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martedì 25 settembre 2018

Hereditary - Le radici del male (Ari Aster, USA, 2018, 127')




- Quando un horror o presunto tale giunge da queste parti spinto da recensioni entusiastiche anche al di fuori del bacino degli appassionati di genere, sono sempre molto preoccupato: trovare titoli degni di nota in un panorama così difficile, infatti, è un'ardua impresa. Hereditary ha aperto le porte del Saloon con le stesse premesse.

- La regia di Ari Aster è interessante, viene piazzata una sequenza davvero notevole - quella dell'incidente d'auto - davvero da brividi ed inaspettata, tutto si appoggia su una Toni Collette come al solito estremamente valida in un ruolo che le è congeniale, il messaggio non è banale, eppure Hereditary è, a conti fatti, un film che di incisivo ha davvero poco o nulla.

- Nonostante le premesse che l'avevano dipinto come un film angoscioso ed inquietante, credo di non aver avuto mezzo brivido neppure per sbaglio, ripensando per tutto il tempo all'effetto opposto che mi fece quel gioiellino purtroppo nascosto di Lake Mungo, che scavava nel dramma di una famiglia trasmettendo decisamente più terrore di quanto si possa sperare di trovare qui.

- Perfino quella che dovrebbe essere una sorta di nuova promessa dei bimbi spaventosi da horror Milly Shapiro pare più che altro una sorta di versione triste e depressa del piccolo protagonista di Wonder, e poco più. Il Danny di Shining è davvero tutta un'altra storia.

- Alcune idee funzionano, altre sono troppo presto abbandonate, altre ancora - la medium - solo potenzialmente interessanti: di certo tutto si sviluppa troppo in fretta nonostante il minutaggio nella parte finale, che pare una corsa a perdifiato verso la troppa carne messa sul fuoco.

- Quando introdussi i voti nel blog e di conseguenza le bottigliate, pensavo proprio ad occasioni come questa: titoli con un grande potenziale, un buon cast e trovate non banali - come i modellini creati dal charachter di Toni Collette -, spinti a dismisura e chissà per quale motivo dalla critica anche al di fuori del genere che, alla fine, si rivelano inconsistenti e privi di carattere.

- Con più di due ore di visione alle spalle, mi sono reso conto di quanto poco Hereditary avesse lasciato, proprio come, per citare il mitico Maestro Miyagi, se non avesse radici abbastanza forti per reggere l'albero che avrebbe voluto mostrare e la casa costruita tra i suoi rami. E senza radici forti, si sa, non si resta in piedi a lungo.



MrFord



giovedì 26 luglio 2018

Modern Family - Stagione 9 (ABC, USA, 2017/2018)







Non ho mai amato, come più volte mi è capitato di scrivere, le sit-com, e allo stesso modo, ho amato fin dal primo episodio Modern Family.
Fresca, sincera, divertente, frizzante, in grado di parlare a diverse generazioni e tipologie di famiglie, leggera ma in grado di emozionare, sempre piacevole da vedere episodio dopo episodio, stagione dopo stagione.
Con il tempo, anche i Fordini hanno cominciato ad apprezzarla, probabilmente riconoscendosi nei più piccoli o per la sigla orecchiabile, l'idea di famiglia o le stranezze della famiglia stessa, rendendola un appuntamento tra i più amati e goduriosi delle cene di casa Ford.
Anche a questo giro di giostra, ovviamente, le gesta dei Pritchett e dei Dunphy hanno allietato ed accompagnato quelle dei Ford nei loro sempre più turbolenti pasti, con il Fordino che non da respiro un secondo tra domande, racconti e semplice azione di disturbo e la Fordina sempre più presa a cercare di imitare il fratello o a farsi notare quanto lui.
Certo, la sensazione che un pò di stanca si avverta rimane, come per molti titoli di riferimento del piccolo schermo affrontati di recente, ma non è ancora nulla di preoccupante o terribile, quanto forse solamente fisiologico per un prodotto che prosegue praticamente senza battute d'arresto o cali di qualità da nove anni, un traguardo che pochi serial raggiungono in questo stato di salute, e le speranze che il futuro possa regalare nuove perle per i protagonisti di questo curioso ritratto di famiglia sono a mio parere ben riposte, anche per l'ottima caratterizzazione compiuta dagli sceneggiatori nel corso degli anni e resa alla grande dagli interpreti, come sempre, in termini di preferenza personale, capitanati da Jay e Phil, assolutamente impagabili.
Un titolo, dunque, sempre perfetto come scarico per i neuroni, piacere da famiglia, compagnia per single e chi più ne ha, più ne metta: in fondo le mura domestiche restano, senza dubbio, il luogo più strano ed incasinato che possiamo pensare di eleggere a nostro rifugio, ma allo stesso tempo il porto più sicuro cui potremmo ambire quando il mare si fa grosso e occorre cominciare a correre ai ripari.
La cosa più confortante e confortevole, in questo, è data dal fatto che in famiglia nessuno è perfetto, e così a stretto contatto si finisce per amare, prima ancora dei pregi, i difetti di chi ci cresce, chi ci sostiene, chi cresciamo: e proprio da quei difetti si finisce per costruire qualcosa di più forte di quanto ci saremmo mai potuti immaginare.
Qualcosa che ci permetta di ridere o di piangere, di desiderare di stare da soli ed avere un attimo di pace o di non separarsi mai, neppure per sbaglio, di diventare furiosi o pensare che non ci si è mai divertiti così tanto.
La famiglia, per l'appunto.
In questo senso, quando si torna dalle parti dei Dunphy e dei Pritchett, il suo spirito non potrebbe essere reso meglio.



MrFord




 

sabato 21 luglio 2018

Jessica Jones - Stagione 2 (Netflix, USA, 2018)









Nell'Universo dei Marvel Knights, che nelle menti e nelle aspirazioni degli autori e dei produttori di Netflix doveva e dovrebbe andare a rappresentare una versione più cupa ed urbana - ma sempre votata ai supereroi - del Cinematic Universe che tanto successo sta riscuotendo sul grande schermo, Jessica Jones rappresentava, sulla carta, per quanto riguarda i ricordi che avevo dei personaggi negli albi a Fumetti, l'anello debole: nata infatti come charachter più legato alle atmosfere della linea Vertigo della rivale di sempre DC Comics, la detective dotata di superforza suonava comunque distante dai più classici Daredevil, Punisher, Iron Fist e Luke Cage: a sorpresa, però, nonostante non abbia rappresentato chissà quale sorpresa, la prima stagione dedicata alla scontrosa ed alcolizzata antieroina non era stata per nulla malvagia, grazie anche ad un villain d'eccezione come il Killgrave di David Tennant, vero e proprio mattatore dell'intero ciclo.
A questo secondo giro di giostra, complice il vuoto lasciato dall'attore inglese, da una serie di idee che faticano a decollare e da un trasporto suscitato nel pubblico pari a quello che riesce a trasmettere un mattonazzo bielorusso da quattro ore in una sera d'estate dalla voglia di spiaggia e sbronza allegra, ho patito e non poco i tredici episodi dedicati alla scorbutica Jones, alle prese principalmente con la Famiglia - dalla rediviva e folle madre alla sorella acquisita Trish, passando i nuovi amori - e di situazioni e sequenze che paiono troppo spesso tirate decisamente per le lunghe, neanche ad ogni singola puntata si fosse allungato il brodo di una decina di minuti abbondanti: un netto passo indietro, dunque, per una serie che prometteva bene ma che non aveva certo fatto il botto, e che rispetto a Punisher e Daredevil era sicuramente distante per livello qualitativo.
Se, dunque, dopo la certo non irresistibile The Defenders la seconda season di Jessica Jones aveva il compito di rilanciare l'interesse dell'audience sull'intera operazione Marvel Knights la missione è decisamente fallita nonostante, occorre ammetterlo, episodio dopo episodio si notano miglioramenti ed il finale è senza dubbio da considerarsi in crescendo rispetto alla prima metà del cammino: ma è ancora troppo poco per un personaggio ed un prodotto decisamente ed esageratamente incensato al suo debutto, al quale occorrerà un importante bagno di umiltà prima di iniziare il viaggio che - decisioni di produzione permettendo - condurrà il pubblico alla terza stagione.
Per quanto mi riguarda, in questo momento non solo non ho assolutamente voglia di pensare a quando mi ci troverò di fronte, ma neppure affrontare Luke Cage, uscito per la sua seconda annata proprio "trainato" - almeno sulla carta - da Jessica Jones, quanto più che altro confido in Daredevil ed in una definitiva esplosione del Punisher, nettamente i due assi nella manica di questa linea che, tra alti e bassi, è sopravvissuta nel corso delle ultime stagioni ma che se vorrà restare a galla e magari regalare qualche grande soddisfazione dovrà cominciare a pensare di rivoluzionare qualcosa nell'approccio.
Perchè rifugiarsi in una fine che pare un nuovo inizio ma che, di fatto, riporta il main charachter alla condizione di "tutto cambia per non cambiare" tipica, per l'appunto, del fumetto seriale incapace di fornire una vera crescita ai suoi protagonisti, non mi pare davvero la strada migliore da percorrere.
Neppure quando si hanno incredibili superpoteri.



