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venerdì 24 novembre 2017

A ghost story (David Lowery, USA, 2017, 92')





Penso che tutti, religiosi, atei o qualsiasi cosa si possa essere, si siano chiesti almeno una volta nella vita cosa ci aspetta una volta che questo grande circo sarà finito, quando il corpo chiuderà i battenti e la mente saluterà baracca a burattini.
Credo sia umano tentare, in questo senso, di trovare una risposta alla paura, all'ignoto, al Tempo che inghiotte e ritorna, alle sfumature che possono o non possono esistere nel nostro mondo e oltre.
Me lo sono chiesto spesso anch'io, che da ateo miscredente adoratore della vita vorrei poter essere un highlander, o un vampiro immortale - anche se mi romperebbe non poco le palle evitare il sole e la luce del giorno, che adoro - pur di rimanere attaccato a questa palla di fango il più a lungo possibile.
Deve esserselo chiesto parecchio anche David Lowery, che con A ghost story tira fuori dal cilindro un miracolo che dal regista dello scialbo e retorico Il drago invisibile davvero non mi aspettavo: perchè più che una storia di fantasmi, il regista regala al pubblico una riflessione da brividi sul Tempo, l'Amore, la Vita e tutte quelle cose che rendono così straordinaria l'esistenza, per quanto dolorosa a volte possa essere, riuscendo nella quasi impossibile impresa di creare un cocktail tra Ghost e Gaspar Noè, due ingredienti che, almeno sulla carta, parrebbero inconciliabili almeno quanto la razionalità e l'istinto, la ragione e la fede, qualsiasi coppia di opposti e di amanti che popolano l'universo.
La vicenda dei due protagonisti di questa storia, del loro legame, dei messaggi nascosti, la musica, una casa che diviene il ricettacolo dei ricordi di una, dieci, cento vite che scorrono come sabbia in una clessidra pronta a ribaltarsi e ricominciare il suo inesorabile corso, per quanto apparentemente ostica in termini di ritmo, è una delle più toccanti e profonde dell'anno, e spinge A ghost story in alto nella classifica non solo di gradimento, ma anche e soprattutto in quella che permette ad alcuni titoli di entrare nel cuore e non uscirne.
Neanche fossero la nona di Beethoven.
Per quanto, comunque, si possa scrivere o filosofeggiare o recensire, un film come questo - con un budget ridotto all'osso, due attori di punta pronti a sacrificarsi come fossero esordienti, Casey Affleck in primis - più che analizzato andrebbe vissuto sulla pelle, in bilico tra la speranza che il Tempo non ci lasci fuori dalla sua danza e ci permetta in qualche modo di continuare a fare parte dell'Esistenza e la tristezza e la malinconia da spettatori di uno spettacolo che una volta era nostro, e che di colpo ci ritroviamo a vivere dall'altra parte della barricata.
Curioso inoltre che, in un anno avaro di grandi soddisfazioni sul grande schermo, una piccola perla come questa non abbia ancora trovato uno spazio in sala, e non si abbia alcuna notizia a proposito di un'eventuale distribuzione italiana: dobbiamo ringraziare la rete e la blogosfera che con il loro passaparola finiscono per fornire occasioni ed esperienze a tutti noi amanti della settima arte non adeguatamente considerate, pronte a sostenere un Malick mistico ed autoreferenziale qualsiasi piuttosto che una sua versione più potente e riuscita come questa.
Ma non voglio che una polemica, così come, per l'appunto, una semplice recensione, possano in qualche modo distogliere l'attenzione da un'esperienza di visione come questa: da adoratore della vita, un film che vada oltre la stessa come questo raccoglie un'intensità che è necessario provare, perchè non sarà mai come ascoltarla raccontata o tradotta in parole o gesti da altri.
A ghost story è la storia di fantasmi più viva che abbia mai avuto il piacere di ascoltare. O ancora meglio, di sentire.
E nella poesia di quel non detto e non letto che porta ad un passo oltre nel finale, c'è tutto quello che non dobbiamo dire e non leggere.
Perchè è vita allo stato puro.
Anche di fronte alla morte, alla fine, al Tempo.




MrFord




martedì 10 ottobre 2017

Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, USA/UK/Canada, 2017, 164')





