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martedì 10 maggio 2016

Regression

Regia: Alejandro Amenabar
Origine: Spagna, Canada
Anno: 2015
Durata: 106'






La trama (con parole mie): siamo agli inizi degli anni novanta in una cittadina americana come tante altre, quando il detective Bruce Kenner è incaricato di indagare a proposito delle violenze subite dalla giovane Angela Gray, pronta a rifugiarsi nella parrocchia locale a seguito della denuncia all'indirizzo del padre, che pare essere impazzito dopo la morte della moglie, la dipendenza dall'alcool e la fuga da casa del figlio maschio, tanto da legarsi ad una setta che pratica l'adorazione di Satana.
Kenner, affiancato dallo psicologo Kenneth Raines, ripercorre le tappe che hanno condotto Angela sull'orlo della follia a causa di suo padre e degli adepti della setta, cercando di consegnare alla giustizia tutti i colpevoli: ma le cose sono davvero come sembrano?
E quanto ampia è l'influenza della setta?












Ho sempre considerato Amenabar un fuoco di paglia, un mestierante onesto ma, rispetto a tanti altri, decisamente mediocre, fin dai tempi dei suoi esordi.
Ricordo bene l'entusiasmo di parecchi amici all'uscita di The others - forse, ad oggi, il suo lavoro meglio riuscito -, palesemente ispirato dal precedente Il sesto senso e già allora, almeno per quanto mi riguarda, molto meno sconvolgente di quanto non potesse apparire ad una prima occhiata, la successiva smitizzazione di Mare dentro, titolo eccessivamente celebrato anche dal pubblico americano, la quasi totale bocciatura di Aghora, fino ad arrivare al qui presente Regression, spesso e volentieri massacrato da una critica che pare ormai giunta alla conclusione che il suddetto Amenabar, in realtà, non sia altro che un nome come ce ne sono a mazzi nel giro che conta della settima arte.
Ebbene, devo essere onesto: Regression è un film sostanzialmente inutile, comprensibile quasi dal principio e decisamente poco inquietante o sorprendente, recitato tendenzialmente male da tutti i protagonisti e poco accattivante, eppure mi è parso decisamente meno peggio rispetto a quanto mi aspettassi sia dal suo regista ed autore che dalle recensioni che mi era capitato di leggere in precedenza in rete e non solo.
Neanche fossi tornato di colpo adolescente nel pieno degli anni novanta in un pomeriggio piovoso di autunno inoltrato, Regression ha avuto se non altro il merito di rendere una cornice di quel genere, lontana da classici legati alle possessioni ed al satanismo come Rosemary's baby ma neppure così scarso da far incazzare o pensare di essere di fronte ad uno dei titoli peggiori dell'anno: la vicenda è scritta e portata avanti da Amenabar in modo piuttosto prevedibile e decisamente poco inquietante, eppure, a conti fatti, fotografa discretamente bene la necessità ed il disagio che muovono alcune persone e non pesa particolarmente in termini di tenuta, ritmo e durata.
Non voglio però neppure apparire troppo buono rispetto ad un prodotto che, considerati i protagonisti e la campagna pubblicitaria che quasi ne parlava come fosse una sorta di moderno L'esorcista, risulta davvero essere poca cosa, o più che altro un titolo assolutamente dimenticabile pronto a finire in quell'archivio dalle parti "dei missili Stinger" destinato al cestino della memoria in tempi piuttosto brevi: del resto, scrivo questa recensione a tre giorni dalla visione ed effettivamente ricordo poco, almeno quanto del famigerato e tanto chiacchierato pseudo nudo di Emma Watson, che altro non si rivela se non un fotogramma di spalle probabilmente figlio di una controfigura pronta gentilmente ad offrire il suo culo all'obiettivo in modo da permettere all'ex Hermione di fregiarsi di titoli che, almeno fino a prova contraria, non le competono.
Prova evidente dell'incapacità di "possedere" lo spettatore di questo prodotto è il fatto che la difficoltà di scrivere un post in merito sia decisamente più alta rispetto ad altri pronti ad uscire quasi senza che debba muovere le mani sulla tastiera nella metà del tempo pur prendendo il doppio dello spazio: fondamentalmente, quello che vi dovete aspettare è un film artigianale inserito nella perfetta media dei titoli di cassetta buono giusto per occupare un'ora e tre quarti senza colpo ferire, che probabilmente sorprenderà non tanto i non avvezzi al genere quanto i non avvezzi al Cinema e che finirà per risultare per tutti gli altri come un palliativo rispetto ai tempi d'oro in cui i thriller facevano davvero cagare sotto, pur non portando sullo schermo mostri o presunti tali.
Se non altro, anche in Regression, la paura più grande nasce, cresce e muore con l'Uomo.
Il mostro peggiore che si possa immaginare.