MrFord



mercoledì 30 maggio 2018

Deadpool 2 (David Leitch, USA, 2018, 119')










In un certo senso, Deadpool - forse il mio personaggio Marvel favorito dell'età adulta - sta al me stesso attuale quanto Spider Man - forse il mio personaggio Marvel favorito dell'infanzia e prima adolescenza - sta al me stesso dei tempi delle medie e delle superiori: fuori dagli schemi, sboccato, sempre pronto a fare casino o rompere qualche regola, a vivere alla giornata o fare la parte del cattivo pur manifestando un aperto desiderio di calore, passione, famiglia e tutte queste cose sdolcinate da film per famiglie.
Nonostante l'annuncio della presenza di Cable - assolutamente fantastica la battuta a proposito di Thanos pronunciata da 'Pool - e l'impatto della Domino di Zazie Beetz, alla vigilia della visione avevo l'enorme timore che il secondo capitolo delle avventure del mutante chiacchierone potessero risentire del desiderio della produzione di andare sul sicuro, o di edulcorare in qualche modo una proposta che - e gli incassi confermano - è ormai nota in tutto il mondo.
Fortunatamente, non è stato così.
Certo, manca l'effetto sorpresa del primo capitolo e la sensazione che tutto nasca come pretesto per il già annunciato ed attesissimo da questo vecchio cowboy X-Force diretto da Drew Goddard pare più che un sospetto, eppure Deadpool 2 funziona dall'inizio alla fine, diverte da matti, rompe la quarta parete, suona scorretto e gode e si diverte come il suo protagonista, uno di quei charachters che non solo definisce la fortuna di chi l'ha creato, ma che rende la dimensione dell'idea geniale dello stesso.
Tutto questo senza contare la consueta scorrettezza, una colonna sonora ancora una volta da urlo, la proposta fantastica di una X-Force dal destino fantozziano, e due personaggi assolutamente bistrattati nella saga cinematografica dedicata agli X-Men come Colosso e Fenomeno finalmente resi degnamente, nonchè rispettosi di quelle che sono le loro controparti sulla pagina disegnata.
In un certo senso, si potrebbe pensare a Deadpool come al South Park dei film di supereroi, al punto di rottura di un genere ormai tanto amato quanto odiato, ad un circo che conosce il suo jolly, il matto, l'appeso, colui che viene per rompere tutti gli schemi, farsi beffe dei sentimenti, estremizzare tutto il possibile per mostrare quanto le cose semplici che di norma paiono scontate e sentimentali siano importanti: oppure al fatto che Wade Wilson è perfetto così com'è, con le sue intemperanze, le cicatrici, le battute ed il desiderio, gli eccessi di protagonismo e quelli di autocompatimento.
E' perfetto perchè non c'è niente di perfetto, in Deadpool, che ad un costume fighissimo affianca un aspetto orribile, che ad un attore che ho sempre considerato un cane maledetto regala l'intepretazione ed il charachter della carriera - altra scena cult l'autografo come Ryan Reynolds -, che a quello che parrebbe la versione sboccata e senza controllo della pellicola di supereroi butta in faccia come vomito tossico il bello dell'essere tamarri e non vergognarsene.
E come se non bastasse, l'equilibrio che si crea tra Deadpool e Cable, neanche fossero Terence Hill e Bud Spencer, è assolutamente perfetto, in linea con i loro interpreti ed i personaggi, frecciate metacinematografiche e momenti assolutamente cinematografici da multisala e slow motion.
Del resto, uno come lui riesce ad unire, più che dividere: ispira gli sfigati che vorrebbero la sua scioltezza, gli stronzi che si ritrovano nel suo atteggiamento, i duri che sognano di essere più malleabili, il Potere che più di ogni altra cosa desidera mettere a tacere chiunque parli troppo.
In poche parole, X-Force.
Il gruppo mutante - e di supereroi - definitivo.
Quello giusto per tutti quelli che frequentano i margini e i confini.
Da una parte e dall'altra.
E con la voglia di superarli.




MrFord




martedì 3 aprile 2018

Tonya (Craig Gillespie, USA, 2017, 120')




Nonostante la parentesi delle scuole medie, quando con la classe il sabato pomeriggio si andava a pattinare sul ghiaccio sperando di non farsi troppo male e magari limonare duro con qualcuna e con mio padre mi capitava di seguire qualche incontro di hockey di una delle squadre milanesi, non ho mai avuto grossa dimestichezza con tutta la parte artistica del pattinaggio: del resto, la tecnica e la grazia non hanno mai fatto parte delle mie caratteristiche distintive, e dovendo scegliere, ho sempre trovato più divertenti le mazzate dell'hockey, per l'appunto, ai volteggi delle pattinatrici.
Eppure, questo biopic firmato dal Craig Gillespie di Lars e una ragazza tutta sua mi incuriosiva non solo per i progressi mostrati da Margot Robbie nella recitazione - che le sono valsi la nomination agli Oscar di quest'anno -, ma anche per il controverso personaggio che l'attrice australiana interpretava, Tonya Harding.
Talento atletico e sportivo pazzesco, Tonya fu uno dei personaggi statunitensi più in vista all'inizio degli anni novanta, complici un comportamento non proprio sotto le righe in pista e rispetto agli alti papaveri della sua disciplina ed un caso che sconvolse l'opinione pubblica e che coinvolse il suo ex marito ed un amico dello stesso, pronti a pagare un "collaboratore esterno" affinchè aggredisse la più grande rivale in patria della Harding.
Il processo mediatico ebbe risonanza enorme, e Tonya divenne un personaggio più per la vicenda in cui era coinvolta che non per il suo percorso da atleta.
Gillespie e la Robbie - autrice, va detto, di una performance notevole - cercano di raccontare la donna dietro la figura "pop", che, come troppo spesso accade negli USA quando si tratta di sport, venne demonizzata e punita neanche fosse una criminale - mi ha ricordato, in questo senso, Lance Armstrong, colpevole di aver assunto per anni sostanze dopanti come la maggior parte dei suoi colleghi ma colpito più duro degli altri perchè più in vetrina degli stessi -: la vicenda che ne esce è quella di una ragazza cresciuta nella provincia profonda, dove niente è regalato a nessuno che non sia già benestante o ben collocato, in cui la violenza, fisica e morale, è all'ordine del giorno anche e soprattutto tra le mura di casa, e fin troppo spesso è l'unica risposta che viene cercata e trovata - emblematici gli esempi del marito e complice così come della madre, charachter inquietante interpretato da un'altrettanto inquietante Allison Janney -.
Tonya, dunque, viene ritratta come una combattente che nella lotta ha conosciuto l'unica strada da percorrere, che si trattasse di affetti, di rapporti di coppia o di sport, e che nel corso della sua vita ha imparato a reagire solo ed esclusivamente con la violenza, sia essa espressiva - sono celebri i suoi abbigliamenti e le musiche di accompagnamento alle esibizioni - o assolutamente fisica - il rapporto con il marito Jeff Gillooly è costruito sulle continue risse tra i due -.
Il merito della pellicola, ad ogni modo, è quello di non mostrare Tonya come una vittima degli eventi, quanto come una forte individualità che a causa di circostanze avverse - che stimolano molte giustificazioni ed indulgenze con se stessa della protagonista - si è trovata a dover affrontare ostacoli molto più importanti di gran parte delle sue compagne pattinatrici, viste e celebrate come piccole principesse con la possibilità di allenarsi in strutture private e coccolate in ogni tappa del loro percorso.
Certo, non mancano le occasioni perdute dalla stessa Harding a causa del suo orgoglio e di un carattere spigoloso e difficile, ma così come sottolineato dalla voce narrante della protagonista e dal bellissimo montaggio parallelo dell'epilogo, la verità è una brutta bestia, e le sfumature di ciò che ci accade possono essere percepite diversamente a seconda delle angolazioni dalle quali si guarda una vittoria o una sconfitta, un volo o una caduta.
E a volte, un triplo axel che nessuna pattinatrice aveva mai completato prima di lei può essere una liberazione più costretta e soffocata di un rovinoso knockout di quelli che avrebbero lavato via i peccati al più tosto tra i "tori scatenati".
L'importante, ad ogni modo, sarà allargare le spalle, tornare in piedi ed andare avanti a testa alta.
Vittoria o sconfitta che sia.



