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domenica 14 aprile 2019

Sunday's Child


Torna al Saloon la rubrica che intende sbriciolare ogni record di ritardo sulla pubblicazione possibile, questa settimana giunta al limite della successiva a causa del rientro da New York, del rientro al lavoro, del rientro - più o meno - nella routine dei Fordini. Insomma, un festival dei rientri.
Per festeggiare questa versione domenicale, come avrete già visto e letto, mi affiancano a parlare delle uscite del weekend ormai agli sgoccioli il solito e fastidioso Cannibal Kid e Alessandro Cavallotti.


"A dire la verità so leggere a stento, ma questa postura da finto intellettuale cannibalesco mi pareva buona per rimorchiare."

HELLBOY

"Allora non stiamo solo usando il mezzo di locomozione preferito di Ford, ma siamo proprio ai suoi tempi!"
Ford: inizialmente ero tiepidino rispetto al reboot di Hellboy, charachter supercult nato tra le pagine dei fumetti di Mike Mignola trattato cinematograficamente molto bene da Guillermo Del Toro prima che si rincoglionisse. Poi ho visto un trailer molto tamarro e ho scoperto che dietro la macchina da presa si cela nientemeno che Neil Marshall, scozzesone che io amerò sempre per il mitico The Descent. Dunque inizio scoppiettante per la settimana, reso ancora più scoppiettante dal fatto che probabilmente Cannibal lo detesterà.
Alessandro: Questa nuova versione del fumetto di Mignola promette di essere un futuro superclassico estivo del palinsesto di Italia 1, da accompagnare con birra tiepida e Pringles alla cipolla. Neil Marshall prende il tenente Hopper di “Stranger Things” e lo trasforma nella versione ultracazzara di Kratos. Come se non bastassero la CGI dozzinale, i momenti comici Martellone-style e la planata trionfale con la spada de foco, ad innalzare il livello del trash oltre la soglia terapeutica si mettono pure il doppiaggio di Giannini registrato alle sei di mattina sul Raccordo e i Deep Purple orchestrati da Allevi con la supervisione artistica di Michael Bay. Insomma, pane per i denti di Ford.
Cannibal Kid: Più che detestarlo, probabilmente lo ignorerò alla grande e così farò prima. Già il precedente Hellboy di Guillermo del Toro girato prima che si mettesse a fare film interessanti mi era sembrata una robetta noiosa e trascurabile. Il secondo me l'ero risparmiato e questa nuova versione del sopravvalutato Neil Marshall del sopravvalutatissimo The Descent che si preannuncia una schifezza epocale la eviterò come si evita l'inferno.

AFTER

"E dopo aver fatto finta di leggere, faccio pure finta di scrivere: cosa non si fa per portarsi a letto qualcuna!"
Ford: porcatona romance tratta da un caso editoriale che pare destinata ad essere la degna erede in termini di porcate di Cinquanta sfumature. Tipico filmaccio che per non so quale fascino trash attirerà come una lucciola il mio rivale, pronto ad esaltarlo per qualche assurdo motivo, o quantomeno a difenderlo da chi, come me, dovesse vederlo finirebbe per trattarlo come la vittima sacrificale dell'anno cinematografico.
Alessandro: Scorsi la copertina di questo libro nella sezione “Best seller” di un Autogrill, accanto al cestone pieno di greatest hits di Albano & Romina e Il Volo. Emanava il fascino perverso dell’orrido, ma resistetti e andai a scegliermi un panino. Dopo aver visto questo trailer capisco di aver preso la decisione giusta. Ma ora chi mi restituisce i due minuti dedicati a questa roba? A occhio e croce direi che a questo giro toccherà a Cannibal. Accetto contanti o biglietti per il prossimo tour degli One Direction.
Cannibal Kid: Alessandro, ti sto già inviando i biglietti per gli One Direction. Se mai torneranno insieme. Dita incrociate, ragazze! After si preannuncia già come la porcata guilty pleasure da non perdere quest'anno. E io sono già pronto a esaltarlo come scapolavoro trash del secolo. Alla faccia di quei bulletti finti duri come Ford e un certo noto politico, capaci di prendersela sempre e soltanto con i più (in apparenza) deboli. Che poi prontamente gli fanno il culo comunque. Così come After questa settimana al box office italiano prevedo che metterà KO Hellboy.

L'UOMO FEDELE

"Cannibal? Ancora tu? Smetti di stalkerarmi o dico a quel beone di mio padre di scatenarti contro quel beone di Ford!"
Ford: radicalchiccata totale firmata da Garrel che manderà in visibilio tutti gli snob della settima arte che ormai fortunatamente evito o restano nascosti nelle loro stanzette abitate da coniglioni dark. Ora che ci penso, l'ultimo che ormai frequento abitualmente è proprio Cannibal, che però è una specie di mascotte, e dunque finisco per trattare quasi bene.
Inevitabile la mia snobbata di rimando: ho troppi recuperi già dallo scorso anno, e la recente ripresa in termini di numero di visioni mi fa troppo ben sperare rispetto a titoli che davvero mi interessano.
Alessandro: La bellezza della figlia del compianto (cinematograficamente parlando) Johnny Depp non mi pare un motivo sufficiente per scovare una delle tre o quattro sale d’essai che proietteranno l’opera seconda di Garrel. Il moto ondivago tra dramma e commedia, che vorrebbe recuperare la lezione della Nouvelle Vague, è artificiale e fastidioso quanto l’imitazione vegana della cotoletta. Quello che mi chiedo è: davvero può interessare a qualcuno un prodotto del genere nel 2019? Luigino Garrulo, dammi retta, fatti un Big Mac, offriamo io e Ford. Ti si aprirà un mondo.
Cannibal Kid: Chi c'è di più snob di chi snobba gli snob?
Se c'è qualcuno che può omaggiare degnamente la Nouvelle Vague questi è invece Louis Garrel, non solo figlio e nipote d'arte, ma pure interprete di Jean-Luc Godard nello stupendo Il mio Godard. In questo film, la sua opera seconda come regista, ha deciso di tradire la compagna sia nella vita reale che per fiction Laetitia Casta con Lily-Rose Depp e quindi ne vedremo delle belle. Oppure ci ripenserà e terrà fede al titolo del film e farà L'uomo fedele?

