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martedì 25 luglio 2017

Spider Man - Homecoming (John Watts, USA, 2017, 133')




Ricordo molto bene il giorno in cui, in barba alle letture occasionali ed alle centinaia di Topolino passati tra le mani nel corso dell'infanzia, cambiò il mio rapporto con il mondo del Fumetto: era la fine di agosto del novantuno, avevo concluso la prima media, sembravo ancora un bambino delle elementari, avevo conosciuto il primo dolore della perdita con la morte di mia nonna pochi mesi prima ed ero al mare per le classiche ferie in famiglia: in edicola, una mattina in cui mio padre mi mandò a comprare i quotidiani, intravidi il numero settantotto della collana dell'Uomo Ragno targato Star Comics, intitolato Duello Selvaggio.
Restai spiazzato: in copertina campeggiava uno Spidey con indosso un costume nero che non avevo mai visto - e che resta il mio preferito ancora oggi -, minacciato da quello che, l'avrei appreso in seguito, era uno dei nemici simbolo degli X-Men, Sabretooth.
Sfogliando quelle pagine, scoprii che Peter Parker non era più il ragazzino che ricordavo dai cartoni animati, bensì un uomo - per quanto allora vecchi mi potessero sembrare gli universitari o poco più - con un lavoro, una fidanzata ed una vita "avviata": rimasi come ipnotizzato.
Da quel giorno per quasi vent'anni seguii ogni quindici giorni le avventure di Testa di tela, ancora oggi il mio eroe Marvel preferito, un nerd sfigato che rivelava attraverso la maschera tutto il suo potenziale, che costruiva il suo mito sulla fallibilità ed affrontava la paura a suon di battute.
Ricordo anche l'esaltazione che provai quando uscì il primo film diretto da Sam Raimi, perfetto nel ricostruire l'atmosfera classica dell'albo e lo spirito del personaggio, seguito da un secondo capitolo forse addirittura superiore al primo: da quel momento in poi, cominciai progressivamente ad allontanarmi dal Fumetto seriale, ed assistetti contemporaneamente al tracollo del destino cinematografico di Spidey.
Dopo il terribile terzo film firmato da Raimi vennero i due reboot di Marc Webb, non così pessimi ma totalmente privi di quel guizzo che aveva indotto un ragazzino pelle e ossa nei primi anni novanta a scommettere su quell'albo in particolare: questo fino a quando, nel Civil War che celebrava l'ennesimo successo del Cinematic Universe, faceva il suo esordio ufficiale il "nuovo" Spider Man, molto teen e molto moderno, in linea con le nuove generazioni di lettori e spettatori che ora finiranno per identificarsi in lui tanto quanto io, oggi, finisco per sentirmi più vicino ad Happy o Tony Stark.
O perfino all'Avvoltoio - specialmente quando si tratta di proteggere la propria figlia dai potenziali fidanzati -.
Di questo Homecoming avevo letto un gran bene, in giro, e devo ammettere che il lavoro svolto è senza dubbio fresco, veloce, appassionante e sorretto da un casting ottimo, dal giovane protagonista fino ad un sempre mitico Michael Keaton, che in questo caso pare aver rimembrato Birdman e sfoderato il suo lato da villain "operaio", senza dubbio superiore a tutti i film recenti dedicati all'amichevole Uomo Ragno di quartiere ma incapace, a mio parere, di raggiungere i livelli dei primi due film realizzati dal già citato Sam Raimi - nonostante Tobey Maguire mi abbia sempre fatto cagare come volto di Peter Parker -.
Devo inoltre ammettere che, se confrontato con molti prodotti legati, per l'appunto, al Cinematic Universe, il pur simpatico Homecoming perde il confronto sia con i due capitoli dedicati ai Guardiani della Galassia, a Strange, ad Ant Man e via discorrendo, risultando forse fuori posto quasi quanto si deve sentire il giovane Pete di fronte al veterano Tony Stark.
Niente di particolarmente grave, ovviamente, per un popcorn movie godibilissimo e divertente, ma forse, considerato l'amore che provo per il personaggio, non mi sarebbe dispiaciuto trovare qualcosa in più.
O chissà, forse quel bambino della fine di agosto del novantuno è ormai diventato troppo vecchio, e finisce per sentirsi "scomodo" di fronte ad un film di supereroi che gli fa immaginare il momento non così distante in cui dovrà accompagnare i figli adolescenti al ballo.
O a quello che sarà.