Ho sempre pensato che, in barba al Tempo che ci condanna inesorabilmente e alle azioni che mostrano tutti i limiti dell'essere Umani, sia importante, fondamentale, cruciale per la vita venire a patti con se stessi e trovare un equilibrio nella strada che si decide di seguire, a prescindere da quale sia.
Potrebbe non essere la via più semplice, o quella che ci rende migliori, ma nel momento in cui la stessa contribuisce a renderci noi stessi, allora per quanto mi riguarda non ha bisogno di altre spiegazioni.
Blade Runner 2049, a prescindere dalla sue nobili origini e derivazioni, non ha bisogno di altre spiegazioni.
Così come Denis Villeneuve.
Racconta una storia vecchia quanto il mondo, legata al bisogno di identità, di affermazione, di pienezza, di indipendenza, di lasciare qualcosa in questo strano posto in cui siamo capitati e ci muoviamo, e lo fa attraverso immagini e mezzi tecnici clamorosamente superiori ed affascinanti, un ritmo che mette alla prova ma che nasconde la capacità di ammaliare, un Pifferaio magico della settima arte, un incedere che mette a confronto con una ricerca che esula dalla propria origine o Natura, e che porta ad inseguire la strada che condurrà al futuro, a prescindere da quale futuro ci attenda.
"Non hai mai assistito ad un miracolo", afferma Dave Bautista in apertura di pellicola.
Sinceramente, da ateo miscredente, mi sono sentito chiamato in causa.
Eppure, fotogramma dopo fotogramma, bellezza su bellezza, sogno su sogno, l'impressione è davvero stata quella di un miracolo legato - come fu per Arrival - al concetto di creazione, a quelle probabilità sfavorevoli che divengono metro di paragone per una nuova speranza, per qualcosa che non sarebbe dovuto neppure accadere e invece, contro ogni previsione, porta una mano appoggiata ad un vetro a cercare quello che riempie il significato della vita di qualsiasi uomo, replicante o chiunque vogliate o sognate di essere.
La fantascienza dell'epoca di Dick e quella della conquista dello spazio sono ormai tramontate per cedere il passo ad un nuovo sistema ed approccio, dalla rete ai social, dalla vita in condivisione al completamento di se stessi attraverso i mezzi di comunicazione: Villeneuve si adatta a questa nuova realtà portando sullo schermo qualcosa che ha il sapore ancestrale della creazione, dell'esplorazione - di noi e del mondo che ci circorda -, del tentativo di seguire lo schema solo fino a quando lo stesso non diviene una condanna, qualcosa che ci impedirà di vivere non solo un sogno, ma anche, e paradossalmente torniamo al discorso dell'ateo miscredente, l'idea del sogno che vorremmo vivere.
E nonostante l'atmosfera cupa ed opprimente, la sensazione di ineluttabilità, l'impressione che ho avuto di Blade Runner 2049 è stata quella di un inno al desiderio di vivere la propria vita, trovare la strada che permetta di farlo, a prescindere dai sacrifici e dai rischi, dai ruoli e da quello che ci si potrebbe aspettare da noi che stiamo vivendo, replicanti o umani.
Ed è proprio in quello, che io vedo il miracolo.
La lotta è ancora presente, sanguinosa e pronta a chiedere un tributo pesante in termini di vite e sacrifici, eppure mi pare, attraverso le immagini, di aver assaporato l'idea di una consapevolezza maggiore di quello cui è possibile aspirare, o cambiare, della ricerca che porta a confrontarsi con se stessi anche quando l'idea che finiamo per avere di noi è decisamente sopravvalutata rispetto a quanto il mondo richieda: lo stesso fatto che si possa anche solo immaginare che sia così finisce per essere confortante, a prescindere da quello che riservano imposizioni, missioni, compiti, ordini venuti dall'alto impossibili da ignorare.
Se non fosse per il suo passato ingombrante - che torna, comunque, più per aiutare ed essere aiutato che non per ostacolare -, Blade Runner 2049 sarebbe un film "contro", pronto a seguire un impianto classico - soprattutto in termini di svolgimento - e da un ritmo certo non sostenuto: ma le cose non sono mai semplici quanto potremmo sperare o credere, e dunque si finisce sempre a rimboccarsi le maniche e farsi il culo, nella speranza che, prima o poi, anche per noi, o qualsiasi altro ateo miscredente, venga dritto il giorno del miracolo.
Perchè sarà quello che cambierà ogni cosa.




MrFord




 

mercoledì 26 aprile 2017

Le cose che verranno - L'avenir (Mia Hansen-Love, Francia/Germania, 2016, 102')




Considerata la vita difficile che i titoli eccessivamente radical, specie se provenienti da un bacino sempre molto radical come quello del Cinema francese, finiscono per avere al Saloon, pensavo che affrontare L'avenir sarebbe stato una vera e propria passeggiata.
Tradotto in termini molto poco tecnici: non vedevo l'ora di massacrare l'ennesimo pippone pseudo intellettuale da salotto borghese a suon di bottigliate tonanti.
E ci ho provato, credetemi.
Ci ho provato non solo per partito preso, ma con desiderio e volontà.
Eppure, al termine della visione, l'unica sensazione che ho avuto è stata quella di aver visto un gran bel film.
Certo, il modo in cui è presentato, scritto, girato, parlato trasuda supponenza e quell'aura da intellettuali pronti a credersi un gradino sopra il resto del mondo che da queste parti sta sul cazzo come forse solo l'ignoranza sfrenata, eppure, spogliato dell'apparenza, L'avenir porta sullo schermo una storia semplice, che potrebbe avere protagonista chiunque di noi, con i suoi sogni, i desideri, le passioni espresse e quelle che invece espresse non lo saranno mai se non attraverso la speranza per il futuro che rappresentano le nuove generazioni, tutto quello che viene dopo di noi e, in qualche modo, fosse anche solo per Natura, farà un passo oltre.
Una storia che, vista da un'angolazione differente, avrebbe potuto raccontare anche Ken Loach, o Clint Eastwood, o un qualsiasi regista tra i più fordiani che possiate immaginare.
Certo, la protagonista è un'insegnante parigina di filosofia che con un tamarro della mia specie c'entra poco e nulla - benchè ai tempi delle superiori adorassi la materia, come probabilmente l'adorerei ora tra un film action, un allenamento ed un cocktail -, eppure in quel suo fare sostenuto, nel non liberare il desiderio di voler assolutamente scopare con il suo giovane ex allievo prima e dopo la fine del suo matrimonio, il rapporto nevrotico con la madre accentratrice, si rivedono molte umanità che non hanno nulla di radical, ma nelle quali si trovano le debolezze e gli inciampi di una vita semplice e pane e salame, malgrado la cornice ed il background.
In fondo, per tutte le persone abituate a vivere secondo una routine e delle regole per una vita, trovarsi a confronto con il proprio tempo e la propria libertà totale sia una sensazione unica quanto straniante, clamorosamente affascinante quanto potenzialmente pericolosa.
Più o meno quello che questo film ha rappresentato rispetto ai miei pregiudizi.
Ed è curioso quanto abbia provato con tutte le forze ad odiarlo, e quanto semplicemente, senza trucchi o inganni, passando per la via sicuramente più lunga ed impervia, lo stesso si sia fatto strada nel mio cuore di spettatore e di appassionato di vita e vite vissute: senza dubbio, dall'inizio dell'anno ad oggi sono approdati in sala titoli nettamente superiori a questo, così come può essere che il voto che abbia deciso di assegnare al lavoro della Hansen-Love sia perfino troppo alto, ma un riconoscimento ci stava tutto, dalla naturalezza della Huppert alla liberazione dell'istintività di una gatta considerata troppo grassa, troppo vecchia e domestica, pronta ad una notte folle e ad un ritorno con un topo come preda.
Mai sottovalutare la Natura.
Anche quando pare lontanissima da noi.
In fondo, in Lei c'è il passato.
Ma anche, e soprattutto, il futuro.
L'avenir.