CAFARNAO - CAOS E MIRACOLI

"Se questa roba è buona la metà di quella che devono fumarsi quei bloggers, allora la giornata avrà una svolta senza dubbio positiva."
Ford: possibile sorpresa della settimana, è un titolo che potrebbe fornire materiale per un potenziale scontro tra me e Cannibal - e questo è bene - o quantomeno agitare le acque. Già ai tempi della Notte degli Oscar aspettavo di recuperarlo, dunque direi che, dopo Hellboy e la sua tamarraggine, è senza dubbio la scelta migliore per evitare le sòle che invece consiglierà la mia nemesi.
Alessandro: La voce di Eddie Vedder mi rapisce come poche altre e mi mette in guardia, così come la fotografia e le riprese, mosse e sporche ma non troppo, per non urtare eccessivamente i sensibili occhi occidentali. Il rischio paraculata è dietro l’angolo, ma di fronte a vicende così importanti e dolorose è doveroso mantenere il beneficio del dubbio. Sarà una lacrima strappa storia (cit.) che piacerà tanto al Cannibal? La crudezza e il verismo conquisteranno Ford? Io credo che lo adoreranno entrambi. In fondo in fondo c’è una corrispondenza di amorosi sensi, come per Berlusconi e Travaglio.
Cannibal Kid: Come al solito Ford use due pesi e due misure. Il film di Garrel è per “tutti gli snob della settima arte”, e questo invece no?
Io, da buon snob della settima arte quale sono senza vergognarmene, snobbo i commenti ormai sempre più schizofrenici e che si contraddicono da soli del mio nemico, e mi guardo entrambi, convinto che in modi differenti riusciranno a essere tutt'e due meritevoli. E se poi io e Ford ci troveremo d'accordo, sì che si potrà parlare di caos e miracoli.

WONDER PARK

"E chi sarebbe quello?" "Temo proprio che sia il Cucciolo Eroico, per nostra sfortuna!"
Ford: bambinata trascurabile che mi pare già di sentire il mio rivale additare come nuovo cult di casa Ford giusto perché d'animazione, e che al contrario ovviamente non considererò neppure preferendo far divertire i Fordini con l'ottima selezione di cari, vecchi, cartoni animati selezionati con cura nel corso degli anni dal loro vecchio.
Di Wonder, qui, vedo davvero poco. E forse niente. Un po' come quando apro Pensieri Cannibali.
Alessandro: C’è più fantasia nei video YouTube fatti in casa in cui l’Uomo Ragno e Topolino fanno piroette psichedeliche su ruspe e aeroplani coloratissimi che in questo film, un telefonatissimo wannabe-Pixar con l’aggravante di avere Bello Di Padello Facchinetti tra i doppiatori italiani. Mi unisco volentieri alla famiglia Ford per una maratona cartoonesca vecchia maniera. Porto io la Kahlua. Potrei mettere anche una buona parola per Cannibal se volesse far parte della cumpa, a patto di indossare la parrucca usata da Scarlett in “Lost in Translation”. Wonderful!
Cannibal Kid: La parrucca rosa potrei indossarla soltanto per una bella doppietta formata da Lost in Translation + Closer. Le maratone cartoonesche, sia vecchia che nuova maniera, ve le lascio invece volentieri.
In ogni caso segnatevi le parole di Ford che oggi, giovedì 11 aprile, dice che “ovviamente non considererò neppure” di vedere questo film, e tra tempo massimo una settimana dirà invece: “Wonder Park è l'ottava meraviglia del mondo!”. Scommettiamo?

domenica 27 marzo 2016

Spring

Regia: Justin Benson, Aaron Moorehead
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 109'








La trama (con parole mie): il giovane Evan, californiano, perde nel giro di pochissimo tempo entrambi i genitori, ai quali era legatissimo, ed il lavoro sfogando la tristezza covata dentro nei lunghi mesi passati accanto alla madre malata. Finito nei guai anche con la Legge, decide di allontanarsi dagli States e prendersi un periodo per capire che direzione dare alla propria vita: giunto in Italia, e visitata Roma, si aggrega ad altri due ragazzi percorrendo la costa tirrenica: rimasto solo in una piccola località e trovato un impiego come contadino in cambio di vitto e alloggio, Evan conosce Louise, misteriosa sua coetanea con la quale inizia una storia travolgente fatta di sesso e complicità ma anche di tutti i presupposti per un innamoramento.
La ragazza, però, nasconde un segreto oltre ogni immaginazione: riuscirà Evan a convivere con lo stesso, e la storia a proseguire nonostante questo fardello?









E' davvero curioso, sentirsi dall'altra parte.
Un pò come quando, da studente, invidi i tuoi genitori che lavorano, ed in men che non si dica ti ritrovi con un lavoro e pensi a quanto era bello, al contrario, passare la giornata tra scuola, amici e libri - risultati ed applicazione a parte -.
Oppure quando, da adolescente, immagini di avere non solo il mondo in mano, ma anche un'intelligenza ed una sensibilità che tutti quegli altri stronzi, vecchi o giovani che siano, non avranno mai e poi mai.
E' una sensazione che mi ha accompagnato praticamente per mano nel corso di tutta la visione di Spring, pellicola anomala ed affascinante che ha serpeggiato nella blogosfera nel corso degli ultimi mesi ammaliando grazie ad un setting a noi familiare, una fotografia splendida ed una regia che resta ottimamente in equilibrio tra lo sfoggio di tecnica del giovane e lo sguardo esperto del vecchio.
Del resto, sempre per restare legati alle tematiche che il film affronta, mi sono sempre sentito in bilico tra i due protagonisti: io sono da sempre un grande fautore dell'esperienza e della vita vissuta, e vorrei godermi ogni giorno il più a fondo possibile aggrappandomi alla possibilità che abbiamo con le unghie e con i denti per quanto più tempo sarò in grado di restare aggrappato, ma se qualcuno mi desse l'occasione di poter avere un'eternità per vagare, esplorare, imparare, viaggiare e chi più ne ha, più ne metta, metterei subito la firma.
Per usare paragoni da nerd appassionato di giochi di ruolo, potrei quasi pensare di essere un vampiro con un temperamento da lupo mannaro, o un lupo mannaro che sogna di essere un vampiro.
Ma non voglio divagare troppo scrivendo di quanto mi piacerebbe potermela spassare da queste parti fino alla fine dei tempi.
Vorrei scrivere a proposito di Spring, film dalle due anime, senza dubbio interessante, enormemente affascinante, in grado di comprendere l'una e l'altra parte della mia natura, eppure ancora e clamorosamente acerbo, figlio tanto della grande sensibilità dei suoi autori quanto degli eccessi e della voglia di stupire degli stessi.
Non sapevo cosa aspettarmi, dalla visione, ed ammetto che le bottigliate hanno finito per tentarmi con un bicchiere in più a più riprese, ma in questo senso devo dare merito ai registi di aver confezionato una piccola perla, per quanto grezza, che riesce ad affascinare come la sua protagonista tanto quanto a spingere ed insistere come il suo main charachter: certo, non tutto fila liscio come l'olio, a tratti la sceneggiatura è troppo facile e con il finale, secondo me, ci si gioca molto del coraggio mostrato soprattutto nella parte centrale dell'opera e sul lavoro - ottimo - operato sui cambiamenti fisici contro i quali lotta l'eterna fanciulla - indimenticabili, in questo senso, la sequenza nella cripta prima dell'ultima iniezione o lo scambio di battute, in italiano nell'originale, dei due turisti attoniti all'interno della chiesa -, ma può andare anche bene così.
Spring è un film di formazione, tanto per lo spettatore quanto per chi l'ha progettato, sognato, vissuto: ed è proprio con questo spirito che va affrontato.
Cercate di viverlo sulla pelle, sentirlo scorrere sotto di essa, osservarlo dall'alto, e da lontano, e poi immergervi come se foste in cima ad una scogliera nell'attimo appena prima di tuffarvi ed in quello appena dopo l'impatto con l'acqua.
In ogni viaggio ci sono giorni buoni, e giorni cattivi.
Come nella vita.
L'importante è non fermarsi, e mantenere la mente aperta come se avessimo tutto il tempo del mondo.
E come se ogni giorno fosse l'ultimo.