MrFord



martedì 19 dicembre 2017

Columbus (Kogonada, USA, 2017, 100')





Io e Julez abbiamo abbandonato Milano per trasferirci in quel di Lodi nel gennaio del duemiladieci: eravamo ancora in quella fase in cui si progetta, i Fordini non erano ancora arrivati e la possibilità che accadesse ci metteva di fronte alla scelta di vivere in un posto con case dai costi sicuramente inferiori a quelle della grande città ed un'atmosfera più vivibile e a misura d'uomo, nonostante i servizi fossero tutti quelli che ci si aspetta di sfruttare e trovare.
Lavorando a Milano e vivendo di pendolarismo, però, ho dovuto aspettare sette anni per cominciare a vivere la mia nuova città, sfruttando il periodo da casalingo che ha caratterizzato gli ultimi dodici mesi: del resto, a volte, basta cambiare velocità - come cantava Battiato - per scoprire sfumature che non riusciamo a notare quando corriamo.
Ma per quale motivo sono qui a scrivere della mia riscoperta di Lodi? In realtà perchè, come un fulmine a ciel sereno, il coreano Kogonada porta sullo schermo una delle sorprese più interessanti di questa fine anno, un film indie di quelli in grado di mettere d'accordo i radical in stile Cannibal e i tamarri più selvaggi come il sottoscritto: personalmente, nella lista delle città che vorrei visitare degli States non è mai stata presente Columbus, nell'Ohio, uno di quei luoghi che ho sempre considerato "tra il nulla e l'addio" più che sulle cartoline in grado di alimentare i sogni di tutti noi da questa parte dell'oceano.
Eppure, con un tono pacato e sottovoce, un ritmo lento che conquista proprio per il suo incedere, nessuna traccia di pretenziosità ma, al contrario, una profonda umanità nella rappresentazione dei protagonisti, il regista coreano regala un piccolo gioiello ancora, purtroppo, non distribuito in Italia: una storia di scoperta di se stessi e degli altri, di superamento del dolore, di crescita, di rapporti complicati e di luoghi che nascondono storie in grado, neanche fossero una canzone o un film, di curare le nostre ferite.
Il legame costruito e narrato dall'autore tra Jim e Casey, uno dei più intensi che non sfoci in una storia d'amore o nel sesso che abbia visto sullo schermo nell'ultimo periodo, passato attraverso gli edifici di Columbus, le storie personali di entrambi, i diversi modi di affrontare ostacoli, gioie e dolori, conquista sequenza dopo sequenza, e mostra come sia possibile portare sullo schermo un grande film senza alzare la voce, sfruttare effetti speciali o scene madri, ma semplicemente raccontando una storia che si aveva la voglia e la necessità di raccontare e rimanendo sinceri nel farlo.
Un plauso va senza ombra di dubbio al già citato Kogonada, delicato ed intimo come non mi capitava di incontrare un autore dai tempi di cose che ho amato tantissimo come Departures, ai suoi due attori protagonisti - che incarnano le tensioni, gli avvicinamenti e le distanze dei loro personaggi neanche fossero loro stessi - e di una città che diviene una rivelazione, come un luogo in cui si arriva per caso, senza amarlo o conoscerlo neppure troppo, e ci si ritrova a considerare parte della propria vita.
In fondo, i luoghi che viviamo sulla pelle possono essere considerati quanto le persone cui ci leghiamo nel corso della nostra esistenza: si lotta, si litiga, si distrugge, si costruisce, si ama, si piange, si balla con la musica al massimo fuori da una macchina in un parcheggio.
Un luogo e una persona sconosciuti diventano un passo alla volta come parte della famiglia.
Quello che accade guardando Columbus.
Che parte sottovoce, quasi con la paura di dichiararsi come un film d'autore, e finisce per lasciarci a bocca aperta, incerti se essere felici come all'arrivo della primavera o piangere come nel cuore del più malinconico degli autunni.



MrFord



lunedì 24 luglio 2017

Mommy (Xavier Dolan, Canada, 2014, 139')





Si può dire che Mommy, in un certo senso, rappresentasse in qualche modo la Moby Dick di Dolan, giovanissimo e fenomenale regista incensato dalla critica di tutto il mondo, e la mia come spettatore dei suoi lavori, quando tempo fa ho dato inizio al recupero della sua filmografia in ordine cronologico.
Se, dunque, potevo aver paura in una certa misura di approcciare il suo lavoro al principio, Mommy rappresentava quella stessa paura nella sua versione più mostruosa e titanica, considerato il suo status sin dai tempi dell’uscita in sala ed ai riconoscimenti a Cannes.
Dunque, considerato tutto, devo togliermi questo peso dal cuore: Mommy è un film strepitoso, realizzato con un talento visivo pazzesco, emotivamente d’impatto, come sempre per i lavori del giovane Xavier costruito in modo sublime attorno alla Musica – la scena cult sulle note di Wonderwall, ma anche i passaggi su Colorblind dei Counting Crows o Celine Dion sono da brividi -, destinato a rappresentare uno standard difficilmente superabile dai cineasti delle prossime generazioni, iniziato prendendosi il tempo e chiuso in modo pazzesco, quasi fosse una versione del Nuovo Millennio del fu I 400 colpi.
Eppure, lo ammetto, non è e non sarà il preferito, il film del cuore di Dolan, per quanto mi riguarda.
Forse, il fatto di esserci arrivato un gradino alla volta, ed avendo visto a breve distanza anche i quattro film precedenti del ragazzo, ha tolto in parte l’entusiasmo che una visione così sconvolgente provocherebbe a mente sgombra, senza sapere che Mommy è in realtà il culmine di un percorso iniziato con J'ai tuè ma mere, proseguito con Les amours imaginaires, LawrenceAnyways e Tom a la ferme.
In Mommy tutti i temi cari al regista canadese trovano forma e perfezione – forse perfino troppa -, e così come fu per quello che io considero il Maestro dei Maestri – il signor Kubrick, per intenderci – quello che è oggettivamente il suo film migliore ha finito per segnarmi dentro in misura minore rispetto ad altri meno potenti e perfetti ma più spontanei.
Certo, sto fancendo le pulci a quello che, con ogni probabilità sarà ricordato come uno dei film simbolo di questa seconda decina degli Anni Zero, dall’uso del formato – che potrà apparire un po’ pretenzioso, ma che risulta perfetto se applicato alle emozioni dei personaggi – ad un protagonista sopra le righe, rabbioso e commovente, un “rebel without a cause” che raccoglie il testimone dei Jimmy Dean e lo porta ad un livello ancora più alto, alimentando il fuoco di quello che è uno dei rapporti più complicati e profondi che ognuno di noi vive nel corso dell’intera esistenza: quello con la propria madre.
I conflitti, i momenti d’amore e confidenza, la sensazione di dipendenza ed allo stesso modo la necessità del distacco, l’escalation di un legame che finisce per influenzare chiunque in positivo come in negativo, nella formazione e nella crescita, in amore ed una volta ritrovatisi genitori: il rapporto di Steve con Die è senza dubbio uno dei più intensi e complessi passati sul grande schermo, erede della tradizione che va da Psyco a Tutto su mia madre, ed indaga senza snaturare nulla, dagli insulti agli abbracci, dalla posizione egoistica di Die a quella di Steve, dai piccoli gesti di generosità di una e dell’altro in un mare in tempesta come è giusto che la vita sia.
In un certo senso, Mommy è un film di guerra, il fratello maggiore e cresciuto di J'ai tuè ma mere, la lotta di due entità indivisibili che iniziano la loro esistenza insieme, in simbiosi, la proseguono in battaglie alternate da periodi di pace vissuti con trasporto e tornano a combattersi pur sapendo che fughe, tradimenti, ferite e lacrime non potranno mai intaccare il nodo che tiene insieme i reciproci cuori.
Come ogni guerra che si rispetti, non ci sono veri vincitori, né vinti.
E forse, solo un ultimo salto potrà liberare davvero tutti.
E portarli dove nessun muro, interno ed esterno, potrà più separare quegli stessi cuori.