MrFord




domenica 5 febbraio 2017

Oltre le colline (Cristian Mungiu, Romania/Francia/Belgio, 2012, 150')




Il Cinema d'autore è senza dubbio una brutta bestia, per il pubblico non avvezzo quanto per i suoi più strenui ed agguerriti sostenitori.
Chiunque affermi il contrario, per me, è solo qualcuno che, più che amare il Cinema, vuole darsi delle arie affermando che schiaffarsi Andreij Rublov di Tarkovskij è stata una passeggiata - e, ve lo assicuro, non è così - e che lui o lei vive mangiando pane e mattonazzi: in realtà, così come per quello mainstream, anche il Cinema d'autore ha le sue vette himalayane e le sue piacevoli scampagnate, a prescindere da stile, vicende narrate o tono della pellicola.
Cristian Mungiu, che qualche anno fa irruppe sulla scena internazionale vincendo la Palma d'oro con il fantastico Quattro mesi, tre settimane, due giorni, a mio parere e nonostante la grande drammaticità dei suoi lavori, appartiene alla seconda categoria: Oltre le colline, recuperato in clamoroso ritardo in vista del più recente Padre e figlia, nonostante le due ore e mezza piene, l'uso di piani sequenza basati su inquadrature pressochè fisse - che mi ricordano tanto Ozu o Gitai - ed il grande dramma portato sullo schermo come una riflessione del rapporto tra Libertà di Fede e di Pensiero, e nonostante la febbre che aveva colpito l'intera famiglia Ford ai tempi della scellerata settimana di questa visione, è sceso nello stomaco del sottoscritto pronto a colpire e scaldare neanche fosse la più goduriosa delle sambuche, scomodando paragoni importanti con un altro grande nome attuale figlio dell'Europa Orientale, il Bilge Ceylan di C'era una volta in Anatolia e riuscendo - come già era accaduto per il suo lavoro precedente - a portare sullo schermo anche e soprattutto le posizioni palesemente non condivise dal regista senza per questo ridicolizzare o snaturare le stesse.
La storia - tristissima - di Voichita e Alina, e delle ossessioni che la distruggono costando ben più di un cuore spezzato alle due protagoniste, è una tra le più drammatiche che mi sia capitato di approcciare nelle ultime settimane - e forse mesi - da spettatore, resa ancora più vivida dalle interpretazioni e dalla messa in scena volutamente povera e decisamente tutto tranne che spocchiosa - prendi e porta a casa, Malick! -: il confronto tra la Fede cieca e l'Amore cieco - ed io sono e sarò sempre dalla parte del secondo, sia chiaro -, porta ad una conclusione che vede solo perdenti, ed in quell'indicazione "oltre le colline" lascia andare qualsiasi speranza si possa nutrire nel cuore di trovare un giorno un punto d'incontro per due posizioni diametralmente opposte eppure in grado di smuovere nell'animo umano passioni così grandi ed incontrollabili da risultare paurosamente simili.
Del resto, alla base di una o dell'altra c'è un sentimento che non potrà essere messo in discussione da alcuna prova o argomentazione razionale, e che, al contrario, si alimenta e fortifica proprio nel momento in cui si pensa di essere rimasti soli a credere in quello in cui si vuole credere, che questo qualcosa esista oppure no, e che si parli di un qualche dio, o del sentimento che qualcuno non mostra più per noi.
La cosa più assurda sta proprio nel rendersi conto di quanto questi estremi finiscano per avvicinarsi nei momenti migliori o peggiori delle nostre vite, e quanto ancora più assurdo possa apparire tutto dall'esterno, quando razionalmente ed estranei alle vicende guardiamo il mondo come spettatori - i due poliziotti nell'ultima sequenza, potentissima - e giustifichiamo il dolore dell'inverno sapendo che, inevitabilmente, giungerà anche la primavera.
Almeno fino a quando non si fermerà il Tempo.




MrFord



 

lunedì 30 gennaio 2017

Arrival (Denis Villeneuve, USA, 2016, 116')




Con ogni probabilità, in barba a denaro, fama, potere e tutte le altre cose con le quali a molti su questa Terra piace trastullarsi, il bene più prezioso che abbiamo e continueremo ad avere è e resta il Tempo.
Un Tempo che cambia forma e percezione che possiamo avere di Lui, in grado di cristallizzarsi quasi potesse essere messo in pausa o correre più veloce di quanto si possa immaginare anche nel più intenso e potente film di fantascienza.
Ricordo bene, per quanto "basso" possa risultare il riferimento, il verso di una canzone di Max Pezzali - non ricordo quale, onestamente - che dice "a sedici anni un anno dura una vita, poi a trenta sei già lì", ho impressi nella memoria come fossero accaduti oggi il giorno in cui morì mia nonna - la prima perdita che vissi sulla pelle - e quello in scoprimmo che Julez aveva perso la bambina - perchè per noi era ed è così - che aspettava.
Altri ricordi sono sensazioni, immagini, odori, canzoni, quasi parti di sogni.
Sorrido anche al pensiero di quella frase di Rocky V che cito di continuo quando parlo dell'essere padre, quando il buon vecchio Sly dice al proprio figlio sulla scena e nella vita - che, come sappiamo, è morto qualche anno fa - "averti avuto è stato come nascere un'altra volta".
Il Tempo, per l'appunto.
Quello che pensiamo come una linea retta che tende all'infinito, e invece è un grande cerchio, o forse qualcosa che non potremo mai davvero comprendere a fondo.
Un pò come la matematica, o la scienza, che in molti - me compreso, ai tempi in cui la studiai - considerano semplicemente come qualcosa di meccanico e privo di vita e che, al contrario, andrebbe approcciato come una nuova lingua in grado di riprogrammare il nostro cervello e la realtà che abbiamo attorno.
Ecco cos'è, Arrival.
Una nuova lingua da imparare, una parabola che racconta della vita e del Tempo, e di noi: non è un caso che sia tratta da un'opera intitolata proprio "Story of your life".
E proprio in questo senso viene giocata la domanda più importante della pellicola, a prescindere dalla tecnica, dalla narrazione, dalle interpretazioni - in particolare quella dell'ingiustamente ignorata dall'Academy Amy Adams -, dal genere: se tu avessi la possibilità di conoscere tutta la tua vita, cosa faresti?
Personalmente, penso che farei quello che cerco di fare ogni giorno: viverla.
In fondo, se dovessi guardare alla vita in termini di quotidianità, tornerei al concetto di Tempo espresso in linea retta, con un inizio ed una fine certi e tutto quello che è in mezzo da costruire.
Poi, di fronte ai Fordini, mi rendo conto che le regole vengono sovvertite, che tutti i pezzi che la mia memoria si perde vengono colmati dalle loro esperienze, e che soprattutto ora, che sono così piccoli - ma immagino non cambierà anche con gli anni - mi ritrovo ad essere l'alieno che osserva il loro mondo e che dona qualcosa che potranno usare in un Tempo che ancora non si è costruito.
L'arrivo del titolo potrebbe essere proprio questo.
E potrebbe essere anche il fatto che gli eventi traumatici restano impressi a fuoco nella memoria mentre quelli più intensi e felici sfumano per diventare onirici in più di un senso: il dolore prosegue la sua marcia come un treno lanciato a tutta velocità, un attacco militare o una bomba che esplode, mentre il piacere, la gioia, la meraviglia si dilatano uscendo dai confini che quello che conosciamo e viviamo ci impongono.
Anche quando si trovano di fronte il dolore.
In fondo, da genitori doniamo ai nostri figli tutto quello che sappiamo o che possiamo donare, finendo per essere aiutati a nostra volta ad affrontare qualcosa di più grande di tutti, un giorno che speriamo sempre possa essere linearmente molto lontano, ma che, inesorabilmente, arriverà.
Quando è il contrario, allora il Tempo si sconvolge e confonde, crea un apparente conflitto, una frattura che rischia di compromettere tutto.
Ed è allora, che occorre prendersi il tempo per comprendere il Tempo.
E capire che, pur conoscendo quello che sarà della nostra vita, non possiamo fare altro che viverla.
In fondo, è semplice.
Un giorno nasciamo, un giorno moriremo.
Sappiamo già cosa accadrà.
Eppure viviamo.
Perchè solo così il Tempo cambia le sue prospettive, e le nostre.
Come un arrivo.
Come una nascita.