MrFord





"Safe in the light that surrounds me
free of the fear and the pain
my subconscious mind
starts spinning through time
to rejoin the past once again."
Dream Theater - "Scene One: Regression" -







venerdì 4 dicembre 2015

Deathgasm

Regia: Jason Lei Howden
Origine: Nuova Zelanda
Anno: 2015
Durata: 86'






La trama (con parole mie): Brodie è un adolescente all'ultimo anno di liceo borderline e problematico. Separato dalla madre a causa dei problemi di quest'ultima dai servizi sociali ed affidato agli zii, il ragazzo si rifugia nella musica - in particolare heavy metal - per cercare di vincere le proprie insicurezze e sfogare la rabbia accumulata nel corso degli anni.
Emarginato a scuola e legato soltanto ad un paio di amici molto nerd, insieme all'altrettanto sopra le righe Zakk viene in possesso di un misterioso spartito consegnato loro da un ex cantante metal in fuga da una strana organizzazione di individui: quando, con la band che nel frattempo hanno messo in piedi, i ragazzi tentano di eseguire il brano recuperato, strani fenomeni cominciano a verificarsi in città.
Questo perchè le note rispolverate dai Deathgasm altro non sono che un inno oscuro volto a risvegliare ed evocare un demone potentissimo, contro il quale Brodie, Zakk ed i loro compagni dovranno lottare fino all'ultima goccia di sangue.










Me lo sono dovuto sudare, questo Deathgasm.
Il tam tam della blogosfera aveva portato all'orecchio del sottoscritto il valore dell'ennesimo e sorprendente film che, nel corso di questa stagione, finiva per omaggiare e pescare a piene mani dall'immenso bacino immaginifico che sono stati gli anni ottanta, all'interno dei quali ho nuotato con grande piacere sia da bambino che da adulto, alimentando a dismisura l'hype dei Ford tutti - o quasi -.
Il bacino ancora più immenso della rete, però, ha finito per ingaggiare con il sottoscritto una vera e propria battaglia, sanguinosa e sfiancante, che mi ha visto vincitore quando, finalmente, armato di alcool e spuntino, ho potuto passare una serata avvolto dalle atmosfere folli che la Nuova Zelanda non mi regalava dai tempi del primo, favoloso Peter Jackson - omaggiato da Jason Lei Howden grazie ad una fantastica t-shirt di Bad Taste, un cult assoluto che tutti gli appassionati di horror dovrebbero vedere almeno una volta nella vita -: Deathgasm è, di fatto, un vero e proprio omaggio non solo ad un decennio indimenticabile, ma anche a quella fase della vita in cui, se non si è vincenti predestinati o sfigati senza speranza, ci si ritrova in quel limbo chiamato adolescenza senza sapere bene da che parte girarsi per prendere fiato e cominciare a vivere davvero.
Il risultato è stato puro godimento dal primo all'ultimo minuto, grazie ad un cocktail forse grezzo e sicuramente artigianale ma di pancia, sentito in ogni fotogramma, figlio di un amore incondizionato per il Cinema - a prescindere dal genere - e perfetto per raccontare la rivincita di un certo tipo di nerd che passa gli anni delle superiori a sudarsi ogni conquista e poi si ritrova a godere della rendita una volta cresciuto: e dai riferimenti alle band ed alla logica di avvicinamento del metallaro "classico" - bellissima la sequenza in cui Brodie e Zakk si conoscono nel negozio di dischi - ai sogni larger than life immaginati sulle note dei pezzi preferiti, passando per sangue, possessioni, risate ed un finale che bussa alla porta de La casa senza dimenticare l'ironia de L'armata delle tenebre - e, ovviamente, tutto il primo Peter Jackson, come già sottolineato -, non è passato un singolo fotogramma del lavoro firmato da Jason Lei Howden che non mi abbia fatto pensare a quanto avrebbe fatto letteralmente impazzire il mio amico Emiliano, che ricordo quando, già dalle medie, si materializzava nell'allora casa Ford con le sue t-shirt degli Iron Maiden e l'inizio dell'amore per la Musica che lo accompagnò tutta la vita, partendo proprio dall'heavy.
Tutto questo senza contare i riferimenti alla classica trama da riscatto dell'outsider che da I Goonies a Karate Kid ha posto le fondamenta per quello che sono ora, settima arte oppure no, con tanto di reginetta del ballo che finisce per essere conquistata dal fascino di chi, nella vita, è condannato a lottare per ogni successo, e con tutti i mezzi possibili: probabilmente allo stato attuale delle cose io sarei più uno Zakk che non un Brodie, decisamente più simile a com'ero ai tempi delle superiori - esilaranti, in proposito, anche i riferimenti ai giochi di ruolo dei due amici nerd del protagonista -, ma poco importa.
Deathgasm è un vero e proprio momento di spaventosa esaltazione per tutti gli appassionati di musica ed horror movies, di eighties e di stronzate raccontate tra amici, di tripudi di alto volume, sesso ed emozioni buttate fuori a squarciagola o attraverso un assolo dirompente di chitarra: probabilmente i radical, i puritani, i perbenisti o tutti quelli che ancora pensano che il metal sia l'anima del diavolo non apprezzeranno, ma sinceramente, chi se ne fotte.
Questa è roba forte.
E se poi si dovesse scoprire che è davvero in grado di aprire le porte dell'Inferno, allora vorrà dire che ci attrezzeremo per prendere a calci in culo anche chi viene dalle fiamme eterne.