MrFord




 

venerdì 21 luglio 2017

Tom à la ferme (Xavier Dolan, Francia/Canada, 2013, 102')




Quando, sfruttando un regalo di Julez, decisi di affrontare finalmente Xavier Dolan, giovane regista canadese considerato un vero e proprio fenomeno da molta della critica radical del mondo, che già ai tempi di questo Tom à la ferme, suo quarto lungometraggio, e dunque a venticinque anni, aveva già fatto incetta di premi nei Festival più noti - Cannes in particolare -, ammetto di aver avuto una certa paura.
Ai tempi del mio personale periodo radical, infatti, un percorso di questo tipo avrebbe assunto le dimensioni di una sorta di manna dal cielo, ma considerati gli anticorpi sui "falsi miti" cinematografici cresciuti sani e forti nel sottoscritto nel corso degli ultimi anni, il rischio di una tempesta di bottigliate era davvero alto: fortunatamente, con la parte "storica" del suo percorso alle spalle, posso affermare che effettivamente, età o no, Xavier Dolan è un talento puro, forse incontrollato ed imperfetto - a ben guardare, fino ad ora nessuno dei suoi film è davvero ineccepibile - ma assolutamente impossibile da ignorare e dimenticare, che riesce a colpire a fondo neanche - come mi è già capitato di scrivere - portasse dentro la "furia" della giovinezza e la saggezza di qualcuno che la vita l'ha vissuta e provata sulla pelle per molto, molto tempo - è uno dei pochi autori "da grandi" che ho visto in qualche modo catturare, anche se principalmente per l'uso straordinario della musica, perfino i Fordini nel corso delle nostre sessioni di gioco pomeridiane, quando a prescindere dal film che metto mentre sono con loro ignorano tranquillamente quello che passa sulla tv, non rientrando nella categoria "animazione" o supereroi che spaccano tutto -.
Tom à la ferme, prima vera e propria variazione - nonostante i temi trattati restino simili a quelli dei tre film precedenti - del cineasta canadese rispetto al melò "anni novanta" che l'aveva lanciato è un esperimento curioso e a tratti molto disturbante, un thriller che, fosse uscito nel corso dei settanta, avrebbe fatto il paio con i lavori di Polanski, o nei primi ottanta, con l'Almodovàr nella sua versione più "oscura": il ruolo della madre - centrale nella poetica dell'autore -, quello della società con le sue variabili, del confronto tra città e campagna, la risoluzione - o tentativo di risoluzione - della propria sessualità, la ricerca di identità e libertà accompagnano in un viaggio a tratti quasi horror - l'inseguimento nei campi di granoturco, il racconto della rissa nel locale notturno - ma assolutamente passionale e magico - la strepitosa sequenza del tango, un pezzo di Cinema con due palle grandi come granai, roba da brividi veri - lo spettatore, che pur nella messa in scena decisamente semplice e scarna si ritroverà avvinto da una vicenda torbida ed inquietante dal primo all'ultimo minuto, complice il triangolo formato dalle figure di Tom e della madre e del fratello del suo amato, che nel proprio paese nascondeva le sue inclinazioni omosessuali.
Senza dubbio quello di Dolan è un Cinema che può spiazzare o destabilizzare - e subito torna prepotente alla mente l'immagine di chiusura dello sfregiato, che quasi ha riportato alla mente nel sottoscritto il miglior Lynch -, eppure solo apparentemente ostico, difficile ed "alto": in fondo, questo giovane autore porta sullo schermo passioni e pulsioni che vivono ed esplodono nel cervello come sotto l'ombelico di tutti noi, filtrandole attraverso la propria esperienza e sensibilità senza per questo privarle di una notevole universalità, proprio quello che un narratore non dovrebbe mai dimenticare.
Ed è questa, finora, la cosa che più mi ha colpito e conquistato di Xavier Dolan.
La necessità di raccontare storie.
La necessità di essere presente nel raccontarle.
Nel viverle.
Un pò come Tom, che prima di trovare la forza e la volontà di una fuga, del superamento di un dolore profondo, dovrà provare sulla pelle ogni singolo atomo delle sue prigioni, dei suoi sentimenti.
E farlo con la coscienza, stabile o no che sia, di essere lì per sua volontà.
E per sua volontà muoversi oltre.
Con lo stesso spirito resto in attesa di Mommy: per scoprire se, come in molti hanno scritto, detto, dichiarato, Dolan ed il suo Cinema possano compiere un ulteriore passo.
Perchè se così fosse, voglio compierlo al suo fianco.




MrFord




martedì 11 luglio 2017

Codice criminale (Adam Smith, UK, 2016, 99')




Da grande appassionato di musica - anche se, devo ammetterlo, ultimamente ho battuto parecchio la fiacca, rispetto alla ricerca di nuove proposte o esperimenti come mi capitava di fare una quindicina d'anni fa - mi è capitato spesso di incrociare il cammino con un nuovo disco di una nuova band - o artista solista, poco importa - che avesse tutte le carte in regola per fare breccia nel cuore del sottoscritto, non fosse niente male, toccasse le corde giuste ma, per qualche misterioso motivo, finiva per non accendere la scintilla necessaria quando si andava alla ricerca di un potenziale cult.
Codice criminale - o, come al solito sarebbe decisamente meglio, Trespass against us - rientra a livello cinematografico esattamente nella stessa categoria: il lavoro di Adam Smith è ben diretto e recitato - non solo dai due noti protagonisti -, tocca tematiche qui al Saloon sempre ben accolte come il rapporto tra padri e figli e l'ineluttabilità del destino di chi intraprende per scelta, costrizione o vocazione la strada del crimine, nonostante la voglia effettiva o "di responsabilità" di tirarsene fuori, eppure, nonostante tutto, ha finito per passare senza lasciare una traccia così evidente, andandosi ad accomodare assieme a molti altri titoli di genere destinati a fare numero più che a rappresentare pietre miliari.
Il mondo dei gipsies anglosassoni, portati sullo schermo ad un tempo come rednecks incontrollabili ed irrefrenabili e vittime di un pregiudizio che non cesserà mai di esistere a prescindere dalla loro effettiva condotta è esplorato in modo interessante e realistico - molto più che in produzioni decisamente più memorabili come The Snatch, ad esempio -, il lavoro linguistico è notevole - questa è una di quelle pellicole da recuperare assolutamente in lingua originale -, le sequenze d'azione - soprattutto di guida - portate sullo schermo con grande professionalità, ma neppure tutti questi potenziali pregi finiscono per regalare al prodotto finito il carattere che ambirebbe ad avere e mostrare, neanche si trattasse del main charachter Chad, ansioso - e marcato stretto dalla moglie - di affrancarsi dalla figura ingombrante del padre e dal mondo del crimine ma incapace - per colpa o per destino - di sottrarsi allo stesso, neanche ci si trovasse di fronte ad una versione made in England di cose come Ray Donovan.
In questo modo, il passo da potenziale cult a pellicola come tante altre finisce per essere decisamente breve, ed anche a neppure un'ora dalla visione resta davvero poco su cui lavorare emotivamente per mettere sulla carta un post che vada oltre la mera cronaca di una visione senza picchi: perfino l'escalation finale, che dovrebbe rappresentare il momento commovente e profondo della pellicola incide poco - nonostante la bravura del piccolo volto di Tyson, interpretato da Georgie Smith -, finendo per chiudere il tutto con un sapore di già sentito, lasciando al colloquio tra Chad e Kelly con la preside della scuola dei loro figli il punto più alto del lavoro di Smith.
In realtà, nonostante un'ottima esperienza come regista da piccolo schermo e video musicali, il tempo ed i margini di miglioramento possono essere ampi per il buon Adam: si spera soltanto che la prossima volta il suo "disco" non abbia il sapore di qualcosa già superato da almeno una decina d'anni.




MrFord



 

lunedì 10 luglio 2017

Gifted - Il dono del talento (Marc Webb, USA, 2017, 101')