MrFord



 

domenica 19 luglio 2015

Take this waltz

Regia: Sarah Polley
Origine: Canada, Spagna, Giappone
Anno:
2011
Durata: 116'






La trama (con parole mie): Margot è una ventottenne scrittrice freelance felicemente sposata con l'autore di libri di cucina Lou che vive nel cuore di uno dei quartieri più pittoreschi di Monteal. Al ritorno da un viaggio, in aereo conosce Daniel, che scopre essere praticamente un suo vicino di casa, di un anno più grande di lei, dedito alla passione per l'arte quando non impegnato nella sua professione effettiva di conducente di risciò.
Tra i due l'attrazione è immediata, e per quanto Margot cerchi di difendersi, le dinamiche e la quotidianità da coppia ormai rodata con Lou finiscono per essere sconfitte alla distanza dall'attrazione e l'eccitazione di qualcosa di nuovo da costruire con Daniel: ma il nuovo sarà davvero la rivoluzione che promette di essere, o semplicemente qualcosa che appare così interessante proprio perchè lontano dalla vita di tutti i giorni?










Credo che le regole dei rapporti di coppia, per quanto si possa pensare - ed in parte sia senz'altro così - che il proprio sia unico ed irripetibile, in qualche modo abbiano punti di contatto decisamente simili per tutti, quantomeno se si parla di quelli davvero importanti: un inizio folgorante, grazie al quale la persona con la quale ci si appresta a condividere una parte più o meno consistente del viaggio pare quasi ultraterrena, priva di difetti, o perlomeno capace di rendere qualsiasi cosa, giorno o situazione unici, e stupire con effetti speciali dentro e fuori dal letto; una seconda fase di assestamento, all'interno della quale, di norma, si decide di vivere insieme, fatta di entusiasmo e voglia di costruire, sentimenti che esplodono e progetti futuri; una terza che porta ad un'inevitabile routine, sia essa quotidiana, familiare o di tempistiche, e trasforma la persona che amiamo in un essere fallibile, con tutti i difetti - ed i pregi, sia chiaro - del caso, con il o la quale condividiamo il letto perchè è giusto che sia così, anche se i sentimenti hanno finito per offuscare l'istintività selvaggia degli inizi.
A questo punto, di norma, le coppie finiscono per imparare a navigare insieme affrontando tempeste o ammutinamenti, o scoppiano.
Take this waltz, ottima prova molto indie e molto pane e salame di Sarah Polley - attrice e regista già nota per Away from her -, è un ritratto di questo concetto tracciato attraverso occhi e sensazioni di una protagonista fragile ed incostante quanto forte, la Margot di una convincente Michelle Williams, rapportate ai due uomini della sua vita - o almeno, della parte di vita che possiamo osservare sullo schermo - Lou e Daniel.
Lou rappresenta, di fatto, tutto quello che si è scritto poco sopra della coppia rodata: un uomo presente, pronto a scherzare prima che eccitare, che gioca con la compagna grazie ad una complicità probabilmente costruita in ogni giorno del rapporto - bellissimi gli scambi legati alle manifestazioni d'affetto "al contrario" come quel "Ti caverei gli occhi con lo scavino del melone" ed affini - e che è concentrato sul resto della sua vita abbastanza da non accorgersi di quello che gli accade accanto.
Daniel, di contro, ha dalla sua il fervore e l'eccitazione della novità, l'ebbrezza di qualcosa che pare mai vissuto, la sensazione che la vita possa sempre e comunque ricominciare, ancora più eccitante e coinvolgente di quanto non sia mai stata prima: sguardi, intese, sottointesi, riferimenti sessuali espliciti, sfide a distanza e la sensazione di appartenere a qualcuno anche quando non lo si ha.
Margot, combattuta tra la certezza di un sentiero che conosce a menadito ed un altro completamente inesplorato si dibatte tra una canzone - forse il miglior utilizzo cinematografico di sempre di Video killed the radio star - e le lacrime, un tocco immaginato ed uno cercato, le proprie mura ed i desideri: in questo senso, la Polley riesce, pur mostrando una grande sensibilità femminile - si guardino le sequenze della ginnastica in piscina così come dell'aperitivo anticipato con tensione sessuale in agguato -, a coinvolgere anche l'altra metà del suo cielo grazie ad un racconto semplice e senza fronzoli, sincero e diretto come ci si aspetterebbe da una pellicola in pieno "stile Sundance", che conquista proprio per il suo approccio, prima ancora che per originalità o tecnica.
Da tempo sentivo parlare di questo Take this waltz, e devo ammettere di avergli voluto proprio bene, come a quei titoli cui si sente, in un modo o nell'altro, di dovere qualcosa, e che ho associato al ben più triste Blue Valentine, che vide protagonista sempre la Williams: non esistono storie perfette, per quanto si possa pensare all'inizio di ognuna di esse, quanto più il desiderio -  o la mancanza dello stesso - di preservarle.
In fondo, come dichiara candidamente - e a ragione - la vecchia allieva del corso di ginnastica acquatica sotto la doccia, "anche il nuovo prima o poi diventa vecchio": è così per noi così come per le nostre storie. Principalmente, il bello sarà viverle, destinate a finire o a durare una vita che siano.
Perchè da ognuna impareremo qualcosa di noi e dell'altro, dagli inizi con i fuochi d'artificio alle fini seduti di fronte al caminetto, dalla giovinezza esplosiva alla vecchiaia che spegne lentamente.
L'importante sarà aver ballato tutti i nostri valzer.
Senza aver rinunciato neppure ad un giro.




