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mercoledì 3 gennaio 2018

Madre! (Darren Aronofsky, USA, 2017, 121')




Aronofsky è uno dei grandi misteri del Cinema, per quanto mi riguarda.
Da sempre esaltato da un nutrito zoccolo duro di sostenitori, qui al Saloon ha avuto una vita difficilissima fin dagli esordi, fatta di delusioni e bottigliate, visioni sconvolgenti - non in senso positivo - ed aspettative sempre più basse.
E d'un tratto, grazie ad un cambio di rotta ed alla scelta di portare sullo schermo una delle mie più grandi passioni - il wrestling -, divenuto un idolo neanche fosse Clint Eastwood: con The Wrestler, infatti, probabilmente uno dei miei film favoriti degli ultimi dieci anni e forse di sempre, il buon Darren riportò piuttosto in alto l'asticella, confermando il suo valore con il successivo ed ipnotico Black Swan, che quasi mi fece pensare che, per un Malick che progressivamente perdevo, andavo forse a guadagnare un nuovo visionario ai miei favoriti.
Niente di più sbagliato: neppure il tempo di consolidare la sua posizione nelle graduatorie fordiane, quand'ecco giungere come una sventagliata di mitra Noah, obbrorio hollywoodiano della peggior specie pronto a scalare le classifiche dei peggiori e a farmi ricredere una volta ancora a proposito di questo autore che definire discontinuo mi pare assolutamente riduttivo.
Con l'arrivo in sala di Madre! le previsioni più ottimistiche prevedevano, da queste parti, una tempesta di bottigliate di quelle delle grandi occasioni, condite da una recensione che avrebbe potuto essere dominata dall'incazzatura o dalla facile ironia rispetto al soggetto: e invece, ecco una nuova sorpresa firmata da Aronofsky.
Madre! mi è parso un film interessante, assolutamente lontano dallo scempio che avevo previsto, con molte idee potenzialmente ottime se ben sviluppate: peccato che, nello specifico, l'autore non sia riuscito neppure per sbaglio proprio in quest'impresa, lanciandosi in una serie di tentativi che vorrebbero apparire estremi e pronti a sconvolgere lo spettatore risultando semplicemente uno di quegli artisti che pensano che basti provocare per essere considerati geniali.
Ad ogni modo, oltre alla canotta senza reggiseno di Jennifer Lawrence, ho trovato questo film a suo modo coraggioso ed intelligente, nonostante la volontà di chi l'ha firmato di esplicitare fin troppo l'abbia minato alle fondamenta, costringendo lo spettatore ad un'agonia che può essere paragonabile a quella della protagonista - e questo potrebbe essere considerato un pregio, da alcuni - e ad una sorta di lezione forzata che rende l'intera operazione spocchiosa ed antipatica, nonostante tematiche come quella del rapporto tra l'artista e la sua arte, il ruolo della donna e la definizione del concetto di sacrificio, che avrebbero senza dubbio potuto trasformare questo titolo nell'ennesimo stupefacente comeback di Aronofsky, che neppure fosse Rocky prende cartoni e critiche all'angolo per poi piazzare il colpo vincente.
A questo giro è mancato, e su questo non ho alcun dubbio, eppure una flebile speranza - al contrario del già citato Malick - esiste ancora, e forse, sotto tutto il suo desiderio di imporsi come autore mistico e complesso, si nasconde un ragazzo che ancora non è cresciuto nonostante si avvicinino i cinquanta che deve ancora trovare la sua strada: personalmente, spero che questa strada possa essere chiara al prossimo film, e che il mancato massacro di Madre! sia un segno che, da qualche parte, lo straordinario narratore di The Wrestler esista ancora.
O quantomeno, che esista la sua Ispirazione.



MrFord



 

giovedì 7 dicembre 2017

Geostorm (Dean Devlin, USA, 2017, 109')





Se c'è una cosa che mi fa incazzare in quanto strenuo sostenitore del Cinema americano anche di grana grossa sono le produzioni che danno ragione ai radical che bersagliano il suddetto Cinema americano per passatempo: quelle merdate da multisala nel weekend perfette per lo spettatore occasionale cui non fregherebbe nulla di quello che guarda, divertenti neppure per sbaglio, ironiche nei loro sogni più sfrenati o qualsiasi altra cosa vi possa venire in mente per giustificare il prezzo del biglietto.
Certo, già dal trailer Geostorm lasciava presagire ben poco di buono - nonostante la presenza del fordiano Gerard Butler, che nonostante abbia infilato negli anni una serie di pellicole da incubo continua a starmi simpatico -, e potevo sospettare che sarebbe andata com'è andata, ma sinceramente non immaginavo che si sarebbe potuto fare peggio anche dei peggiori disaster movies degli ultimi anni, roba da far apparire Emmerich una specie di genio della settima arte.
Trama già vista e sentita, dinamiche trite e ritrite, un cast nutrito in cerca di grana, soluzioni implausibili, terribile finale retorico: davvero tutto quello che non vorrei chiedere alle tamarrate di questo stampo, anche e soprattutto considerato che nel corso dei centonove minuti non sono riuscito a divertirmi neppure per sbaglio, passando il tempo a sperare che si giungesse presto alla conclusione.
Interessante segnalare, oltre al livello davvero basso dell'intera produzione - che pare un cocktail di tutti i suoi predecessori anni novanta, oltre ad una versione "da serie C" di Armageddon - la caduta libera della carriera di Robert Sheehan, qualche anno fa idolo delle prime due stagioni di Misfits, destinato per molti a divenire uno dei giovani volti più promettenti del panorama mondiale ed ora finito a fare il caratterista, senza tra le altre cose neppure eccellere.
L'unica consolazione dell'essermi imbarcato in questa scellerata visione è la consolazione di aver trovato uno dei candidati più forti per la classifica dedicata al peggio del duemiladiciassette, nonostante la concorrenza quest'anno sia davvero agguerrita: ma quella tra le posizioni più alte di quella top ten  è la "tempesta" migliore che questa roba possa sperare di essere in grado di provocare.
Vi lascio immaginare quali siano le altre.