E' davvero curioso, come e quanto cambino le prospettive rispetto alla vita con il passare del tempo e l'accumularsi delle esperienze, tanto da ricordarmi la bellissima sequenza de L'attimo fuggente con Keating pronto a far salire i suoi studenti sulla cattedra per dare un'occhiata differente al mondo che loro conoscevano da un'altra angolazione: una ventina d'anni fa, nel pieno dell'adolescenza, sognavo di avere il talento di uno scrittore geniale, di vivere un'esistenza tormentata e di morire solo come un vero poeta romantico nell'estate del duemiladodici, a pochi mesi dal mio trentatreesimo compleanno.
Scritto, pensato o detto ora, fa quasi sorridere.
Questo perchè, a conti fatti, per quanto adori scrivere e adorerei ancor di più vivere soltanto di quello - principalmente sarebbe l'equivalente di non lavorare -, ci sono tante, tantissime cose che la vita può riservarmi e che continuerò a preferire rispetto al buttare emozioni, storie, sentimenti, fatica sulla carta: più che immaginarmi un genio che muore troppo giovane, ormai penso di essere più nella posizione di Guccini quando canta "godo molto di più nell'ubriacarmi, oppure a masturbarmi, o al limite a scopare".
Vivere, insomma.
Vivere e cercare di farlo nel modo più intenso possibile, inseguendo la felicità prima della realizzazione, l'emozione prima del sogno.
Non che, per questo, abbia cominciato a osteggiare il talento o chi ne ha, ma di sicuro tra un'esistenza di solitudine consegnata all'immortalità ed una vita normale goduta dal primo all'ultimo secondo, scelgo sempre e comunque la seconda, specie se lunga e piacevole.
C'è chi, probabilmente, penserà che il mio punto di vista sia quello di una resa, o più semplicemente la presa di coscienza di qualcuno che si è messo in pace con il fatto di non essere diventato quello che sognava da bambino.
E chissà, forse è così.
In fondo, non sono neppure riuscito a finire ad insegnare, o ad insegnare ginnastica, per dirla come Woody Allen. Eppure, dovessi pensare a me, oltre che ai miei figli, credo che la felicità e la sensazione di essere amati vengano decisamente prima dell'essere considerati una sorta di extraterrestri pronti a sconvolgere il mondo con qualcosa di rivoluzionario: certo, essere un Einstein, un Mozart o un Maradona porta e porterà sempre e comunque dei vantaggi, un pò come l'essere ricchi rispetto al non esserlo, ma considerato come finirà per tutti, credo che, a volte, questo tipo di grandezza risulti per essere sopravvalutato quanto la rockstar che sognavi di incontrare ed una volta faccia a faccia con lei capisci di essere di fronte soltanto ad un grande stronzo.
Con il Cinema, a conti fatti, è stato lo stesso.
Ho sempre amato ed amo tantissimo la settima arte, eppure non rimpiango per nulla il periodo della vita in cui passavo da un film d'autore all'altro, evitando come la peste qualsiasi proposta che non avesse un pedigree o un nome importante sulla locandina: come più volte mi è capitato di ripetere nel corso di questi ultimi mesi, sto cercando sempre più di avvicinarmi ad un Cinema di cuore, emozionante ed emozionato, che possa raccontare storie con qualche sbavatura ma assolutamente umane nella loro fallibilità.
Storie come quella di Gifted, firmato dal Marc Webb dell'ottimo 500 giorni insieme e del meno interessante Amazing Spider Man.
La vicenda della piccola Mary e di suo zio Frank, forse troppo semplice e "facile" per certi versi, senza dubbio indirizzata più al grande pubblico così come a chiunque abbia a che vedere da vicino con la crescita ed il futuro di un bambino, è una delle vicende più "straight" che abbiano accompagnato questo vecchio cowboy nel corso della stagione cinematografica in corso, divertente e commovente come solo la vita di tutti i giorni sa e può essere.
Un elogio del talento come lo furono a loro modo pellicole come L'attimo fuggente - già citata - e Will Hunting, ma allo stesso tempo di tutto quello che il talento non può raggiungere: perchè si può essere grandi nello sport, nell'arte, nella letteratura o nella scienza, ma non avere assolutamente idea di come vivere la vita.
Ed è allora che diventa fondamentale avere qualcuno che ce lo possa ricordare.
Perchè senza la vita, anche il talento perde significato.
Non esiste un Einstein senza uno studente che non capisce un beneamato cazzo di matematica.
Non esiste un Mozart, senza un orecchio che possa ascoltare la sua musica.
Non esiste un Maradona, senza un operaio che porta suo figlio allo stadio a vederlo.
Ci si sostiene a vicenda, nel bene e nel male. Come in una famiglia.
Gifted mi ha fatto sentire quel calore.
E al punto in cui sono arrivato, il pedigree ed il nome sulla locandina contano molto relativamente.
Mi sono sentito, guardando Frank e la piccola Mary, come a casa.
Ho riso, e mi sono commosso.
E vaffanculo, mi sono sentito bene come seduto sul portico con una bella birra ghiacciata in mano, il rumore dei bambini a giocare dentro ed il sole a scaldarmi.
Non c'è talento che possa eguagliare questo.




MrFord




 

venerdì 30 giugno 2017

Ray Donovan - Stagione 3 (Showtime, USA, 2015)




La Famiglia, si sa, può essere il più grande dei piaceri e la peggiore delle bestie.
Di certo, è una di quelle cose che nella vita non lascia indifferenti.
Personalmente, non ho avuto o vissuto - e sono contento così - traumi particolari, tra le mura domestiche, e anzi, ho sempre avuto rapporti dal civile all'ottimo con tutti i miei parenti, i miei genitori - per quanto diversi dai loro figli - ci hanno sempre sostenuti per quanto hanno potuto e mio fratello - nonostante approcci alcolici e non che partono da differenti filosofie - è una delle persone che sento più vicine.
Eppure, ho sempre avuto un debole, per le famiglie disfunzionali.
Sarà che tirano fuori il pane e salame, o rendono benissimo l'idea di "tenere i cavalli" che è uno dei miei capisaldi, ma da Little Miss Sunshine ai Gallagher, passando per Altman e, per l'appunto, Ray Donovan, adoro i drammi da famiglia instabile.
Curioso, invece, il fatto che la vicenda dello spigoloso problem solver di origine irlandese sia rimasta ai box per così tanto tempo - e si parla di anni - per poi esplodere scatenando curiosità nel sottoscritto, in Julez e nel Fordino, che ormai comincia ad essere più grandicello ed avvezzo a tutti i personaggi che passano sul piccolo schermo del Saloon, a prescindere da quali siano i suoi preferiti - Dr. House e Frank Gallagher, come ormai è noto -.
Con questa terza stagione, forse quella con le evoluzioni e sviluppi più drammatici fino ad ora, Ray Donovan conferma il suo valore e la consistenza di una proposta che affronta temi scomodi e profondi senza dimenticarsi passaggi o momenti grotteschi ed al limite dello spassoso, tematiche vicine a qualsiasi tipo di pubblico - a prescindere dal tipo di famiglia che avete - ed una qualità complessiva decisamente alta a partire dal lavoro attoriale, che vede Liev Schrieber in costante evoluzione e Jon Voight come sempre mattatore di una proposta che non sarà clamorosa per popolarità ma che, senza dubbio, rappresenta una delle certezze assolute quando si parla di risultato complessivo.
Ray Donovan, infatti, ha carattere da vendere, palle d'acciaio, coraggio ed una carica emotiva notevoli, quasi fosse uno specchio del suo solo apparentemente inavvicinabile, infallibile e tutto d'un pezzo protagonista, portato dai suoi autori al punto di rottura nel corso di queste dodici puntate come mai prima era capitato, alimentando la curiosità del sottoscritto e dei Ford tutti per la stagione quattro e confermando tutto il bene che pensavo di volergli fin dai giri di giostra precedenti.
Dalla drammatica lotta con la mafia armena - e qui occorre stare attenti, The Shield è un monito - ai conflitti interni con Bridget, passando per scomuniche, Donovan che partono e Donovan che arriveranno, non si vive un secondo di pausa e si continua a fare il tifo per Ray, Terry, Bunchy e Darryll, e perfino, ma solo a volte, per quel vecchio figlio di puttana di Mickey, l'unico padre a combattere al già citato Frank Gallagher lo scettro di peggior genitore del piccolo schermo e non solo.
Noi, che siamo senza dubbio in parte irlandesi nel cuore, tifiamo per tutti loro.
E non possiamo fare altro.




MrFord




mercoledì 21 giugno 2017

Channel Zero - Stagione 1 (Syfy, USA, 2016)




Di norma, nonostante la blogosfera non stia vivendo certo il suo periodo migliore o più fulgido, cerco sempre, leggendo i vari blog, di stare attento alle segnalazioni di tutti i "colleghi" a proposito di titoli che potrebbero, noti oppure no, rivelarsi come delle vere e proprie sorprese e regalare qualche spunto per il futuro.
Tempo fa, grazie alla sempre bravissima Lucia, recuperai la prima stagione di Channel Zero, produzione dal sapore anni settanta - nonostante debba le sue "origini" sullo schermo a vicende ambientate nella decade successiva - dall'atmosfera inquietante e molto interessante, non perfetta ma senza dubbio una delle cose migliori che il piccolo schermo abbia conosciuto in tempi recenti rispetto al genere: ambientata su due piani temporali in una piccola comunità della provincia americana - il presente e l'ottantotto -, la serie propone in questa prima stagione le vicende di Candle Cove, sconvolta dall'uccisione di cinque bambini per l'appunto sul finire degli eighties, l'interruzione degli stessi omicidi ed il ritorno del male accanto ad uno dei bambini scampati ai tempi dei delitti, divenuto uno psicologo infantile.
L'incedere, che mi ha ricordato veri e propri cult come Lo spirito dell'alveare e l'evoluzione della trama risultano credibili e regalano momenti decisamente inquietanti - anche se, onestamente, non mi sono mai sentito turbato neppure in quelle che sono state le sequenze più creepy -, la cura di alcuni personaggi ed il loro charachter design è ottimo - il piccolo "dentista" è da antologia -, eppure, forse anche per le aspettative, attendevo perfino di più.
Questo perchè, a parte alcune scelte di cast non perfette - a partire dallo stesso main charachter, piuttosto scialbo e "normale", nel senso non positivo del termine -, il ritmo non è certo serrato, ed in alcuni punti pare che il fatto che lo stesso sia dilatato sconfini quasi nella noia, rendendo i quaranta minuti di ogni episodio più simili ad un'ora abbondante che non scorrevoli come ci si aspetterebbe da una serie dalla durata "standard".
Niente per cui scoraggiarsi, comunque, considerato che le produzioni horror - specie seriali - di norma risultano porcate galattiche, ed un buon segnale per questo duemiladiciassette che oltre a Channel Zero mi ha già regalato soddisfazioni con The Exorcist e American Horror Story: più che altro, immergetevi nella storia di Candle Cove e dei suoi bambini come se voleste rivivere in modo più sotterraneo l'orrore di It, che come una piaga si insinua tra le pieghe del tempo pronto a tornare a galla quando meno ce lo si aspetterebbe, e che per essere superato e messo a tacere richiede sacrifici che, compiuti in nome dell'amore o della necessità di liberarsi, sono destinati comunque a segnare per sempre i protagonisti della storia.
E, senza dubbio, anche chi li ha seguiti dall'altra parte dello schermo.