MrFord




"Well I'm an axegrinder piledriver
mother says that I never never mind her
got no brains I'm insane
teacher says that I'm one big pain
I'm like a laser 6-streamin' razor
I got a mouth like an alligator
I want it louder
more power
I'm gonna rock ya till it strikes the hour
bang your head! metal health'll drive you mad
bang your head! metal health'll drive you mad."
Quiet Riot - "Metal health (Bang your head)" -





lunedì 19 maggio 2014

Devil's Knot - Fino a prova contraria

Regia: Atom Egoyan
Origine: USA
Anno: 2013
Durata: 114'





La trama (con parole mie): all'inizio del maggio millenovecentonovantatre, in una piccola cittadina dell'Arkansas, tre bambini di otto anni scomparvero per essere ritrovati qualche giorno dopo, seviziati ed uccisi. Le indagini della polizia, condotte in maniera piuttosto sommaria, condussero a tre principali sospettati, adolescenti alle soglie o appena oltre la maggiore età dal turbolento passato e dall'evidente disagio mentale e sociale. Il processo che ne seguì, sfruttato dai media e dagli organi di controllo come una sorta di percorso già stabilito, fu messo in discussione dal detective Ron Lax, che indagò accanto alla difesa cercando di scagionare gli imputati ed evitare agli stessi la pena di morte richiesta dall'accusa.
Nonostante lo stesso processo, le indagini di allora e quelle che seguirono, quello che accadde il giorno della morte dei tre bambini non è stato ancora, di fatto, chiarito.