MrFord




martedì 24 gennaio 2017

Westworld - Dove tutto è concesso - Stagione 1 (HBO, USA, 2016)




In un posto ribattezzato Saloon come questo, è praticamente ovvio che un Western, vero o presunto che sia, partirà sempre da una corsia preferenziale.
E' altrettanto ovvio che, se fossi nella realtà di Westworld ed avessi il denaro per permettermelo, praticamente vivrei in un parco come quello mostrato da una delle serie più osannate della fine del duemilasedici, all'interno del quale si ha l'occasione di fare esperienza sulla pelle del vecchio West, dalle cittadine polverose ai confini infestati da selvaggi e soldati allo sbando, dai grandi spazi e dalla bellezza della Natura alla sconvolgente violenza tutta umana.
Jonathan Nolan, fratello del più noto Christopher ed ottimo sceneggiatore, autore di cult totali per il sottoscritto come The prestige o Inception, allo stesso modo da queste parti avrà sempre un giro offerto dalla casa.
Tecnicamente, inoltre, Westworld rappresenta senza dubbio una delle più impressionanti dimostrazioni che il piccolo schermo, ormai, non ha davvero più nulla da invidiare al grande.
Senza contare le recensioni entusiastiche di quello che è stato senza dubbio uno dei titoli sensazione dell'anno appena concluso.
Eppure.
Eppure, nel perfetto mondo costruito da Robert Ford - guarda caso - e dal suo defunto socio Arnold, qualcosa non torna.
E non torna neppure nella creatura apparentemente perfetta portata in scena da Jonathan Nolan e soci.
Nel corso delle dieci puntate di questa prima stagione, più volte - specialmente confrontandomi con Julez - ho pensato a cosa potesse non andare, in un prodotto che pare confezionato apposta per me: ho pensato alla troppa carne al fuoco, ai twist che possono lasciare a bocca aperta ma, quando cominciano a diventare troppi, possono addirittura produrre un effetto opposto e dunque negativo, al "tutto e contrario di tutto" che una storia di questo tipo permette ai suoi autori, quasi fosse troppo facile poter montare e smontare la sua intera impalcatura, come se fosse una costola del già citato Inception o un bel trucco da illusionisti che non nasconde nulla.
Ho pensato a tante cose, dal macroscopico al microscopico, da quello che potrebbe rivelare la seconda stagione a quello che non sarà mai in grado di svelare, perchè di fatto non esiste.
Ma la risposta, forse, è una sola: a Westworld, almeno fino ad ora, è mancata la scintilla.
La stessa che permette allo spettatore di innamorarsi perdutamente di un charachter, buono o cattivo o nessuno dei due che sia, che induca a consumare gli episodi come fossero bicchieri buttati giù troppo in fretta una sera in cui si ha una voglia incontenibile di sbronzarsi, che produca una sorta di dipendenza, invece che far soffermare l'audience sull'utilizzo intelligentissimo di noti brani musicali cult riarrangiati dal pianoforte automatico del Saloon di Sweetwater.
Westworld è un parco divertimenti, una magia dei suoi creatori, una meraviglia, eppure un clamoroso, riuscitissimo involucro vuoto, quasi come se il più riuscito dei suoi residenti non riuscisse mai ad avere un'epifania, una "ricordanza" in grado di portarlo ad un altro livello di coscienza.
E per un cowboy pane e salame come il sottoscritto, un West senza quella scintilla è come una pasta senza i fagioli dello stesso West che mi ha fatto innamorare del Cinema.
Quando la realtà incontra la leggenda, vince la leggenda.
Una regola che ha sempre valso, lungo la Frontiera, da John Ford in avanti.
Ma che, almeno finora, a Westworld pare non valere.
E non è affatto un bene.




MrFord




sabato 12 dicembre 2015

The Rock

Regia: Michael Bay
Origine: USA
Anno: 1996
Durata: 136'






La trama (con parole mie): quando il Generale Hummel, leggenda dell'esercito in rotta con il Governo a causa dei mancati risarcimenti alle famiglie dei soldati caduti nel corso delle missioni segrete organizzate dai Corpi Speciali, occupa con un commando la prigione di Alcatraz tenendo prigionieri i turisti presenti minacciando di bombardare San Francisco con missili caricati con armi chimiche, vengono chiamati sul posto due veri e propri specialisti che non potrebbero essere più diversi tra loro.
Il primo è Stanley Goodspeed, un biochimico dell'FBI privo di esperienza sul campo ma senza rivali quando si tratta di analisi di materiali utilizzati per attacchi di questo genere, in attesa di sposarsi e con un bimbo in arrivo.
Il secondo un ex detenuto dal passato misterioso, unico - non documentato - ad essere riuscito ad evadere, sopravvivendo, da Alcatraz, che la direzione dell'FBI vede come fumo negli occhi e che ha una figlia che praticamente non conosce proprio a San Francisco, John Patrick Mason.
I due dovranno unire le forze, appianare le divergenze ed affrontare da soli la minaccia.