MrFord




 

venerdì 9 maggio 2014

The Lincoln Lawyer

Regia: Brad Furman
Origine: USA
Anno: 2011
Durata:
118'





La trama (con parole mie): Mick Haller, uno squalo delle aule di tribunale specializzato nella difesa di criminali, è contattato dai rappresentanti di una ricca famiglia che si trova a dover fare i conti con le accuse che pendono sul capo del suo più giovane esponente, Louis Roulet, arrestato per aggressione, stupro e tentato omicidio di una ragazza e professatosi fermamente innocente.
Quando Mick si mette all'opera in modo da smontare le accuse rivolte al suo nuovo cliente, però, torbidi segreti vengono a galla innescando in lui una sorta di crisi di coscienza che lo porta a dubitare della condotta tenuta nello svolgimento della professione fino a quel momento: quando Roulet e la sua famiglia finiscono per diventare una minaccia per lo stesso Haller, l'avvocato dovrà dare fondo a tutta la sua abilità per uscire vincitore dalle battaglie dentro e fuori dall'aula, sperando di poter preservare la sua vita e quella di chi ama.








Non c'è che dire: se qualche anno fa qualcuno mi avesse detto che Matthew McConaughey sarebbe stata la principale ragione dietro il recupero di un film avrei riservato al suddetto qualcuno le bottigliate delle grandi occasioni, o quantomeno una sonora risata di scherno.
L'ex bamboccione da commedia romantica, invece, alle spalle i suoi anni da pupazzo da film di cassetta, ha saputo reinventarsi regalando agli appassionati della settima arte interpretazioni ottime legate a pellicole decisamente importanti, da Killer Joe a Dallas buyers club, senza negarsi apparizioni di lusso in serie televisive - True detective - o in titoli "minori" di qualità decisamente superiore alla media come questo The Lincoln Lawyer: tratto da un romanzo di Michael Connelly - autore, tra le altre cose, anche di Debito di sangue, che tutti i fan del grande Eastwood ben ricorderanno - e diretto con mestiere dall'artigiano semisconosciuto Brad Furman, questo lavoro ben rappresenta l'abilità tutta americana di portare sullo schermo prodotti di alto livello anche quando, di fatto, non si parla di blockbuster dalla distribuzione enorme o proposte altamente autoriali - esattamente il contrario di quello che accade qui in Italia, tanto per girare il coltello nella piaga -.
Cast ricco, variegato e di grande spessore - McConaughey, per l'appunto, ma anche Marisa Tomei, William Macy, Bryan Cranston, Ryan Philippe, John Leguizamo e Michael Pena, giusto per citare i più importanti e noti -, un ritmo che tiene benissimo nel corso delle quasi due ore di visione ed un piglio che ricorda i legal thriller in gran voga negli anni novanta come L'uomo della pioggia o Erin Brockovich, pur virando maggiormente dalle parti del thriller piuttosto che quelle legati alla denuncia sociale.
Nonostante, comunque, il crescendo tipico del prodotto crime - in un certo senso, parliamo di una versione di serie a di quella schifezza colossale di Un ragionevole dubbio -, la profondità del messaggio è decisamente visibile, ed è legata ad una riflessione sul concetto di Giustizia e sulla sua applicazione, spesso e volentieri, almeno negli States, influenzata dall'abilità degli avvocati di ribaltare sentenze o previsioni della vigilia in aula più che basata su principi in grado di garantire a tutti un trattamento equo e ponderato, sempre e comunque.
Senza dubbio, come tutti i film di redenzione legati ad un antieroe, l'evoluzione della vicenda non potrà non risultare almeno in parte telefonata, eppure il tutto viene giustificato con una logica che funziona, e ad una prima parte di piena costruzione con un McConaughey scatenato nel ruolo dello squalo da aula di tribunale ne corrisponde una seconda da fiato sospeso, forse meno riuscita ma comunque più che piacevole da seguire, ed in grado, qui al Saloon, di tenere sveglia Julez fino alla fine - impresa non da poco, come ben sapranno gli avventori storici abituati a questo bancone -: il confronto tra l'avvocato difensore e la sua nemesi - che corrisponde di fatto al suo assistito - tiene bene e funziona, gli argomenti più profondi finiscono per non togliere spazio alla trama e non risultare verbosi e pesanti, i personaggi vengono delineati con la giusta attenzione ed il finale non risulta consolatorio come spesso e volentieri accade quando si incontrano titoli di questo tipo.
The Lincoln Lawyer è il tipico film old school, solido e godibilissimo, di quelli che quando si incontrano in tv si finisce per seguire sempre e comunque, anche quando li si conosce a memoria, perchè si sa bene che non tradiranno le attese: e di titoli di questo piglio c'è bisogno come l'aria, nonostante non siano certo destinati a lasciare chissà quale traccia con il loro passaggio, principalmente perchè finiscono per essere i veri e propri polmoni della passione per il Cinema che ci portiamo dentro, ossigenando occhi, cuore e testa preparando il terreno per quelli che finiamo per definire cult o Capolavori.
I film come questo, di fatto, sono i centrocampisti della settima arte.
Ce la mettono tutta, allargano le spalle, guadagnano la pagnotta e, chissà, magari finisce anche che vincano qualcosa di grosso.
Un pò come quel McConaughey sul quale, qualche anno fa, non avrei puntato un soldo bucato.