MrFord




"Take this waltz, take this waltz
take this waltz with the clamp on its jaws
oh I want you, I want you, I want you
on a chair with a dead magazine
in the cave at the tip of the lily
in some hallways where love's never been
on a bed where the moon has been sweating
in a cry filled with footsteps and sand."
Leonard Cohen - "Take this waltz" - 




lunedì 6 luglio 2015

Predestination

Regia: The Spierig Brothers
Origine: Australia
Anno:
2014
Durata:
97'
 





La trama (con parole mie): un viaggio nel tempo dopo l'altro, assistiamo alla cronaca dell'esistenza di un agente che lotta per tutta una vita - e forse più - in modo da fermare il criminale che gli è sempre fuggito, responsabile di un attentato che costerà - costa, ed è costato - il sacrificio di più di diecimila persone.
Dal confronto in un bar agli anni sessanta, da ricostruzioni facciali a cambi di sesso radicali, si incrociano le esistenze che influenzeranno gli eventi finiti in un faccia a faccia che potrebbe essere definitivo in uno dei luoghi d'incontro più banali della letteratura occasionale.
Ma sarà davvero finita? O il serpente che delinea il Tempo continuerà a mordersi la coda, portando di nuovo l'agente sul campo, ancora ed ancora, ripercorrendo tappe che crede di conoscere in modi sempre differenti, alla ricerca di una soluzione che non sarà mai la stessa?










Personalmente, ho sempre amato vivere. Neppure nel bel mezzo dei peggiori deliri adolescenziali autodistruttivi all'interno dei quali speravo di essere un genio della poesia pronto a morire entro i trentatre anni sapevo, pur non ammettendolo, di avere l'ambizione di poter essere un Highlander come se fossi tra i protagonisti del film cult della mia infanzia, in grado di attraversare epoche e conoscere ed imparare sempre di più.
Peccato solo per il Tempo.
Il nemico vero di tutti noi, quello che, un giorno o l'altro, finisce per chiedere il tributo a tutto quello che è stato fatto dal giorno della nostra nascita, e presentandoci il conto, fondamentalmente, ed almeno per quanto se ne possa sapere, ci toglie dall'equazione del mondo.
Purtroppo.
Di conseguenza, i viaggi nel tempo non potevano che affascinare il sottoscritto, considerata l'infattibilità dell'immortalità - per quanto gli stessi risultino decisamente poco praticabili, almeno allo stato attuale delle cose -.
Dal Giorno della Marmotta di Bill Murray al recente Edge of tomorrow, dunque, ogni sfumatura che riguardasse il gioco di potere che proprio con il ticchettio dell'orologio portiamo in scena giorno dopo giorno ha finito per avvincermi anche sul grande schermo: a prescindere, comunque, dall'argomento trattato, ho approcciato Predestination principalmente come se fosse un riempitivo da piazzare in una serata post-lavorativa che precedeva un giorno di riposo ancora più lavorativo, senza alcuna pretesa se non quella di accompagnare i Ford dal divano al letto.
I fratelli Spierig, invece, hanno finito per lasciarmi a bocca aperta confezionando uno dei film sci-fi e legati al concetto del Tempo più interessanti degli ultimi anni, riprendendo la fascinazione di Ritorno al futuro per portare il pubblico nel cuore di una vicenda che mescola noir anni trenta, paradossi ed identità pronte a sovrapporsi ed una trama che, per quanto in parte prevedibile, viene rappresentata come meglio non si sarebbe potuto immaginare, quasi Minority report incontrasse Mickey Spillane.
Di fatto, e senza lo stesso clamore pubblicitario a pregiudicarne il risultato, Predestination diviene tutto quello che non era stato il deludente I guardiani del destino, raccontando una storia intensa, profonda ed assolutamente giustificata - per quanto possa esserlo una vicenda di questo tipo - dalla sceneggiatura, lirica nel mostrare il dramma dei suoi protagonisti e le loro vicissitudini, nonchè la solitudine portata sulle spalle da chi decide - almeno in apparenza - di affrontare qualcosa di enormemente grande per costruire una propria via, un proprio futuro - o passato -.
Bravo - nella scelta e nell'interpretazione - Ethan Hawke, funzionale Noah Taylor, una rivelazione Sarah Snook: e dal cast al comparto tecnico tutto pare funzionare pur non portando sullo schermo una rivoluzione in grado di far gridare all'instant cult o al Capolavoro.
Un film solido è questo, che deve fare.
Neanche fosse un agente temporale inviato indietro nel tempo per cambiare il suo ed il nostro Destino.
Spesso, quando si è adolescenti, il pensiero di essere un passo avanti a tutti quelli che ci circondano compromette il rapporto con le stesse persone che, chissà, forse addirittura ci amano, ed in parte con noi stessi, finendo per perdere contatto con realtà, identità, sicurezza.
Dunque il Tempo passa, e si finisce per pensare di essere talmente in controllo delle cose da poter giudicare il proprio io degli anni che furono, e presumere di poter indirizzare l'io di quelli che saranno.
Il fatto è che saremo sempre e solo noi.
In diverse incarnazioni, ma inesorabilmente presenti.
Vivi. Attraverso il Tempo.
Non ci sono risposte o interpretazioni sbagliate, giuste, buone o cattive.
Solo una grande avventura.
E la speranza, la volontà, il desiderio, la lotta affinchè la stessa possa durare il più a lungo possibile.
Perchè la nostra predestinazione è quella di vivere.
E vivere così a fondo da riuscire a sfidare perfino il Tempo.