Preparatevi, perchè sto per spararla grossa: nonostante la mia onoratissima carriera di fan e sostenitore dell'action tamarra senza ritegno, non avevo mai visto The Rock, uno dei capisaldi del genere del periodo paradossalmente più oscuro per lo stesso, gli anni novanta.
Spinto dalla curiosità, dalla voglia di qualcosa che prevedesse esplosioni e battute tipiche da macho e dal recupero dei titoli che ancora mancano all'appello con protagonisti Nicholas Cage e il suo mitico parrucchino, ho deciso di fare un tuffo nei nineties ed affrontare quello che è stato per la generazione di mio fratello l'equivalente di quelli che erano per la mia i vari Die Hard: onestamente, nonostante una confezione ottima, uno Sean Connery in grandissimo spolvero, il classico plot da action senza ritegno, però, devo ammettere di essere rimasto parzialmente deluso dalla visione, che non è riuscita a coinvolgermi quanto avrei voluto, finendo per risultare a tratti addirittura noiosa, molto datata e priva dell'ironia guascona - per quanto ci si diverta - che era prerogativa delle proposte dello stesso genere del decennio precedente.
Non sia mai che critichi selvaggiamente giocattoloni come questo, soprattutto dopo la rivalutazione - quantomeno parziale - operata rispetto a Michael Bay dopo Pain&Gain, ma la visione di The Rock è stato uno dei rari casi in cui mi è parso quasi di poter capire chi di norma e per partito preso osteggia le proposte di questo genere, e di aver intravisto almeno in parte quelli che sono i problemi dei tentativi attuali di ricreare le magiche atmosfere anni ottanta, dalla durata eccessiva ad una quasi spocchia di fondo che pare mostrare ambizioni che prodotti di questo genere dovrebbero sbeffeggiare, invece che coltivare.
Appurato questo, ovviamente, mi sono profondamente goduto i siparietti forniti dalla coppia Cage/Connery, che se in termini di pura tecnica attoriale, messi a confronto, paiono come la merda e la Nutella, in quest'ambito funzionano davvero bene, nonostante i livelli di John McLaine o dei duetti Gibson/Glover in Arma letale siano decisamente su un altro livello: interessante il cast, dalla controversa figura del Generale Hummel di Ed Harris ai comprimari, cui prestano volto molti caratteristi che gli appassionati conoscono bene, da William Forsythe a Steve Morse, passando per Michael Biehn, ottimo il comparto tecnico - anche se le sequenze all'interno di Alcatraz secondo me non valorizzano al massimo la struttura ed il suo fascino - e perfettamente tamarro il crescendo con tanto di finale in cui i cattivi vengono sistemati ed i buoni o quasi buoni riescono a trovare il gentlemen agreement che accontenta tutti e porta a casa il risultato.
Probabilmente, se non fossi stato un vero e proprio veterano del genere avrei finito per esaltarmi molto di più, ma tant'è: The Rock è ormai agli archivi del Saloon, come l'ennesima missione portata a termine, e seppur non esaltante quanto avrei voluto, o sperato, è riuscita a garantire l'intrattenimento che le proposte di questo tipo dovrebbero sempre regalare allo spettatore.
Essendo figlia del decennio più disastrato dell'action, Michael Bay è forse riuscito a fare anche più di quanto fosse possibile: e già questo è un successo, un pò come il riferimento da applausi sul finale a Rocket Man di Elton John, che porta un brano classico e da atmosfere decisamente differenti - lo ricordo, di recente, per il fantastico finale di Californication - ad una dimensione trash che riesce comunque a calzare a pennello.
Certo, non sarà come cenare in un ristorante stellato, ma ogni tanto tutti noi abbiamo un gran bisogno di MacDonald's.




MrFord





"Mars ain't the kind of place to raise your kids
in fact it's cold as hell
and there's no one there to raise them if you did
and all this science I don't understand
it's just my job five days a week
a rocket man, a rocket man."

Elton John - "Rocket man" - 






mercoledì 1 luglio 2015

Run all night - Una notte per sopravvivere

Regia: Jaume Collet Serra
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 114'





La trama (con parole mie): Jimmy Conlon, ex assassino e braccio armato del boss della mala irlandese a New York Shawn Maguire, in rotta con il figlio Mike che nega il passato criminale del padre e lotta per costruire una vita nella piena legalità, è ormai ridotto ad un alcolizzato.
Quando proprio Mike assiste casualmente ad un omicidio avvenuto per mano dell'erede dello stesso Maguire, Danny, Conlon è costretto a tornare alle vecchie abitudini.
La morte del suo rampollo, infatti, scatena il desiderio di vendetta del vecchio Shawn, e porta i Conlon a dover lavorare necessariamente sul loro legame e rapporto in modo da garantirsi non solo la sopravvivenza, ma anche una speranza per il futuro della famiglia di Mike.
In una corsa contro il tempo ed i sicari dei Maguire, Jimmy e Mike finiranno per riscoprirsi padre e figlio, occupando ognuno il lato della barricata che più gli compete.







