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martedì 24 aprile 2018

Undisputed 4 - Il ritorno di Boyka (Todor Chapkanov, Bulgaria/USA, 2016, 86')





Per tutti i figli degli anni ottanta tamarri come il sottoscritto, il Cinema di botte ha significato una fetta importante della crescita, a partire dall'eredità di Bruce Lee fino a tutto il filone action e sopra le righe di quel decennio magico che regalò al mondo i vari Stallone, Schwarzenegger, Willis, Russell, Van Damme e chi più ne ha, più ne metta.
Quando, qualche anno fa, scoprii il brand di Undisputed, esperimento considerato tra i Walter Hill minori, non pensavo che quella stessa saga sarebbe divenuta mitica per gli appassionati di genere soltanto al secondo capitolo, con l'introduzione dell'incredibile personaggio di Yuri Boyka, interpretato da un atleta pazzesco come Scott Adkins, che deve maledire la troppa seriosità ed il poco carisma per non essere diventato l'equivalente del Nuovo Millennio proprio di gente come Van Damme.
Boyka, fin dalla sua comparsa, ha segnato un nuovo corso per questa serie, passando dall'essere il cattivo numero uno a protagonista assoluto nonchè eroe redento, dispensando calci rotanti al limite della fantascienza e regalando chicche indimenticabili a tutti i suoi fan: a distanza di dieci anni dalla sua prima apparizione, Boyka torna dunque sul quadrato per un quarto capitolo atteso fin troppo a causa dell'infortunio che bloccò Adkins per molto tempo qualche anno fa - e che non gli permise di esprimersi al meglio nella sua più grande occasione, Expendables 2 -, con una produzione senza dubbio molto televisiva - per essere buoni - ed una trama che rispecchia in tutto e per tutto le risibili sceneggiature proprio di quei film di botte anni ottanta con l'eroe maledetto che a fronte di difficoltà insormontabili riesce comunque a rompere i culi dei cattivoni di turno come se non ci fosse un domani.
L'elemento "romantico", inoltre, inserito come causa scatenante di questa nuova avventura del fighter venuto dalle prigioni russe, rispecchia molto i tratti dei film di questo genere che hanno cresciuto i tamarri come il sottoscritto, pur se, purtroppo, priva dell'aura di comicità involontaria che rendeva quelle visioni così clamorosamente speciali: è questo il difetto principale del quarto capitolo di Undisputed.
In un certo senso, è come se al film mancasse lo spessore allo stesso modo dell'attore protagonista, capace di evoluzioni incredibili sul quadrato ma, nonostante un personaggio dalle potenzialità enormi, neppure lontanamente guascone e sopra le righe come i succitati action heroes che hanno reso magica una parte della mia formazione di cinefilo - e che la rendono tale ancora oggi -: giusto che il background di un charachter come questo sia oscuro e drammatico, ma le ultime stagioni cinematografiche hanno insegnato quanto il trash e la parte comica di queste proposte dalle ambizioni artistiche pressochè nulle siano fondamentali affinchè le stesse si guadagnino un posto nel cuore dei fan, e vengano accettate di buon grado dalla critica più o meno radical.
Perchè se un vecchio reduce degli eighties come il qui presente riesce comunque ad apprezzare un intrattenimento ignorante di questo genere, affinchè lo stesso abbia la fortuna che merita o che io possa sperare abbia, non deve mai dimenticare che il segreto del successo di un film che non sia davvero autoriale passa da uno dei segreti fondamentali della conquista di una donna: le risate.
Dunque, caro Boyka, tu sarai pure uno spaccaculi tormentato in cerca di una redenzione che avverrà solo quando non verranno più prodotti film con te come protagonista, questo omaggio divertirà gli appassionati, ma se vorrai davvero spiccare un salto come quelli che compi sul ring, dovrai tirare fuori la scintilla che i tuoi progenitori hanno regalato alla cultura pop, e che li ha resi immortali come paiono ora, nonostante il tempo che passa inesorabile.




