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martedì 2 febbraio 2016

The Vatican Tapes

Regia: Mark Neveldine
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 91'






La trama (con parole mie): Angela, giovane figlia di un pilota ex militare tutto d'un pezzo in procinto di sposarsi con il fidanzato Pete, a seguito di una banale ferita comincia a manifestare cambiamenti d'umore e problemi fisici che culminano con un coma che la porta ad un passo dalla morte.
Proprio quando le speranze paiono aver abbandonato i cari della ragazza, questa ha un miracoloso recupero delle sue facoltà fisiche e mentali: il ritorno alla vita di Angela, però, pare celare qualcosa di terribile.
La giovane, infatti, è in realtà posseduta da un'entità demoniaca ancestrale che, dopo aver turbato il cappellano dell'ospedale, Padre Lozano, attira l'attenzione del Vaticano, che invia uno dei suoi più importanti esorcisti in modo che possa eliminare la minaccia e salvare la sua anima sempre più in pericolo.
Come finirà il duello tra l'uomo della Chiesa e l'emissario del Diavolo?









Sono costretto ad ammetterlo: a volte, le grane cinematografiche finisco davvero per andarmele a cercare.
Del resto, se non ci fosse il peggio non ci sarebbe il meglio, e quando in alcune serate finiamo per essere troppo stanchi o troppo presi da altro per sfruttare la concentrazione delle grandi occasioni, pellicole come The Vatican Tapes finiscono per essere quasi perfette.
Quasi, perchè dal lavoro di Neveldine, in tutta onestà, mi aspettavo molto di più: del resto, il regista dei due Crank e del tamarrissimo e divertentissimo secondo Ghost Rider - e, certo, anche di quell'inenarrabile schifezza di Gamer - si è ormai costruito una discreta fama di uomo dietro la macchina da presa sopra le righe ed eccessivo nel senso buono del termine, e dunque da lui una cosa anonima, già vista ed inconcludente come questa finisce per apparire perfino peggiore di quanto già non sia.
Un vero peccato, perchè nonostante sia un genere assolutamente inflazionato, quello delle possessioni è un bacino inquietante il giusto dal quale attingere per poter regalare al pubblico un horror quantomeno divertente, e non basta un finale aperto quanto inutile per risollevare le sorti di un prodotto che non solo non spaventa, ma si presenta talmente uguale a tanti altri da far perdere qualsiasi interesse dello spettatore che non sia legato agli argomenti molto interessanti della protagonista Olivia Taylor Dudley, che, per dirla come Fabri Fibra, con le sue "bombe" quantomeno allieta una visione che, altrimenti, neppure un minutaggio decisamente abbordabile avrebbe facilitato.
Resta la curiosità a proposito di quanto, nel corso dei secoli, la Chiesa abbia marciato oppure no sull'influenza che il Diavolo o chi per lui hanno finito per avere in casi che, a mente fredda, paiono più associabili a forme molto gravi di schizofrenia che non a veri e propri atti di guerra del vecchio Satana - che poi, per quale motivo dovrebbe perdere tempo ed energie per possedere poveri cristi che non hanno alcuna influenza o potere nel mondo, invece, chessò, del Papa stesso!? - ed il pensiero che, come ogni cosa sovrannaturale, qualcosa di vero possa perfino esserci, da qualche parte.
La cosa grave, però, è che le suddette curiosità e riflessioni non vengono stimolate da un film come questo, davvero troppo esile non solo per intrattenere, ma anche e soprattutto per regalare un qualche spunto che vada oltre il suo svolgimento: dispiace, in questo senso, vedere caratteristi come Michael Pena o Djimon Hounsou sprecati almeno quanto il regista, che ha avuto come unica, grande intuizione quella di mettere spesso e volentieri le tette della Dudley in primo piano.
Ed anche in questo caso, si tratta di tutto tranne che di horror.





