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martedì 27 marzo 2018

The edge of seventeen - 17 anni: e come uscirne vivi (Kelly Fremon Craig, USA/Cina, 2016, 104')





Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con il ricordo dell'adolescenza: se, infatti, posso ringraziare quegli anni per aver fatto esplodere nel sottoscritto le passioni per la scrittura, la Musica e il Cinema, non posso che ricordare i momenti in cui mi sono sentito lontano da chi avevo intorno, incapace di trovare una dimensione che fosse mia in un mondo che non riconoscevo.
Avessi avuto la testa e l'approccio di oggi, probabilmente tutto sarebbe stato più semplice, ma è altrettanto vero che l'approccio di oggi è figlio delle insicurezze che ho superato in quegli anni, legati indissolubilmente ad una situazione che tocca tutti gli adolescenti della quale si prende coscienza soltanto una volta divenuti adulti: quando si attraversa quel periodo, infatti, si tende a pensare di essere unici nel bene o nel male, problemi compresi, quasi nessun'altro potesse provare le nostre sensazioni, o comprenderle, o anche solo immaginarle, quando la verità è data dal fatto che, per quanto possa suonare una banalizzazione, tutti le proviamo almeno una volta, anche se, chissà, forse da prospettive e con tempi di reazione diversi.
Di recente ho toccato questo argomento parlando di Lady Bird, e a seguito di alcuni pareri di colleghi bloggers nonchè della presenza nel listone dei recuperi, lo affronto anche oggi con The edge of seventeen, che pare la versione più pane e salame del lavoro di Greta Gerwig, con protagonista Hailee Steinfeld spalleggiata per l'occasione da un grandissimo - come sempre - Woody Harrelson, che nel ruolo del professore della main charachter regala perle a profusione, oltre a rispondere con l'ironia e la presenza - quello che vorrei fare rispetto ai Fordini - all'umoralità ed alla mania di protagonismo tipiche dell'adolescenza della ragazza.
La vicenda di Nadine, legata al rapporto con il fratello "vincente" Darian - un personaggio forse poco approfondito ma molto interessante - e con la migliore amica Krista - Haley Lu Richardson, apprezzata di recente nell'ottimo Columbus - racconta tutte le inquietudini, le vergogne, le meschinità, la voglia di vivere e di comunicare, il bisogno di essere visti ed ascoltati di tutti gli adolescenti, e viene portata in scena con una naturalezza ed una semplicità che coinvolgono lo spettatore e permettono di volere bene al film ed ai suoi protagonisti, specie quando si hanno memorie ancora vive di quegli anni nonostante ci si trovi, ormai, dall'altra parte della barricata - la sequenza in cui il professore porta Nadine in crisi a casa sua e la ragazza scopre la vita in famiglia di quest'ultimo mi ha fatto venire la pelle d'oca per empatia con il personaggio di Harrelson -: non saremo di fronte ad un miracolo da Sundance - l'atmosfera è più quella della commedia teen, e per una volta non è affatto un male - o ad una pietra miliare del genere destinata a fare la Storia della settima arte, ma senza dubbio The edge of seventeen rappresenta una buona proposta per unire genitori e figli, per capire insieme i sentimenti e i punti di vista gli uni degli altri e tentare di guardare le cose da un'altra prospettiva, magari condivisa.
In fondo si è spesso portati a pensare che i casini interiori che viviamo in quella fase così delicata siano complessi, articolati, quasi materia da specialisti, quando, chissà, forse la soluzione migliore è quella di semplificare e vivere, un pò come consiglia il padre a Nadine prima di uno dei momenti più drammatici che un giovane a quell'età potrebbe vivere: una bella canzone, un paio di cheeseburger e tutto apparirà di colpo più semplice.
Non essere unici nelle incertezze e nei problemi, in fondo, dovrà pur avere qualche lato positivo.
E anche se in quel periodo non si è davvero inclini all'ascolto, pellicole come questa aiutano a stimolare una strada poco battuta che, sorprendentemente, potrebbe rivelarsi forse non vincente, ma quantomeno libera da pesi invisibili che a volte diventano impossibili da caricarsi addosso.