MrFord




"E lo ridico ancora
per impararlo a memoria
in questi giorni impazziti
di polvere di gloria
e lo ripeto ancora
fino a strapparmi le corde vocali
ora che siamo qui
noi siamo gli immortali."
Jovanotti - "Gli immortali"-  




domenica 22 marzo 2015

Doppelganger

Regia: Gian Guido Zurli
Origine: Italia
Anno: 2015
Durata:
58'




La trama (con parole mie): nel pieno dell'estate del 2017 la giovane Anna scopre accanto a lei al risveglio una misteriosa scatola rossa contenente un'iscrizione che non riesce a decifrare. Parallelamente all'inquietante ritrovamento, la telefonata di un'amica la mette in allarme: deve raggiungere il più in fretta possibile quest'ultima nei pressi di una villa diroccata nelle vicinanze in modo da poterla aiutare.
Nel frattempo, nel 1817, seguiamo le indagini di un commissario legate all'apparente suicidio di Vittoria, una ragazza identica ad Anna coinvolta in un intrigo che vede protagonisti un inquietante prete ed una nobile di origini francesi.
Quale legame unisce le due ragazze? E dove porterà il messaggio contenuto nella scatola?








Gli avventori storici del Saloon dovrebbero ormai sapere quanto al sottoscritto piaccia dare spazio ai giovani registi che cercano di trovare una collocazione all'interno del difficile mondo della settima arte, soprattutto in un Paese non proprio ben messo in questo senso come il nostro: e così è per Gian Guido Zurli ed il suo Doppelganger, interessante progetto che vede mescolarsi atmosfere che ricordano il Cinema di genere made in Italy anni settanta e le suggestioni più recenti di un Maestro come Lynch.
Certo, scritto in questo modo pare che ci si trovi di fronte a qualcosa di clamoroso ed incredibile, ma non temete: come sempre qui al Saloon siamo pane e salame, e per il buon GG vedrò di essere il più schietto e sincero possibile sperando con la mia opinione di poter dare indicazioni utili per il futuro, pur non essendo un regista e non volendo certo cimentarmi in questo spesso ingrato compito.
Doppelganger - titolo decisamente azzeccato e sempre intrigante - è un esperimento poggiato su basi ed ispirazioni senza dubbio funzionali e su un'idea sicuramente affascinante - quella del tema del doppio impreziosita dagli sbalzi temporali -, che sfrutta bene l'ambientazione estiva - nonostante il tema sia decisamente "oscuro" - e regge la sua durata: dall'altra parte, dovendo necessariamente anche parlare degli aspetti negativi, ho trovato il lavoro di Gian Guido più convincente in fase di regia che non di montaggio - il Nostro ha curato entrambi gli aspetti -, a volte troppo frettoloso nel far prendere una direzione all'opera - ma ci sta, in fondo non penso si sarebbe potuto realizzare un prodotto di due ore per poter spiegare per filo e per segno ogni aspetto - ma soprattutto penalizzato da una confezione piuttosto artigianale - che non è necessariamente da interpretare come un aspetto negativo, si pensi all'ottimo Lidris cuadrade di tre di Bianchini - e da un cast non propriamente professionista.
In questi casi sarebbe facile, comunque, criticare aspramente un lavoro che, al contrario, non dev'essere stato affatto semplice, ma allo stesso tempo apparirebbe disonesto affermare che Doppelganger sia esente da difetti o pronto per palcoscenici come concorsi e premi cinematografici: Gian Guido dovrà rimboccarsi le maniche e lavorare ancora, e ancora, e ancora.
Le basi ci sono, le influenze anche - il fatto che l'ombra di Lynch sia presente non risulta eccessivo, radical chic o spocchioso, anzi -: ora starà solo all'autore non mollare e tentare il tutto per tutto in modo da proseguire lungo la strada che ha scelto, e che in Italia pare ormai abbandonata da troppo tempo.
Del resto, reinventare il Cinema di genere potrebbe essere una delle cure più efficaci per riportare la nostrana settima arte ad un livello ben oltre quello cui ormai ci siamo tristemente abituati.



MrFord




Di seguito, l'intervista al regista Gian Guido Zurli ed alla protagonista Clelia Cicero:





-  James Ford:  Gian Guido, Clelia, come al solito, si parte dalla domanda di rito per gli avventori e gli ospiti del Saloon: il vostro rapporto con l'alcool è buono? Cosa bevete di norma? Quali sono i vostri preferiti? Reggete abbastanza da pensare di passare una serata da queste parti?



Gian Guido Zurli: Non reggo molto lalcool. Di solito bevo caffè. Preferisco un bicchiere di vino veramente buono ogni tanto ad uno modesto tutti i giorni.



Clelia Cicero: Buonissimo. Non ho il vizio. Mi piace bere poco, ma bene. Amo i vini. Di solito mi faccio consigliare da chi so che se ne intende. E poi, purtroppo, il mio preferito è lo champagne! 



- JF: Alle spalle l'intro alcoolica, la domanda di rito in questi casi: chi siete e cosa fate? Cosa vi ha portati qui, cosa accompagna la passione per il Cinema e dove sperate o pensate vi porterà questa strada?



Gian Guido Zurli: Non ho idea dove mi possa portare. Per il momento sono felice di poter raccontare delle storie molto interessanti e piene di misteri. Sono sempre stato appassionato di cinema e faccio il montatore da 15 anni. Insegno montaggio video su Final Cut Pro X e Premiere Pro CC, ho scritto numerosi manuali sullargomento e collaboro con il sito I Fiori Del Male, che organizza rubriche video con Philippe Daverio, Vittorio Sgarbi e altri illustri personaggi. Dopo tutte queste esperienze ho pensato di provare a mettere in scena un prodotto cinematografico per il web, coinvolgendo circa una trentina di persone.



Clelia Cicero: Io sono un'attrice e cantante professionista. Questo è il mio lavoro e la mia passione. Amo questo mestiere con tutta me stessa. Mi ha portato fino a qui e mi guida tutt'ora un infinito e profondissimo amore per l'arte e la verità. Il mio sogno nel cassetto è continuare a lavorare in questo ambito e crescere e migliorare sempre di più come artista. 