MrFord





"I'll take your breath away
and after, I'd wipe away the tears
just close your eyes dear
through this world I've stumbled
so many times betrayed
trying to find an honest word to find
the truth enslaved."
Sarah McLachlan - "Possession" - 






domenica 15 febbraio 2015

At the devil's door

Regia: Nicholas McCarthy
Origine: USA
Anno: 2014
Durata:
91'





La trama (con parole mie): Leigh, una giovane agente immobiliare, si assume l'incarico della vendita di una casa pignorata appartenente ad una coppia che ha visto scomparire l'unica figlia, fuggita con un uomo. Quando, ispezionando le stanze della casa, la futura venditrice si imbatte in una ragazza sfuggente e silenziosa, pensa sia proprio la figlia degli ormai ex proprietari dell'immobile: peccato per lei che, invece, la misteriosa adolescente sia l'emanazione di un'altra vecchia abitante di quelle mura, morta suicida negli anni ottanta dopo aver deciso, per amore, di vendere l'anima ad un demone con un rito che appariva solamente un gioco improvvisato.
Quando l'oscura presenza scopre l'esistenza della sorella di Leigh, Vera, decide che sarà proprio quest'ultima a fungere da cardine per il suo legame con questo mondo: toccherà dunque proprio a Vera cercare non solo di portare a casa la propria pelle, ma anche cercare di capire come gestire il demone.








L'horror è un genere ormai bistrattato dai suoi stessi autori, protagonista di una clamorosa discesa negli abissi della scarsa qualità da fare quasi invidia al percorso che sta portando ad una sempre più consistente involuzione il Cinema italiano: da tempo, infatti, direi che anche qui al Saloon, quando si parla dei cari, vecchi, film di paura, si finisce per incontrare qualcosa di interessante più o meno una volta ogni dieci, quando va bene.
Il resto, se non facilmente dimenticabile, si rivela di norma una vera, propria e sonora schifezza.
Si avvicinava il passato Halloween quando decisi di recuperare, tempistiche permettendo, At the devil's door, ultimo lavoro di Nicholas McCarthy, autore già noto per The pact - che presto farà capolino da queste parti - e considerato come uno dei meno peggio nella schiera dei paladini dell'horror americano attuale: in realtà i piani originali prevedevano che recuperassi questo titolo e lo recensissi proprio per la notte delle streghe, mentre ha finito per arrivare in casa Ford in tempo per il Giorno del Ringraziamento, e alla pubblicazione per Carnevale.
Curioso, e quasi lostiano, che insieme a Kristy - ambientato proprio a Thanksgiving -, At the devil's door abbia rappresentato uno dei titoli di genere più interessanti che mi sia capitato di visionare negli ultimi mesi: senza dubbio non parliamo di qualcosa di nuovo o innovativo - del resto, l'argomento possessioni e l'utilizzo dei demoni sono ormai ampiamente inflazionati -, quanto di una pellicola forse appena discreta interpretata da attori non di prim'ordine - il volto più noto è quello di Naya Rivera, una delle prime protagoniste di Glee -, di fatto molto derivativa, eppure per la sua ora e mezza scarsa in grado di intrattenere come si conviene riuscendo al contempo nella non facile impresa di azzeccare il cambio di rotta posto indicativamente attorno alla metà - corrispondente al passaggio dell'attenzione del demone da Leigh a sua sorella - ed un finale non scontato come si potrebbe supporre considerata l'evoluzione dei rapporti tra i gli abitanti degli Inferi ed i comuni mortali in queste occasioni.
Un plauso al regista andrebbe fatto, inoltre, per la scelta - coraggiosa, considerati quelli che sono gli standard di questo tipo di prodotti - di evitare di portare sullo schermo il classico scontro finale tra la protagonista e l'entità malvagia, che resta visivamente in ombra quanto basta per essere inquietante senza strafare e ricordare più l'oppressività del primo Alien che non le recenti sbrodolatone da wannabe salto sulla sedia incapaci di spaventare perfino volendo scegliere di farsi terrorizzare.
A questo si aggiungano la già citata chiusura ed un piglio molto sincero nel modo di raccontare di McCarthy, ed il risultato è un titolo che, per quanto limitato, riesce ad assolvere al suo compito di strumento di intrattenimento pur non raggiungendo livelli di inquietudine come quelli di Lake Mungo.
E' dunque giunto finalmente il momento, per l'horror, di cominciare a vedere la luce in fondo al tunnel grazie agli sforzi di registi saliti agli onori della cronaca - pur se di nicchia - partendo dal basso? 
Forse è ancora presto per dirlo, ma esperimenti come At the devil's door hanno il merito di portare all'attenzione di noi avidi divoratori di settima arte nomi nuovi ed un respiro che è fondamentale per questo tanto bistrattato genere, in modo da guardare al futuro con almeno un minimo di speranza.
E se, per il momento, non sarà propriamente il Diavolo in persona a bussare alla nostra porta, faremo di necessità virtù nell'attesa che i grossi calibri si facciano sentire, e che i McCarthy di oggi possano porre le basi per le pietre miliari di domani.
Anche perchè, se dovessimo continuare con il presente dell'horror, entro una decina d'anni non basteranno neppure più i Rosemary's baby, a salvarci dalle visioni maligne.