MrFord





"Love bites, love bleeds 
it's bringin' me to my knees 
love lives, love dies 
it's no surprise 
love begs, love pleads 
it's what I need."

Def Leppard - "Love bites" - 







domenica 19 luglio 2015

Take this waltz

Regia: Sarah Polley
Origine: Canada, Spagna, Giappone
Anno:
2011
Durata: 116'






La trama (con parole mie): Margot è una ventottenne scrittrice freelance felicemente sposata con l'autore di libri di cucina Lou che vive nel cuore di uno dei quartieri più pittoreschi di Monteal. Al ritorno da un viaggio, in aereo conosce Daniel, che scopre essere praticamente un suo vicino di casa, di un anno più grande di lei, dedito alla passione per l'arte quando non impegnato nella sua professione effettiva di conducente di risciò.
Tra i due l'attrazione è immediata, e per quanto Margot cerchi di difendersi, le dinamiche e la quotidianità da coppia ormai rodata con Lou finiscono per essere sconfitte alla distanza dall'attrazione e l'eccitazione di qualcosa di nuovo da costruire con Daniel: ma il nuovo sarà davvero la rivoluzione che promette di essere, o semplicemente qualcosa che appare così interessante proprio perchè lontano dalla vita di tutti i giorni?










Credo che le regole dei rapporti di coppia, per quanto si possa pensare - ed in parte sia senz'altro così - che il proprio sia unico ed irripetibile, in qualche modo abbiano punti di contatto decisamente simili per tutti, quantomeno se si parla di quelli davvero importanti: un inizio folgorante, grazie al quale la persona con la quale ci si appresta a condividere una parte più o meno consistente del viaggio pare quasi ultraterrena, priva di difetti, o perlomeno capace di rendere qualsiasi cosa, giorno o situazione unici, e stupire con effetti speciali dentro e fuori dal letto; una seconda fase di assestamento, all'interno della quale, di norma, si decide di vivere insieme, fatta di entusiasmo e voglia di costruire, sentimenti che esplodono e progetti futuri; una terza che porta ad un'inevitabile routine, sia essa quotidiana, familiare o di tempistiche, e trasforma la persona che amiamo in un essere fallibile, con tutti i difetti - ed i pregi, sia chiaro - del caso, con il o la quale condividiamo il letto perchè è giusto che sia così, anche se i sentimenti hanno finito per offuscare l'istintività selvaggia degli inizi.
A questo punto, di norma, le coppie finiscono per imparare a navigare insieme affrontando tempeste o ammutinamenti, o scoppiano.
Take this waltz, ottima prova molto indie e molto pane e salame di Sarah Polley - attrice e regista già nota per Away from her -, è un ritratto di questo concetto tracciato attraverso occhi e sensazioni di una protagonista fragile ed incostante quanto forte, la Margot di una convincente Michelle Williams, rapportate ai due uomini della sua vita - o almeno, della parte di vita che possiamo osservare sullo schermo - Lou e Daniel.
Lou rappresenta, di fatto, tutto quello che si è scritto poco sopra della coppia rodata: un uomo presente, pronto a scherzare prima che eccitare, che gioca con la compagna grazie ad una complicità probabilmente costruita in ogni giorno del rapporto - bellissimi gli scambi legati alle manifestazioni d'affetto "al contrario" come quel "Ti caverei gli occhi con lo scavino del melone" ed affini - e che è concentrato sul resto della sua vita abbastanza da non accorgersi di quello che gli accade accanto.
Daniel, di contro, ha dalla sua il fervore e l'eccitazione della novità, l'ebbrezza di qualcosa che pare mai vissuto, la sensazione che la vita possa sempre e comunque ricominciare, ancora più eccitante e coinvolgente di quanto non sia mai stata prima: sguardi, intese, sottointesi, riferimenti sessuali espliciti, sfide a distanza e la sensazione di appartenere a qualcuno anche quando non lo si ha.
Margot, combattuta tra la certezza di un sentiero che conosce a menadito ed un altro completamente inesplorato si dibatte tra una canzone - forse il miglior utilizzo cinematografico di sempre di Video killed the radio star - e le lacrime, un tocco immaginato ed uno cercato, le proprie mura ed i desideri: in questo senso, la Polley riesce, pur mostrando una grande sensibilità femminile - si guardino le sequenze della ginnastica in piscina così come dell'aperitivo anticipato con tensione sessuale in agguato -, a coinvolgere anche l'altra metà del suo cielo grazie ad un racconto semplice e senza fronzoli, sincero e diretto come ci si aspetterebbe da una pellicola in pieno "stile Sundance", che conquista proprio per il suo approccio, prima ancora che per originalità o tecnica.
Da tempo sentivo parlare di questo Take this waltz, e devo ammettere di avergli voluto proprio bene, come a quei titoli cui si sente, in un modo o nell'altro, di dovere qualcosa, e che ho associato al ben più triste Blue Valentine, che vide protagonista sempre la Williams: non esistono storie perfette, per quanto si possa pensare all'inizio di ognuna di esse, quanto più il desiderio -  o la mancanza dello stesso - di preservarle.
In fondo, come dichiara candidamente - e a ragione - la vecchia allieva del corso di ginnastica acquatica sotto la doccia, "anche il nuovo prima o poi diventa vecchio": è così per noi così come per le nostre storie. Principalmente, il bello sarà viverle, destinate a finire o a durare una vita che siano.
Perchè da ognuna impareremo qualcosa di noi e dell'altro, dagli inizi con i fuochi d'artificio alle fini seduti di fronte al caminetto, dalla giovinezza esplosiva alla vecchiaia che spegne lentamente.
L'importante sarà aver ballato tutti i nostri valzer.
Senza aver rinunciato neppure ad un giro.