MrFord



"Add to the memory you keep
remember when you fall asleep
hold to the love that you know
you don't have to give up to let go."
Deadmau5 - "I remember" - 



martedì 26 marzo 2013

Cyrus

Regia: Jay Duplass, Mark Duplass
Origine: USA
Anno: 2010
Durata: 91'



La trama (con parole mie): John è un montatore freelance divorziato ormai da sette anni dall'ex compagna Jamie, in procinto di risposarsi con Tim. Depresso e solo, è invitato proprio dalla coppia ad una festa dove conosce Mollie, che da subito mostra interesse sincero ed attrazione per l'uomo.
Ne nasce una storia d'amore che decolla immediatamente, e che John ha intenzione di vivere senza lesinarsi nulla, specie considerando il tempo perduto a commiserarsi dopo la fine del suo matrimonio: quello che il malcapitato non sa, però, è che Mollie ha cresciuto da sola un figlio ormai più che ventenne, Cyrus, che dietro una facciata disponibile e cortese nasconde un carattere infantile, egoista e pronto a battersi per una territorialità che ha al centro proprio la madre.
Nonostante un inizio apparentemente tranquillo, tra i due uomini si scatenerà una vera e propria lotta per le attenzioni - ed il futuro sentimentale - di Mollie.




Nell'ambito del Cinema made in USA, la realtà del Sundance è stata una delle più soddisfacenti e controverse che il Saloon abbia conosciuto nel corso degli anni: accanto a rivelazioni strepitose - Little Miss Sunshine su tutte - sono passate vere e proprie chicche d'autore che seppellire di bottigliate è stato un grandissimo piacere - oltre che un dovere -, che hanno reso il Festival creato da Robert Redford uno dei più stimolanti e rischiosi nel panorama cinematografico mondiale.
Da parecchio tempo, e proprio riferendomi ad esso, sentivo parlare di questo lavoro dei Duplass, peraltro attraverso commenti sicuramente positivi, dunque non potevo lasciare che sfuggisse ancora per molto alle attenzioni del sottoscritto: fortunatamente per casa Ford, occorre da subito ammettere che Cyrus è indiscutibilmente parte del "lato buono" del Sundance style, quello privo di autocompiacimenti o menate da pseudo artisti di sorta e decisamente orientato verso i sentimenti dei protagonisti delle pellicole così come quelli del pubblico, inevitabilmente coinvolto e toccato da lavori che, pur essendo lontani dall'esperienza di chi li guarda, finiscono per coinvolgere quasi fossero racconti di vita di qualche vecchio amico ritrovato con piacere.
Arricchito da un cast in più che discreta forma - non capita tutti i giorni, del resto, di avere a disposizione per una pellicola indipendente John C. Reilly, Marisa Tomei e Jonah Hill nel ruolo di protagonisti - e da uno script dolceamaro in grado di mescolare ironia ed una punta di tristezza che definirei "autunnale", questa riflessione sul rapporto tra genitori e figli e sul valore di una storia quando, superati i quaranta e soli, si finisce per autoconvincersi che non ci sarà più un futuro - sentimentalmente, ma non solo, parlando - appare credibile e sincera, mai persa in inutili autorialismi e concentrata sul suo lato più schietto e pane e salame, nonchè privo di vergogna nell'essere mostrato anche nei suoi lati decisamente più inquietanti - il rapporto tra Mollie e Cyrus non è sicuramente una cosa da prendere a cuor leggero -.