MrFord




"I'm only lonely when the music's over
lonely when you're going home
we don't celebrate Sundays anymore
(we don't celebrate Sundays)
my good church is not open on Sundays
(we don't celebrate Sundays)."
Hardcore Superstar - "We don't celebrate Sundays" - 





mercoledì 4 giugno 2014

La stirpe del male - Devil's due

Regia: Matt Bellinelli-Olpin, Tyler Gillet
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 89'




La trama (con parole mie): Zach e Samantha, novelli sposi innamorati ed ansiosi di godersi la vita insieme, dopo una notte decisamente strana in un locale altrettanto particolare a Santo Domingo, fanno ritorno a casa senza sapere che la ragazza, rimasta incinta, porta in grembo uno dei profetizzati portatori dei geni dell'anticristo. La passione per i filmini amatoriali di Zach diviene quindi un veicolo per testimoniare il progressivo cambiamento della giovane, resa sempre più aggressiva ed in grado di compiere imprese e gesti spaventosi con il passare dei mesi.
Cosa accadrà, dunque, alla coppia e al loro bambino? Riusciranno a sopravvivere e venire a capo del mistero?







Fin dai tempi di Blair Witch Project, il mockumentary rappresenta un campo minato ed una tentazione decisamente irresistibile per i registi legati all'horror, nonostante la Storia abbia di fatto mostrato quanto poco convenga, di norma, avventurarsi in un terreno così sconnesso: fatta eccezione, infatti, per poche chicche da ricordare - Lake Mungo, The Troll Hunter - il genere ha riservato al pubblico quasi esclusivamente schifezze inenarrabili, che periodicamente tornano a rinfoltire le fila dei Ford Awards dedicati al peggio dell'anno.
Di recente era rientrato pienamente nel novero Il segnato, innocuo quanto inutile lavoro pronto a proseguire nella tradizione dei b-movies horror basati sul found footage che tanto ha imperversato nel corso delle ultime stagioni, incapace addirittura di scomodare le bottigliate delle grandi occasioni: della stessa pasta è fatto questo La stirpe del male, ennesima escursione nei territori delle possessioni demoniache e delle atmosfere apocalittico/religiose originate da veri Capolavori come Rosemary's baby e L'esorcista.
Senza dare neppure troppo peso alla trama risibile ed alla sua stessa evoluzione, o fare considerazioni sul protagonista Zach Gilford, passato dall'essere uno dei volti della splendida Friday night lights a questa roba, la visione scorre senza pretesa alcuna ed anche piuttosto in fretta, limitando i danni almeno quanto gli spaventi, ormai merce più unica che rara perfino nelle pellicole che, almeno sulla carta o stando all'opinione dei distributori, dovrebbero lasciare senza fiato ben oltre il termine della visione.
Un filmetto innocuo, in definitiva, che mescola i classici luoghi comuni che ci si aspetterebbero da una proposta di questo tipo - i Caraibi come luogo di mistero e perdizione maligna, gli incontrollabili scatti d'ira e le pause inquietanti tipiche delle possessioni, l'escalation che porta dal quotidiano leggermente intaccato ad un vero e proprio bagno di sangue - al tentativo di far assaporare al pubblico - specie quello più giovane - il terrore che ormai decenni fa dispensavano calibri nettamente superiori trattando la stessa materia.
