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mercoledì 22 luglio 2020

White Russian's Bulletin



Come preannunciato e promesso, eccomi di ritorno al bancone del Saloon per un Bulletin che riprende le proposte passate da queste parti nelle ultime settimane, revisioni escluse - da questo punto di vista, è stato sicuramente un periodo in cui farsi coccolare da film già visti, stravisti e amati è stato un vero piacere -: principalmente si tratta di titoli legati a Netflix, la piattaforma che sta riscuotendo più successo nel nuovo Saloon, nonostante l'incalzare dei sempre presenti Disney+ e Prime, che hanno però fatto da serbatoio per i recuperi.
Spazio dunque a quello che la memoria mi permette di ricordare dei titoli che mi hanno fatto compagnia dalla seconda settimana di giugno a oggi.


MrFord



BORDERTOWN - STAGIONE 3 (Netflix, Finlandia, 2020)

Bordertown Poster

A cavallo dell'ultima fase del lockdown, alle spalle le visioni delle prime due stagioni nel periodo di piena clausura, Netflix aveva arricchito le sue proposte con l'annata numero tre legata alle vicende del Rocco Schiavone finnico, Sorjonen, anticonvenzionale profiler che dallo "stress" di Helsinki si trasferisce a Lappeenranta, sul confine russo, alla ricerca di una tranquillità che ovviamente non arriverà mai e poi mai.
Archiviati i primi episodi in lingua originale - una volta compreso che il finlandese non è propriamente un idioma affascinante per l'udito -, ho atteso l'edizione doppiata che ha momentaneamente chiuso le avventure dell'investigatore: una terza stagione a mio parere di transizione, con molti cambi importanti - la morte della moglie, il confronto con una nemesi da fumetto, la strana evoluzione del charachter della figlia, i possibili sbocchi narrativi per una possibile season four - e, forse, un pò più di discontinuità rispetto alla seconda.
Resta una proposta valida per gli appassionati di thriller e psicopatici, anche se, onestamente, con il caldo degli ultimi giorni forse andrebbe conservata per il prossimo inverno.




BECOMING CHAMPIONS (Netflix, Messico, 2018)

Becoming Champions Poster

Nata per veicolare l'attenzione sui Mondiali di due estati fa, Becoming Champions è una miniserie che ho apprezzato come compagnia per le pause pranzo, da appassionato di calcio - in fondo, pur essendo un tifoso molto tranquillo, lo sport più bello del mondo mi ha accompagnato fin dall'infanzia - e da appassionato della rassegna iridata, un appuntamento che, ad ogni occasione, mi trova sempre molto coinvolto nella visione di più partite possibili: questa mini, pur se molto televisiva, offre una panoramica sulle sole otto Nazionali che, nel corso della Storia, sono riuscite a portare a casa la Coppa del Mondo, il premio più ambito che ogni calciatore potrebbe sognare di vincere.
Il Brasile (con cinque titoli), l'Italia e la Germania (con quattro), Uruguay, Francia e Argentina (con due), Spagna e Inghilterra (con uno) diventano quindi una sorta di viaggio sportivo che attraverso interviste e rivisitazioni racconta - o prova a farlo - i perchè delle vittorie e delle sconfitte di questi Paesi. Una parentesi piacevole in un periodo che, senza dubbio, ha messo a dura prova anche lo sport.




THE TITAN GAMES - STAGIONE 1 (Netflix, USA, 2019)

The Titan Games Poster

Sponsorizzato dai Fordini - come ormai è risaputo, la Fordina ha da tempo dichiarato di voler sposare The Rock - e recuperato in ritardo rispetto a loro, The Titan Games ha riportato alla mente i tempi di Ultimate Beastmaster, finendo per intrattenere alla grande un vecchio sportivo che rifiuta di darla vinta al Tempo come il sottoscritto.
Divertente ed incentrato sulle storie di persone comuni, lo show capitanato da Dwayne Johnson fa tutto quello che deve fare, e per quanto pacchiano e a stelle e strisce sia, funziona, anche perchè per chi è abituato a fare attività fisica la curiosità di mettersi alla prova con prove come quelle portate sullo schermo è davvero molta.
Personalmente, dato che ormai il suddetto Tempo non è dalla mia parte, spero sempre di vedere, un giorno, uno dei Fordini - o entrambi - competere in qualche tamarrata di questo genere.
Ovviamente sempre con The Rock come host.




EUROVISION SONG CONTEST - LA STORIA DEI FIRE SAGA (David Dobkin, USA, 2020, 123')

Eurovision Song Contest - La storia dei Fire Saga Poster

In un annata per cause di forza maggiore privata delle uscite in sala, i portali di streaming sono diventati ancora di più un riferimento anche per le nuove uscite, finendo per portare alla ribalta anche titoli che avrei clamorosamente snobbato come questo, islandese per esigenze di copione ma per nulla di fatto, espressione di quella commediaccia a stelle e strisce che nelle serate senza impegno va un gran bene, anche perchè, come per Sanremo o l'Eurovision, se anche ci si addormenta e si perde un pezzo per strada, tutto sommato non fa troppo male.
A dire il vero, comunque, sarà che Will Ferrell finisce sempre per divertirmi, sarà che l'Islanda è un chiodo fisso che prima o poi dovrò togliermi o che il rapporto padre/figlio mi colpisce da qualsiasi angolazione lo si tratti, ma tutto sommato ho apprezzato La storia dei Fire Saga come visione senza impegno, finendo addirittura per apprezzarlo nel suo essere così com'è.
In fondo, fare i puristi e gli snob - che si tratti di Cinema o altro - serve sempre fino a un certo punto.
E la canzone trash, in fondo in fondo, piace a tutti.




