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martedì 3 settembre 2019

Notte Horror 2019 Edition - La casa del diavolo



E' strano, mettersi a scrivere questo post. Per un sacco di motivi.
Senza dubbio, perchè non ricordo neppure quando è stata l'ultima volta in cui mi sono messo al servizio del blog in questo modo.
Poi perchè questo è un film che ho sempre adorato, ma che appartiene ad un'altra mia epoca, al periodo wild in cui tredici anni fa lo vidi per la prima volta. Cazzo, se sono tanti, tredici anni.
Non da ultimo il fatto che allora pensavo che Rob Zombie avrebbe avuto le carte in regola per raccogliere il testimone di Tarantino e Rodriguez, mentre ora lo considero solo un pallone gonfiato ed un regista terribile.
La casa del diavolo è cazzuto, violento e tosto come lo ricordavo.
E in grado di sfidare il pubblico. Di ribaltare le parti perchè è proprio vero che è così.
Nel corso della nostra vita, a prescindere dalle estremizzazioni cinematografiche - che poi non vanno tanto lontano dagli orrori di situazioni reali -, tutti siamo stati vittime e carnefici, abbiamo fatto soffrire e sofferto, siamo stati quelli da consolare o gli stronzi da insultare.
Il bello de La casa del diavolo, oltre al lavoro eccezionale sul concetto di Famiglia e sull'ironia che si nasconde dietro l'assurdità degli estremismi, è proprio questo.
In Natura, del resto, ogni creatura è predatore e preda, in una qualche misura: dunque nel momento in cui, per istinto, piacere o appetito, ti cibi di una creatura, è giusto in qualche modo che la memoria suoni un campanello d'allarme rispetto al fatto che potrebbe essercene un'altra, in giro, pronta a cercare proprio te.
E in un mondo costruito sulle sfumature, non esistono Bene o Male assoluti, e chi si professa portatore di uno o dell'altro, in realtà, finisce per dispensare la stessa amara medicina.
In un certo senso, rispetto ai tempi, mi sono sentito piuttosto distante, colonna sonora a parte, dal film, quasi come se avessi deciso di ascoltare un disco dei Nirvana, dei Pearl Jam, dei R.E.M. o dei Radiohead, o incontrato per caso una vecchia cotta dei tempi del liceo: un'epoca che potrebbe essere magica, mitica o qualsiasi altro aggettivo esaltante, ma ormai alle spalle.
Eppure, il lavoro di Rob Zombie è carnoso e carnale, e anche se ora non mi coinvolge più emotivamente come in quell'ottobre del duemilasei in cui lo vidi per la prima volta, nel pieno del mio periodo senza controllo, riconosco il tentativo che il regista fece, portando ad un livello decisamente superiore il precedente La casa dei mille corpi: quel finale che rievoca grandi coppie come Thelma e Louise o Butch Cassidy e Sundance Kid, poi, è ancora da pelle d'oca, legato a chiunque abbia ancora qualche sogno selvaggio e segreto che coltiva nel cassetto.
Certo, tutto questo è strano, se riferito ad un titolo che dovrebbe passare in una rassegna dedicata all'horror e ai ricordi che le carrellate estive ha sempre suscitato lo stesso, e che al massimo dovrebbe preoccuparsi di spaventi, tensione, sangue e tutto il circo che ne consegue: ma è un pò come aspettarsi divertimento assicurato da un clown.
I clown possono essere tristi, soli, inquietanti, spaventosi.
Fermarsi all'etichetta non conviene mai.
Un pò come pensare che il mondo sia tutto Bianco o Nero, Bene o Male.
Meglio essere un Free Bird, e lottare per trovare almeno una parvenza di equilibrio tra le sfumature.