Ora, non so se i ragazzini di oggi - decisamente più smart di quanto non potessimo essere già noi, figurarsi i nostri genitori - possano essere davvero sconvolti da versioni collaterali di Paranormal activity come questa, ma se davvero una porcheruola come il lavoro di Bellinelli-Oplin e Gillet riesce nell'intento di scatenare il panico in una platea attuale direi proprio che il futuro del genere naviga in acque decisamente agitate, con il rischio concreto di inabissarsi in wannabe movies insipidi dall'impatto pressochè nullo. Almeno se confrontati con l'old school dell'orrore.
Tutto questo senza contare che, quando da una visione si riesce a cavare così poco da faticare a trovare un qualche argomento per scrivere un post decente e non in formato tweet, le cose non si mettono troppo bene: a suo favore questo Devil's due ha giusto l'avversione della protagonista per i prelati - posizione che non mi sento di non condividere - ed una sorta di ingenuità quasi naif di fondo, legata principalmente alla qualità più che bassa non solo del prodotto finito, ma anche, di fatto, dello spessore dei suoi artefici.
Resta il mistero legato al fatto che proposte clamorosamente superiori ed interessanti fatichino a trovare una collocazione all'interno del mondo della grande distribuzione e robaccia di questo genere occupi uno spazio decisamente importante in sala: se fosse il Saloon a gestire queste faccende, difficilmente Devil's due avrebbe raggiunto un pubblico superiore a quello dei due registi con i loro amici e parenti.
Ma chissà, forse la stirpe del male è già tra noi.



MrFord



"It's a new breed
a new breed of evil
conceived in the moonlight
breathing fire."
Farmer boys - "A new breed of evil" -




giovedì 2 maggio 2013

Le streghe di Salem

Regia: Rob Zombie
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 101'





La trama (con parole mie): Heidi Hawtorne è una popolare DJ di una radio di Salem, cittadina resa famosa dai processi alle streghe perpetrati dalle personalità religiose del luogo sul finire del seicento, specializzata in proposte legate a doppio filo al mondo del metal duro e puro.
Quando le viene recapitato un disco da parte di un gruppo chiamato I Signori di Salem e lo stesso viene mandato in onda, la percezione della realtà della donna è messa a dura prova da quella che pare una sorta di nuova congrega delle streghe dei tempi tornate a causa della maledizione lanciata dalla loro leader per riprendere la ricerca di un ricettacolo per la nascita del figlio del Diavolo, loro signore e padrone.
Una settimana, dunque, iniziata come tutte le altre diventerà per Heidi un incubo senza fine dal quale lei, le streghe, i suoi colleghi e la stessa Salem non potranno neppure immaginare - o sognare - di uscire.