MrFord



lunedì 7 marzo 2016

Room

Regia: Lenny Abrahamson
Origine: Irlanda, Canada
Anno: 2015
Durata: 118'






La trama (con parole mie): Joy è una ragazza tenuta prigioniera da un uomo in una stanza dai tempi in cui, diciassettenne, fu rapita dallo stesso. Da poco suo figlio Jack, nato dagli abusi del suo stesso rapitore, ha compiuto cinque anni, e dopo essere stato cresciuto da lei protetto dall'esterno, diviene l'unica speranza della giovane madre di tentare la fuga: il ribaltamento dei concetti trasmessi a Jack diverrà, dunque, la chiave del piano di Joy per riuscire a liberarsi da quella stanza che è stata il loro unico universo per un tempo che le è parso infinito e che ha costituito tutta la crescita e l'apprendimento del piccolo.
Quando, proprio grazie alla prontezza ed al coraggio del bimbo, l'impresa riuscirà, la difficoltà starà tornare a vivere una vita normale all'esterno, con Joy costretta a ricostruire la sua identità e risanare ferite soprattutto interiori e Jack alla scoperta di un mondo che fino a pochi mesi prima conosceva solo come non reale e legato alla televisione.








E' difficile, dannatamente difficile, mettersi alla tastiera nel momento in cui si ha ben chiaro che i sentimenti che ribollono nel petto non troveranno mai un riscontro abbastanza potente nelle parole, nel loro flusso e nelle combinazioni, nelle frasi e nei concetti: dunque, considererò il post dedicato a Room, forse non il mio favorito nella corsa all'Oscar per il miglior film di questo duemilasedici, ma senza dubbio quello che ho visceralmente amato di più, come una specie di tentativo.
Il ventotto maggio duemilaquattordici è stato senza dubbio uno dei giorni più difficili della mia vita: quel mattino, quando scoprimmo con Julez che avevamo perso quella che ancora consideriamo come la nostra prima bambina, mi sentii strappare qualcosa dentro, nel profondo.
Quando passammo a prendere il Fordino, rimasto dalla nonna, e ci venne incontro sorridendo come se niente fosse accaduto - in effetti, per lui è stato così -, senza saperlo, ci salvò da uno sconforto che forse ci avrebbe impedito di raccogliere le forze e trovarci qui, ora, in attesa di un altro figlio.
Ed è curioso il fatto che, per quanto ci si sbatta e preoccupi per proteggere i propri figli tutta la vita, siano più loro a salvarci, anche senza rendersene conto.
Questo, almeno dal mio punto di vista, è stato il merito più grande di questo piccolo, potente film: mostrare, senza se e senza ma, la forza e la bellezza disarmante della condizione di bambini, che purtroppo resta un ricordo sfocato per tutti noi e che abbiamo speranza di rivedere soltanto specchiandoci negli occhi di quelli che cresciamo, meravigliandoci ogni giorno della loro profondità.
Una profondità raccontata come raramente accade da Lenny Abrahamson, che si affida, più che a Brie Larson - comunque molto brava - allo straordinario Jacob Tremblay e ad una macchina da presa portata ad altezza bambino neanche fossimo tornati ai bei tempi dello straordinario E. T.: purtroppo, in questo caso la vicenda narrata è molto più drammatica e dolente - l'idea di un rapimento che porti una madre ad escludere a tutti gli effetti il proprio figlio dal mondo e a giocarsi tutte le speranze proprio affidandosi ad una separazione da lui non è certo cosa da poco -, eppure il tocco è leggero e quasi magico, pronto a regalare sequenze che sono pura poesia - lo sguardo di Jack rivolto al cielo ed alla scoperta del mondo proprio nel tesissimo momento della fuga dal cassone del pick up del suo padre biologico nonchè carceriere - o una stretta al cuore - la decisione di tagliarsi i capelli per dare forza alla madre è uno dei momenti più commoventi degli ultimi mesi di visioni -, e conduce lo spettatore attraverso la storia di una rinascita emotiva portata sullo schermo con genuina passione, spostando l'attenzione dal thriller e dal disagio della prima parte - una sorta di incrocio tra Prisoners e The Babadook - e la ricostruzione della seconda, più simile ad un lavoro in stile Sundance di quelli ben riusciti, finendo per risultare come uno dei titoli genitoriali più intensi delle ultime stagioni, e seppur non dirompente nell'effetto, in grado di trovare uno spazio nel cuore di ogni spettatore.
Non era facile raccontare, sfruttando inoltre una vicenda assolutamente drammatica senza scadere nella retorica spicciola ma agendo, al contrario, per sottrazione - sono tratteggiate benissimo le figure del padre di Joy e del nuovo compagno della madre, esempi di reazioni agli antipodi rispetto al dramma vissuto dalla ragazza e da suo figlio -, ed ancor di più farlo mantenendo la naturalezza e la freschezza di una scrittura giocata anch'essa ad altezza bambino, dai dubbi ed il disorientamento iniziali rispetto al cambio di direzione della madre al toccante ritorno nella stanza dell'epilogo, con quell'addio che pare un punto di partenza nuovo per due vite che, di fatto, hanno bisogno di ricominciare e di credere che il mondo possa essere un posto migliore così come di respirare quell'aria e quella meraviglia riflessa negli occhi di Jack steso di schiena su quel cassone, la vita appesa ad un filo, l'ultima chance in gioco, eppure la gioia di scoprire che l'azzurro del cielo è sopra di lui, ed esiste.
E' reale.
Come l'amore di sua madre. Ed il suo.