Ammetto che, prima di approcciare l'ultimo lavoro del discontinuo - seppur sempre interessante - Atom Egoyan le recensioni lette in giro per la blogosfera avevano già ridimensionato le possibili aspettative della vigilia lasciando intendere, di fatto, che Devil's Knot si sarebbe rivelato una sorta di Prisoners di serie b.
Detto questo, e ragionando a mente lucida su questo film, posso dire che le suddette recensioni, di fatto, non sbagliavano definendo questo ennesimo Fino a prova contraria - i titolisti italiani devono aver raschiato il fondo del barile delle idee - una sorta di versione molto meno riuscita del grandissimo film di Villeneuve: non che Devil's Knot sia un brutto lavoro, o che manchino gli spunti per renderlo interessante, specie considerato che, dall'arrivo del Fordino, qui al Saloon siamo diventati ancora più sensibili rispetto all'argomento genitori e figli di fronte ai drammi e alle violenze di questo genere, eppure qualcosa, a partire dallo script per continuare con il cast, finisce per non convincere, di fatto ponendo accenti ed attenzione su tutto quello che di ordinario la pellicola avrebbe potuto mostrare - verrebbe quasi da dire la banalità del male - senza degnare di uno sguardo le intuizioni che avrebbero potuto renderla, al contrario, straordinaria: del resto è pur vero che lavori come il succitato Prisoners o la recente, meravigliosa True detective non si girano tutti i giorni, e non è possibile sperare che il brivido che percorre la nuca a fronte di alcune sensazioni possa ripresentarsi ad ogni thriller passato sullo schermo, eppure il risultato di Egoyan pare quello di un'occasione sprecata dietro l'inutile personaggio del dal sottoscritto detestato Colin Firth - di tutt'altra pasta rispetto al Rust Cohle di McConaughey - ed un piglio da film del sabato sera su Italia Uno, piuttosto che sull'esplorazione dell'assurdità della violenza, della barbarie celata dietro l'omicidio - o gli omicidi - di bambini, della caccia alle streghe mediatica e sociale, della critica ad una società che nasconde ben più di quanto non dia a vedere.
In quando a lavoro incompleto, Devil's Knot ricorda molto l'esordio della figlia di Michael Mann con Le paludi della morte, ma se per quest'ultima potevano essere comprensibili alcuni peccati di "gioventù", per Egoyan la scusa decade, anche e soprattutto considerata la clamorosa flessione della qualità delle sue opere, passata da cult come Il viaggio di Felicia a robetta come False verità: un peccato davvero, perchè il regista di origine armena pare manifestare la volontà di scuotersi da un torpore che dura troppo a lungo senza riuscire, di fatto, a trovare l'energia necessaria per compiere la svolta.
In un certo senso, le indagini del protagonista Ron Lax, schieratosi dalla parte dei tre ragazzi ritenuti responsabili del terrificante omicidio dei bambini scomparsi a Devil's Knot finiscono per rappresentare un'ottima analogia con il lavoro del regista: tentativi quasi disperati di cambiare la Storia eppure senza la forza che la stessa disperazione muove, riflessa anche in una misura decisamente troppo blanda dai genitori delle piccole vittime.
Onestamente, credo che lo Hugh Jackman di Prisoners fosse molto più credibile, con tutta la sua rabbia quasi cieca, rispetto ad una quasi innocua serie di figli della provincia persi tra una messa, un battesimo ed una denuncia televisiva: forse, da un certo punto di vista, questo quadro appare anche più reale di quanto non si voglia ammettere, eppure l'impressione è di una desolazione non solo rappresentata, ma anche vissuta dal punto di vista creativo da chi ha deciso di raccontare una storia non facile e complessa come questa, che in mani più salde e coraggiose avrebbe rischiato di diventare una sorta di nuovo Memories of murder, quantomeno.
Dunque, più che pensare alle promesse che il film non ha saputo mantenere, varrebbe forse la pena riflettere su una vicenda torbida ed oscura, resa ancora più agghiacciante dal fatto che sia realmente accaduta: un intrigo non ancora risolto che non ha nulla da invidiare alle atmosfere di Twin Peaks e al terrore che può generare l'animale più spietato di tutti, l'Uomo.
Peccato che, inesorabilmente, Egoyan e la sua creatura debbano invidiare al Capolavoro di David Lynch praticamente tutto il resto.




MrFord




"And she says, 'I swear I'm not the devil,
though you think I am.
I swear I'm not the devil'
he tries to sleep again
and wonders when the pain will end
the cuts, they may run deeper than his cracking outer shell."
Staind - "Devil" - 




giovedì 2 maggio 2013

Le streghe di Salem

Regia: Rob Zombie
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 101'





La trama (con parole mie): Heidi Hawtorne è una popolare DJ di una radio di Salem, cittadina resa famosa dai processi alle streghe perpetrati dalle personalità religiose del luogo sul finire del seicento, specializzata in proposte legate a doppio filo al mondo del metal duro e puro.
Quando le viene recapitato un disco da parte di un gruppo chiamato I Signori di Salem e lo stesso viene mandato in onda, la percezione della realtà della donna è messa a dura prova da quella che pare una sorta di nuova congrega delle streghe dei tempi tornate a causa della maledizione lanciata dalla loro leader per riprendere la ricerca di un ricettacolo per la nascita del figlio del Diavolo, loro signore e padrone.
Una settimana, dunque, iniziata come tutte le altre diventerà per Heidi un incubo senza fine dal quale lei, le streghe, i suoi colleghi e la stessa Salem non potranno neppure immaginare - o sognare - di uscire.