Qui al Saloon non si è mai risparmiato un certo approccio diretto alle cose, neppure quando le conseguenze dello stesso finiscono per abbattersi sui protetti di casa Ford: proprio a questo proposito annuncio ufficialmente che Rob Zombie, musicista, regista, produttore e sceneggiatore, salito alla ribalta delle cronache legate alla settima arte con La casa dei mille corpi e La casa del diavolo, due supercult fordiani, non fa più parte della suddetta cerchia.
Anzi, come giustamente ho letto qui, purtroppo per tutti quelli che avevano gridato al miracolo ed identificato nel metallaro cineasta l'anello di congiunzione tra Rodriguez e Tarantino, l'amara verità è ormai evidente: Rob Zombie è una meteora, un fuoco di paglia, una sòla.
E Le streghe di Salem, sua ultima fatica già molto discussa in rete ed attesa da mesi dal sottoscritto, una vera merda neppure degna delle bottigliate che normalmente destino alle più cocenti delusioni cinematografiche.
Un film vuoto, privo di idee, inutilmente citazionista, attraverso il quale il bollito Rob cerca di limitare i danni mostrando le grazie della sua adorata moglie Sheri Moon Zombie - da sempre protagonista delle sue pellicole - senza neppure accorgersi non solo che non basta un culo a rendere interessante una proposta, ma anche che il tempo passa per tutti, suddetta Sheri Moon compresa, e che i fasti del già citato La casa del diavolo sono ormai un ricordo più che sbiadito, sepolti sotto una montagna di idee confuse rette - per così dire - da uno script che si avvolge su se stesso senza portare da nessuna parte - basti pensare alla gestione dei personaggi, su tutti dei DJ colleghi di Heidi, uno scempio -, un gusto kitsch che da cult, vintage e grindhouse è diventato semplicemente pacchiano, una partenza scialba senza infamia e senza lode che evolve in un crescendo finale talmente ridicolo da lasciare a bocca aperta scoprendo quanto in basso è riuscito a cadere l'ex prodigio - ma lo sarà mai stato davvero, viene da chiedersi a questo punto? - Zombie.
Curioso come, tra le righe delle recensioni più entusiastiche, si siano fatti i nomi di riferimento di Polanski e Kubrick - quest'ultimo dev'essersi rivoltato nella tomba -, mentre a voler essere generosi i richiami più evidenti paiono quelli al Lynch più visionario, anche se il risultato è ben lontano dai risultati di pietre miliari come Eraserhead, Mulholland drive o Inland empire: come se non bastasse, nel corso dell'assurda escalation finale l'impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte ad una sorta di Lars Von Trier dei poveri - e tutti voi sapete quanto detesti il pazzoide danese, o almeno le sue ultime opere - senza neppure un briciolo del talento che, indubbiamente, perfino l'insopportabile autore di Melancholia manifesta.
Un fallimento colossale, dunque, per Zombie, che produce una schifezza degna della decina dedicata al peggio di questo duemilatredici e che, a tratti, riesce addirittura ad innervosire facendo leva - senza sfruttare per nulla la componente dell'ironia, come se non bastasse - su tutti i luoghi comuni che una qualsiasi zitella inacidita da mezzi pubblici potrebbe sciorinare a proposito dei cosiddetti "metallari", dal gusto per la musica estrema e "il lato oscuro" alla violenza, passando attraverso satanismo ed affini: curioso che sia proprio un figlio del metal come il vecchio Rob, dunque, a fornire un ritratto che andrebbe a nozze con le critiche normalmente rivolte - senza fondamento alcuno - ai fan del genere, che spesso e volentieri si rivela inutilmente blasfemo - e parlo da anticlericale fino al midollo - ed assolutamente privo non solo di logica, ma anche del senso che potrebbe avere un semplice divertissement - il delirio dell'epilogo e la terrificante immagine di Heidi a giocare al parco con il cane che chiude la pellicola ne sono la testimonianza -.
Perchè la cosa grave di questo Le streghe di Salem è che Zombie crede davvero di aver portato sullo schermo una sorta di nuovo cult del genere, almeno quanto le sue streghe impazzite nell'avvento del figlio di Satana. Forse la questione è che da queste parti affrontare il discorso della Fede è materia solo per chi lo sa davvero gestire, da una parte o dall'altra della barricata, e gli atti legati ad Essa non sono gesti cui questo vecchio cowboy è avvezzo.
O forse, molto più semplicemente, questo film è inesorabilmente, assurdamente brutto, e cosa ancora peggiore privo di un capo e di una coda, quasi volesse sottovalutare l'intelletto del pubblico propinando un trip neanche fosse un lavoro fresco fresco dello Jodorowski migliore - ma anche in questo caso siamo su un altro pianeta - nascondendo una povertà di idee e scrittura come non ne capitavano da tempo: spesso ci si trova di incrociare il cammino di titoli che non meriterebbero di essere distribuiti, palesemente limitati sotto tutti gli aspetti, ma peggio di questi ultimi sono senza dubbio i lavori di registi spocchiosi convinti di regalare all'arte qualcosa di unico, potente e geniale, quando invece l'unica traccia di magia cinematografica si perde nel murale in testata al letto di Heidi, che raffigura uno dei fotogrammi più famosi de Il viaggio nella Luna di Melies: questo sì, davvero un Capolavoro.
Attorno, resta solo l'orrore.
E non nell'accezione di genere.