Devo ammettere che, per questo quasi fresco di uscita - settimana più, settimana meno - Run all night, le premesse risultavano assolutamente funeree, lasciando presagire tempeste di bottigliate delle più feroci: nonostante sia un fan sfegatato dell'action, infatti, la nuova ondata di prodotti - e di action heroes - presi a modello del Jack Bauer di 24 più che dai tamarri anni ottanta di Stallone, Schwarzenegger, Willis, Russell e Van Damme non mi ha mai convinto del tutto, finendo per incontrare spesso più sostenitori in luoghi che stanno all'adrenalina e all'azione quanto il sottoscritto ai locali fighetti da radical chic.
Uno dei simboli di questa "new wave" dell'action è Liam Neeson, attore storicamente legato a filmoni impegnati e blockbuster d'autore riscopertosi improbabile spaccaculi con la pessima trilogia di Taken - e qui apro un inciso: non basta essere alti più di un metro e novanta per essere presi per buoni come schiacciasassi e macchine da guerra -, l'uomo dalle mani più brutte del mondo, uno che fino alla crisi di mezza età da conversione al Cinema di genere mi stava anche simpatico, memore dei suoi esordi come Darkman, che ora ho finito per arrivare a detestare.
Dunque, senza un recupero casuale, la curiosità di Julez di vedere all'opera il Joel Kinnaman di The Killing e la presenza dietro la macchina da presa di Collet Serra, che ho sempre considerato un più che discreto artigiano della settima arte, probabilmente Run all night sarebbe finito nel dimenticatoio profondo e senza ritorno: al contrario, invece, visione alle spalle ammetto di essere stato in una certa misura contento di averlo visto.
La vicenda non è nulla di nuovo, così come le parti prettamente action, che portano poca aria fresca al genere, eppure la componente crime unita ad un cast decisamente funzionale ed in parte - e sì, perfino Neeson, senza contare vecchi leoni come Ed Harris, Nick Nolte o Vincent D'Onofrio che è sempre un piacere vedere sullo schermo, fosse anche per pochi minuiti - uniti alla freschezza della narrazione di Collet Serra, che sfrutta New York e gli spostamenti sulla sua mappa come fossimo in un videogioco alimentando ritmo e tensione rendono questo film una piccola sorpresa non solo per quanto riguarda sparatorie, morti ammazzati e scazzottate, ma anche e soprattutto per le visioni da neuroni quasi spenti, un pò come lo erano stati lo scorso inverno John Wick ed ancora prima The equalizer.
L'inserimento, poi, dell'elemento legato al legame tra padri e figli con tanto di doppio incrocio e faida familiare, unito alla strenua volontà di Neeson/Conlon senior di impedire che il figlio prema il grilletto per uccidere anche solo una volta nella sua vita, alimentano interesse e coinvolgono il pubblico più di quanto avrebbe fatto un prodotto di questo tipo condito dai soli inseguimenti: certo, tutti sappiamo come andrà a finire fin dall'incipit - e se anche non ci fosse stato le cose non sarebbero cambiate - e risulta poco credibile che un vecchio malavitoso irlandese nato e cresciuto in un unico quartiere appaia come una sorta di dio in terra in grado di prendere a pesci in faccia anche potenziali rivali sul campo ed ugualmente venga annichilito insieme a tutta la sua banda da un ex sicario alcolizzato, incapace di correre ed inesorabilmente fuori forma, ma tant'è.
Considerato quanto mi aspettavo alla vigilia, e quanto alla fine abbia reso la visione, direi che "corse" di questo tipo posso concedermele anche più spesso.
E senza farmi troppe domande.
Basta che non ci sia Liam Neeson con me.



MrFord



"I'm gonna run to you 
I'm gonna run to you 
cause when the feelin's right I'm gonna run all night 
I'm gonna run to you 
she's got a heart of gold she'd never let me down 
but you're the one that always turns me on 
you keep me comin' 'round."

Bryan Adams - "Run to you" -




mercoledì 2 aprile 2014

Snowpiercer

Regia: Joon Ho Bong
Origine: Corea del Sud, USA, Francia, Rep. Ceca
Anno: 2013
Durata: 126'




La trama (con parole mie): in un prossimo futuro i governi del mondo, messi in ginocchio dal riscaldamento globale, appoggiano un piano di raffreddamento della Terra che provoca una catastrofe climatica degenerando in una sorta di nuova era glaciale, uccidendo la maggior parte degli abitanti del pianeta. I sopravvissuti, riparatisi all'interno di un treno speciale in viaggio continuo attraverso il mondo intero, sono divisi in classi sociali ben definite legate alla posizione dei vagoni: dalla locomotiva abitata dal dominatore assoluto Wilford alla coda con i reietti della società, costretti a vivere al servizio dei potenti e cibarsi di sole gelatine proteiche ricavate dagli insetti.
Curtis, a capo di un gruppo di ribelli dell'ultima vettura, a seguito dell'ennesimo sopruso decide così di dare il via ad una rivolta che dovrebbe riportare l'equilibrio all'interno del convoglio.