Un attore non è mai solo un esecutore. Ogni interprete è differente e riesce così a creare una unicità nei personaggi che interpreta. Così, ogni Amleto o Desdemona saranno diversi e la loro bellezza e universalità non si esauriranno mai. Ogni attore ha da dire qualcosa che è solo suo.  Di conseguenza un'altra meta è quella di essere autrice di me stessa. Sto scrivendo un disco e spero anche di produrre un monologo teatrale.



-   JF:  GG, da regista ci si deve sempre occupare di diversi aspetti nella realizzazione di un film: quali sono i tuoi preferiti, e quali, invece, quelli che apprezzi meno e che delegheresti volentieri ad altri?



Gian Guido Zurli: Io mi occupo praticamente di tutto, dallidea iniziale alla promozione del film. Questa la lascerei volentieri a qualcun altro. I miei aspetti preferiti sono proprio la messa in scena e anche il montaggio. Durante le riprese abbiamo la fortuna di poterci appoggiare ad un direttore della fotografia molto bravo, Andrea Ampollini e ad operatori professionali, che naturalmente sono anche amici.



- JF: Stessa domanda per la protagonista: com'è lavorare con un regista? E, in particolare, con GG?



Clelia Cicero: Lavorare con un regista è stimolante. È la guida carismatica di un progetto nel quale si crede. Il regista è come un direttore d'orchestra che deve saper far "suonare" tutti gli strumenti (attori e troupe) alle loro massime potenzialità al fine di creare una musica perfetta e incantevole. È il ruolo più difficile in un film o a teatro. Lavorare con Gian Guido è molto piacevole. Il suo entusiasmo e la passione che condividiamo per il genere del mistero e dell'orrore mi hanno convinta a far parte di questo progetto. 



-  JF:   Altra domanda classica in queste occasioni: come è nato Doppelganger? Quali sono i processi che hanno portato alla sua realizzazione, e alla vostra collaborazione?



Gian Guido Zurli: DOPPELGÄNGER è nato con qualche idea frammentaria. Cosa succederebbe se una ragazza, al suo risveglio trovasse una scatola rossa con dentro un messaggio scritto con simboli alchemici? Cosa succederebbe se questo messaggio fosse stato lasciato da una sosia maligna di questa ragazza? E se questa sosia maligna fosse vissuta 200 anni prima? E da li lidea di realizzare una storia che si svolge contemporaneamente in due epoche diverse. Inizialmente il progetto era nato per realizzare una serie di foto che non ho mai portato a termine. In corso dopera mi sono reso conto che una storia come questa doveva essere raccontata con il mezzo audiovisivo. Fortunatamente, dal punto di vista tecnico, non é stato impossibile da realizzare lavorando nel settore da anni. La fase successiva è stata quella di cercare unattrice invece di una modella.



Clelia Cicero: Gian Guido mi ha chiesto un incontro. Mi ha proposto di essere Anna Persico in Doppelganger. Mi ha raccontato la storia e dopo aver letto la sceneggiatura, che mi ha molto intrigata, ero convinta a partecipare.

Mi interessa il genere, l'atmosfera che emerge, il tuffo nel passato, la bellezza delle location e la possibilità di fare cinema, più in generale, per arricchire la mia esperienza.



-   JF:  Come in ogni tipo di ambito di lavoro, anche il Cinema nasconde pregi, difetti, lotte intestine e legami stretti: come è stato costruire Doppelganger? Il clima sul set era quello da gruppo di amici o l'atmosfera virava più su una collaborazione prettamente lavorativa? Quali sono i lati umani che più e meno preferite di quando girate?



Gian Guido Zurli: Alcuni membri della troupe o del cast erano amici o colleghi che già conoscevo. Altri li ho conosciuti per poter realizzare questo progetto. Ho un ottimo rapporto con chiunque e ciascuno di loro è fondamentale per raggiungere il risultato finale. Sicuramente questa esperienza ha aumentato il legame con molti di loro. I lati umani che preferisco di meno sono le mie ansie nel portare a casa il girato, probabilmente senza di esse sarebbe più facile avere a che fare con me.



Clelia Cicero: Clima ottimo e rilassato. È stato un dettaglio non trascurabile. In progetti come questo bisogna essere un gruppo ed essere molto generosi. Sono rimasta piacevolmente colpita dalla disponibilità e gentilezza di tutti. 

Nel lavoro sul set, ma anche sul palco le caratteristiche che preferisco sono: ognuno deve avere il proprio ruolo e mantenerlo con professionalità in un clima sereno e rispettoso. 

-  JF: L'idea di portare sullo schermo un film d'atmosfere come questo localizzandolo in setting molto "solari" è senza dubbio coraggiosa: a cosa si deve la scelta di non aver optato per una più confortevole cornice notturna e simile all'horror classico?

E, allo stesso modo, cosa si prova a lavorare in una doppia parte, a prescindere dalle questioni temporali?



Gian Guido Zurli: La ragione principale è che non sopporto il freddo, non credo che scriverei mai una storia ambientata in pieno inverno sotto la neve. Inoltre amo molto quei film horror o mystery ambientati in piena estate o primavera, come Non Aprite Quella Porta e La Casa Dalle Finestre Che Ridono. In DOPPELGÄNGER ci sono comunque alcuni interni notte e naturalmente sono molto funzionali alla storia. Nel sequel invece ci saranno sicuramente degli esterni notte. La sceneggiatura è già pronta.



Clelia Cicero: È sicuramente una fortuna per un attore poter avere a disposizione una varia gamma di sfumature da dare al personaggio. Si dimostra duttilità. Io amo molto "trasformarmi" e interpreto sul palco spesso figure anche molto lontane da me.

In questo caso mi sono confrontata con un'altra me che veniva dal passato! Sicuramente affascinante poter indossare i panni di un fantasma  oscuro dal passato...



-  JF:   Chiudiamo in bellezza con la domanda di commiato da sempre sfruttata in queste occasioni dal sottoscritto: pensate a due film italiani e due horror da portarsi con una robusta cassa di rum su un'isola deserta. Quali sono?



Gian Guido Zurli: Questa è una domanda difficile. Un film italiano sarebbe certamente uno di Pupi Avati, ma non saprei quale scegliere tra i tanti. Inoltre, anche se non è un film, ma uno sceneggiato RAI degli anni settanta, porterei i DVD de Il Segno Del Comando. Due horror stranieri sarebbero Mulholland Drive di David Lynch e Shining di Stanley Kubrick.