MrFord


"I'm waiting for your call and i'm ready to take 
your six six six in my heart
I'm longing for your touch and i welcome 
your sweet six six six in my heart."
H.I.M. - "Your sweet 666" -


giovedì 29 marzo 2012

L'altra faccia del diavolo

 Regia: William Brent Bell
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 83'


La trama (con parole mie): Maria Rossi, una gentile signora con un cuore grande così, nel pieno degli anni ottanta decide di lanciarsi nella sua personale versione de L'esorcista e fa fuori i rappresentanti della Chiesa giunti a salvarla dal Demonio o chi per lui, prima di essere rinchiusa in un manicomio a Roma.
Quasi un ventennio dopo la figlia Isabella, curiosa di scoprire se davvero dietro le azioni della madre si celi una possessione demoniaca, decide di girare un documentario che la segua nel corso del suo viaggio in Italia ed il tentativo di salvare la stessa genitrice orchestrato da due esorcisti conosciuti ad un corso di specializzazione gentilmente offerto dal Vaticano.
Le cose non andranno proprio a gonfie vele.
In fondo, la giovane donna non può saperne una più del Diavolo.




Occorre ammetterlo: tutte le questioni riguardanti l'aldilà, che siano frutto di rapimenti alieni, possessioni demoniache o presunte tali, affascinano sempre noi poveri stronzi abituati a camminare sulla Terra e ben consapevoli che probabilmente il tutto non sia originato se non da massicce dosi di suggestioni, deliri e superstizioni, e che la realtà, per quanto enorme e ancora quasi interamente da scoprire non riservi nulla che trascenda il grande ciclo della vita e della morte regolato dalla Natura.
Immagino che questa a tratti insana fascinazione sia legata alla necessità di credere che tutto non sia soltanto qui, e che esista un "dopo" che ci permetta di darci un pò di tempo più di quello che abbiamo: dal punto di vista cinematografico, dato che la questione della Fede tira fino ad un certo punto - e posso capirlo -, spesso e volentieri ci si è concentrati sulla materia opposta, ovvero sul ruolo che il Diavolo - imprevedibile e zuzzurellone antagonista del Capo - potrebbe avere nelle povere e scombinate esistenze di noi mortali.
Dai tempi de L'esorcista - un prodotto con i controfiocchi ancora in grado di inquietare - e Rosemary's baby - uno dei vertici del Cinema di Polanski -, la qualità dei titoli legati all'argomento è drasticamente calata, passando dal gigionismo de L'avvocato del diavolo - comunque ancora passabile - per finire a sottoprodotti come Paranormal activity e questo L'altra faccia del diavolo, decisamente al di sotto della soglia di guardia minima che dovrebbero mantenere le sale in tutto il mondo.