MrFord





"Oh the mother and child reunion
is only a motion away
oh the mother and child reunion
is only a moment away."
Paul Simon - "Mother and child reunion" - 






domenica 6 marzo 2016

Alcatraz - L'isola dell'ingiustizia

Regia: Marc Rocco
Origine: USA, Francia
Anno: 1995
Durata: 122'







La trama (con parole mie): siamo nei primi anni quaranta quando James Stamphill, giovane ed idealista avvocato fresco di nomina, è assegnato come difensore d'ufficio ad Henri Young, detenuto di Alcatraz colpevole di aver ucciso nella sala mensa del carcere l'uomo che sospettava essere una spia delle guardie nonchè il responsabile del fallimento del suo tentativo di fuga, tre anni prima.
I due, vicini per età e dalla storia radicalmente opposta - il primo cresciuto sotto la protezione di un fratello maggiore già avvocato di successo, studente, figlio della San Francisco che conta, ed il secondo colpevole di un furto per fame che gli costò l'ingresso nel mondo criminale e nel carcere più duro dell'epoca - si scoprono non solo amici, ma anche compagni di una lotta che porterà il caso Young a porre sotto accusa la stessa organizzazione di Alcatraz ed i suoi amministratori, puntando il dito in particolare sul vicedirettore Glenn.