E così, anche Joon Ho Bong, probabilmente il più grande regista sudcoreano vivente, in grado di superare ben più noti colleghi come Park Chan Wook e Kim Ki Duk ed autore di perle assolute come The host, Memories of murder e Mother, è caduto.
Qui al Saloon, fin dalla sua apertura, non si sono risparmiate bottigliate neppure per gli idoli, quando è stato il tempo di sfoderare i colpi più duri che il bancone richiedeva, ma mai e poi mai mi sarei aspettato che a tradire gli ideali fordiani sarebbe stato uno dei cineasti più interessanti e di talento che mi sia capitato di seguire nel corso delle ultime stagioni, il cui ultimo lavoro, questo Snowpiercer, era tra i più attesi dal sottoscritto per la prima parte dell'anno: dunque, dopo i già citati Kim Ki Duk - preso dai suoi deliri di onnipotenza - e Park - snaturato definitivamente e perduta tutta la forza degli inizi con l'ultimo, radical e freddo Stoker - anche Bong segna il passo, schiacciato da una produzione colossale che porta l'uomo dietro la macchina da presa dalle parti del già visto e sentito, sfornando un blockbusterone che sarà pure d'autore a livello tecnico ma che, oltre a non inventare nulla, risulta noioso, decisamente troppo lungo ed appesantito da parentesi al limite del grottesco - la sequenza nella scuola del treno - ed un finale che potrei addirittura definire ridicolo.
Pescando, dunque, da un immaginario distopico già noto sia in Letteratura che al Cinema, da 1984 a V per vendetta, si finisce purtroppo per sfociare in una sorta di versione molto action e videoludica - la struttura a vagoni ricorda quella a quadri dei games anni ottanta - del bolsissimo Cosmopolis targato Cronenberg, mostrando quella che dovrebbe essere una critica sociale feroce come fosse la più banale delle epopee tipiche degli eroi Expendables del sottoscritto ai loro tempi d'oro.
Gli spunti non mancano, eppure tutta la meraviglia e l'aspettativa costruita da una campagna pubblicitaria che addirittura accostava questo Snowpiercer a cose come Blade runner - e bisogna proprio averne, di fantasia, oltre che di coraggio! - finisce per spegnersi in un susseguirsi di scontri che paiono decisamente slegati l'uno dall'altro e sfruttati soltanto per portare in scena l'ottima fotografia e l'occhio esperto dell'autore culminati con uno spiegone da trituramento di cosiddetti del "bad guy" Ed Harris che dovrebbe essere il fulcro della riflessione sulla decadenza dei governi e dei cosiddetti rivoluzionari e ben rappresentato dalla statica inespressività di Chris Evans, che mostra le stesse doti attoriali di una parete di cemento armato.
Non combina tanto di più il resto del cast, da una troppo gigioneggiante Octavia Spencer all'anonimo Jamie Bell, senza dimenticare John Hurt ridotto ad una macchietta insieme alla componente coreana del gruppo di ribelli protagonisti e all'insopportabile Tilda Swinton, che vorrebbe passare per cattiva cult ma finisce per suonare più come una caricatura involontaria: un esperimento fallito su tutti i fronti, che senza dubbio, per il momento, guadagna la posizione di titolo più deludente di questa prima parte di duemilaquattordici, tanto da farmi rimpiangere quello che è il film "a livelli" più importante del passato recente - quel gioiellino di The Raid: redemption, pronto al solo pensiero ad alimentare l'attesa per l'imminente sequel - e classici sulle rotaie come A trenta secondi dalla fine, decisamente più interessanti sia per costruzione che per tensione mantenuta ad un livello decisamente più alto di quello proposto da Bong in questo caso.
Una ferita destinata a lasciare il segno nella mia memoria di spettatore per molto tempo, ennesima conferma del male che la majors e le grandi produzioni riescono a fare all'opera di registi abituati ad avere completa libertà espressiva, letteralmente masticati e risputati dalla grande macchina del blockbuster multimilionario: mi dispiace davvero per Bong, che spero torni presto nella più accogliente Corea per realizzare qualcosa dallo spirito più vicino ai suoi precedenti lavori, evitando così di deragliare in un mondo dal bagliore accecante ma dominato dalla prospettiva non proprio da sogno di finire sbranato dai predatori di turno.
E non me ne vogliano gli orsi polari.



MrFord



"Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore 
mentre fa correr via la macchina a vapore 
e che ci giunga un giorno ancora la notizia 
di una locomotiva, come una cosa viva, 
lanciata a bomba contro l' ingiustizia, 
lanciata a bomba contro l' ingiustizia, 
lanciata a bomba contro l' ingiustizia!"

