione del peggio della società, criminali e reietti disposti a fare qualsiasi cosa e compiere atti indicibili, eppure al contempo emblema di una rivolta rispetto ad un sistema che, come un destino già scritto, schiaccia tutti quelli che desiderano vivere in modo diverso da quello che lui concepisce, e non prevede alternativa all'adattamento, forzato oppure no che sia.
In questo senso, il mix tra realtà e fiction di Black Sails - che porta sullo schermo personaggi di fantasia come John Silver e Flint accanto a pirati come Anne Bonnie e Rackham, realmente esistiti - mi ha ricordato molto, nel suo crescendo, l'epopea dei gladiatori ribelli di Spartacus, produzione sempre targata Starz: certo, l'epica della rivolta contro il grande impero qui è mitigata dalla naturale inclinazione al crimine, al delitto ed al peccato dei pirati, ma l'idea, in fin dei conti, nasce dalla stessa materia.
I pirati di Nassau raccontati da questa serie, pur coscienti dei loro limiti morali, combattono per un'indipendenza sociale rispetto ad un impero - quello Britannico - che impone regole e dettami in tutto il mondo, ma al quale loro - nonostante la nascita della maggior parte - non sentono di dovere nulla se non le origini: una guerra che non potrà portare che morte e distruzione per chi vi combatte da una parte e dall'altra ma che non scalfirà l'ordine costituito, perchè è quello stesso ordine che non solo ha costruito ed indirizzato il mondo, ma ha anche creato i propri antagonisti, quegli stessi pirati che disprezza e condanna.
Il crescendo di questa quarta e, purtroppo, ultima stagione, amplificato emotivamente dalla guerra esplosa tra Flint e Silver da una parte ed il Governatore Rogers dall'altra, con tradimenti, intrighi, voltafaccia, morti eccellenti e chi più ne ha, più ne metta, ha avuto il grande merito di chiudere al meglio una proposta poco conosciuta eppure potentissima come questa, penalizzata nelle ultime puntate forse proprio dalla decisione di scrivere la parola fine troppo presto al titolo - un'altra stagione ci sarebbe stata tutta, considerata la carne al fuoco - e, dunque, da alcuni passaggi tagliati con l'accetta che costringono lo spettatore ad accelerate brusche in termini di narrazione.
Poco importa, però: la parabola discendente dell'epoca d'oro di questi criminali divenuti loro malgrado eroi romantici e destinata fin dal principio ad una fine raccoglie le storie, vere o inventate, sanguinose o di speranza, di uomini e donne che ebbero, pur vivendo in quello che, in una galassia lontana lontana sarebbe stato ribattezzato "il lato oscuro", il coraggio di affrontare uno status quo che nessuno al mondo, allora, avrebbe avuto il coraggio neppure di osteggiare con il pensiero.
Ad alcuni sarà andata bene, ad altri meno, ci sarà stato chi, graziato dalla morte, ha finito per essere più fortunato di chi è impazzito da vivo, sopravvissuto o istituzionalizzato, e chi, invece, ha cercato di sopravvivere pensando alla propria pelle e ad una felicità lontana da una guerra che non avrebbe portato certo la vittoria.
Una sconfitta onorevole. O un furbo modo per rimanere in mare.
Fingere di aver accettato le regole per sventolare il Jolly Roger appena si è tra le onde con il vento nei capelli.
In fondo, essere pirati significa anche non mollare.
Anche quando, per farlo, occorre vivere sempre con il rischio incombente di un giro di chiglia.



MrFord



venerdì 18 maggio 2018

Southbound - Autostrada per l'Inferno (Roxanne Benjamin/David Bruckner/Patrick Horvath/Radio Silence, USA, 2015, 89')