Gli anni novanta sono stati un periodo piuttosto buio da molte angolazioni differenti, per il sottoscritto, quasi e soprattutto a posteriori: liberatomi, infatti, del radicalchicchismo e della timidezza aggressiva giovanili, con il tempo mi sono reso conto di quanto i cult sguaiati degli ottanta abbiano influito sulla mia formazione, e di quanto ancora adesso voglia infinitamente bene agli stessi, al contrario di tanti colpi di fulmine figli dei nineties ora destinati alla vergogna - Poeti dall'inferno, giusto per citarne uno -.
Eppure ci sono ancora titoli che, pur figli di un decennio che si è fatto distante anni luce dal sottoscritto, finiscono per solleticare le corde ed i sentimenti giusti: uno di questi è senza dubbio Alcatraz - L'isola dell'ingiustizia, giunto per la prima volta nell'allora casa Ford grazie al mitico Paolo dell'altrettanto mitica videoteca che fece la fortuna della mia infanzia, di recente riscoperto in bluray e mostrato per la prima volta a Julez, che pur essendo cresciuta nello stesso periodo aveva finito per perderselo.
Tratto da una storia vera, il lavoro di Marc Rocco - regista ininfluente rispetto alla Storia del Cinema - appare come il classico procedurale viscerale e carico di emozione pronto ad influenzare il pubblico affamato di pellicole da Oscar, eppure a distanza di oltre vent'anni continua a convincermi e a dare l'impressione della pellicola assolutamente onesta, ben confezionata ed in grado di rappresentare le stelle e strisce ed il loro approccio in tutto il mondo.
Grazie ad un cast in grande spolvero - ottimi sia Kevin Bacon, senza dubbio in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e Gary Oldman, specializzato ai tempi nelle parti da sacco di merda - ed una confezione impeccabile Alcatraz finisce per risultare funzionale e godibile ancora oggi, quasi fosse una sorta di ideale membro della trinità dei film carcerari cult di allora insieme a Il miglio verde e Le ali della libertà, che prima o poi mi deciderò a recensire.
Senza dubbio, rispetto a quanto accaduto nella realtà a Henry Young, quello che è presentato sullo schermo è il tipico prodotto a stelle e strisce detestato dai radical chic e dai detrattori della cultura sempre troppo sopra le righe dei nostri cugini oltreoceano, eppure c'è qualcosa, in questo dramma carcerario pronto a denunciare una delle realtà più difficili che si possano vivere nella vita ed al mondo, che finisce per andare oltre la retorica e quello che ci si aspetta o si finisce per aspettare da un prodotto di questo tipo.
Ed ancora oggi, memore di quelle prime visioni in vhs e di tutto quello che è stato il mio percorso di cinefilo da allora in avanti, non riesco a trattenermi rispetto al concetto di azione e reazione che caratterizza il duello a distanza tra Kevin Bacon e Gary Oldman, così come ad un finale calcolatissimo eppure in grado di colpire dove è giusto essere colpiti: sinceramente, come per Johnny Cash nella sua San Quentin, penso sempre che la prigionia non faccia altro che amplificare le pulsioni ed i caratteri peggiori di un essere umano, e che la tortura legata alla stessa possa, di fatto, rendere chiunque tra noi il peggiore degli assassini.
E se è giusto pagare le proprie colpe, quantomeno rispetto alle regole che ci permettono una convivenza civile, non lo è farlo nel momento in cui le stesse diventano un pretesto per chi si rifugia dietro incarichi di potere o tutelati dalla Legge proprio per scampare alla stessa.






MrFord






"San Quentin, what good do you think you do?
Do you think I'll be different when you're through?
You bent my heart and mind and you may my soul,
and your stone walls turn my blood a little cold."

Johnny Cash - "San Quentin" - 







mercoledì 10 febbraio 2016

Furyo

Regia: Nagisa Oshima
Origine: Giappone, UK, Nuova Zelanda
Anno: 1983
Durata: 123'






La trama (con parole mie): siamo nel quarantadue a Java, in un campo di prigionia giapponese all'interno del quale si trovano prigionieri britannici. John Lawrence, che ha vissuto nel Paese del Sol Levante e conosce la lingua dei carcerieri, è il tramite tra i suoi compatrioti ed i due leader del campo, il Capitano Yonoi ed il sergente Hara, il primo austero e quasi algido, il secondo passionale e brutale spesso e volentieri con i prigionieri.
Con l'arrivo del maggiore Jack Calliers, ufficiale ribelle sempre pronto a sfidare l'autorità anche a rischio della vita, la situazione nel campo pare complicarsi: i due mondi a confronto e le diversità culturali e sociali dei leader dei due lati della barricata condurranno al punto di rottura Yonoi, combattutto tra l'attrazione per Calliers e gli impegni del suo ruolo.
Nel frattempo tra Lawrence e Hara il rapporto si evolverà diventando quasi un'amicizia.








Questo post partecipa alle celebrazioni per il David Bowie Day.