Francesco Guccini - "La locomotiva" -





martedì 30 luglio 2013

Pain&Gain - Muscoli e denaro

Regia: Michael Bay
Origine: USA
Anno: 2013
Durata:
129'




La trama (con parole mie): Daniel Lugo, Adrian Doorbal e Paul Doyle sono tre bodybuilders in cerca di un'affermazione nel pieno della Miami anni novanta. Il primo è un fervente osservante del sogno americano, il secondo un gregario fedele ed il terzo un ex detenuto convinto che la Fede possa salvarlo dalle scelte sbagliate. Il fatto è che per vivere il sogno devi essere disposto a rischiare, anche quando la posta in gioco è di quelle grosse: ed è così che Lugo individua in Victor Kershaw, un imprenditore locale, il bersaglio ideale.
Supportato dai suoi due compagni, il giovane istruttore di fitness rapisce l'uomo e lo costringe - con l'aiuto di un notaio compiacente - a sottoscrivere la cessione di ogni sua proprietà al responsabile delle sue sofferenze: l'eliminazione dello stesso Kershaw ad operazione conclusa non va a buon fine, ma per il curioso trio la situazione pare risolversi quando le forze dell'ordine non credono alla denuncia della vittima.
Il sogno è dunque finalmente a portata di mano.
Ed è a questo punto che entra in campo un investigatore privato...






Ogni singolo dubbio è stato inequivocabilmente fugato.
Pain&Gain è il cult assoluto dell'estate fordiana.
Certo, il Cannibale sarà pronto a giurare di esserne già a conoscenza fin dai tempi precedenti alla realizzazione di quello che, senza se e senza ma, è il miglior film mai girato da Michael Bay, uno di quelli cui fino a qualche giorno fa non avrei dato una chance neppure se fosse venuto in ginocchio a pregarmi offrendosi di pagare per tutta la famiglia Ford il pacchetto VIP completo per la prossima edizione di Wrestlemania, ma per il sottoscritto la visione si è rivelata un'esperienza che è stato necessario vivere sulla pelle, proprio come tutte quelle che contano.
Parliamoci chiaro: dal primo all'ultimo minuto, momento più momento meno, mi sono goduto questa tamarrata che mescola amicizia virile, palestra, grottesco, pulp, sangue e morte rimbalzando tra una grassa risata e l'altra, incantato dalle interpretazioni perfette - volute o no che fossero - di Anthony Mackie, Marc Wahlberg e soprattutto di Dwayne "The Rock" Johnson, idolo del wrestling nonchè pupazzone per una volta - e dico sul serio - reinventatosi attore in barba alla massa spaventosa e alle sue due - nei suoi sogni - espressioni.
Eppure Pain&Gain è un film profondamente crepuscolare, malinconico, capace di mostrare "la faccia triste dell'America" partendo proprio dalla filosofia del self-made man alla base delle stelle e strisce, che trova nella vicenda - assolutamente reale - di Daniel Lugo e dei suoi due complici materia perfetta per mostrare il prezzo che i poveracci, gli illusi e chiunque non abbia il denaro per comprarsi la felicità si ritrovano a pagare anche soltanto per un unico giro sulla giostra che conta.
Così come per Alien in Spring breakers, i tre scombinati e terribilmente stupidi palestrati improvvisatisi gangsters guidati da assurdi imbonitori profeti dell'autorealizzazione e dalle visioni che tanti danni hanno fatto a generazioni intere di spettatori - parlo di cose come Scarface, per intenderci - tentano disperatamente di entrare dalla porta di servizio in un mondo che non appartiene loro neppure per sbaglio, al quale non è possibile mentire - clamoroso il primo confronto tra il rapito Kershaw ed i suoi rapitori, reduci da una mascherata al limite dell'assurdo - e che non è disposto a concedere nulla a chi non porta l'odore della vittoria addosso - con buona pace del buon Lugo -.
Simpatizzare per l'insolita banda è facile e quasi spontaneo - nonostante le imprese agghiaccianti che i tre riescono a portare più o meno a termine -, ed il crescendo di follia che contagia i pompatissimi soci riporta addirittura alle prime stagioni di Breaking Bad, all'approccio scombinato dei Coen e al bombardamento in stile videoclip di City of god o Domino, eppure dietro alla confezione assolutamente creata ad arte per conquistare qualche bullo cresciuto seguendo il credo di Tony Montana e soci, Pain&Gain rappresenta una delle critiche più feroci alla ferocia sociale degli States approdate di recente sul grande schermo grazie alla grande distribuzione.
Poco importa se tutto finisce per assumere la dimensione della burla, o del "è talmente assurdo da non poter essere vero": Lugo e soci finiscono per assumere i connotati del simbolo della stupidità di tutti noi che crediamo nel riscatto, nell'outsider che finisce per cogliere l'occasione della vita - che non è meravigliosa almeno quanto non esistono Rocky Balboa pronti a portarsi a casa il titolo venendo dalla periferia e ritrovandosi sparati dritti contro il campione del mondo dei pesi massimi -, nel "principe azzurro" - qualunque significato esso abbia - favoletta buona per mettere il guinzaglio a qualsiasi velleità che i film o le canzoni non riescano a tenere bene a cuccia.
E come se tutto questo non bastasse, quel moto di orgoglio di Daniel una volta messo di fronte ad una verità amara come quella dei propri crimini e delle loro conseguenze ha il sapore di distorsione percepito di recente osservando il protagonista di Reality: il problema, come si sarebbe detto nel pieno di quegli anni novanta, non è la caduta, ma l'atterraggio.
E quelli che si buttano sperando di trovare un grande materasso ad accoglierli, in genere non hanno mai il paracadute.