MrFord


La casa del diavolo Poster

mercoledì 9 dicembre 2015

Bone Tomahawk

Regia: S. Craig Zaher
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
132'







La trama (con parole mie): siamo in un paese come gli altri lungo la grande Frontiera, quando una notte un vagabondo che in realtà cela una natura da sciacallo ed omicida giunge in un saloon dopo essere miracolosamente sfuggito all'attacco di misteriosi individui che paiono indiani a seguito di un colpo andato male.
Lo sceriffo del posto, Franklin Hunt, giunto ad indagare, alla reazione dell'uomo lo ferisce e decide di trattenerlo, chiedendo aiuto alla moglie di un cowboy che funge da medico locale quando lo stesso è troppo ubriaco per operare.
Peccato che, durante la notte, lo stalliere del paese venga ucciso brutalmente, e la donna, uno dei due vicesceriffi ed il vagabondo scompaiano, presumibilmente rapiti dagli stessi misteriosi assalitori ai quali il fuggitivo era già scampato una volta: Hunt, dunque, si trova costretto ad organizzare una spedizione verso la valle che pare essere il rifugio di una sorta di tribù di selvaggi senza alcun legame con i nativi americani, dediti al cannibalismo ed a rituali abominevoli.
A lui si aggregano il vecchio vice, il marito della donna scomparsa ed un ex soldato dai modi spicci: riusciranno a salvare i loro parenti e concittadini e riportare a casa la pelle?










Avrei dovuto sospettare fin dall'inizio, che se l'incontro tra il Western e Kurt Russell - uno dei miti acton della mia infanzia - fosse avvenuto, sarebbero stati fuochi d'artificio.
Non mi sarei mai aspettato, però, che tutto avvenisse grazie ad una produzione assolutamente di nicchia, con un regista praticamente esordiente e misconosciuto come S. Craig Zahler dietro la macchina da presa, lontani da tutti i grandi palcoscenici ma pronti a sfruttare il tam tam delle recensioni degli appassionati in rete: di fatto, è così che Bone Tomahawk è arrivato dalle parti del Saloon.
Ed è arrivato facendosi sentire come un pugno dritto alla bocca dello stomaco.
Perchè questo racconto di Frontiera non privo di difetti - se non ci fosse stato quel finale, probabilmente costruito nel caso in cui la grande distribuzione dovesse mettere gli occhi addosso al prodotto, l'impatto sarebbe stato anche maggiore - è una delle sorprese più cazzute dell'anno, quasi come se Neil Marshall avesse deciso di girare una sua versione di Dead Man, o se Gli spietati avesse incontrato il West pulp di Tarantino, che non ringrazierò mai abbastanza per aver rilanciato l'allora stantìa carriera di Russell grazie al pur non eccezionale Death proof.
Il viaggio dei quattro improbabili giustizieri Kurt Russell - che, tra le altre cose, vedremo tra non molto nell'attesissimo Hateful Eight dell'appena citato, vecchio Quentin -, Matthew Fox - che torna a ricoprire un ruolo di spessore dopo i fasti di Lost -, Patrick Wilson - sempre sottovalutato, a mio parere, e sempre valido - ed il mitico Richard Jenkins, pronti a soccorrere chi per amore, chi per dovere, chi per rigore morale i concittadini rapiti dai selvaggi si mantiene con grande equilibrio tra il Classico, la commedia nera, l'horror ed il revenge movie, pronto ad esplodere, nell'ultima parte, in un crescendo gore dall'ottimo realismo in grado di rivaleggiare perfino con giocattoloni all'apparenza scandalosi come The Green Inferno.
La Frontiera, dunque, vista come la dovevano vedere i pionieri del tempo, pronti a rischiare la vita in spazi sconfinati ed alla mercè della Natura e dell'Uomo, l'animale peggiore che possa essere immaginato libero: la civiltà, dunque, di personaggi come Samantha O'Dwyer contrapposta all'istinto puro e terribile dei selvaggi, la bassezza di Purvis e del suo compare Buddy - il Sid Haig che gli appassionati ricorderanno per i due mitici La casa dei 1000 corpi e La casa del diavolo - faccia a faccia con il senso del dovere dello Sceriffo Hunt e del suo vice, l'apparente e glaciale approccio di Brooder e quello tutto passionale di Arthur O'Dwyer.
Bone Tomahawk, dunque, nasconde molte identità nelle sue immagini, nei tempi apparentemente morti della preparazione allo scontro finale e nella crudele ineluttabilità delle sequenze più violente, da quelle mostrate a quelle lasciate fuori campo: non parliamo di una tamarrata, o di un survival senza ritegno, bensì di un cocktail ottimamente equilibrato all'interno del quale trovano spazio le riflessioni sui massimi sistemi, l'intrattenimento ed un'inquietante interrogativo a proposito di quello che noi tutti, in quanto esseri umani, portiamo dentro.
Poco importa che sia l'uomo civilizzato a tentare di dare una ragione, o quantomeno di usare la stessa per imporsi sulla violenza cieca dei selvaggi, perchè proprio la civiltà - almeno apparente - finisce per risultare la minaccia più pericolosa con la quale fare i conti: dagli sciacalli ai briganti, il sospetto che la ragione finisca per rendere anche più crudeli dell'istinto e della fame puri resta, e nonostante si tifi fino alla fine per i nostri eroi, l'idea che siano loro, in fondo, i più pericolosi del novero, finisce per radicarsi nel cuore dello spettatore anche quando lo stesso muore o esulta al loro fianco gettando una pietra lontana quasi un pericolo fosse scongiurato, e nuovi eroi consacrati alla Storia.