MrFord




"Take this waltz, take this waltz
take this waltz with the clamp on its jaws
oh I want you, I want you, I want you
on a chair with a dead magazine
in the cave at the tip of the lily
in some hallways where love's never been
on a bed where the moon has been sweating
in a cry filled with footsteps and sand."
Leonard Cohen - "Take this waltz" - 




martedì 28 ottobre 2014

Tutto può cambiare

Regia: John Carney
Origine:
USA, Irlanda
Anno: 2013
Durata: 104'




La trama (con parole mie): Dan, produttore discografico di mezza età in crisi lavorativa, sentimentale, d'ispirazione, incontra per caso nel corso dell'ennesimo appuntamento con l'alcool una giovane cantautrice spinta ad esibirsi in una serata "open mic" da un amico, innamorandosi della musica di quest'ultima.
Convinta la giovane a seguirlo in un'improvvisata avventura discografica, i due si troveranno ad assemblare una band di outsiders e registrare per le strade di New York, pronti a cogliere lo spirito della città e fonderlo con i brani scritti da Gretta, questo il nome della fanciulla, ancora ferita dalla storia finita con la nuova star del cantautorato Dave Kohl.
Quali strade la musica porterà i protagonisti di questa storia a percorrere?



Nonostante sia, senza ombra di dubbio, un musicista assolutamente mediocre, devo ammettere che la Musica stessa è stata, nella mia vita, una compagna di viaggio per certi versi più importante del Cinema: nel corso dell'adolescenza ha contribuito ad aiutarmi nei momenti più bui, ed è stata la colonna sonora che ha riempito i momenti migliori e peggiori del viaggio intrapreso fino ad oggi.
Più che quello di musicista, comunque, ammetto di aver spesso sognato di ricoprire il ruolo di produttore discografico, di fatto "il regista" di un disco, a prescindere dalla bravura e dall'intensità dei suoi interpreti: gente come Rick Rubin, giusto per citare l'uomo responsabile della rinascita anche commerciale di Johnny Cash negli anni precedenti alla morte, ha segnato il mio immaginario almeno quanto gli artisti pronti a prendersi la gloria e le copertine di album e riviste.
Da questo punto di vista, Tutto può cambiare - adattamento italiano assolutamente non riuscito del decisamente più interessante Begin again originale - è uno dei film che più è stato in grado - insieme ad Almost famous e Alta fedeltà - di descrivere tutto quello che è il mondo dietro il cantante o il gruppo che sale sul palco e regala al pubblico emozioni uniche: eppure, nonostante una buona confezione, un decisamente efficace Mark Ruffalo, una vicenda romantica assolutamente non scontata da blockbuster hollywoodiano - almeno nella sua risoluzione - ed una struttura legata a doppio filo alla colonna sonora, sono uscito dalla visione completamente distaccato, per nulla coinvolto, quasi come se il fatto di assistere oppure no allo spettacolo non avesse cambiato nulla o quasi della mia vita di spettatore.
Per usare un paragone musicale, potrei affermare che l'esibizione cui ho assistito non sia di fatto riuscita "ad arrivarmi" quanto altri titoli almeno ad una prima occhiata anche inferiori a livello tecnico e produttivo: i primi a non convincermi sono stati i due veri protagonisti, Keira Knightley ed il frontman dei Maroon Five Adam Levine, la prima troppo british nell'accento per poter rendere al meglio il ruolo di cantautrice alla scoperta di New York - senza contare le ormai insopportabili smorfiette da ragazza acqua e sapone che porta in dote non richiesta - ed il secondo decisamente troppo "confident" - anche se, considerato il charachter, potrebbe starci - ed autore di una serie di brani incapaci di fare davvero breccia, senza dubbio inferiori a quelli proposti con la sua band - che, comunque, in linea di massima non mi fa gridare al miracolo -. 
Molto meglio la giovane Hailee Steinfeld, in un ruolo marginale ma in grado di proiettarmi, nel rapporto con suo padre, nel pieno delle atmosfere che di norma si respirano in Californication e tra Becca e Hank Moody.
Ma è troppo poco per una pellicola che ha finito per raccogliere consensi un pò ovunque nella blogosfera e non, firmata dall'autore dell'ottimo Once e che pur non essendo, di fatto, mal riuscita o più semplicemente brutta ha finito per attraversare il sottoscritto senza lasciare alcun segno: non so se sia una questione di età - se l'avessi vista una decina d'anni fa, forse, mi avrebbe toccato più in profondità -, di sensibilità o semplicemente di compatibilità, ma Tutto può cambiare è scivolato via senza lasciare alcuna traccia se non un interessante ritratto di una delle città più affascinanti del mondo - della quale conservo un ormai sbiadito ricordo di quell'ottobre millenovecentonovantaquattro, quando la visitai con gli occhi sgranati di fronte alla grandezza del mondo che iniziavo a provare sulla pelle - ritmata da una selezioni di canzoni decisamente troppo delicate per un palato come il mio.
Certo, considerato come sono andate le cose di recente, non ci troviamo di fronte alla peggiore delle uscite in sala, ma rimanendo in tema di classifiche, Musica e sensazioni, e per parafrasare il Rob del già citato Alta fedeltà, senza dubbio non mi sognerei neppure per sbaglio di considerare il lavoro di Carney degno di una qualsiasi "top five", positiva o negativa che sia.
E per un brano musicale, così come per un film, forse è una cosa addirittura peggiore rispetto ad una stroncatura adatta alle peggiori bottigliate.



MrFord
"You must remember this
a kiss is still a kiss
a sigh is still (just) a sigh
the fundamental things apply
as time goes by."
Frank Sinatra - "As time goes by" - 
 

lunedì 17 marzo 2014

Lei

Regia: Spike Jonze
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
126'




La trama (con parole mie): siamo nel prossimo futuro, in una Los Angeles in cui la gente vive in perfetta simbiosi con la tecnologia e per le lettere - d'amore e non - ci si affida a scrittori professionisti. Theodore Twombly è uno di questi specialisti del settore, un uomo solitario e malinconico che vive continuando a rimandare la firma sui documenti che prevedono il divorzio dalla ex compagna Catherine.
Quando viene introdotto un nuovo software che prevede lo sviluppo e la crescita di un'intelligenza artificiale che si occupi del suo riferimento umano e lo sostenga come la migliore delle amicizie Theodore si affida a Samantha, sua nuova compagna di viaggio in una vita che l'anima artificiale di quest'ultima vuole a tutti i costi conoscere ed esplorare.
Tra i due il rapporto si intensifica a tal punto da iniziare una relazione che porta Theodore ad emanciparsi dal ricordo della storia con Catherine e a guardare avanti: ma sarà davvero possibile per lui un'esistenza come quella immaginata accanto a Samantha?