MrFord


"As I walk through the valley of the shadow of death
I take a look at my life and realize there's notin left
cause I've been blastin' and laughin so long that
even my ma'ma thinks that my mind is gone."
Coolio - "Gangsta's paradise" - 



domenica 4 novembre 2012

40 carati

Regia: Asger Leth
Origine: USA
Anno: 2012
Durata:
102'




La trama (con parole mie): Nick Cassidy, ex poliziotto corrotto incastrato per il furto di un diamante unico di proprietà di un milionario senza scrupoli, approfitta del funerale del padre per evadere dalla prigione di Sing Sing e rimanere nell'ombra progettando un tentato suicidio che mascheri di fronte ai media e alla gente della strada una spettacolare rapina che funga, di fatto, da prova che lo scagioni dalle accuse che gli sono costate due anni e il distintivo.
Così, dall'alto del cornicione di un hotel nel centro di Manhattan, l'uomo si ritrova a dirigere il circo di poliziotti, giornalisti, passanti e dei due complici che avranno il compito di recuperare lo stesso diamante costatogli l'accusa e milioni di dollari di risarcimento assicurativo al magnate David Englander.
Riuscirà Cassidy a vendicarsi, smacchiarsi il nome e sopravvivere?



Ammetto che, ai tempi della sua uscita, non avrei scommesso un soldo bucato su questo titolo che appariva come l'ennesimo, inutile tappabuchi da sala che non si sarebbe neppure potuto definire blockbuster con protagonista uno degli attori più inespressivi dell'attuale panorama hollywoodiano, Sam Worthington.
Così, 40 carati è rimasto a prendere polvere mentre passavano i mesi e si succedevano visioni che giudicavo di volta in volta decisamente più interessanti, fino a quando le ferie di fine settembre e la penuria di novità a portata di divano non hanno fatto in modo che venisse riesumato: a questo punto, sorpresa delle sorprese, il lavoro di Asger Leth si è rivelato addirittura un piccolo jolly.
Perchè se il cast non poteva contare su protagonisti particolarmente ispirati - ad affiancare Worthington troviamo il non troppo convincente ex Billy Elliot Jamie Bell ed Elizabeth Banks in un ruolo decisamente lontano da quelli cui siamo abituati -, su una trama innovativa o una tecnica particolarmente stupefacente, nel complesso la pellicola rispetta appieno il suo compito di prodotto d'intrattenimento di grana grossa e senza pretese rivelandosi un filmetto d'azione niente male, di quelli giusti giusti per riempirsi una serata molto pane e salame e godersi una vicenda prevedibilissima per essere il centro di un heist movie che dovrebbe tenere con il fiato sospeso eppure funzionale e ben giostrata, in grado di alternare alle sequenze del cornicione e all'intrigo orchestrato da Worthington/Cassidy quelle legate all'irruzione nel palazzo del bieco milionario Englander - un sempre ottimo Ed Harris, che ripropone la sua versione "villain" senza troppa fatica -, legate alle più classiche situazioni "da rapina" ed incentrate principalmente sulla presenza di Genesis Rodriguez, che per il pubblico maschile varrà da sola la visione del film - e al diavolo la credibilità del cambio d'abito a rapina in corso con tanto di sequenza praticamente in bikini dell'attrice -.
L'intrigo che vede poi Cassidy accusato lottare per la propria innocenza è telefonato almeno quanto la conclusione, ma anche in questo caso ci si mette comodi e si gusta il percorso che l'ex poliziotto - peraltro non uno stinco di santo - compirà per smascherare i complici di Englander che lo fregarono ai tempi, cercando di convincere la negoziatrice neanche dovesse strapparle un appuntamento per poi lasciarsi andare, nel finale, ad un inseguimento di quelli da classico film action con tanto di voli da un cornicione all'altro che fanno sempre la loro porca figura.
Dovessi ripensare ad un cult di questo tipo legato al mio passato, direi che 40 carati mi ha ricordato in qualche modo Speed, seppur con un approccio decisamente meno tamarro ed un risultato che difficilmente resterà negli annali del Cinema e nella memoria del pubblico, ma che in qualche modo - e con tutti i suoi limiti - è riuscito a stupire anche un vecchio cowboy dedito all'azione come il sottoscritto.
E questo riesce a rendere anche una robetta snobbata troppo in fretta un'inaspettata - a suo modo - rivelazione: praticamente, considerate le cartucce che aveva da sparare il regista, un successone.


MrFord


"Meet on the ledge
we're gonna meet on the ledge
when my time is up I'm gonna see all my friends
meet on the ledge
we're gonna meet on the ledge."
Fairport Convention - "Meet on the ledge" -


martedì 24 luglio 2012

The way back

Regia: Peter Weir
Origine: Australia
Anno: 2010
Durata: 133'




La trama (con parole mie): siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale, e Janusz, che vive nella Polonia spezzata in due da tedeschi e russi, è deportato in un gulag siberiano dopo essere stato accusato di spionaggio. Innocente e convinto a ricongiungersi alla moglie, il giovane decide, con l'aiuto di alcuni detenuti, di fuggire e raggiungere a piedi l'India.
Il viaggio, che prevede una camminata di oltre seimila chilometri attraverso Siberia, Mongolia, Cina e Tibet, sarà una prova di coraggio e resistenza in grado di avvicinare i destini ed i caratteri di uomini completamente diversi l'uno dall'altro e provenienti da diverse realtà e parti del mondo: una vera e propria lotta per la libertà che vedrà il gruppo confrontarsi con la Natura nella speranza di morire - e soprattutto vivere - da uomini liberi.