Per un appassionato di horror come il sottoscritto resistere al richiamo di recensioni favorevoli di altri fan accaniti ed autorevoli come la Bolla è praticamente impossibile: quando, dunque, essendomelo perso ai tempi dell'uscita, ho letto di Southbound, una sorta di film ad episodi raccordati l'uno all'altro, ho subito colto l'occasione per il tipico recupero da serata di decompressione dei Ford una volta messi a letto gli scatenati Fordini.
Nonostante la stanchezza che, nel corso della visione, ha finito per costringere alla lotta contro il sonno prima questo vecchio cowboy e dunque Julez, devo confermare le buone impressioni a proposito di questa pellicola già lette in rete, pur cosciente del fatto che non si tratterà di un film destinato a diventare un cult del genere: fin dal principio, straniante e scombinato, di Radio Silence, si ha l'impressione di essere di fronte ad un esperimento riuscito, che porta lo spettatore - insieme ai protagonisti - a confrontarsi con il rimorso ed il senso di colpa, senza dubbio elementi cardine dell'intera struttura narrativa, accanto ad inserti sovrannaturali davvero interessanti visivamente.
A seguire Siren, incentrato sulle vicende di una band tutta al femminile soccorsa da una coppia apparentemente normale che, nella migliore tradizione del genere, si rivelerà decisamente lontana dall'idea di normalità: un segmento interessante che punta più sull'inquietudine che non sull'impatto "fisico" del resto della pellicola, che non sarà stato il mio preferito ma senza dubbio porta in dote solide basi.
Bellissimo - e mio personale favorito - il terzo "episodio", The accident, splatterissimo, sanguinosissimo, ironico e cattivo, teso dall'inizio alla fine e senza dubbio l'elemento in grado di far compiere il salto all'intera pellicola: probabilmente sarebbe stato impossibile avere una resa dello stesso tipo su un lungometraggio, ma così com'è, funziona davvero alla grande.
Jailbreak, quarto e penultimo passaggio, risulta inquietante abbastanza per dare corpo ad una sorta di "antologia" degna delle sue colleghe di moda nel corso degli anni ottanta, anch'esso teso e di carattere, segno che l'operazione legata agli angoli bui della Natura umana funziona e riesce a descrivere bene la dimensione più efficace dell'horror, quella che trasforma ciò che abbiamo dentro e vediamo ogni giorno in immagini e situazioni che non fanno altro che cambiarne la forma in modo da risultare più evidenti nella loro inquietudine.
La parte conclusiva, che si riallaccia all'incipit e funge da cornice all'intero blocco di episodi, tra home invasion e ribaltamento delle parti, è perfetta nel descrivere le sensazioni che gli autori si prefiggono di trasmettere al pubblico, e a confermare le solide basi di una delle proposte horror più interessanti passate da queste parti negli ultimi mesi, costruita con pochi fondi ma ugualmente efficace e di pancia, carne e sangue come è giusto che questo tipo di titoli siano.
Dunque, se vi trovaste in una di quelle serate in cui i neuroni chiedono tregua ed il desiderio di qualcosa di brutto, sporco e cattivo si fa sentire, e doveste trovarvi sprovvisti della possibilità di sbronzarvi in giro o fare sesso, quest'autostrada e quest'Inferno farebbero decisamente al caso vostro.



MrFord



 

mercoledì 16 maggio 2018

Shameless - Stagione 8 (Showtime, USA, 2017)




I Gallagher sono sempre una certezza, in casa Ford.
Sarà perchè, per estrazione sociale, grinta, casino e via discorrendo, ci sentiamo vicini a loro.
O sarà perchè la Famiglia è un tema sempre importante, da queste parti.
Senza contare quel vecchio bastardo "redento" di Frank, uno degli idoli da piccolo schermo del Fordino.
O Lip, uno degli idoli da piccolo schermo neanche fosse un'adolescente di Julez.
O quella sigla che fa ballare ancora, a distanza di otto stagioni, tutto il Saloon.
Certo, siamo lontani dalle annate migliori e magiche di questa scombinata famiglia nata dall'ispirazione di una serie inglese e illuminatasi di vita propria nella Chicago operaia e ai margini degli States, l'impressione è quella del grande spettacolo che si trascina imitando se stesso, il pathos - Lip escluso - è andato drasticamente calando in favore di una guasconeria sopra le righe che allontana la proposta dalla realtà, ma poco importa.
Rivedere Fiona, Carl, Ian, Kev, V, Liam e compagnia è sempre un piacere, come fossero vecchi amici ai quali risparmi ed abbuoni le battute che ricorrono ad ogni uscita, perchè sai che vorrai loro bene sempre e comunque, e che sarai pronto a sorreggerli durante una sbronza colossale o nel momento del bisogno. Sacro e profano. Ugualmente vicini, fratelli, vivi.
Come i Gallagher.
Con questo ottavo giro di giostra, seppellita l'eredità di Monica, troviamo un Frank come mai l'avevamo visto fino ad ora, ugualmente pronto a fregare il sistema ma più lucido, o quantomeno lontano dagli eccessi - almeno parlando di alcool e droghe - che l'avevano caratterizzato da sempre; dal canto suo Ian, con il movimento del Gesù gay, sale alla ribalta forse venendo travolto da fama e "onnipotenza" confermandosi il charachter più vicino a Monica stessa, e mentre Lip cerca la redenzione aiutando gli altri per poter rimanere in pace con se stesso Carl scopre le gioie e soprattutto i dolori del matrimonio, confermandosi uno dei punti di forza della serie e, forse, il personaggio più imprevedibile. E mentre Fiona continua il suo percorso di "borghesizzazione", si osserva Debbie nel suo somigliare inesorabilmente sempre più proprio a Frank, mentre Liam, trattato come una mosca bianca nella sua ricca scuola di bianchi benestanti, trova una dimensione nuova e potenzialmente interessante per il futuro della serie.
Non parliamo, ovviamente e come scrivevo poco sopra, di una stagione memorabile come quelle cui ci avevano abituato i Gallagher, di quelle in cui si finiva con il groppo in gola e il cuore palpitante, e la sensazione che si sia arrivati alla fase discendente del titolo c'è, eppure non è davvero possibile pensare di abbandonare uno dei prodotti che al Saloon abbiamo più amato e sentito nostri degli ultimi anni, sperando che, fino a quando sarà, possa continuare quantomeno mantenendo un livello discreto come quello di questa stagione, facendo leva sull'amore che, ormai, si prova per i protagonisti.
L'idea, poi, di cominciare a pensare ad una conclusione che possa raccontarli al meglio anche rispetto al loro futuro, potrebbe addirittura rendere Shameless degna di una chiusura davvero mitica, come, del resto, mitici sono e saranno sempre i volti che l'hanno caratterizzata.