Un paio di mesi fa, ormai, usciva nelle sale italiane The Wolf of Wall Street, filmone totale in grado di riportare Scorsese ai fasti del suo passato, nonchè vero e proprio ritratto di quelli che sono gli istinti più predatori dell'Uomo, le sue necessità più fisiche, i piaceri che passano dalla bocca, alla pancia, fino alla zona sotto la cintola.
Il Lupo è stato la scossa in questo inizio anno al Saloon, una botta in grado di alimentare tutte quelle pulsioni che sono alla base della passione, della voracità, della voglia di prendersi tutto il possibile da questa vita, resto compreso.
Ed ora, ecco Her - o Lei, e per una volta non deve essere stato troppo difficile l'adattamento dei titolisti italiani -, nuova fatica firmata Spike Jonze, un tipo strano e al limite del radicalchicchismo in grado al contempo di firmare sceneggiature per i pazzoidi di Jackass e passare dai videoclip al Cinema indie in un batter di ciglia: Lei è tutto quello che vive e pulsa dall'altro lato della galassia del Lupo. Una storia d'amore aerea e malinconica, sentita e profonda, ironica e dolcemente triste.
Her è l'anima romantica dell'Uomo, la sua capacità di perdersi in una storia d'amore, la volontà di viverla, di passare dai primi tempi in cui tutto pare così bello da togliere il fiato, in cui il sesso è talmente arrembante da far dubitare che esista altro, in cui ci si perde in ogni piccola molecola della persona che ci sta accanto, in cui si impara a conoscere il suo modo di parlare, vestirsi, muoversi, mangiare, ridere, e si sente di potersi innamorare ancora di più, tanto da rimanere senza fiato, alle battaglie quotidiane per ritrovarsi, comprendere quello che può capitare che sfugga, superare le piccolezze che rendono difficile sopportare anche qualcosa dal peso specifico pressochè nullo.
Her è la risata di una donna che si sa già di amare senza volerlo ammettere, sono i battibecchi provocatori, gli sguardi che si incrociano, la mimica, i gesti, i punti in cui la lingua sbatte sui denti nel momento in cui si pronuncia proprio quella parola, una canzone che pare scritta apposta per quell'istante, e chissà come avrà fatto l'autore ad immaginare proprio noi, qui, ed ora.
E come per il Lupo, poggiato sulle spalle di un Di Caprio straordinario, anche in questo caso il lavoro del regista - elegante e delicato come l'avvolgente fotografia, i colori pastello, i sussurri appena svegli  - è legato a doppio filo ad una grandiosa interpretazione, quella di un Joaquin Phoenix se possibile addirittura superiore perfino rispetto alla superlativa prova offerta con The master, superbo nel trasmettere con un semplice movimento della mano a toccare la montatura degli occhiali tutta la dolcezza e la poesia di un'opera come questa.
Perchè il legame tra Theodore e Samantha non potrebbe essere descritto in altri termini se non quelli che solo la poesia può garantire: una magia che sfiora l'apparente banalità e rende anche i suoi aspetti più ovvi qualcosa che quasi sfugge le leggi della fisica cui la Natura è sottoposta, un massaggio dell'anima che porta brividi al solo pensiero, e toglie il fiato come una nostalgia troppo profonda per essere affrontata, anche quando ci si sente abbastanza forti per farlo.
E la già citata fotografia, la perfetta performance vocale di Scarlett Johansson, la colonna sonora da urlo firmata dagli Arcade Fire, le atmosfere soffuse, quella testa appoggiata dolcemente da Amy Adams sulla spalla di Joaquin Phoenix di fronte ad una nuova alba non rendono abbastanza la delicata forza di questo film: perchè questo è uno di quei titoli in grado di commuovere e colpire anche i più duri, e provocare un desiderio di profonda primavera - fisica e di sentimenti - in chi ne affronta la visione.
Se The Wolf of Wall Street è stato L'animale, Her è senza dubbio La cura.
I due lati dell'anima umana tradotti in quelli che, ad oggi, sono senza dubbio i due film dell'anno.
Ed io, che sono un Lupo, guardo Her ed il miracolo di Spike Jonze e Joaquin Phoenix, e ringrazio davvero che possa esistere l'altra parte: quella della leggerezza, della tenerezza, della poesia, della fragilità.
Perchè non saremmo quello che siamo, senza di essa.
E' l'ossigeno che permette anche all'oscurità di sopravvivere.
E senza di Lei la vita sarebbe infinitamente più triste e più noiosa.
E quella nuova alba sarebbe soltanto una palla di fuoco uscita ad illuminare una fredda primavera senza sole.



MrFord



"This island's sun I've laid a thousand times
fortune me, fortune me, of all of my mistakes
I think I lent you late, now every sick person
seemed to come my way."
The Breeders - "Off you" - 




lunedì 25 febbraio 2013

Ho cercato il tuo nome

Regia: Scott Hicks
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 101'




La trama (con parole mie): Logan è un marine in servizio in Iraq, salvatosi grazie alla foto di una ragazza che non conosce portata indosso da uno dei suoi defunti commilitoni morto in un imboscata.
Tornato negli States dopo tre missioni, il ragazzo decide di scoprire chi è la donna misteriosa, andando alla sua ricerca - e di se stesso - nel profondo della provincia della Louisiana, trovando lavoro nel pensionato per cani dove proprio lei lavora.
Ovviamente tutto sarà come una favola - con tanto di cattivo -, ovviamente i due saranno perfetti e tutti d'un pezzo, ovviamente non ci sarà nulla che potrà fermare il "lucky one".
Insomma, già sapete come andrà a finire, no!?




Lo ammetto, la sera in cui decisi di recuperare questo film cercavo con tutte le mie forze qualcosa che potessi massacrare felicemente e guardare con attenzione a corrente alterna, considerata la stanchezza: del resto, Zac Efron e Nicholas Sparks insieme non potevano che essere garanzia di un titolo che, se soltanto fosse passato un paio di mesi fa al Saloon, si sarebbe senza dubbio alcuno guadagnato il suo bel posto nella top ten dedicata al peggio del 2012.
Già dalle prime sequenze, ambientate in Iraq ed inserite come una sorta di drammatico incipit della storia, si intuisce quale sarà il destino dello spettatore sano di mente medio: un'ora e mezza tra ridicolo involontario, retorica di grana grossa e sentimenti da romanzo rosa di infima categoria da osservare con gli occhi sgranati per lo stupore.
I ralenti sulle esplosioni alle quali miracolosamente scampa il protagonista regalano gli stessi picchi qualitativi di un film con Steven Seagal senza le risate che lo stesso coriaceo action hero ed il suo parruccone possono garantire, senza contare che Zac Efron nel ruolo del marine è credibile più o meno quanto Robert Pattinson in quello di seduttore.
Ma se fosse soltanto la parentesi dedicata alla guerra il problema, tutto sommato si potrebbe anche considerare Ho cercato il tuo nome come la classica proposta super patinata buona per il noleggio del sabato sera al pigiama party e via, senza colpo ferire dritta nel dimenticatoio: invece l'Iraq del cavaliere senza macchia Logan è soltanto la punta dell'iceberg di una vicenda stucchevole e zuccherosa a livelli ben oltre l'irritante, uno sberleffo alla logica neanche ci trovassimo nel peggior film horror possibile ed un vero e proprio monumento alla dannosa ottica del "buoni e cattivi" di stampo disneyano nella più irritante accezione del termine.
Dal cane del protagonista ovviamente sfruttato nell'ambito della storia solo come raccordo per l'aggancio alla ragazza della fotografia cui Logan deve in qualche modo la vita allo sceriffo locale rampollo del sindaco e padre del figlio di lei tutto suona posticcio e falso, fastidioso e scandalosamente fiabesco - e di nuovo, nella peggiore accezione del termine -: attori pessimi, situazioni al limite della fantascienza - il bambino, che ovviamente accetta il prode eroe americano come nuova figura maschile di riferimento, è buono, tranquillo, incredibilmente intelligente, dedito al violino e campione di scacchi, il morto che portava la foto era il fratello e non il marito della donna cercata dal protagonista, l'accettazione di Logan da parte della famiglia della ragazza e la sua abilità in ogni campo sfiorano l'incredibile, dall'addestramento dei cani alla ristrutturazione d'interni -, tutto si concentra in un cocktail da barista per turisti che risulta sempre più ridicolo con il passare dei minuti e la nascita della telefonatissima storia d'amore che è l'anticamera per uno dei finali peggiori che ricordi almeno nelle ultime dieci stagioni cinematografiche, un concentrato di buonismo e falsità di quelli da far venire voglia di pulp, molto pulp, pure troppo.
Effettivamente me la sono proprio andata a cercare, recuperando questa robaccia, e senza dubbio avrei potuto ripiegare per passare la serata su uno dei miei cari, vecchi film di botte che avrebbero procurato senza dubbio soddisfazioni maggiori e risparmiato la sensazione di aver buttato a mare del tempo prezioso, eppure anche pellicole come questa hanno il loro senso, in qualche modo: se non esistessero, continueremmo a ritenere il Cinema un'oasi felice di meraviglia e magia nella quale rifugiarci ogni volta che il mondo costringe la vita a mollare qualche colpo basso, mentre è importante che anche nell'ambito della settima arte sia chiaro che esistano il Male, il Pessimo, il punto zero sul grafico Pritchard, la cacca sullo zerbino.
Ho cercato il tuo nome è proprio quest'ultima.
Fatta dal cane che rifiuta di smettere di abbaiare del vecchio vicino rompipalle.