Dalle parti di casa Ford, il buon vecchio Peter Weir è sempre stato benvoluto: dai cult di formazione come L'attimo fuggente a vere e proprie pietre miliari come Picnic ad Hanging Rock o Gli anni spezzati, senza dimenticare produzioni decisamente più importanti come Master and commander o The Truman Show, non ricordo un solo titolo firmato dal suddetto che mi abbia deluso.
Il gusto del regista australiano, spesso e volentieri legato al confronto tra Uomo e Natura, ha sempre stuzzicato la parte più "wild" del sottoscritto, ed in questo senso The way back rispecchia appieno le aspettative e la tradizione della sua poetica: pur essendo lontano dall'ispirazione dei lavori migliori e presentandosi, di fatto, "soltanto" come un solido film d'avventura, questa sua ultima fatica resta comunque una delle visioni più interessanti di una poco accattivante - fino ad ora - estate, complici uno spirito neanche fossimo nel pieno di un'epopea di Herzog ed un cast in grande spolvero, dal convincente Jim Sturgess alla sempre più lanciata Saoirse Ronan, passando attraverso conferme come Ed Harris e Colin Farrell.
In particolare, ammetto di essermi fin da subito affezionato al personaggio interpretato da quest'ultimo, il criminale russo Valka, tatuatissimo e selvatico, nonchè legato ai codici degli Urka siberiani, elementi cardine del mondo delle Famiglie e delle stelle tipici dell'area malavitosa dell'ex Unione Sovietica: il suo progressivo integrarsi con il gruppo di fuggitivi - dalla minaccia alla protezione, fino al perfetto commiato - è l'esempio dell'ottima gestione che nello script si è tenuta rispetto ai personaggi, molto diversi tra loro eppure ugualmente importanti nell'economia del viaggio, ed approfonditi in modo che tutti possano trovare uno spazio adeguato - una sorta di approccio "lostiano", per usare un termine più vicino ai giorni nostri che non ai tempi della Seconda Guerra Mondiale -.
In realtà - e nonostante la parte del leone la faccia senza dubbio alcuno il confronto tra l'impresa di questo sparuto gruppo di prigionieri affamati e la Natura in tutte le sue incarnazioni, dal gelo siberiano al deserto mongolo - uno dei temi più interessanti toccati da Weir è quello della lotta per la libertà, diritto sacrosanto di ogni essere umano che anche qui al Saloon non ci si stancherà mai di difendere e proteggere: il punto di vista del regista, lontano dagli standard cui siamo abituati rispetto al periodo e concentrato sulla denuncia degli orrori commessi da Stalin - già fotografati nella meraviglia di Wajda, Katyn -, è lampante, e trova una traduzione perfetta nella ferma decisione del protagonista Janusz di non abbandonare mai il suo obiettivo, anche quando fermarsi potrebbe apparire la decisione più sensata e saggia - il passaggio in Tibet, poco prima di raggiungere l'India -.
Ritagliandosi, poi, momenti più leggeri che aiutano lo spettatore a respirare nelle due ore piene della pellicola - il ruolo di Irena nello scoprire le vite dei suoi compagni di viaggio, la discussione sulla quantità di sale da usare in cucina -, Weir pare tracciare un parallelo tra la lotta dell'Uomo contro l'Uomo per la libertà e quella dell'Uomo contro la Natura per la sopravvivenza: e se quest'ultima appare spietata e terribile, anche nei momenti davvero critici non si ha mai la percezione della stessa, angosciosa agonia che la Storia ci ha più e più volte insegnato ad imporre ai nostri simili, a diverse latitudini ed in opposti contesti politici e sociali.
Gulag sovietici o campi di concentramento nazisti, steppe siberiane o città latino americane, l'Uomo ha vergato tra le pagine dei suoi libri, nei secoli, le trame di vicende abominevoli che imprese come quella di Janusz e compagni - ispirata a fatti reali - ci aiutano a guardare senza dimenticare la speranza: la speranza di non mollare, di muovere un passo dopo l'altro verso quella che dovrebbe essere la condizione fondamentale di ogni esistenza, vivere la propria vita senza doversi guardare continuamente le spalle, e costruire - o cercare di farlo - i propri sogni senza qualcuno che venga a raccontarci che così non può essere, perchè lo ha deciso lui.
Vivere la propria vita da uomini liberi.
Fosse anche per morire nel tentativo di respirare quell'aria così diversa che tutti i giorni ci riempie i polmoni ma che, spesso, non sappiamo valorizzare come dovremmo.
L'aria che si può gustare lontani dalle prigioni.


MrFord


"I want to break free
I want to break free
I want to break free from your lies
you're so self-satisfied I don't need you
I got to break free
God knows, God knows I want to break free."
Queen - "I want to break free" -


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