"A volte vincere è davvero doloroso", sentenzia, a conflitto mondiale ormai concluso, John Lawrence, protagonista delle vicende avvenute quattro anni prima in un campo di prigionia giapponese sull'isola di Java insieme al compagno d'armi Jack Calliers, contrapposti più per cultura che in battaglia al Capitano Yonoi ed il suo braccio destro, il Sergente Hara - rispettivamente interpretati da Tom Conti, l'oggi celebrato David Bowie, Ryuichi Sakamoto, autore anche della splendida colonna sonora ed ai tempi superstar del pop quasi al livello del Duca Bianco, e Takeshi Kitano, alle prime grandi esperienze che separarono i suoi esordi di comico e l'affermazione come regista -.
Pare proprio questa, la morale di Furyo - terribile adattamento dello splendido originale Merry Christmas, Mr. Lawrence -, elegante film di guerra in bilico tra l'haiku giapponese ed il gusto occidentale in stile L'impero del Sole firmato da Nagisa Oshima, poco conosciuto forse al grande pubblico ma in realtà autore di alcuni tra i cult del Cinema nipponico più significativi dagli anni settanta ai novanta - come L'impero dei sensi o Tabù Gohatto, sua ultima pellicola -: da tempo non mi capitava di rimettere occhio e cuore in gioco seguendo le imprese di Lawrence e Calliers, che paiono raccogliere il testimone di Classici indimenticabili come Il ponte sul fiume Kwai ingaggiando una sfida più ideologica e morale contro i loro carcerieri, che non di rivolta e combattimento veri e propri come ci si aspetterebbe da un film di guerra, e devo ammettere che l'effetto resta potente nonostante gli anni che passano, di fatto assumendo la connotazione di denuncia alla follia della guerra come concetto ed alla rigidità di chi la segue applicandone i dogmi quasi fossero regole d'onore.
In questo senso, appare straordinaria - ancor più di quella di Calliers, protagonista di un flashback elegante pronto a spezzare la narrazione senza per questo renderla meno coesa o efficace che mi ha riportato alla mente il primo Weir, spirito ribelle e tormentato, al centro di uno dei passaggi più emozionanti della pellicola e non solo - la figura del sergente Hara, selvaggio e brutale nell'applicare le regole del comportamento tipiche del suo paese ed allo stesso tempo pronto ad ignorare anche gli ordini più importanti pur di seguire, di fatto, il suo cuore: quel "Merry Christmas, Mr. Lawrence" che da il titolo al film è infatti destinato, insieme ad un Kitano mai più così bravo, a rimanere nel cuore dell'audience come un monito, chiudendo il cerchio di una riflessione fondamentale non solo rispetto all'antimilitarismo ed alla pace, ma anche all'amore nel senso più ampio del termine, ben rappresentato dai sentimenti - seppur combattuti dallo stesso charachter - provati da Yonoi rispetto a Calliers, celebrato con un altro passaggio da brividi legato al canto dei suoi compagni di prigionia una volta esploso il caso dell'insubordinazione dello stesso Calliers e Lawrence rispetto alle decisioni dei loro carcerieri.
Il tempo, dalla Seconda Guerra Mondiale e da quell'ottantatre dell'uscita del film, è trascorso, e le differenze culturali tra Occidente anglofono e Sol Levante si sono sicuramente livellate - anche se il mondo nipponico continua ad essere diverso da qualsiasi altro -, eppure Oshima riesce a rompere gli schemi anche in questo senso, talvolta riuscendo ad apparire perfino più simile a Lawrence e Calliers che non a Yonoi e Hara: merito, probabilmente, di una mente aperta e decisa a fare tesoro dell'esperienza in modo da poter costruire un futuro migliore, all'interno del quale non ci si debba rammaricare di una vittoria.
Perchè in guerra, di fatto, un vincitore non c'è.
Ed essere dalla parte "giusta" una volta che la cenere si è posata non significa, di fatto, non aver perso qualcuno cui si teneva.
O perderlo anche quando si vorrebbe rendere il suo Natale il migliore che si possa immaginare: quello che in regalo porta il resto della propria vita.