MrFord


"Why do I wish I never played 
oh what a mess we made 
and now the final frame 
love is a losing game."
Amy Winehouse - "Love is a losing game" -



lunedì 6 agosto 2012

La memoria del cuore

Regia: Michael Sucsy
Origine: Usa
Anno: 2012
Durata: 104'




La trama (con parole mie): Paige è una ragazza altolocata fuggita da genitori troppo opprimenti ed una storia che rischiava di diventare altrettanto triste, reinventatasi artista una volta rinunciato alla facoltà di legge e convolata a nozze con Leo, primo ed unico grande amore della sua vita.
A seguito di un incidente d'auto, Paige perde parzialmente la memoria, rimuovendo i cinque anni che la portarono alla rottura con i suoi e all'incontro con il marito.
Leo si ritrova così costretto a dover combattere per non perdere quella che era sua moglie e cercare di riconquistarla da zero, sperando che il ritorno al passato di Paige non sia troppo per un giovane proprietario di uno studio di registrazione che vive di sogni ed ironia tutti pane e salame.




So che cosa state pensando: quanto diavolo deve aver bevuto il vecchio Ford per propinare un voto tutto sommato discreto ad un film romantico che pare fatto apposta per qualche casalinga disperata o per il Cucciolo Eroico?
La prima risposta è: sempre troppo poco, purtroppo.
L'hangover è una brutta bestia, ed il lavoro e gli allenamenti mattutini del giorno dopo sempre incombenti.
La seconda è: The vow - bel titolo come di consueto snaturato dall'adattamento made in Terra dei cachi - non è così male come potrebbe sembrare.
Ispirato a fatti realmente accaduti e nonostante la presenza di uno dei più inespressivi tra i protetti fordiani - quel Channing Tatum dell'ancora indimenticato Guida per riconoscere i tuoi santi -, La memoria del cuore è la tipica - ma solida - commedia romantica perfetta per una serata di coppia dal giusto equilibrio tra le normalmente più sentimentali richieste femminili a quelle di spessore decisamente più ridotto maschili, un sapiente - e furbo - mix tra dramma e amore in grado di accontentare tutti pur non rischiando - ed osando - quasi nulla.
In questo senso, scomodando paragoni qui al Saloon importantissimi ed altri meno significativi - ma ugualmente piacevoli -, il lavoro di Michael Sucsy è riuscito almeno in parte a riportarmi alla mente due pellicole già cult per il genere come Zack&Miri e Amici di letto, scorrendo via piacevolmente senza mai apparire eccessivo e smielato come temevo sarebbe stato.
Certo, non siamo di fronte ad un film tanto convincente da considerarsi una pietra miliare - neppure nell'ambito delle commedie romantiche -, ma l'idea di fondo ed ispirazione della pellicola funziona ed è sfruttata senza particolari sbavature, riuscendo anche a stimolare riflessioni profonde nel caso in cui ci si trovi a guardarlo con la propria metà - e parlo di storie serie, non valgono quelle o quelli cui mostrerete questo film solo per portaveli a letto una volta! -: in fondo, dover ricominciare da zero con la persona amata - che poi potrebbe essere anche quella che conoscete più a fondo - senza che lei vi riconosca o abbia la memoria di uno qualsiasi dei ricordi che hanno costruito il vostro legame è senza dubbio una delle sfide emotivamente più difficili da affrontare sul terreno già abbastanza minato delle relazioni di coppia, e pellicole che hanno fatto la storia recente della settima arte - Se mi lasci ti cancello su tutte - hanno ricavato da scenari di questo tipo alcuni momenti assolutamente magici che dallo schermo finiscono dritti al cuore dello spettatore.
Le ambizioni di Sucsy non sono certamente le stesse di Gondry, eppure l'intera vicenda è narrata con semplicità ed appare priva di quella ruffianeria da film di San Valentino tipica di prodotti di questo tipo in grado, normalmente, di stuzzicare le mie bottigliate quasi quanto i presunti filmoni da bravi fighetti radical chic: anzi, l'intero lavoro pare molto simile nel suo approccio a quello di Leo, un tipo pane e salame di quelli che tanto funzionano qui al saloon e che saranno sempre benvoluti per ogni cazzotto ben assestato a qualche ex fidanzato uscito dritto dritto dalla versione yuppie di Wall Street.



MrFord



"I've been looking so long at these pictures of you
and I almost believe that they're real
I've been living so long with my pictures of you
that I almost believe that the pictures are
all I can feel."
The Cure - "Pictures of you" -


 

venerdì 25 novembre 2011

Breezy

Regia: Clint Eastwood
Origine: Usa
Anno: 1973
Durata: 102'



La trama (con parole mie):  Frank Harmon è un uomo solitario di mezza età, benestante, in gran forma e legato alla sua indipendenza quanto alla fama di donnaiolo: un tipo tutto d'un pezzo, educato e severo.
Breezy è una giovane hippy alla scoperta del mondo in cerca dell'oceano e della prima, grande occasione di vivere un amore forte e ricambiato.
Quando la giovane chiede per caso un passaggio all'uomo, inizia un rapporto che passa dalla diffidenza, all'amicizia per divenire infine una vera e propria storia: un amore non semplice da accettare, minato dai dubbi di Frank se una ragazza con meno della metà dei suoi anni potrebbe essere la compagna giusta per lui.
E soprattutto, se lui potrebbe essere quello giusto per lei.