MrFord




 

domenica 24 dicembre 2017

Ford Awards 2017: quello che non vedrete nelle sale italiane



Un altro appuntamento che attendo sempre con molta impazienza è quello con la classifica dedicata ai dieci migliori titoli che, nel corso dell'anno, sono passati sugli schermi del Saloon ma non nelle sale italiane: nelle scorse edizioni dei Ford Awards è capitato anche che i vincitori di questa categoria fossero, a conti fatti, i migliori a tutti gli effetti - vedasi Mud o Swiss Army Man - per il sottoscritto, dunque l'hype per questa decina finisce per essere sempre piuttosto alto.
Peccato che il trend negativo del grande schermo si sia specchiato anche qui, tanto da costringermi ad inserire al decimo posto un titolo che ai tempi avevo bottigliato soltanto per non lasciare "monca" la chart, scegliendo per il suo autore e principalmente perchè si è trattato di un film in grado quantomeno di far discutere.
Ecco dunque i titoli protagonisti di questa seconda decina dei Ford Awards.


N°10: OKJA di JOON-HO BONG

 


Ad aprire la decina un titolo che, se fosse stato un anno più ricco, senza dubbio non avrei selezionato: certo, il tema è interessante e fa discutere, Bong è un regista notevole - anche se i suoi ultimi due lavori non mi hanno affatto convinto -, Netflix si conferma una realtà dalle potenzialità enormi, eppure Okja, continuo a pensarlo, avrebbe potuto essere molto più grande.


N°9: SECURITY di ALAIN DESROCHERS

 


Consigliato dal mio fratellino Dembo, Security è un thriller d'azione di quelli vecchia maniera, con un Banderas scatenato ed un incedere che riporta alla mente cose notevoli come Nido di vespe o le pietre miliari di Carpenter. Certo, la caratura è diversa, ma per una serata da rutto libero è una delle cose più divertenti che ho visto quest'anno.

N°8: THE BELKO EXPERIMENT di GREG MCLEAN



Il film che mi ha fatto mancare ancora meno il fatto di avere un lavoro.
Dal regista dei due Wolf Creek, una sorta di favola nera sociale che sconfina nello splatter dai risvolti molto più profondi di quanto non possa sembrare, orchestrata come un terribile gioco ad eliminazione che in qualche mente deviata di capitani d'industria potrebbe addirittura prendere forma.


N°7: 1922 di ZAK HILDITCH

 


A prescindere dalle singole valutazioni, è stato davvero un buon anno questo, per il Re del brivido Stephen King: accanto al più freddo Il gioco di Gerald, sempre Netflix ha presentato questo 1922, una favola nerissima legata al concetto di senso di colpa dalle atmosfere da America rurale che qui al Saloon hanno una corsia preferenziale. Thomas Jane bravissimo.


N°6: THE BABYSITTER di MCG


Uno degli instant cult più goduriosi dell'anno, in grado di mescolare il ritmo di Edgar Wright e lo scanzonato approccio anni ottanta: citazioni a raffica, grande divertimento, sangue a fiumi, spirito da Goonie ed un bacio saffico che resterà nella Storia. Mitico.
Dritto dal Sundance giunge uno dei titoli più sorprendenti dell'estate fordiana, in grado di mescolare l'approccio indie, il pulp anni novanta, i Coen e la lotta degli outsiders per rimanere a galla. 
Malinconia ed esplosioni di violenza per una delle piccole chicche più interessanti dell'anno.

 
N°4: COLUMBUS di KOGONADA


Giunto su questi schermi sospinto dai pareri entusiasti dei radical - su tutti quello del mio rivale Cannibal Kid - accompagnato da presagi di tempesta di bottigliate, il lavoro di Kogonada, con i suoi tempi lunghi ed una disarmante sincerità e voglia di raccontare una storia di crescita e superamento del dolore mi ha preso il cuore sottovoce. Da vedere.

 
N°3: RAW - UNA CRUDA VERITA' di JULIA DUCOURNAU
Altro titolo che, stando alle premesse, avrebbe dovuto assumere le sembianze dell'apoteosi radical, e che invece si è rivelato carne e sangue, pancia e cuore.
Il viaggio della giovane protagonista all'interno di se stessa e degli istinti predatori è uno degli esperimenti più riusciti della stagione. Avercene.

 
N°2: WIND RIVER di TAYLOR SHERIDAN




L'Hell or high water di quest'anno. In un'atmosfera invernale stupenda ed una cornice che sarebbe piaciuta tanto a Clint, un noir malinconico e terribile che racconta di padri e figli, di crolli e di lenta ricostruzione. Commozione, intensità, voglia di calore e tanta rabbia. Una bomba.


N°1: A GHOST STORY di DAVID LOWERY
Il vincitore del Ford Award dei non distribuiti di quest'anno è una piccola gemma che mi ha fatto ricordare i tempi in cui Malick realizzava grandi film, e passare per la testa i viaggi mistici di Gaspar Noè.
L'amore e la morte visti attraverso chi se n'è andato, una sorta di versione ultra autoriale di Ghost che ci fa rimbalzare tra passato, presente e futuro alla ricerca di quel pezzo di noi stessi che ci definisce, e che a volte sta nel cuore di un altro.