MrFord




"See these eyes so red
red like jungle burning bright
those who feel me near
pull the blinds and change their minds
it's been so long."
David Bowie - "Cat people (Putting out the fire)" -




Cantano con il Duca Bianco insieme al sottoscritto anche: 
L’uomo che cadde sulla terra (1976) su In Central Perk
The Elephant Man (1980) su The Obsidian Mirror
ChristianeF. (1981) su Mari’s Red Room
Miriam si sveglia a mezzanotte (1983) su Combinazione Casuale
Tutto in una notte (1985) su Non c’è paragone
Labyrinth (1986) su Director’s Cult
C.R.A.Z.Y (2005) su Pensieri cannibali
The Prestige (2006) sul Bollalmanacco di cinema





sabato 4 aprile 2015

Starred up

Regia: David MacKenzie
Origine: UK
Anno: 2013
Durata: 106'




La trama (con parole mie): Eric Love, giovanissimo criminale trasferito dal riformatorio al carcere "adulto", si ritrova nello stesso istituto all'interno del quale sconta dai tempi della sua nascita il padre Neville, tra le personalità di spicco della popolazione carceraria.
Il giovane, scontroso e pronto alla lotta sempre e comunque, si trova in conflitto con gli altri detenuti, il genitore e le guardie, fino a quando il responsabile di un gruppo di sostegno non decide di prenderlo sotto la sua ala in modo da lavorare sulla spigolosità del carattere del ragazzo nella speranza che lo stesso possa, un giorno, uscire e ricostruirsi una vita all'esterno.
Quando il referente delle guardie ed una delle eminenze grigie del carcere decidono che il destino di Eric è in qualche modo segnato, i suoi compagni "di corso" ed il padre, pur se su fronti diversi, lotteranno accanto al più giovane dei Love in modo che possa uscire vivo e a testa alta dallo scontro che si prospetta per lui.