MrFord




 

lunedì 22 maggio 2017

Scappa - Get Out (Jordan Peele, USA, 2017, 104')




Archiviati gli anni novanta e l'epoca d'oro di un certo tipo di thriller, riuscire nell'impresa di centrare il bersaglio con un film "dal fiato corto" - dello spettatore, ovviamente - è stato merce rara almeno quanto confezionare un horror che riuscisse davvero a spaventare.
In tempi recenti, di degni appartenenti a questa schiera ricordo soltanto l'Hush che fu sorpresa la scorsa estate e, pur considerandolo a tutti gli effetti un film dell'orrore, Eden Lake, e per il resto, principalmente robetta.
Il Get out di Jordan Peele, giunto dalle parti del Saloon in anticipo rispetto all'uscita italiana spinto da opinioni lusinghiere raccolte oltreoceano - dove ha avuto un successo clamoroso -, si poneva dunque di fronte ad una prova ardua, nonchè alla circospezione del sottoscritto: e devo ammettere con piacere il fatto che, pur non essendo perfetto, sia riuscito a superare la prova più che bene.
A prescindere, infatti, dall'assunto di base che qualcosa non vada e che sia palese il fatto stesso che non vada - ma, del resto, cose come Rosemary's Baby hanno insegnato che non è necessario mettere in dubbio l'evidenza per inquietare - Get out procede prendendosi il tempo necessario con piglio deciso - esempio lampante la sequenza bellissima con il protagonista intenzionato ad uscire in giardino per la sigaretta notturna - prima di esplodere in un'escalation finale che è riuscita in una certa misura a ricordarmi l'Haneke di Funny Games e che affronta in modo senza dubbio intelligente una delle tematiche più importanti degli States attuali, in bilico tra Trump e le ferite passate, ovvero la questione razziale.
Qualcosa, da una parte e dall'altra - così come nell'epilogo - viene concessa rispetto all'ottica della grande distribuzione -purtroppo-, ma il film funziona ed intrattiene a dovere, non pecca in logica e sfrutta la curiosità crescente dell'audience in modo da portare avanti un plot che, come già sottolineato, pare evidente fin dal principio e crea tensione principalmente grazie all'attesa del momento in cui la situazione esploderà divenendo a tutti gli effetti senza ritorno, senza per questo dimenticare alcune parentesi senza dubbio ironiche.
A dare supporto al tutto, un cast ben assortito ed in parte, un'atmosfera in bilico tra Eyes Wide Shut - anche citato - e Non aprite quella porta - privo della componente slasher - ed un naturale senso di straniamento e disagio nato per empatia con il main charachter, cataputato in un vero e proprio incubo ben lontano dall'idea di passare il weekend con i genitori della propria fidanzata - ed in questo senso, ho decisamente giocato con Julez al solo pensiero di quando la Fordina comincerà a portare a casa degli "accompagnatori" - e sentirsi a disagio nel confronto con gli stessi.
A prescindere, infatti, dalla parte scientifica dell'evoluzione della trama - comunque interessante, considerata l'esigenza e la presunzione di alcuni esponenti delle classi sociali "alte" di potersi permettere di vincere anche il Tempo e la Natura -, Get Out funziona come thriller e come survival, inchioda come si deve alla poltrona e tiene benissimo il campo - un campo difficile, come già sottolineato - dal primo all'ultimo minuto, senza sbruffoneggiare con ambizioni troppo alte ma allo stesso tempo mostrando tutta la solidità dei prodotti con le palle.
Di quelli che sopravvivono ai confronti ed ai pregiudizi.
Di quelli che gli appassionati cercano e bramano come l'aria.
Ed è bello, in questi casi, venire soddisfatti.
Anche se il prezzo è una visione a cuore non troppo leggero.




MrFord



venerdì 5 maggio 2017

Shameless - Stagione 7 (Showtime, USA, 2016)





Per quanto io sia un disadattato, casinista e scombinato, anche nei miei periodi peggiori e più wild ho sempre avuto un forte, enorme desiderio di Famiglia: un pò come se Hank Moody combattesse a parole la filosofia da focolare, preghiere e cazzotti di Dom Toretto.
E se penso al piccolo schermo, così come a quello che mi porto dentro, fatta eccezione per lo straordinario finale di Six Feet Under, non ho mai trovato nulla che si avvicini al mio pensiero di Famiglia come Shameless.
Sarà che il motto "siamo tutti Gallagher" è stato mio e del Saloon fin dalla prima stagione di questa straordinaria serie, o che tra sconfitte, vittorie sudate, risate scomposte, lacrime amare, salite e ricadute mi sono sentito affine a quasi tutti i membri di questo caotico focolare domestico: certo, Fiona mi appare sempre più distante per ambizione, Debbie per limitazioni culturali, Liam per età, ma d'altro canto trovo Carl alla ricerca di un ordine per se stesso, Ian di una maturazione emotiva e sentimentale che non dimentica il percorso compiuto fino al punto in cui si trova - stupendo il viaggio ed il momento del distacco da Mickey Milkovich, forse uno dei personaggi secondari più riusciti della produzione - e soprattutto Lip alle prese con i propri demoni, non tanto figli dell'alcool ma dell'essere per talento il predestinato della famiglia, ma non per questo necessariamente costretto ad avere successo.
Ed in mezzo a tutto questo comprensibile marasma, Frank.
Il maledetto Frank.
Un charachter che sono riuscito, nel corso di questi sette anni, ad odiare profondamente perchè lontano anni luce dal concetto di padre che applico e che cerco di essere, eppure umano e vitale come mi dipingo ogni giorno quando dico di voler restare da queste parti il più a lungo possibile e godendo il più possibile, considerato che si tratta, a quanto penso, dell'unica possibilità che ho ed avrò di farlo.
Il maledetto Frank che, come tempo fa sul lago ghiacciato con Carl in piena sfida a dio, rompe i suoi argini al funerale dell'amata Monica, e rivela il suo lato umano, sentimentale e profondo come forse mai prima.
Il maledetto Frank, uno degli esempi di egoismo puro più fulgidi che piccolo e grande schermo abbiano prodotto, che si rivela capace di amare.
Una cosa che, per quanto la società cerchi di imporre, sottolineare e consigliare, pochi sono davvero in grado di fare.
E viene quasi il dubbio che, bravura incredibile di William Macy a parte, sia proprio questo il senso.
Per poter amare davvero, profondamente, incondizionatamente, occorre poter conoscere così bene questo sentimento complesso e devastante, meraviglioso e potente, a partire da se stessi.
Non voglio giustificare Frank, neanche per idea.
E neanche per un istante.
Ma è assolutamente vero che, se tutti i Gallagher sono Gallagher, irresistibili, tenaci, determinati, pronti a rialzarsi a fronte di ogni sconfitta, lo sono anche per Frank e Monica.
La trappola della Famiglia.
Il peggio che potrai trovare, lo troverai indiscutibilmente lì.
Ma troverai anche indiscutibilmente il meglio.




MrFord




 

sabato 29 aprile 2017

Ray Donovan - Stagione 2 (Showtime, USA, 2014)