MrFord
 
I PREMI

 
Miglior regia: David Lowery per A ghost story
Miglior attore: Thomas Jane per 1922
Miglior attrice: Haley Lu Richardson per Columbus
Scena cult: il bacio tra Samara Weaving e Bella Thorne, The Babysitter
Fotografia: Wind River
Miglior protagonista: Bee, The Babysitter
Premio "lo famo strano": Raw - Una cruda verità
Premio "ammazza la vecchia (e non solo)": la Belko per The Belko Experiment
Migliori effetti: Raw - Una cruda verità
Premio "profezia del futuro": A ghost story

martedì 19 dicembre 2017

Columbus (Kogonada, USA, 2017, 100')





Io e Julez abbiamo abbandonato Milano per trasferirci in quel di Lodi nel gennaio del duemiladieci: eravamo ancora in quella fase in cui si progetta, i Fordini non erano ancora arrivati e la possibilità che accadesse ci metteva di fronte alla scelta di vivere in un posto con case dai costi sicuramente inferiori a quelle della grande città ed un'atmosfera più vivibile e a misura d'uomo, nonostante i servizi fossero tutti quelli che ci si aspetta di sfruttare e trovare.
Lavorando a Milano e vivendo di pendolarismo, però, ho dovuto aspettare sette anni per cominciare a vivere la mia nuova città, sfruttando il periodo da casalingo che ha caratterizzato gli ultimi dodici mesi: del resto, a volte, basta cambiare velocità - come cantava Battiato - per scoprire sfumature che non riusciamo a notare quando corriamo.
Ma per quale motivo sono qui a scrivere della mia riscoperta di Lodi? In realtà perchè, come un fulmine a ciel sereno, il coreano Kogonada porta sullo schermo una delle sorprese più interessanti di questa fine anno, un film indie di quelli in grado di mettere d'accordo i radical in stile Cannibal e i tamarri più selvaggi come il sottoscritto: personalmente, nella lista delle città che vorrei visitare degli States non è mai stata presente Columbus, nell'Ohio, uno di quei luoghi che ho sempre considerato "tra il nulla e l'addio" più che sulle cartoline in grado di alimentare i sogni di tutti noi da questa parte dell'oceano.
Eppure, con un tono pacato e sottovoce, un ritmo lento che conquista proprio per il suo incedere, nessuna traccia di pretenziosità ma, al contrario, una profonda umanità nella rappresentazione dei protagonisti, il regista coreano regala un piccolo gioiello ancora, purtroppo, non distribuito in Italia: una storia di scoperta di se stessi e degli altri, di superamento del dolore, di crescita, di rapporti complicati e di luoghi che nascondono storie in grado, neanche fossero una canzone o un film, di curare le nostre ferite.
Il legame costruito e narrato dall'autore tra Jim e Casey, uno dei più intensi che non sfoci in una storia d'amore o nel sesso che abbia visto sullo schermo nell'ultimo periodo, passato attraverso gli edifici di Columbus, le storie personali di entrambi, i diversi modi di affrontare ostacoli, gioie e dolori, conquista sequenza dopo sequenza, e mostra come sia possibile portare sullo schermo un grande film senza alzare la voce, sfruttare effetti speciali o scene madri, ma semplicemente raccontando una storia che si aveva la voglia e la necessità di raccontare e rimanendo sinceri nel farlo.
Un plauso va senza ombra di dubbio al già citato Kogonada, delicato ed intimo come non mi capitava di incontrare un autore dai tempi di cose che ho amato tantissimo come Departures, ai suoi due attori protagonisti - che incarnano le tensioni, gli avvicinamenti e le distanze dei loro personaggi neanche fossero loro stessi - e di una città che diviene una rivelazione, come un luogo in cui si arriva per caso, senza amarlo o conoscerlo neppure troppo, e ci si ritrova a considerare parte della propria vita.
In fondo, i luoghi che viviamo sulla pelle possono essere considerati quanto le persone cui ci leghiamo nel corso della nostra esistenza: si lotta, si litiga, si distrugge, si costruisce, si ama, si piange, si balla con la musica al massimo fuori da una macchina in un parcheggio.
Un luogo e una persona sconosciuti diventano un passo alla volta come parte della famiglia.
Quello che accade guardando Columbus.
Che parte sottovoce, quasi con la paura di dichiararsi come un film d'autore, e finisce per lasciarci a bocca aperta, incerti se essere felici come all'arrivo della primavera o piangere come nel cuore del più malinconico degli autunni.



MrFord



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