Quella che sarebbe potuta essere, nelle mani ad esempio di uno come Judd Apatow, una commedia assolutamente demenziale e senza dubbio bassa, diviene per i Duplass un'occasione per mostrare tre solitudini che, nel loro incontro - e scontro - trovano lo stimolo perchè le cose assumano una dimensione nuova e le vite prendano una direzione diversa da quelle di losers che paiono avere impresse a fuoco sulla pelle, almeno agli occhi di chi, all'esterno e baciato "dal successo" - la coppia Jamie/Tim - potrà sempre e soltanto guardare dall'alto in basso.
Certo, non staremo parlando della pellicola del secolo, o di un'esperienza destinata a cambiare la vostra vita di spettatori, eppure nel romantico riscoprirsi di John e Mollie, nella lotta senza quartiere tra lo stesso John e Cyrus, nel rapporto che lega il ragazzo alla madre c'è qualcosa di genuino e spontaneo così come di scombinato e disfunzionale, tutto però concentrato nel desiderio di trovare un riscatto che possa in qualche modo dare una dimensione nuova ad una vita vissuta sempre e comunque per sottrazione, alimentata da una tristezza di fondo che soltanto chi pensa di essere destinato ai margini può avvertire.
Un film da non protagonisti, lontano dalle scene madri e girato come fosse una produzione molto, molto low budget, eppure in grado di lasciare il suo segno piccolo piccolo e non sfigurare accanto a pellicole ben più blasonate ma decisamente meno portate al cuore di questa.
Se un giorno vi ritrovaste soli - a casa, o senza lavoro, o in assenza di un/a compagno/a, lontani da tutto - fate appello a tutta la forza possibile e lasciate scorrere dagli occhi al cuore le vicende di questi tre insoliti charachters, perchè oltre il pessimismo, la malinconia ed una certa quale disperazione sotterranea - ma non troppo - potreste trovare la forza di recuperare quello spirito - in tutti i sensi - per ricominciare da capo.
E addirittura scoprire che tutta quella fatica è servita a portarvi in un posto migliore.


MrFord


"I'm gonna clear out my head
I'm gonna get myself straight
I know it's never too late
to make a brand new start."
Paul Weller - "Brand new start" -


martedì 10 gennaio 2012

Le idi di marzo

Regia: George Clooney
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 101'
La trama (con parole mie): siamo in Ohio, nel pieno delle primarie del Partito Democratico, che vede un testa a testa tra i suoi due candidati principali per quella che pare già una vera e propria corsa alla Casa Bianca, in barba alle più deboli e meno accreditate alternative repubblicane.
A fronteggiarsi nella lotta sono il solido Senatore Pullman ed il suo addetto stampa Tom Duffy e l'astro nascente Governatore Morris, sospinto nella sua campagna dall'esperto Paul Zara e dal rampante Stephen Meyers, intelligente nuovo volto della politica che pare abbia abbracciato in tutto e per tutto e con la massima fiducia il programma del suo leader.
Quando, però, Stephen si ritroverà, di colpo, a contatto con la realtà degli intrighi e delle bassezze tipica dei giochi di potere, avrà soltanto due strade possibili: lasciarsi tutto alle spalle, e dimenticare che il mondo si regge sul compromesso, o diventare perfino peggiore di chi lo ha stretto all'angolo.