Quando alle porte di casa Ford bussa Clint Eastwood è sempre un piacere, a prescindere dal fatto che sugli schermi passino Capolavori come Million dollar baby o Gran Torino o tamarrate eighties dal sapore reaganiano come Firefox.
In questo caso la risposta sta nel mezzo, con un film d'annata - il secondo da regista dell'ex attore dalle due espressioni, con o senza il sigaro - che vide il vecchio Clint cominciare a farsi le ossa - e mostrare il suo talento - dietro la macchina da presa: una storia onesta, solida, con un William Holden in grande spolvero, che tocca il tema dell'amore in età avanzata - argomento che lo stesso regista analizzerà con un piglio decisamente più profondo più di vent'anni dopo con lo splendido I ponti di Madison County - e trova il tempo di regalare più di un sorriso soprattutto nella prima parte, quando si assiste al progressivo avvicinamento di Breezy al ruvido Frank - anche in questo caso, si notano i semi di quello che sarà uno dei tratti distintivi della filmografia eastwoodiana: il rapporto tra maturità e giovinezza -, fatto di battute e provocazioni provenienti soprattutto da Frank stesso.
Certo, non si tratta di qualcosa di memorabile, o di uno script rivoluzionario, ma l'intenzione del regista pare essere quella di raccontare una storia avvicinandola quanto più possibile alla realtà e sottolineando i suoi aspetti più riconducibili al quotidiano, concedendosi anche una sequenza quasi autoriale - la prima notte d'amore di Frank e Breezy - filtrata attraverso il consueto "invisibile" tocco che negli anni ho imparato ad apprezzare quasi più di ogni altra qualità dell'ex Ispettore Callahan in veste di regista.
Ottime parole andrebbero spese anche per Holden, che con lo stile impeccabile che distingueva i protagonisti maschili del genere sentimentale - e non solo - negli anni cinquanta del periodo d'oro dei grandi studios vive una seconda giovinezza neanche fosse lo stesso Frank, catalizzato da una sfida - come nel corso della vicenda potrebbe intendersi l'arrivo di Breezy ed il nascere della sua storia con lei - che lo porti a mostrare al pubblico che rimettersi in gioco e vivere secondo i propri desideri può portare a scoprire quanto sia importante per tornare a provare un brivido che si pensava morto e sepolto sotto anni di muri alzati rispetto all'esterno.
Certo, i detrattori del Cinema Classico - che sia per struttura o età anagrafica - potrebbero storcere il naso di fronte ad uno dei lavori minori del granitico Clint, eppure soltanto il pensiero di certe schifezze zuccherose che girano al giorno d'oggi in sala dovrebbe senza fatica rivalutare la posizione di commedie romantiche come questa, divertenti, solide e sensate come di questi tempi - tranne alcuni rari casi - ci si sogna di confezionare.
E quell'ironico "non durerà neppure un anno", che Frank pare pronunciare quasi ad esorcizzare l'idea del tempo che incombe e del timore naturale all'idea di scommettere tutto quando pare che sia troppo tardi è un monito imperfetto e pieno di vita ad osare, non importa quale sia il prezzo.
Un monito che Clint pare aver raccolto completamente, almeno in ambito cinematografico.
Ed i risultati si sono visti, eccome.

MrFord

"Forever young
I wanna be
Forever young
Do you really want to live forever,
forever, and ever?"
Jay-Z - "Forever young" -





lunedì 24 ottobre 2011

Amici di letto

Regia: Will Gluck
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 109'



La trama (con parole mie): Dylan è un blogger di successo di Los Angeles, legatissimo al padre ex giornalista malato di Alzheimer che ora vive con la sorella; Jamie una giovane cacciatrice di teste in cerca di un nuovo art director per la sede newyorkese di GQ. 
Entrambi, alla fine di una storia, sono stati giudicati dai rispettivi ex emotivamente instabili.
Così, quando Jamie convince Dylan ad accettare il lavoro ed una sistemazione a New York e i due diventano amici per la pelle, decidono di dedicarsi al sesso giurandosi di non cadere nella consueta trappola dei sentimenti per evitare conseguenze per entrambi: ma le buone intenzioni conteranno poco, e quando i due decideranno di darci un taglio per cercare altrove una storia seria finiranno per scoprire che forse la persona di cui hanno davvero bisogno è quella che hanno già accanto.



Considerato come è nato il rapporto tra me e Julez - grande complicità, racconti delle rispettive avventure, uscite a bere nel corso delle quali io finivo a dormire a casa sua completamente sbronzo e lei mi guidava, completamente sobria, confessioni e risate, sboccatissimi resoconti delle nottate passate con altre/i per poi finire quasi a non parlarsi più, e dopo ancora arrivare a sposarsi -, devo dire di essere in qualche modo estremamente vulnerabile alle commedie romantiche legate alla classica situazione dei due amici che, inevitabilmente, scoprono di provare sentimenti che vanno ben oltre l'uscita da pacche sulle spalle e sguardi rivolti altrove: personalmente, mi sento di affermare con una discreta sicurezza che è decisamente più utile iniziare una storia quando la vostra partner conosce già a menadito i vostri difetti, piuttosto che dover fingere per i primi appuntamenti in attesa speranzosa che la ragazza di turno si decida a darvela e scoprire soltanto in seguito manie o difetti che potrebbero rovinare una sorta di "aura mitica" sviluppata nel corso dell'attesa, e finire per scappare quasi senza salutare finendo per ritagliarsi il ruolo del vero stronzo - che ha definito una buona parte del mio passato, peraltro -.
Pur non raggiungendo certo i livelli di Zack&Miri, dunque, Amici di letto diverte ed intrattiene come si conviene, confermando la già buona impressione che il regista Will Gluck mi aveva fatto con l'ancor più convincente Easy A, una delle commedie meglio riuscite passate la scorsa primavera sugli schermi di casa Ford: lo stesso incipit - titoli di testa e montaggio alternato della sequenza del "doppio scaricamento" - di questa pellicola risulta a dir poco folgorante, e prova la freschezza di scrittura di un autore che, almeno in questo genere, potrebbe rivelarsi come uno dei volti più interessanti del panorama statunitense recente, e trova in Justin Timberlake - sono sempre più convinto di vederlo decisamente meglio in questa sua veste da attore, piuttosto che da cantante - e Mila Kunis due spalle perfette sulle quali appoggiare l'intero script - con l'ausilio forse troppo limitato ma ugualmente efficace di un sempre grande Woody Harrelson, che addirittura torna a calcare i campi di pallacanestro di strada a vent'anni di distanza da Chi non salta bianco è -, giocando sulla tipica sincerità tra amici che trova risvolti ovviamente sessuali e ovviamente molto divertenti quando gli stessi amici sono un uomo ed una donna - anche se, occorre ammetterlo, spesso e volentieri la Kunis appare più mascolina dell'apparentemente gay Timberlake -: spassosi, in questo senso, sono i continui riferimenti a Harry Potter e i doppi sensi per nulla velati sparati a raffica da Harrelson all'indirizzo del suo art director.
Non manca qualche piccolo scivolone o momento tirato per i capelli, e forse con una decina di minuti in meno il film avrebbe complessivamente guadagnato in efficacia, ma non lamentiamoci troppo: tra un flash mob ed una sana scopata, molte risate spontanee ed una certa predisposizione dei due protagonisti all'autoironia, questa pellicola dal terribile titolo italiano - molto più convincente l'originale Friends with benefits - appare perfetta per una serata di coppia, e finisce per essere in grado di soddisfare le aspettative delle Jamie sempre in cerca della commedia romantica perfetta e del principe azzurro - Pretty woman, quanti danni hai fatto! - e dei Dylan che, prima di arrivare a capire di essere innamorati, hanno bisogno di pensare di essere duri, fighi, tosti ed inattaccabili. 
Harry Potter permettendo.
Il tutto senza dimenticare che nonostante un panesalamismo diffuso e più che generoso, non c'è una scena volgare neppure a volerla cercare a forza, e le parolacce ed il sesso appaiono quanto di più genuino possa trovarsi in un rapporto di coppia: i benefici di partire dall'amicizia.
Che poi, a ben guardare, offre una tradizione decisamente favorevole: Harry e Sally ne sanno qualcosa.