MrFord






"Without an answer, the thunder speaks for the sky, and on the cold, wet dirt I cry.
And on the cold, wet dirt I cry.
Don’t you wanna come with me? Don’t you wanna feel my bones
on your bones?
It's only natural."
The Killers - "Bones" - 






giovedì 2 maggio 2013

Le streghe di Salem

Regia: Rob Zombie
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 101'





La trama (con parole mie): Heidi Hawtorne è una popolare DJ di una radio di Salem, cittadina resa famosa dai processi alle streghe perpetrati dalle personalità religiose del luogo sul finire del seicento, specializzata in proposte legate a doppio filo al mondo del metal duro e puro.
Quando le viene recapitato un disco da parte di un gruppo chiamato I Signori di Salem e lo stesso viene mandato in onda, la percezione della realtà della donna è messa a dura prova da quella che pare una sorta di nuova congrega delle streghe dei tempi tornate a causa della maledizione lanciata dalla loro leader per riprendere la ricerca di un ricettacolo per la nascita del figlio del Diavolo, loro signore e padrone.
Una settimana, dunque, iniziata come tutte le altre diventerà per Heidi un incubo senza fine dal quale lei, le streghe, i suoi colleghi e la stessa Salem non potranno neppure immaginare - o sognare - di uscire.






Qui al Saloon non si è mai risparmiato un certo approccio diretto alle cose, neppure quando le conseguenze dello stesso finiscono per abbattersi sui protetti di casa Ford: proprio a questo proposito annuncio ufficialmente che Rob Zombie, musicista, regista, produttore e sceneggiatore, salito alla ribalta delle cronache legate alla settima arte con La casa dei mille corpi e La casa del diavolo, due supercult fordiani, non fa più parte della suddetta cerchia.
Anzi, come giustamente ho letto qui, purtroppo per tutti quelli che avevano gridato al miracolo ed identificato nel metallaro cineasta l'anello di congiunzione tra Rodriguez e Tarantino, l'amara verità è ormai evidente: Rob Zombie è una meteora, un fuoco di paglia, una sòla.
E Le streghe di Salem, sua ultima fatica già molto discussa in rete ed attesa da mesi dal sottoscritto, una vera merda neppure degna delle bottigliate che normalmente destino alle più cocenti delusioni cinematografiche.
Un film vuoto, privo di idee, inutilmente citazionista, attraverso il quale il bollito Rob cerca di limitare i danni mostrando le grazie della sua adorata moglie Sheri Moon Zombie - da sempre protagonista delle sue pellicole - senza neppure accorgersi non solo che non basta un culo a rendere interessante una proposta, ma anche che il tempo passa per tutti, suddetta Sheri Moon compresa, e che i fasti del già citato La casa del diavolo sono ormai un ricordo più che sbiadito, sepolti sotto una montagna di idee confuse rette - per così dire - da uno script che si avvolge su se stesso senza portare da nessuna parte - basti pensare alla gestione dei personaggi, su tutti dei DJ colleghi di Heidi, uno scempio -, un gusto kitsch che da cult, vintage e grindhouse è diventato semplicemente pacchiano, una partenza scialba senza infamia e senza lode che evolve in un crescendo finale talmente ridicolo da lasciare a bocca aperta scoprendo quanto in basso è riuscito a cadere l'ex prodigio - ma lo sarà mai stato davvero, viene da chiedersi a questo punto? - Zombie.