Il fatto che George "Nespresso" Clooney fosse decisamente migliore come regista che come attore ero quasi certo di saperlo da tempo.
Del resto, Confessioni di una mente pericolosa fu un esordio più che convincente, Good night and good luck una conferma di grandissimo stile e In amore niente regole un sottovalutato, splendido omaggio alla slapstick comedy degli anni cinquanta e sessanta.
Ma con Le idi di marzo il buon Mr. Ocean pare aver definitivamente raggiunto una maturità che lo potrebbe lanciare definitivamente come autore figlio di una tradizione a stelle e strisce solida e tosta come si era abituati a gustarsi negli anni settanta grazie a gioielli come Tutti gli uomini del Presidente, tanto per rimanere in tema.
Perchè Le idi di marzo è un dannatissimo, ottimo film.
Nel pieno di quello che pare il declino - purtroppo - della forse eccessivamente sopravvalutata era Obama l'ormai italiano d'adozione George, democratico convinto ed acceso, decide di voltarsi dentro - più che indietro - e scavare in quelle che sono le cicatrici lasciate dalla politica come espressione massima della natura assolutamente instabile, selvaggia e crudele dell'Uomo.
Anche e soprattutto in seno al "suo" partito.
Avvalendosi di un cast in forma smagliante - su tutti lui stesso, per la prima volta a mia memoria in un ruolo solo apparentemente limpido ed un lanciatissimo, stratosferico Ryan Gosling, ormai nuovo volto di una generazione che speriamo possa portare nuova linfa in casa Hollywood, ma senza dimenticare le ottime spalle Paul Giamatti e Philip Seymour Hoffman - e di una sceneggiatura solida per quanto non ad orologeria, Clooney gioca con gli specchi e le espressioni del suo protagonista, traghettandoci lungo un fiume che è puro oblio dalle rive dei sorrisi per la tv e le certezze della sicurezza da campagna elettorale ai meandri della città dolente che siamo costretti a costruire per proteggerci dalla nostra stessa Natura, e che, ingenuità o calcolo, finisce per metterci a rischio - e alla prova - di fronte a noi stessi, prima che agli altri.
Una pellicola necessariamente pessimista e cattiva, che lascia ben poco in cui sperare, eppure mai priva di una passione che risulta evidente dall'impegno - quasi politico - di quella che, di fatto, appare come una denuncia da parte del suo autore, che lancia un grido d'allarme rispetto all'evidente conflitto che trova nei giovani le sue vittime ideali, da Stephen/Ryan Gosling a Molly/Evan Rachel Wood, cadute nel tranello di un idealismo che non può coesistere con l'essere Uomini, e trova i suoi interpreti ed insegnanti nei due terribili ritratti offerti dai personaggi di Tom e Paul, e la migliore amica nella stampa rappresentata da Ida/Marisa Tomei, fulcro di una sequenza da brividi proprio a ridosso del finale.
Ed è proprio sull'epilogo, tradotto magistralmente da un cambio di espressione ed atteggiamento così potente da farmi tornare alla mente l'impatto che ebbe su di me la visione del Viggo Mortensen di quel Capolavoro di A history of violence, che è mostrato il dramma di questo film.
Un film che rispecchia un'epoca in cui tutto quello che ci è rimasto è la scelta di come essere vittime di un mostro che noi stessi abbiamo contribuito a creare, che siamo proprio noi, e guardiamo dritto negli occhi dallo specchio al mattino fino ai telegiornali e alle tribune politiche della prima serata.
Un film che racconta una storia di violenza, per l'appunto, e una storia americana.
Eppure, in grado di parlare il linguaggio universale del sacrificio che è richiesto per arrivare fino ai vertici. 
Un sacrificio straziante e spietato che chiamare compromesso sarebbe riduttivo.
Un sacrificio che tutti noi ben conosciamo, perchè in realtà è quello cui siamo costretti - anche senza accorgerci, o cercando di mandare giù il boccone - ogni giorno.
Queste idi di marzo sono decisamente più amare di quelle che subì Cesare.
Perchè a pugnalarci, questa volta, siamo noi.
Un suicidio programmato che possa garantirci la sopravvivenza.
O almeno così siamo portati a credere.


MrFord


"Il mio nemico non ha divisa
ama le armi ma non le usa
nella fondina tiene le carte visa
e quando uccide non chiede scusa
il mio nemico non ha divisa
ama le armi ma non le usa
nella fondina tiene le carte visa
e quando uccide non chiede scusa."
Daniele Silvestri - "Il mio nemico" -

mercoledì 28 settembre 2011

Crazy stupid love

Regia: Glenn Ficarra, John Requa
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 118'




La trama (con parole mie): Cal ed Emily Weaver, una coppia apparentemente collaudatissima, tre figli, una bella casa, una vita tranquilla, decidono di divorziare.
Emily, infatti, è in profonda crisi dopo aver tradito Cal con il collega David Lindhagen, e la stessa notizia porta allo sconforto Cal, che si rifugia in serate solitarie in un locale alla moda. Qui è avvicinato da Jacob Palmer, un casanova impareggiabile che, spinto da una sorta di compassione, decide di trasformare l'impacciato uomo di mezza età in un seduttore come lui.
Così, mentre Cal si reinventa come una macchina da sesso pur rimpiangendo la vita in famiglia, suo figlio minore Robbie scopre di essere perdutamente innamorato di Jessica, la babysitter dei Weaver, a sua volta segretamente cotta dello stesso Cal.
David, intanto, non desiste dal corteggiare Emily e Jacob trova l'amore in Hannah.
Ma le sorprese non sono affatto finite.