MrFord

"Your lipstick stains on the front lobe of my left side brains
I knew I wouldn't forget you, and so I went and let you blow my mind
Your sweet moon beam, the smell of you in every single dream I dream
I knew when we collided, you're the one I have decided who's one of my kind."
Train - "Hey soul sister" -

 

mercoledì 28 settembre 2011

Crazy stupid love

Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 118'




La trama (con parole mie): Cal ed Emily Weaver, una coppia apparentemente collaudatissima, tre figli, una bella casa, una vita tranquilla, decidono di divorziare.
Emily, infatti, è in profonda crisi dopo aver tradito Cal con il collega David Lindhagen, e la stessa notizia porta allo sconforto Cal, che si rifugia in serate solitarie in un locale alla moda. Qui è avvicinato da Jacob Palmer, un casanova impareggiabile che, spinto da una sorta di compassione, decide di trasformare l'impacciato uomo di mezza età in un seduttore come lui.
Così, mentre Cal si reinventa come una macchina da sesso pur rimpiangendo la vita in famiglia, suo figlio minore Robbie scopre di essere perdutamente innamorato di Jessica, la babysitter dei Weaver, a sua volta segretamente cotta dello stesso Cal.
David, intanto, non desiste dal corteggiare Emily e Jacob trova l'amore in Hannah.
Ma le sorprese non sono affatto finite.



Sono davvero sorpreso.
A volte, nonostante le presentazioni, le impressioni, la distribuzione e la pubblicità completamente fuorvianti, c'è anche la possibilità di ritrovarsi di fronte ad una pellicola fresca, divertente e piacevole come Crazy stupid love, un vero gioiellino del suo genere che rappresenta, senza dubbio, il meglio della commedia sentimentale made in Usa di quest'anno accanto all'altrettanto interessante Easy A, cui risulta legato dalla presenza di Emma Stone e di Nathaniel Hawtorne, che con il suo La lettera scarlatta torna a far parlare di sè in una delle sequenze più divertenti che coinvolgono Robbie, il figlio adolescente o quasi di Cal ed Emily.
Ma le sorprese che Crazy stupid love è in grado di offrire sono molte, distribuite con equilibrio, ed intelligentemente in bilico tra la risata sguaiata e fracassona e la riflessione malinconica e quasi amara: dal divorzio e le sue implicazioni alla magnifica macchietta interpretata da Marisa Tomei - sempre più milf e sempre bravissima -, dal rapporto tra genitori e figli alla costruzione di una delle amicizie sullo schermo che più ho gradito negli ultimi tempi, quella tra l'inizialmente sfigatissimo Cal/Steve Carell ed il tutto d'uno pezzo Jacob/Ryan Gosling, che ribaltano il concetto maestro/allievo - ottime le citazioni di Karate kid - e si tuffano quasi senza volerlo - grande merito della sceneggiatura - in quello tra padre e figlio, complice la storia personale di Jacob, svelata soltanto con il passaggio del ruolo dello stesso giovane da seduttore ad innamorato.
Tornando al già citato Robbie, inoltre, va sottolineato un lavoro eccellente in fase di script, tanto da rendere il piccolo Weaver uno dei personaggi più azzeccati e ben strutturati dell'intera pellicola - da urlo il suo faccia a faccia con David Lindhager nell'ufficio di sua madre -, senza contare che l'intero cast pare clamorosamente in forma e a proprio agio nel portare in scena i protagonisti della vicenda, regalando al pubblico momenti magici come l'inconsueta "riunione di famiglia" che porta tutte le storie a confluire in una situazione clamorosamente grottesca nel giardino dei Weaver, curato maniacalmente da Cal anche dopo la sua separazione da Emily, in gran segreto, neanche fosse la più losca delle relazioni extra coniugali.
Il tutto senza mai perdersi in sbrodolate inutilmente romantiche o nella consueta gestione della risoluzione delle vicende - uno dei grandi drammi delle commedie sentimentali è proprio dato non tanto dal lieto fine, quanto dalla banalità dello stesso -, qui, seppur non con un'inventiva da film d'autore rivoluzionario a tutti gli effetti, gestita con grande sensibilità ed un occhio ad un pubblico ben più attento ed esigente di quello da distributore automatico in stile bancomat del film da vedersi sul divano il mercoledì sera tanto per non rischiare la coda al Cinema.
Un lavoro riuscitissimo, dunque, sotto ogni punto di vista, che vale una e più visioni e non rischia in alcun modo di stancare lo spettatore: e da lui a lei, passando per la prole eventuale o i gruppi di amici, non c'è un protagonista che non rappresenti almeno in parte lo spettatore, quasi come se potessimo in qualche modo prenderci una pausa e, senza accorgerci di guardare a noi stessi, potessimo scoprire, riscoprire e farci una risata su uno dei più grandi misteri della vita: l'amore.
Pazzo stupido amore, per l'appunto.
E, a volte, anche un pò stronzo.
Parola di Nathaniel Hawthorne. E di Robbie.

MrFord

"This thing called love I just can't handle it
this thing called love I must get round to it
I ain't ready crazy little thing called love."
Queen - "Crazy little thing called love" -
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