Con ogni probabilità, non esiste un rapporto profondo ed intenso come quello che si vive rispetto ai propri figli, almeno quanto non esiste un rapporto in grado di cambiarci quanto quello con i genitori.
Nel bene o nel male, nella buona e nella cattiva sorte, quanto e più di un legame sentimentale da noi scelto e portato avanti nel tempo.
Personalmente, resto sempre molto sensibile all'argomento, in special modo dall'arrivo del Fordino: mi domando spesso come si evolverà il nostro rapporto, cosa ci attende in futuro, passo dai ricordi di Rocky V - con Paulie che predice al figlio dello Stallone Italiano che un giorno farà a pugni con suo padre - a Departures, e nel mezzo scorrono come paesaggi al finestrino immagini legate a così tanti film da non riuscire neppure a riconoscerli tutti.
Starred up sarà senza dubbio una parte integrante di questo fiume in piena: giunto al Saloon grazie ad un suggerimento del mio fratellino Dembo - diventato padre non troppo tempo dopo il sottoscritto -, il lavoro di David MacKenzie rappresenta l'ennesima scommessa vinta non solo dal Cinema anglosassone, ma anche dal genere carcerario, che pare aver trovato un erede clamorosamente efficace di Bronson, un racconto duro ma non per questo necessariamente incentrato sulla fisicità e la violenza cui fa da cardine la figura incredibilmente viva di Eric Love, giovane tardo adolescente trasferito per la prima volta nel carcere duro del mondo adulto, nella stessa struttura all'interno della quale, probabilmente dai tempi della sua nascita, vive suo padre.
Interpretato alla grande da Jack O'Connell - che è cresciuto con Skins prima di ritagliarsi un ruolo di primo piano anche dall'altra parte dell'oceano con Unbroken - Starred up rievoca i fantasmi - fortunatamente positivi - di Cella 211 e Il profeta, il drammatico vivere con il piede costantemente premuto sull'acceleratore senza la possibilità di affondare la marcia rischiando di bruciarsi per sempre: non si fanno sconti a nessuno, ed il "walking the line" finisce per servire a poco, specie quando un certo destino è scritto addosso a chi lo vive, a prescindere da quanto questo qualcuno potrà essere in grado di cambiarlo, o quantomeno tentare di farlo.
La riflessione, dunque, posta dal regista è piuttosto profonda ed amara - come conferma il bellissimo epilogo -, ed è legata non soltanto al suo main charachter, ma ad ogni individuo con il quale il giovane Love incrocia il cammino: dai compagni di "classe" - coordinati dall'assertivo volontario che si occupa del "corso", il Quinn di Homeland, che probabilmente rappresenta il punto di vista esterno di chi vive il carcere soltanto come un luogo dal quale uscire comunque a piacimento grazie alla propria condizione di uomo libero, in un certo senso noi spettatori - al padre Neville, dai "padrini" del penitenziario ai singoli detenuti.
Viviamo in un mondo che è dominato, nonostante le convenzioni sociali, dalla Legge della giungla, e nell'ecosistema carcerario, claustrofobico e viziato dagli istinti più incontrollabili, guardarsi le spalle ed apparire più forte di chi vorrebbe apparire più forte di noi diviene fondamentale - emblematico il passaggio in cui Eric, appena giunto nella sua nuova cella, si prodiga per fabbricarsi da subito un coltello sfruttando le lamette per la barba e lo spazzolino -: e non c'è Legge della giungla più forte di quella che lega un genitore al proprio figlio, un bisogno ancestrale e totalmente vero e sentito di poter toccare, nel bene o nel male, il nostro stesso sangue, che si parli di quello giunto prima di noi, o quello destinato a prendere il nostro posto.
E per poter dare tutto ed afferrare a piene mani quello che ci offre un'occasione come quella di essere genitori, o figli, pur in mezzo alla violenza ed all'assoluta mancanza di speranza, la benzina che ci serve è sempre quella che cantavano i Fab Four: all you need is love.
E qui ne abbiamo due.
Un padre e un figlio.
Non si poteva chiedere di meglio.




MrFord



"Cause you got a heart so big
it could crush this town
and I can't hold out forever
even walls fall down."
Tom Petty & The Heartbreakers - "Walls" - 




martedì 24 luglio 2012

The way back

Regia: Peter Weir
Origine: Australia
Anno: 2010
Durata: 133'




La trama (con parole mie): siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale, e Janusz, che vive nella Polonia spezzata in due da tedeschi e russi, è deportato in un gulag siberiano dopo essere stato accusato di spionaggio. Innocente e convinto a ricongiungersi alla moglie, il giovane decide, con l'aiuto di alcuni detenuti, di fuggire e raggiungere a piedi l'India.
Il viaggio, che prevede una camminata di oltre seimila chilometri attraverso Siberia, Mongolia, Cina e Tibet, sarà una prova di coraggio e resistenza in grado di avvicinare i destini ed i caratteri di uomini completamente diversi l'uno dall'altro e provenienti da diverse realtà e parti del mondo: una vera e propria lotta per la libertà che vedrà il gruppo confrontarsi con la Natura nella speranza di morire - e soprattutto vivere - da uomini liberi.