A volte, al termine della visione di un film o della stagione di una serie, ci si chiede per quale diavolo di motivo si sia aspettato così tanto per buttarcisi a capofitto: qui in casa Ford approcciammo Ray Donovan ormai qualche anno fa, più o meno in contemporanea con Orange is the new black, e tra tradimenti, sentimenti forti e famiglia disfunzionale, le vicende del problem solver più taciturno di L.A. interpretato da un roccioso Liev Schreiber avevano senza dubbio colpito il bersaglio.
Eppure, la seconda stagione di questo serial è rimasta a prendere polvere fino a quando, poco tempo fa, per mancanza di alternative non è stata riesumata: il risultato è stato senza dubbio una cavalcata ancora più intensa e tosta della precedente, tanto, per l'appunto, da farmi chiedere per quale cazzo di ragione non mi fossi precipitato ai tempi a recuperarla e mettermi in pari con le vicende dei Donovan, scombinati, spigolosi e difficili da gestire come poche altre famiglie del piccolo e grande schermo.
In questo secondo ciclo di episodi ci si concentra principalmente sulle conseguenze degli avvenimenti che hanno chiuso il primo e sui tentativi di ognuno dei fratelli di far funzionare - invano, ovviamente - la propria vita: Ray, sempre più violento e dritto per la sua strada, pur essendo il pilastro sul quale tutta la famiglia si poggia continua ad isolarsi, Bunchy perde una grandissima occasione - e non è neppure colpa sua - di uscire dal tunnel di dolore ed ansia iniziato con le violenze subite da bambino, Terry, come tutti i "buoni", finisce per prenderlo dove non batte il sole rispetto al sogno di emigrare in Irlanda e vivere una vita normale con la sua donna, almeno fino a quando la sua malattia lo permetterà, e via discorrendo tutti gli altri, figli, nipoti, amici e mogli, tutti condizionati dagli strascichi della vita non proprio dentro le regole di Ray e quella totalmente egoriferita di suo padre Mickey, uno che fa sembrare genitore dell'anno Frank Gallagher.
Ed accanto alle loro schermaglie i dolori della crescita dei due figli di Ray, in special modo quelli di Bridget, costretta prima ad andare contro il volere del genitore per amore e dunque vedersi strappare quello stesso amore nel peggiore dei modi, innescando l'ennesimo colpo di mano del Mr.Wolf del piccolo schermo, che come di consueto, pur vestendo e mantenendo sempre un tono molto elegante non risparmia certo i colpi, bassi e non, se vede messa a rischio l'incolumità soprattutto della sua famiglia - o almeno, di una parte di essa -.
Un esempio di grande capacità attoriale - Jon Voight è strepitoso - e di scrittura, che almeno per il momento pongono Ray Donovan in scia con i grandi cult di genere - I Soprano su tutti - ed aumentano l'hype del sottoscritto per una terza stagione che certo non attenderò più anni per iniziare: anche perchè, come tutti i tipi silenziosi, chiusi e forti, perfino Raymond avrà un punto di rottura.
E resta da capire quale sarà la portata dei danni che si porterà dietro nel momento in cui questo punto, come pare dall'ultima inquadratura del season finale, sarà raggiunto.
Nel frattempo, ripercorro le follie, le situazioni grottesche - la festa di compleanno del figlio quattordicenne terminata con la sequenza d'antologia sulle note di Walk this way nella versione Run DMC -, il ribollire del sangue che solo il sangue innesca, e dunque solo le persone che possiamo amare o odiare - o entrambe le cose - più di ogni altra: quelle cui siamo legate da qualcosa di così ancestrale e forte come la Famiglia.
E penso che, se c'è qualcuno che non è un marinaio, ma il capitano, è proprio Ray.
E che, nonostante detesterebbe saperlo, in questo è tale e quale a suo padre.




MrFord




 

martedì 15 novembre 2016

Captain Fantastic (Matt Ross, USA, 2016, 118')




Proprio l'altro giorno parlavo al telefono con mio padre, raccontandogli del curioso modo di scambiarsi i ruoli dei Fordini, che quando uno fa il drittone notturno l'altra massacra di sveglie Julez e quando l'altra dorme fino a tardi l'uno decide di venire a svegliarci nel letto alle sei e mezza perchè "il suo pancino ha fame".
Il mio vecchio, che non è un tipo di molte parole, ha replicato ai racconti del sottoscritto semplicemente affermando "quando sono piccoli è perchè sono piccoli, e quando sono grandi è perchè sono grandi, ma in realtà quando si hanno dei figli, non si finisce mai".
Ed effettivamente, dev'essere proprio così.
Ho recuperato Captain Fantastic per caso, senza sapere neppure di cosa si trattasse, venendo a conoscenza soltanto in un secondo tempo delle ottime critiche avute negli States e dell'aura da Sundance positivo - in stile Little Miss Sunshine, per intenderci - che portava, e l'ho affrontato con aspettative piuttosto alte: e, devo ammetterlo, sono state tutte soddisfatte.
Io non sono uno che si fa troppe seghe mentali, o pensieri a proposito delle conseguenze dei gesti anche più piccoli: cerco semplicemente di fare molta attenzione a trovare l'equilibrio tra il mio lato istintivo ed animale ed il bisogno di proteggere chi amo.
Nessuno di noi è perfetto, e non ho mai neanche lontanamente sognato - anche perchè mi conosco bene - di esserlo io stesso.
In questo senso, l'educazione e l'influenza che abbiamo sui nostri figli finisce per essere una delle cose più importanti di una vita, considerato che gran parte di quello che saranno è definito anche da come i genitori sono entrati a far parte di loro - e ci entrano sempre, in un modo o nell'altro -: giusto per fare un esempio, i miei non sono mai stati appassionati di Cinema, o legati all'Arte o alla Letteratura o alla Musica, o al Fumetto, come lo siamo stati io e mio fratello.
Eppure, non ci hanno mai limitati.
E ho sempre pensato che la mia passione per la scrittura fosse nata dalle lettere che mio padre mi lasciava sulla scrivania quando pensava avessi fatto una stronzata che meritava qualche parola in più. Con lui non si arrivava mai allo scontro verbale, e non ha mai alzato neppure un dito su di noi, eppure quelle lettere, equilibrate e sagge, eppure pungenti, di un uomo che non era certo di Lettere, arrivavano sempre dritte al bersaglio.
Ho pensato tanto all'essere figlio, nel corso della visione di Captain Fantastic.
A quanto si può pensare possa essere facile essere un genitore, quasi si trattasse di una sorta di abuso di potere sponsorizzato dalla Natura.
Ed ho pensato tanto all'essere padre, guardando uno straordinario Viggo Mortensen portare sullo schermo un personaggio complesso ed imperfetto, che ha finito per commuovermi in quel saluto all'aeroporto, in quel dialogo tra me e Julez: "Cazzo, devo cercare di contenermi per quando vedrò questi film con loro" cui è seguito "E perchè dovresti contenerti?", parole sante di una santa donna.
E ad un certo punto, prima ancora della preoccupazione di proteggere i Fordini o di trasmettere loro la necessità di mantenersi sempre ricettivi e pronti ad imparare qualcosa di nuovo, elastici e liberi, ad una versione di Sweet child o'mine che mi ha ricordato quanto vorrei che il mio funerale fosse una festa neanche fossimo nel Messico del Dia de los muertos, è arrivata la folgorazione delle grandi occasioni, di quelle che ti toccano nel profondo e restano dove sono come un tatuaggio, piacere come dolore compresi.
Ma non sono uno che si fa troppe seghe mentali, quindi mi godo il fatto che Captain Fantastic sia un film commovente e bellissimo, che racconta alla grande il concetto di Famiglia, quello di Libertà - prima di tutto culturale e di pensiero -, di superamento del dolore, di voglia di mettersi in gioco, di viaggiare, di imparare, e che mi fa pensare che, con Rudderless e Little Miss Sunshine, sia uno di quelli che conserverò nel cuore per poterli rivedere con i Fordini quando saranno abbastanza grandi per poter pensare che per il loro vecchio sarà fantastico vederli diventare liberi, e capitani delle loro navi.




MrFord




 

mercoledì 6 aprile 2016

Dio esiste e vive a Bruxelles

Regia: Jaco Van Dormael
Origine: Belgio, Francia, Lussenburgo
Anno: 2015
Durata:
113'








La trama (con parole mie): forse non tutti lo sanno, ma Dio vive a Bruxelles insieme a sua moglie ed alla figlia di dieci anni Ea, che osserva quanto suo padre, come uno scrittore cinico ed annoiato, si diverta a torturare gli umani per passare il suo tempo, o almeno quello che non passa rimproverando lei e la madre.
Spinta da un anelito di ribellione ispirato dal fratello Gesù, da tempo allontanatosi dalla famiglia, la bambina non solo fugge di casa per esplorare il mondo dei mortali, ma prima di farlo decide di comunicare a tutta la popolazione del mondo tramite sms quanto tempo separa ognuno dal momento della propria morte.
Questa rivelazione cambia radicalmente l'approccio alla vita sulla Terra, e quando Ea decide di scegliere non solo un narratore della sua storia, ma anche sei nuovi apostoli per portare il loro numero complessivo a diciotto come li vorrebbe sua madre, appassionatissima di baseball, Dio in persona si troverà a scendere in campo per cercare di limitare l'operato della sua piccola.
Peccato che non tutto andrà secondo i suoi piani.