Qui al Saloon non si è mai risparmiato un certo approccio diretto alle cose, neppure quando le conseguenze dello stesso finiscono per abbattersi sui protetti di casa Ford: proprio a questo proposito annuncio ufficialmente che Rob Zombie, musicista, regista, produttore e sceneggiatore, salito alla ribalta delle cronache legate alla settima arte con La casa dei mille corpi e La casa del diavolo, due supercult fordiani, non fa più parte della suddetta cerchia.
Anzi, come giustamente ho letto qui, purtroppo per tutti quelli che avevano gridato al miracolo ed identificato nel metallaro cineasta l'anello di congiunzione tra Rodriguez e Tarantino, l'amara verità è ormai evidente: Rob Zombie è una meteora, un fuoco di paglia, una sòla.
E Le streghe di Salem, sua ultima fatica già molto discussa in rete ed attesa da mesi dal sottoscritto, una vera merda neppure degna delle bottigliate che normalmente destino alle più cocenti delusioni cinematografiche.
Un film vuoto, privo di idee, inutilmente citazionista, attraverso il quale il bollito Rob cerca di limitare i danni mostrando le grazie della sua adorata moglie Sheri Moon Zombie - da sempre protagonista delle sue pellicole - senza neppure accorgersi non solo che non basta un culo a rendere interessante una proposta, ma anche che il tempo passa per tutti, suddetta Sheri Moon compresa, e che i fasti del già citato La casa del diavolo sono ormai un ricordo più che sbiadito, sepolti sotto una montagna di idee confuse rette - per così dire - da uno script che si avvolge su se stesso senza portare da nessuna parte - basti pensare alla gestione dei personaggi, su tutti dei DJ colleghi di Heidi, uno scempio -, un gusto kitsch che da cult, vintage e grindhouse è diventato semplicemente pacchiano, una partenza scialba senza infamia e senza lode che evolve in un crescendo finale talmente ridicolo da lasciare a bocca aperta scoprendo quanto in basso è riuscito a cadere l'ex prodigio - ma lo sarà mai stato davvero, viene da chiedersi a questo punto? - Zombie.
Curioso come, tra le righe delle recensioni più entusiastiche, si siano fatti i nomi di riferimento di Polanski e Kubrick - quest'ultimo dev'essersi rivoltato nella tomba -, mentre a voler essere generosi i richiami più evidenti paiono quelli al Lynch più visionario, anche se il risultato è ben lontano dai risultati di pietre miliari come Eraserhead, Mulholland drive o Inland empire: come se non bastasse, nel corso dell'assurda escalation finale l'impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte ad una sorta di Lars Von Trier dei poveri - e tutti voi sapete quanto detesti il pazzoide danese, o almeno le sue ultime opere - senza neppure un briciolo del talento che, indubbiamente, perfino l'insopportabile autore di Melancholia manifesta.
Un fallimento colossale, dunque, per Zombie, che produce una schifezza degna della decina dedicata al peggio di questo duemilatredici e che, a tratti, riesce addirittura ad innervosire facendo leva - senza sfruttare per nulla la componente dell'ironia, come se non bastasse - su tutti i luoghi comuni che una qualsiasi zitella inacidita da mezzi pubblici potrebbe sciorinare a proposito dei cosiddetti "metallari", dal gusto per la musica estrema e "il lato oscuro" alla violenza, passando attraverso satanismo ed affini: curioso che sia proprio un figlio del metal come il vecchio Rob, dunque, a fornire un ritratto che andrebbe a nozze con le critiche normalmente rivolte - senza fondamento alcuno - ai fan del genere, che spesso e volentieri si rivela inutilmente blasfemo - e parlo da anticlericale fino al midollo - ed assolutamente privo non solo di logica, ma anche del senso che potrebbe avere un semplice divertissement - il delirio dell'epilogo e la terrificante immagine di Heidi a giocare al parco con il cane che chiude la pellicola ne sono la testimonianza -.
Perchè la cosa grave di questo Le streghe di Salem è che Zombie crede davvero di aver portato sullo schermo una sorta di nuovo cult del genere, almeno quanto le sue streghe impazzite nell'avvento del figlio di Satana. Forse la questione è che da queste parti affrontare il discorso della Fede è materia solo per chi lo sa davvero gestire, da una parte o dall'altra della barricata, e gli atti legati ad Essa non sono gesti cui questo vecchio cowboy è avvezzo.
O forse, molto più semplicemente, questo film è inesorabilmente, assurdamente brutto, e cosa ancora peggiore privo di un capo e di una coda, quasi volesse sottovalutare l'intelletto del pubblico propinando un trip neanche fosse un lavoro fresco fresco dello Jodorowski migliore - ma anche in questo caso siamo su un altro pianeta - nascondendo una povertà di idee e scrittura come non ne capitavano da tempo: spesso ci si trova di incrociare il cammino di titoli che non meriterebbero di essere distribuiti, palesemente limitati sotto tutti gli aspetti, ma peggio di questi ultimi sono senza dubbio i lavori di registi spocchiosi convinti di regalare all'arte qualcosa di unico, potente e geniale, quando invece l'unica traccia di magia cinematografica si perde nel murale in testata al letto di Heidi, che raffigura uno dei fotogrammi più famosi de Il viaggio nella Luna di Melies: questo sì, davvero un Capolavoro.
Attorno, resta solo l'orrore.
E non nell'accezione di genere.


MrFord


"I'm waiting for your call and i'm ready to take 
your six six six in my heart
I'm longing for your touch and i welcome 
your sweet six six six in my heart."
H.I.M. - "Your sweet 666" -


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