Dalle parti di casa Ford, il buon vecchio Peter Weir è sempre stato benvoluto: dai cult di formazione come L'attimo fuggente a vere e proprie pietre miliari come Picnic ad Hanging Rock o Gli anni spezzati, senza dimenticare produzioni decisamente più importanti come Master and commander o The Truman Show, non ricordo un solo titolo firmato dal suddetto che mi abbia deluso.
Il gusto del regista australiano, spesso e volentieri legato al confronto tra Uomo e Natura, ha sempre stuzzicato la parte più "wild" del sottoscritto, ed in questo senso The way back rispecchia appieno le aspettative e la tradizione della sua poetica: pur essendo lontano dall'ispirazione dei lavori migliori e presentandosi, di fatto, "soltanto" come un solido film d'avventura, questa sua ultima fatica resta comunque una delle visioni più interessanti di una poco accattivante - fino ad ora - estate, complici uno spirito neanche fossimo nel pieno di un'epopea di Herzog ed un cast in grande spolvero, dal convincente Jim Sturgess alla sempre più lanciata Saoirse Ronan, passando attraverso conferme come Ed Harris e Colin Farrell.
In particolare, ammetto di essermi fin da subito affezionato al personaggio interpretato da quest'ultimo, il criminale russo Valka, tatuatissimo e selvatico, nonchè legato ai codici degli Urka siberiani, elementi cardine del mondo delle Famiglie e delle stelle tipici dell'area malavitosa dell'ex Unione Sovietica: il suo progressivo integrarsi con il gruppo di fuggitivi - dalla minaccia alla protezione, fino al perfetto commiato - è l'esempio dell'ottima gestione che nello script si è tenuta rispetto ai personaggi, molto diversi tra loro eppure ugualmente importanti nell'economia del viaggio, ed approfonditi in modo che tutti possano trovare uno spazio adeguato - una sorta di approccio "lostiano", per usare un termine più vicino ai giorni nostri che non ai tempi della Seconda Guerra Mondiale -.
In realtà - e nonostante la parte del leone la faccia senza dubbio alcuno il confronto tra l'impresa di questo sparuto gruppo di prigionieri affamati e la Natura in tutte le sue incarnazioni, dal gelo siberiano al deserto mongolo - uno dei temi più interessanti toccati da Weir è quello della lotta per la libertà, diritto sacrosanto di ogni essere umano che anche qui al Saloon non ci si stancherà mai di difendere e proteggere: il punto di vista del regista, lontano dagli standard cui siamo abituati rispetto al periodo e concentrato sulla denuncia degli orrori commessi da Stalin - già fotografati nella meraviglia di Wajda, Katyn -, è lampante, e trova una traduzione perfetta nella ferma decisione del protagonista Janusz di non abbandonare mai il suo obiettivo, anche quando fermarsi potrebbe apparire la decisione più sensata e saggia - il passaggio in Tibet, poco prima di raggiungere l'India -.
Ritagliandosi, poi, momenti più leggeri che aiutano lo spettatore a respirare nelle due ore piene della pellicola - il ruolo di Irena nello scoprire le vite dei suoi compagni di viaggio, la discussione sulla quantità di sale da usare in cucina -, Weir pare tracciare un parallelo tra la lotta dell'Uomo contro l'Uomo per la libertà e quella dell'Uomo contro la Natura per la sopravvivenza: e se quest'ultima appare spietata e terribile, anche nei momenti davvero critici non si ha mai la percezione della stessa, angosciosa agonia che la Storia ci ha più e più volte insegnato ad imporre ai nostri simili, a diverse latitudini ed in opposti contesti politici e sociali.
Gulag sovietici o campi di concentramento nazisti, steppe siberiane o città latino americane, l'Uomo ha vergato tra le pagine dei suoi libri, nei secoli, le trame di vicende abominevoli che imprese come quella di Janusz e compagni - ispirata a fatti reali - ci aiutano a guardare senza dimenticare la speranza: la speranza di non mollare, di muovere un passo dopo l'altro verso quella che dovrebbe essere la condizione fondamentale di ogni esistenza, vivere la propria vita senza doversi guardare continuamente le spalle, e costruire - o cercare di farlo - i propri sogni senza qualcuno che venga a raccontarci che così non può essere, perchè lo ha deciso lui.
Vivere la propria vita da uomini liberi.
Fosse anche per morire nel tentativo di respirare quell'aria così diversa che tutti i giorni ci riempie i polmoni ma che, spesso, non sappiamo valorizzare come dovremmo.
L'aria che si può gustare lontani dalle prigioni.


MrFord


"I want to break free
I want to break free
I want to break free from your lies
you're so self-satisfied I don't need you
I got to break free
God knows, God knows I want to break free."
Queen - "I want to break free" -


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