Quando, mesi fa, uscì in sala Dio esiste e vive a Bruxelles, fui divorato dai dubbi che, ormai, mi assalgono nel momento in cui affronto una pellicola d'autore di quelle che, agli inizi degli Anni Zero e nel mio periodo da radical cinefilo, avrei non solo visto con hype alle stelle, ma avrei potuto acquistare in dvd anche a scatola chiusa, fiducioso solo della loro natura d'essai: dunque, nonostante ottime recensioni da parte di colleghi bloggers fidati ed una certa curiosità, ho finito per rimandare la visione settimana dopo settimana, quasi cominciando a pensare che il titolo firmato da Van Dormael si sarebbe perso nei meandri delle decine che recupero e poi, per un motivo o per un altro, restano a riposare neanche fossero whisky da invecchiamento nell'hard disk.
Non so neppure giustificare il fatto, invece, di averlo scelto quasi d'istinto nel corso di un pomeriggio che avrebbe accompagnato le mie consuete sessioni di gioco con il Fordino quando sono a casa dal lavoro, conscio della reazione che avrebbe potuto provocare in Julez, già pronta ad un insperato ed inaspettato riposino pomeridiano nel corso della visione: a prescindere, comunque, da tutto quello che avrei pensato potesse essere e quello che, di fatto, è stato, Dio esiste e vive a Bruxelles - pessimo, come al solito, l'adattamento italiano - è uno dei prodotti più sorprendenti che il Cinema europeo recente abbia potuto regalare al pubblico, sofisticato eppure non spocchioso, in grado di unire la cornice favolistica di Amelie - un film che io non ho mai particolarmente amato - alla critica spirituale di produzioni cult da queste parti come Le mele di Adamo.
Senza dubbio questa nuova interpretazione della religione e della fede non è priva di difetti, e soprattutto sulla distanza finisce per perdere qualche colpo rispetto ad un inizio davvero strepitoso, eppure, shakerando Kaurismaki ed un approccio che riesce ad essere molto credente ed altrettanto ateo, Van Dormael confeziona un esperimento clamorosamente riuscito, in grado di passare da citazioni di Van Damme pronte a conquistare senza ritegno il sottoscritto al merito assoluto di aver tenuto la signora Ford sveglia dall'inizio alla fine, strappandole addirittura un'approvazione che, in questi casi, è più unica che rara.
La rappresentazione di una "famiglia divina" quasi e più di quanto non sarebbe se fosse profondamente umana, dalla splendida Ea, una sorta di Little Miss Sunshine con poteri illimitati, al cinico e detestabile padreterno, passando attraverso un Cristo che pare uscito dal cilindro di Kevin Smith e da una "signora dio" che, chissà, forse ha pronte le cartucce migliori per quello che ci attende oltre i titoli di coda, è assolutamente azzeccata, così come il viaggio della sua piccola ribelle attraverso il nostro mondo, l'idea di sconvolgerlo comunicando a tutti la "data di scadenza" di ogni vita e la musica che non solo ci rende unici, ma anche associabili in modo unico a qualcun'altro.
Da peccatore miscredente quale sono, non avrei saputo immaginare una rivoluzione rispetto al regno di terrore di dio meglio gestita di quella che imbastisce il buon Jaco grazie alle gesta di Ea e dei suoi apostoli, in grado di trasmettere la sensazione di confortevolezza che proprio la fede dona a chi l'abbraccia - quando lo si fa in modo positivo e costruttivo, ovviamente - ma ad un tempo il bisogno di critica, la curiosità e la necessità di una rottura al cospetto di eventuali poteri superiori neanche fossimo tutti una sorta di figli adolescenti - come pare essere lo stesso Gesù, ispiratore dell'ancora più tosta e rivoluzionaria sorellina -.
In un certo senso, si potrebbe considerare questo viaggio come il lato solare, caotico e poco misurato dello strepitoso Kreuzweg visto qualche mese fa: in entrambi i casi si affronta la critica alla fede partendo da un punto di vista assolutamente credente.
Una cosa davvero non da poco, in un mondo come quello attuale, spartito tra non credenti e finti credenti.
Ed ancora più notevole perchè in grado, nel caso della pellicola austriaca come in questo, di conquistare anche chi, come gli occupanti del Saloon, con la fede c'entrano poco o nulla.





MrFord





"You can run on for a long time
run on for a long time
run on for a long time
sooner or later God'll cut you down
sooner or later God'll cut you down."
Johnny Cash - "God's gonna cut you down" - 





lunedì 11 maggio 2015

La famiglia Belier

Regia: Eric Lartigau
Origine: Francia, Belgio
Anno: 2014
Durata:
106'





La trama (con parole mie): siamo nella profonda campagna francese, in un piccolo paese dove vive la famiglia Belier, che ha il suo riferimento nella giovane Paula, sedicenne unica del suo focolare domestico a non essere sordomuta. Il rapporto con i genitori ed il fratello, sempre in bilico tra l'ironico ed il complice, è turbato da due eventi: la volontà del padre di proporsi come sindaco e dunque avviare una campagna elettorale che fa affidamento su di lei in quanto ponte di comunicazione con l'esterno, e la scoperta di Paula stessa di avere un talento vocale fuori dal comune, tale da convincere l'insegnante a capo del coro scolastico a proporle di presentarsi ad un concorso a Parigi che le garantirebbe, in caso di successo, il trasferimento nella capitale e lo studio della disciplina.
Riuscirà Paula a far coincidere i suoi impegni scolastici, i primi turbamenti d'amore, il canto ed il legame con la famiglia? 





 


Da quando sono diventato genitore, mi rendo conto che tutte le pellicole - o perlomeno, quelle ben costruite - basate sul concetto di Famiglia e sul rapporto che si costruisce giorno per giorno con i figli finiscono per colpirmi in misura molto maggiore rispetto a quanto non avrebbero fatto fino alla nascita del Fordino: senza dubbio il tema è sempre stato caro e ben visto, da queste parti, anche quando, nel pieno del mio periodo più wild, scoprii la rivelazione che fu Little Miss Sunshine, forse uno dei film cui voglio più bene della mia vita, e giurai che, un giorno o l'altro, avrei avuto - e, a dirla tutta, lo giurai con Julez quando ancora eravamo amici - la mia Olive, anche se ad oggi ha le sembianze di un affettuoso, scalmanato e già affascinato dal gentil sesso bimbo per il quale finisco per fare volentieri il giocattolo formato gigante.
La famiglia Belier, costruito con la stessa genuinità dell'appena citato road movie made in USA, giunto su questi schermi partendo svantaggiato rispetto alle aspettative della vigilia, con tutti i suoi limiti in termini di costruzione e di sceneggiatura si è rivelato una delle sorprese più piacevoli, intense e sentite di questa prima metà del duemilaquindici, finendo, lo dichiaro fin dal principio, per commuovere anche questo vecchio cowboy nel finale, costruito alla grande per colpire al cuore chiunque abbia ben presente cosa significhi avere dei figli e vederli crescere e, un giorno, lasciare il "nido" per trovare la loro strada.
A prescindere, dunque, dalle ottime trovate - bellissima l'esibizione "muta" del coro, che è riuscita a riportare il sottoscritto alle atmosfere di Quasi amici - e da un cast azzeccatissimo, da una colonna sonora che colpisce anche quando si concentra su classici della musica leggera francese - non proprio la specialità del sottoscritto - e da una sincerità di fondo che rende il lavoro di Lartigau uno dei più pane e salame delle ultime stagioni in sala, quantomeno rispetto ai titoli giunti qui nella Terra dei cachi.
La vicenda di Paula, cresciuta nel clamore silenzioso di una famiglia di sordomuti - che sarebbe assurdo definire, come il sindaco uscente ed idealmente rientrante "handicappati" - fotografata con grandissima sensibilità nella sequenza d'apertura, pietra angolare dell'economia domestica e di una comunicazione con l'esterno che vede sedersi entrambi gli interlocutori - che si parli dei Belier, o di chi si rapporta con loro -, è adolescenza positiva all'ennesima potenza, voglia di esplodere misurata - solo in parte - da una timidezza mostrata dalla postura, dall'approccio verso il mondo ed il ragazzo di cui è innamorata, di quelle cuffie rosso acceso e di una corsa che riporta alla mente l'energia e la voglia di portare a galla la propria passione che esplose ormai decenni or sono con il Cinema di Truffaut.
E se, senza dubbio, da un punto di vista puramente critico alcuni passaggi paiono creati ad hoc per alimentare la simpatia del pubblico rispetto a questa famiglia più unica che rara - la candidatura a sindaco del padre -, e finiscono con il passare dei minuti in secondo piano, nel complesso il risultato convince e coinvolge, e trova nell'esibizione di Paula per il concorso parigino uno dei momenti di Cinema più travolgenti delle ultime settimane, destinato a trasformare La famiglia Belier in un piccolo cult in grado di coinvolgere grande pubblico e specialisti del settore in egual misura.
Proprio come fu con Quasi amici.
Forse non saremo allo stesso livello, eppure Lartigau è stato in grado di portare sullo schermo uno di quei piccoli miracoli che ad una stagione di visioni fanno bene come l'aria dopo un'apnea durata sempre un minuto di troppo: e Paula, con la sua innocenza e l'ingenuità, la passione e la voglia di "volare", pare proprio frizzante come l'aria quando si riemerge dagli abissi.
E se il prezzo da pagare è qualche lacrima e sembrare meno duri, ben venga.
Da padre e da figlio, ci stanno dalla prima all'ultima.
MrFord
"Mes chers parents je pars
je vous aime mais je pars
vous n'aurez plus d'enfants, ce soir
je m'enfuis pas je vole
comprenez bien je vole
sans fume sans alcool je vole, je vole."
Michel Sardou - "Je vole" - 
 
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