MrFord



 

lunedì 14 maggio 2018

La casa di carta - Stagione 1 (Netflix, Spagna, 2017)





Quando ero piccolo e mio padre mi portava a dormire, la sera, c'erano due possibilità che si prospettavano come "favola della buonanotte": la prima era la versione ridotta - per ovvie questioni di tempo - dell'Odissea, che culminava - anche se non ci arrivavo praticamente mai - con la storia dello scontro tra Ulisse e Polifemo, la seconda un ninna nanna particolare, probabilmente legata al passato di mio nonno, Bella ciao.
Se escludo le sigle dei cartoni animati o i classici di natale imparate all'asilo e a scuola, credo sia stata la prima canzone che imparai a memoria: ai tempi mi colpiva tantissimo l'idea di questo "partigiano" - che non sapevo cosa fosse esattamente - che decideva di combattere il nemico ben sapendo che poteva morire, ma che in caso l'avrebbe fatto per la libertà e per chi sarebbe venuto dopo di lui.
Un'altra cosa che ha finito sempre per affascinarmi è il confine sottile che esiste tra Ordine e Resistenza, intesi come concetti filosofici più che burocratici o legali, un pò come quello che differenzia chi vive per lavorare e chi lavora per vivere, o chi preferisce il denaro o la libertà.
Del resto i confini, le barricate, le leggi sono tutte linee immaginarie create e poste da noi uomini, che in Natura non avrebbero senso senza la nostra geografia sociale: non a caso, spesso e volentieri, sono i fuorilegge ad affascinarmi, o quegli stronzi che, per dirla come Johnny Cash, paiono vivere per il concetto di "walk the line".
Ho ritrovato entrambe in una serie giunta al Saloon grazie al tam tam della rete, non perfetta ma avvincente e tesa come una corda di violino, piena di sorprese ed apparentemente uscita dalla parte bella degli anni novanta, quelli di Tarantino e de I soliti sospetti, e le ho ritrovate in particolare in due sequenze che hanno rievocato proprio quei concetti: la prima è il ballo che i rapinatori e sequestratori addestrati e guidati dal misterioso Professore - personaggio fantastico interpretato benissimo da Alvaro Morte - improvvisano al primo, vero segnale di possibile riuscita della loro impresa, liberatorio e travolgente, sulle note di Bella ciao; la seconda, sulle stesse note cantate dal Professore e dal suo braccio destro Berlino la notte prima dell'assalto alla Zecca di stato, alternata con un ottimo montaggio al possibile fallimento.
In quei momenti, che si tratti del bambino in me che ascoltava ed imparava quel canto o ammirava quel vecchio bastardo di Ulisse, non ho potuto pensare altro che se fossi stato il personaggio di un film, o di una serie, sarei senza dubbio stato uno di loro.
Perchè Bene e Male sono concetti relativi, anch'essi condizionati dalle convenzioni e dal sistema, e nel corso di questa cavalcata mi sono ritrovato a sorridere amaramente al pensiero che charachters come "Arturito", direttore della Zecca, possano considerarsi "i buoni", quando semplicemente si tratta di vigliacchi senza morale con il solo vantaggio di avere troppa paura per superare certi confini, e in situazioni estreme l'umanità o la crudeltà che portiamo dentro definiscono senza dubbio più di quanto non possa fare qualcosa inventato ad uso e consumo della Società.
Non voglio che tutto questo sia una sorta di idealistico quanto irrealistico sfogo contro la società da pseudo ribelle istituzionalizzato, ma l'elogio di un'opera che porta in scena un'umanità dirompente, passionale, caliente - per usare un termine spagnolo -, che anche nelle piccole cose - i messaggi vocali lasciati da Anjel a Raquel in segreteria, che passano dall'amore alla rabbia - rende benissimo tutta la gamma di sentimenti che possiamo provare, vivere, e che abbiamo il dovere, da qualunque parte ci si trovi del confine invisibile, di difendere.
Perchè quello che viviamo, a prescindere dalla carta in torno, è carne e sangue, e gioia, e voglia di riscatto o di rivalsa o di rivolta, è cattiveria, è generosità, spensieratezza, vigliaccheria, coraggio, follia, qualsiasi cosa possa mettervi i brividi possiate immaginare.
E La casa di carta mette i brividi.
Un pò come quando, da piccolo, ascoltavo Bella ciao prima di dormire e sognavo di essere partigiano.