Certo, come può testimoniare anche Julez, colpita da sonno fulminante nel corso della visione, la mia definizione di "mezza merdina" utilizzata per il riassunto del "day after" non condanna in toto il lavoro di William Brent Bell, sicuramente uno dei più brutti film di questo 2012, principalmente perchè a proposito dello stesso non avevo alcuna aspettativa superiore rispetto a quello che, alla fine, si è rivelato essere: un raffazzonato collage dal montaggio pessimo poggiato su uno script degno di un telefilm tedesco e tutto giocato sull'ormai rischiosissimo format del mockumentary, che dagli anni novanta in poi è riuscito a regalare al pubblico una serie di schifezze monumentali da record alternate solo di tanto in tanto da pellicole effettivamente meritevoli - come fu per l'ottimo The Troll hunter -.
Se non altro, la brevissima durata e gli innocui e completamente amatoriali tentativi di stupire e spaventare il pubblico rendono la visione certamente rapida e quasi indolore, di quelle giuste per una serata a zero neuroni o per una sbronza pesante utile a dimenticare una giornata eccessivamente pesante, in qualsiasi ambito sia.
Peccato, invece, per il fascino del Diavolo - che certamente resta uno dei cardini più interessanti dell'horror -, ultimamente a rischio di estinzione neanche fosse una specie protetta, continuamente bistrattato da registi che dovrebbero stare inequivocabilmente lontani dalla macchina da presa: resto convinto che, in questi anni zero, le espressioni più agghiaccianti di un potenziale ruolo del "Maligno" siano senza dubbio quelle di Elephant o Capturing the Friedmans, o gli scenari più agghiaccianti mostrati da documentari come Workingman's death o L'incubo di Darwin.
Peccato che, a ben vedere, tutto il peggio e l'Orrore - per dirla come Coppola - presenti da queste parti non abbiano davvero nulla di sovrannaturale, ma siano di fatto il ritratto della creatura più pericolosa al momento in giro sulla Terra.
Avete indovinato: siamo proprio noi.


MrFord


"The devil inside
the devil inside
every single one of us
the devil inside
the devil inside
the devil inside
every single one of us
the devil inside."
Inxs - "Devil inside" -


 

giovedì 1 marzo 2012

Faust

Regia: Alexandr Sokurov
Origine: Russia
Anno: 2011
Durata: 134'
 
La trama (con parole mie): Heinrich Faust ha studiato per tutta la vita, sviluppando un sapere che molti uomini invidierebbero. Eppure, tra una discussione di astronomia ed una dissezione di cadavere, pare non riuscire a cogliere il segreto dell'anima.
Così, peregrinando da un assistente troppo presente ad un padre completamente distante, l'uomo decide di approcciare il gestore del banco dei pegni, un vecchio dall'aspetto deforme che si dice in giro possa essere niente meno che il Diavolo.
Inizia in quel momento per lui un viaggio alla ricerca di risposte che lo condurranno al solo luogo in cui un uomo pare riuscire a trovarne, e comprendere - o almeno tentare di farlo - se stesso: il sesso di una donna.