Sono davvero sorpreso.
A volte, nonostante le presentazioni, le impressioni, la distribuzione e la pubblicità completamente fuorvianti, c'è anche la possibilità di ritrovarsi di fronte ad una pellicola fresca, divertente e piacevole come Crazy stupid love, un vero gioiellino del suo genere che rappresenta, senza dubbio, il meglio della commedia sentimentale made in Usa di quest'anno accanto all'altrettanto interessante Easy A, cui risulta legato dalla presenza di Emma Stone e di Nathaniel Hawtorne, che con il suo La lettera scarlatta torna a far parlare di sè in una delle sequenze più divertenti che coinvolgono Robbie, il figlio adolescente o quasi di Cal ed Emily.
Ma le sorprese che Crazy stupid love è in grado di offrire sono molte, distribuite con equilibrio, ed intelligentemente in bilico tra la risata sguaiata e fracassona e la riflessione malinconica e quasi amara: dal divorzio e le sue implicazioni alla magnifica macchietta interpretata da Marisa Tomei - sempre più milf e sempre bravissima -, dal rapporto tra genitori e figli alla costruzione di una delle amicizie sullo schermo che più ho gradito negli ultimi tempi, quella tra l'inizialmente sfigatissimo Cal/Steve Carell ed il tutto d'uno pezzo Jacob/Ryan Gosling, che ribaltano il concetto maestro/allievo - ottime le citazioni di Karate kid - e si tuffano quasi senza volerlo - grande merito della sceneggiatura - in quello tra padre e figlio, complice la storia personale di Jacob, svelata soltanto con il passaggio del ruolo dello stesso giovane da seduttore ad innamorato.
Tornando al già citato Robbie, inoltre, va sottolineato un lavoro eccellente in fase di script, tanto da rendere il piccolo Weaver uno dei personaggi più azzeccati e ben strutturati dell'intera pellicola - da urlo il suo faccia a faccia con David Lindhager nell'ufficio di sua madre -, senza contare che l'intero cast pare clamorosamente in forma e a proprio agio nel portare in scena i protagonisti della vicenda, regalando al pubblico momenti magici come l'inconsueta "riunione di famiglia" che porta tutte le storie a confluire in una situazione clamorosamente grottesca nel giardino dei Weaver, curato maniacalmente da Cal anche dopo la sua separazione da Emily, in gran segreto, neanche fosse la più losca delle relazioni extra coniugali.
Il tutto senza mai perdersi in sbrodolate inutilmente romantiche o nella consueta gestione della risoluzione delle vicende - uno dei grandi drammi delle commedie sentimentali è proprio dato non tanto dal lieto fine, quanto dalla banalità dello stesso -, qui, seppur non con un'inventiva da film d'autore rivoluzionario a tutti gli effetti, gestita con grande sensibilità ed un occhio ad un pubblico ben più attento ed esigente di quello da distributore automatico in stile bancomat del film da vedersi sul divano il mercoledì sera tanto per non rischiare la coda al Cinema.
Un lavoro riuscitissimo, dunque, sotto ogni punto di vista, che vale una e più visioni e non rischia in alcun modo di stancare lo spettatore: e da lui a lei, passando per la prole eventuale o i gruppi di amici, non c'è un protagonista che non rappresenti almeno in parte lo spettatore, quasi come se potessimo in qualche modo prenderci una pausa e, senza accorgerci di guardare a noi stessi, potessimo scoprire, riscoprire e farci una risata su uno dei più grandi misteri della vita: l'amore.
Pazzo stupido amore, per l'appunto.
E, a volte, anche un pò stronzo.
Parola di Nathaniel Hawthorne. E di Robbie.

MrFord

"This thing called love I just can't handle it
this thing called love I must get round to it
I ain't ready crazy little thing called love."
Queen - "Crazy little thing called love" -
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