MrFord




 

martedì 27 marzo 2018

The edge of seventeen - 17 anni: e come uscirne vivi (Kelly Fremon Craig, USA/Cina, 2016, 104')





Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con il ricordo dell'adolescenza: se, infatti, posso ringraziare quegli anni per aver fatto esplodere nel sottoscritto le passioni per la scrittura, la Musica e il Cinema, non posso che ricordare i momenti in cui mi sono sentito lontano da chi avevo intorno, incapace di trovare una dimensione che fosse mia in un mondo che non riconoscevo.
Avessi avuto la testa e l'approccio di oggi, probabilmente tutto sarebbe stato più semplice, ma è altrettanto vero che l'approccio di oggi è figlio delle insicurezze che ho superato in quegli anni, legati indissolubilmente ad una situazione che tocca tutti gli adolescenti della quale si prende coscienza soltanto una volta divenuti adulti: quando si attraversa quel periodo, infatti, si tende a pensare di essere unici nel bene o nel male, problemi compresi, quasi nessun'altro potesse provare le nostre sensazioni, o comprenderle, o anche solo immaginarle, quando la verità è data dal fatto che, per quanto possa suonare una banalizzazione, tutti le proviamo almeno una volta, anche se, chissà, forse da prospettive e con tempi di reazione diversi.
Di recente ho toccato questo argomento parlando di Lady Bird, e a seguito di alcuni pareri di colleghi bloggers nonchè della presenza nel listone dei recuperi, lo affronto anche oggi con The edge of seventeen, che pare la versione più pane e salame del lavoro di Greta Gerwig, con protagonista Hailee Steinfeld spalleggiata per l'occasione da un grandissimo - come sempre - Woody Harrelson, che nel ruolo del professore della main charachter regala perle a profusione, oltre a rispondere con l'ironia e la presenza - quello che vorrei fare rispetto ai Fordini - all'umoralità ed alla mania di protagonismo tipiche dell'adolescenza della ragazza.
La vicenda di Nadine, legata al rapporto con il fratello "vincente" Darian - un personaggio forse poco approfondito ma molto interessante - e con la migliore amica Krista - Haley Lu Richardson, apprezzata di recente nell'ottimo Columbus - racconta tutte le inquietudini, le vergogne, le meschinità, la voglia di vivere e di comunicare, il bisogno di essere visti ed ascoltati di tutti gli adolescenti, e viene portata in scena con una naturalezza ed una semplicità che coinvolgono lo spettatore e permettono di volere bene al film ed ai suoi protagonisti, specie quando si hanno memorie ancora vive di quegli anni nonostante ci si trovi, ormai, dall'altra parte della barricata - la sequenza in cui il professore porta Nadine in crisi a casa sua e la ragazza scopre la vita in famiglia di quest'ultimo mi ha fatto venire la pelle d'oca per empatia con il personaggio di Harrelson -: non saremo di fronte ad un miracolo da Sundance - l'atmosfera è più quella della commedia teen, e per una volta non è affatto un male - o ad una pietra miliare del genere destinata a fare la Storia della settima arte, ma senza dubbio The edge of seventeen rappresenta una buona proposta per unire genitori e figli, per capire insieme i sentimenti e i punti di vista gli uni degli altri e tentare di guardare le cose da un'altra prospettiva, magari condivisa.
In fondo si è spesso portati a pensare che i casini interiori che viviamo in quella fase così delicata siano complessi, articolati, quasi materia da specialisti, quando, chissà, forse la soluzione migliore è quella di semplificare e vivere, un pò come consiglia il padre a Nadine prima di uno dei momenti più drammatici che un giovane a quell'età potrebbe vivere: una bella canzone, un paio di cheeseburger e tutto apparirà di colpo più semplice.
Non essere unici nelle incertezze e nei problemi, in fondo, dovrà pur avere qualche lato positivo.
E anche se in quel periodo non si è davvero inclini all'ascolto, pellicole come questa aiutano a stimolare una strada poco battuta che, sorprendentemente, potrebbe rivelarsi forse non vincente, ma quantomeno libera da pesi invisibili che a volte diventano impossibili da caricarsi addosso.




MrFord




 
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