Curioso come, tra le righe delle recensioni più entusiastiche, si siano fatti i nomi di riferimento di Polanski e Kubrick - quest'ultimo dev'essersi rivoltato nella tomba -, mentre a voler essere generosi i richiami più evidenti paiono quelli al Lynch più visionario, anche se il risultato è ben lontano dai risultati di pietre miliari come Eraserhead, Mulholland drive o Inland empire: come se non bastasse, nel corso dell'assurda escalation finale l'impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte ad una sorta di Lars Von Trier dei poveri - e tutti voi sapete quanto detesti il pazzoide danese, o almeno le sue ultime opere - senza neppure un briciolo del talento che, indubbiamente, perfino l'insopportabile autore di Melancholia manifesta.
Un fallimento colossale, dunque, per Zombie, che produce una schifezza degna della decina dedicata al peggio di questo duemilatredici e che, a tratti, riesce addirittura ad innervosire facendo leva - senza sfruttare per nulla la componente dell'ironia, come se non bastasse - su tutti i luoghi comuni che una qualsiasi zitella inacidita da mezzi pubblici potrebbe sciorinare a proposito dei cosiddetti "metallari", dal gusto per la musica estrema e "il lato oscuro" alla violenza, passando attraverso satanismo ed affini: curioso che sia proprio un figlio del metal come il vecchio Rob, dunque, a fornire un ritratto che andrebbe a nozze con le critiche normalmente rivolte - senza fondamento alcuno - ai fan del genere, che spesso e volentieri si rivela inutilmente blasfemo - e parlo da anticlericale fino al midollo - ed assolutamente privo non solo di logica, ma anche del senso che potrebbe avere un semplice divertissement - il delirio dell'epilogo e la terrificante immagine di Heidi a giocare al parco con il cane che chiude la pellicola ne sono la testimonianza -.
Perchè la cosa grave di questo Le streghe di Salem è che Zombie crede davvero di aver portato sullo schermo una sorta di nuovo cult del genere, almeno quanto le sue streghe impazzite nell'avvento del figlio di Satana. Forse la questione è che da queste parti affrontare il discorso della Fede è materia solo per chi lo sa davvero gestire, da una parte o dall'altra della barricata, e gli atti legati ad Essa non sono gesti cui questo vecchio cowboy è avvezzo.
O forse, molto più semplicemente, questo film è inesorabilmente, assurdamente brutto, e cosa ancora peggiore privo di un capo e di una coda, quasi volesse sottovalutare l'intelletto del pubblico propinando un trip neanche fosse un lavoro fresco fresco dello Jodorowski migliore - ma anche in questo caso siamo su un altro pianeta - nascondendo una povertà di idee e scrittura come non ne capitavano da tempo: spesso ci si trova di incrociare il cammino di titoli che non meriterebbero di essere distribuiti, palesemente limitati sotto tutti gli aspetti, ma peggio di questi ultimi sono senza dubbio i lavori di registi spocchiosi convinti di regalare all'arte qualcosa di unico, potente e geniale, quando invece l'unica traccia di magia cinematografica si perde nel murale in testata al letto di Heidi, che raffigura uno dei fotogrammi più famosi de Il viaggio nella Luna di Melies: questo sì, davvero un Capolavoro.
Attorno, resta solo l'orrore.
E non nell'accezione di genere.


MrFord


"I'm waiting for your call and i'm ready to take 
your six six six in my heart
I'm longing for your touch and i welcome 
your sweet six six six in my heart."
H.I.M. - "Your sweet 666" -


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