Mi associo - e ben volentieri, cosa più unica che rara - a quello che disse il Cannibale in proposito: diffidate da chi spaccia il Faust di Sokurov per un film metafisico, mosso da chissà quale spirito religioso o mistico, ultraterreno o quant'altro.
Il Faust di Sokurov è qualcosa di estremamente fisico, concreto, sporco e clamorosamente terra terra.
E' un film denso come il fango dopo un temporale, un insieme di sabbie mobili all'interno del quale è difficile muoversi, e dal quale è difficile uscire.
Un'opera che richiede tempo perchè possa essere compresa, affrontata, depositata sul fondo delle nostre miserie e rielaborata come si converrebbe.
Il Faust di Sokurov è erede della tradizione russa di Dostoevskij e Tarkovskij, passa dall'epopea dei poveri di Raskolnikov al viaggio sfiancante di Stalker, senza dimenticare i riferimenti all'Uomo della parte più terrena di quello che ritengo il film più impegnativo - potete leggerlo anche come "pesante", se vorrete - che abbia mai visto: Andreij Rublev, firmato dallo stesso Tarkovskij.
E' una pellicola che mi guarderò bene dal rivedere almeno per qualche anno, e che resterà lì, nella mia videoteca, in attesa che io sia abbastanza in forze per tornare a confrontarmici, con il suo incedere che richiede attenzione o ispirazione fulminante, il suo inizio che pare sospeso, lontano dal realismo di potenza di Alexandra, lavoro precedente di quello che continuo a considerare come uno dei più grandi geni - almeno visivamente parlando - ancora viventi della settima arte.
Eppure c'è qualcosa, nascosto tra le righe di questo Faust: qualcosa che va ben oltre il suo protagonista, che riporta tutti noi ad una dimensione clamorosamente umana e che - questo è il bello, o il terrificante - non può e non potrà mai essere imputata al Diavolo di turno, per quanto repellente, disgustoso, provocatorio o ingannatore potrà essere.
Perchè non esiste sapere, coscienza, saggezza che non comprenda o sappia nascondere la forza del desiderio, l'impulso che ci rende umani e vivi, la voglia incontrastata di quel brivido che ha sempre mosso il mondo, da una metà all'altra del suo cielo.
Il Faust di Sokurov non è quello di Goethe, quanto quello di Dostoevskij, che dei peccati di cui ogni giorno ci macchiamo si fece carico come fosse un De Andrè dei tempi, e costruì tutta la sua opera sul ritratto umano che dalle strade che rendiamo pulsanti mostrava il fianco alle interpretazioni filosofiche sul perchè fossimo animali così biechi eppure così clamorosamente sospinti verso un confine da superare.
Questo, in sostanza, è il fulcro di un film difficile ed ostico, non lento quanto a tratti estemporaneo e grottesco, terreno all'inverosimile, sporco e poco comprensibile: l'andare oltre.
Perchè andare oltre è una delle nostre principali caratteristiche, un nostro limite ed il nostro più grande pregio.
Ma non è niente che passi dalla religione o dai massimi sistemi: per un uomo come Faust, in un mondo affetto da ogni male possibile, con il Diavolo accanto ed un confine che preme, l'ago della bilancia diviene il calore del sesso di una giovane donna in grado di sconvolgerlo nel profondo, tanto da indurlo a lasciarsi alle spalle ogni materia ultraterrena, ed il confine stesso che pensava fosse così insuperabile.
E' attorno a quello, che si gioca la partita più importante di un uomo.
E' attorno a quello, che si trova la forza di valicare quel confine.
O valicare e basta.
E' attorno a quello che l'omicidio, il sapere, le convenzioni, la verità e la menzogna perdono ogni significato. O lo acquistano.
E' attorno a quello che si gioca tutto.
Sokurov questo lo sa bene, tanto da associare a questo suo Faust le figure di potere che aveva umanizzato, sensibilizzato, demolito con Taurus, Moloch e Il Sole.
Poco importa che lo faccia attraverso mezzi tecnici come al solito straordinari.
Perchè quei mezzi sono solo un contorno.
Non per nulla Alexandra, sua prima opera dedicata quasi esclusivamente ad una protagonista femminile, non ha avuto bisogno di lenti deformanti o artefatti stilistici.
Faust è un film sull'Uomo.
Che quando gioca sul terreno che porta tra le gambe di una Donna, è in grado di superare ogni confine.
E chissà che il Diavolo, questo, non lo sapesse già.
Dopo tutto, è finito sotto un cumulo di pietre.
Neanche fossimo tornati indietro di millenni, a chiedere che ci si possa guardare negli occhi senza che un sesso chieda alcun tributo all'altro.


MrFord


"E a te, che cercavi il motivo
d'un inganno inespresso dal volto,
lei propose l'inquieto ricordo
fra i resti d'un sogno raccolto."
Fabrizio De Andrè - "Il ritorno di Giuseppe" -



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