Clelia Cicero: Non posso scegliere: sarebbero troppi. Scelgo due registi italiani: Federico Fellini e Luchino Visconti. Due horror che amo: La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati e Profondo Rosso di Dario Argento.
 

lunedì 3 novembre 2014

Boyhood

Regia: Richard Linklater
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 165'





La trama (con parole mie): Mason è un bambino figlio di genitori separati che vive con la madre e la sorella in Texas. Quando il padre fa ritorno dall'Alaska dopo più di un anno di lontananza in parallelo al suo trasferimento con il resto della famiglia sfruttato in modo da permettere alla mamma di riprendere gli studi, comincia un percorso che ci porterà a seguirlo fino ai diciotto anni, la fine delle superiori e l'inizio del college.
Attraverso le storie dei due genitori, le amicizie, i legami sentimentali, il rapporto con la sorella, assistiamo alla formazione di un piccolo uomo dalla fanciullezza al momento in cui, libero, si prepara ad affrontare il mondo.
Cercando sempre di cogliere l'attimo.






Non ricordo quale fu il primo film che vidi per intero, o quando.
E neppure saprei calcolare quante pellicole sono passate, in oltre trent'anni, davanti ai miei occhi.
Eppure, nonostante il mio amore incondizionato per la settima arte, ho sempre pensato che il film più intenso, travolgente, bello del quale sarei stato testimone sarebbe stato, di fatto, quello della mia vita.
In fondo, a pensarci bene, nulla più della vita riesce a regalarci emozioni, momenti che fotografiamo in prima persona come istantanee, canzoni che diventano una colonna sonora imprescindibile, ricordi, cicatrici, drammi e grande divertimento.
Richard Linklater, che con la sua trilogia del Before - chiusa alla grande con Before midnight lo scorso anno - ha tentato di trasporre questa stessa sensazione sul grande schermo, torna alla ribalta con quello che è stato senza dubbio il suo progetto più ambizioso, e che, visione alle spalle, si è rivelato anche il suo film migliore, ed uno dei più riusciti di questo duemilaquattordici.
Boyhood, prima di essere un incredibile traduzione della costanza, della pazienza e della passione di un gruppo di lavoro affiatato e straordinario espresso da una collaborazione durata dodici anni - e ci sono amicizie e rapporti di coppia che non ci si avvicinano neanche, a questi numeri -, è il racconto di una vita, senza troppi fronzoli o giri di parole, montato straordinariamente e concentrato sul massimo sistema per eccellenza: la quotidianità della nostra esistenza.
La crescita di Mason, dalle riflessioni di bambino sull'origine delle vespe alla speranza che i suoi genitori possano tornare insieme fino al confronto con i traslochi e le nuove scuole, i due matrimoni vissuti - e falliti - della madre, il liceo, le prime cotte, il rapporto a distanza con il padre, la presa di coscienza di una nuova direzione da prendere con la fine delle superiori e l'inizio del college, quel "cogliere l'attimo" che chiude la pellicola con la stessa leggerezza e semplicità che Linklater è riuscito a tenere dal primo all'ultimo minuto della lavorazione e della presentazione di questo film strepitoso arriva al cuore con una sincerità così disarmante da lasciare quasi commossi.
Si potrebbe addirittura affermare che, in qualche modo, l'uomo dietro la macchina da presa sia riuscito nel miracolo di cogliere l'attimo per alcuni giorni di ripresa dilatati in dodici anni, e per tutta la durata di quasi tre ore del risultato finale: il Capitano Keating sarebbe fiero, del buon Richard e del suo Mason.
Ma non c'è solo questo ragazzo alla scoperta di se stesso, della famiglia e del mondo, in Boyhood: c'è una coppia cresciuta troppo in fretta che tenta, prendendo strade diverse, di ricostruirsi singolarmente un pezzo alla volta - in questo senso, il confronto tra Mason ormai maggiorenne e suo padre nel locale in attesa del concerto è quasi poesia -, a volte attraversando momenti molto difficili - il primo matrimonio fallito, con l'abbandono di una vita che, forse, appariva come un sogno all'inizio della storia -, a volte prendendo coscienza dell'immenso lavoro che solo una madre può e potrà mai fare con i propri figli. Ma non è finita: c'è una bambina ansiosa di essere la prima della classe e la principessa che arriva ad essere una donna capace di gestire il silenzio - soprattutto il proprio - ed il carattere, una nuova famiglia accolta in seno alla "vecchia" come ne fosse parte da sempre, e nonostante le differenze - ed anche in questo caso, ironico e profondo il confronto tra Mason ed il padre prima del battesimo del nuovo arrivato in famiglia, figlio di un'altra donna legata a valori decisamente più repubblicani ed americani di quelli con i quali lui e sua sorella sono cresciuti -.
Ed è solo una parte del complesso mosaico di situazioni, grandi temi e semplicità - il piano sequenza che segue Mason e la sua compagna di scuola in bicicletta - emerso da questa visione, la più intensa e pane e salame - nel senso vivo del termine - che sia capitata davanti ai miei occhi dai tempi di Cous cous o Heimat, per citare due grandiosi esempi europei di Cinema del Tempo.
E quando il Cinema stesso, senza rifugiarsi in effetti o chissà quali illusioni ed illusionismi, si mette a nudo raccontando la Vita, ed il suo scorrere, diventa con forza impareggiabile il mezzo di comunicazione più potente che esista, lo stesso esaltato dal Lupo di Scorsese, dalla magia del commiato di Miyazaki, dalla poesia di Her, dal dramma profondo di Alabama Monroe
I quattro film migliori di quest'anno.
Cui va ad aggiungersi Boyhood, che è la storia di un ragazzo e della sua crescita.
La storia di tutti noi.
Che iniziamo bambini, guardando il cielo chiedendoci da dove veniamo, e da dove vengano le cose attorno a noi, e finiamo adulti, lottando affinchè tutti i nostri difetti non formino più dei pregi le fondamenta delle vite dei nostri figli. 
Da quando sono bambini e guardano il cielo chiedendosi da dove vengono, e dove vadano le cose attorno a loro, a quando diventano adulti, e scoprono quanto breve era la distanza che ci separava.
Miracoli del Tempo.
E del Cinema.


MrFord



"Look at the stars,
look how they shine for you, 

and everything you do, 
yeah, they were all yellow."
Coldplay - "Yellow" -




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