THE OLD GUARD (Gina Prince-Bithewood, USA, 2020, 125')

The Old Guard Poster

Altro giro, altra produzione Netflix: chiudo questo primo Bulletin più corposo con uno dei titoli più pubblicizzati dalla popolare piattaforma in questo periodo, forte di un cast e di una produzione assolutamente da distribuzione su grande schermo globale e di un plot che pesca a piene mani dall'eredità action degli anni ottanta e novanta.
Peccato che, per qualcuno che in quegli anni è quasi nato e senza dubbio cresciuto, The Old Guard appaia come qualcosa di molto telefonato e già visto, che scorre via senza colpo ferire e si dimentica non troppi minuti dopo la visione, in barba a quanto, a conti fatto, possa menarsela di poter fare.
Per quanto mi riguarda, prevedibile, troppo lungo e per nulla in grado di sfruttare un cast che senza dubbio porta in dono un concentrato di talento ben diverso da quello che script e regia garantiscono.
Si lascia guardare, ma è un pò come uno di quegli appuntamenti con la figa di turno che dopo cinque minuti vorrei che fosse già finito, perchè sai bene dentro di te che sarà una lunga, lenta, inesorabile morte per noia.


lunedì 7 novembre 2016

Doctor Strange (Scott Derrickson, USA, 2016, 115')





Ai tempi delle vette più alte della mia passione di lettore di fumetti - in particolare di supereroi - c'erano due categorie di personaggi che faticavo sempre a digerire: i cosiddetti "eroi cosmici" - troppo da fantascienza nerd, troppo potenti, troppo divini per i miei gusti - e quelli "magici" - a prescindere dal contesto in cui potevano muoversi, dalla Scarlet degli Avengers a Sciamano di Alpha Flight -.
Doctor Strange era parte assoluta - e forse simbolo - di quest'ultima categoria: ricordo infatti di aver letto ben poche storie con protagonista lo Stregone Supremo, e di averlo digerito a stento anche quando incrociava la strada di uno dei miei favoriti, Spider Man, che in più di un'occasione ha stretto alleanza con il mistico.
L'idea, dunque, che il Cinematic Universe della Casa delle Idee si potesse arricchire con un lungometraggio dedicato proprio al dottore mi entusiasmava ben poco, specie considerato che, ormai, le dimensioni di questo affresco stanno rischiando di divenire talmente grandi da saturare lo stesso: lo stesso trailer, incentrato sull'azione più che sul contesto dark dello stregone, aveva alimentato i timori nonostante la presenza di una certezza come Cumberbatch, che negli ultimi anni, tra Sherlock e Star Trek, è riuscito a convincermi anche nei casi in cui si è trovato al confronto con produzioni mainstream.
Ebbene, nel corso delle quasi due ore della visione, mi sono dovuto ricredere totalmente.
Non solo Scott Derrickson - che, del resto, mi aveva già molto convinto con il primo Sinister - e gli sceneggiatori sono riusciti a rendere il charachter attuale, ironico e molto piacevole - una sorta di versione "magica" del Tony Stark tutto raziocinio e tecnologia -, ma questo Doctor Strange è senza dubbio il miglior prodotto Marvel degli ultimi anni insieme a I Guardiani della Galassia e The Winter Soldier, funge da veicolo per il terzo capitolo di Thor - si veda la coda dei titoli di coda - e prepara il terreno per l'Infinity War che coinvolgerà non solo gli Avengers ma anche i succitati Guardiani nei prossimi anni quando collideranno con il terrificante Thanos - già intravisto in un paio di occasioni -, è un solidissimo intrattenimento intelligente e si presenta come un riuscito cocktail di Batman Begins, Inception, momenti ad alto contenuto nerd ed approccio da giungla d'asfalto.
L'evoluzione del charachter di Strange, come molti nati dalla penna di Stan Lee - che continua imperterrito ad apparire in ogni pellicola targata Marvel Studios, sempre in gran forma nonostante i novantatre anni -, è legata ad una rinascita dopo una caduta rovinosa, e per molti versi corre parallela a quella del già citato Tony Stark di Iron Man, ed è resa molto bene da un Cumberbatch senza dubbio credibile supportato da un cast di prim'ordine, che vede tra le sue fila Chiwetel Ejiofor, Rachel McAdams, Mads Mikkelsen e Tilda Swinton: come se non bastasse, l'equilibrio mostrato tra le parti "mistiche" e quelle action è davvero notevole, l'ironia piazzata alla grande in ogni passaggio che potrebbe annoiare il pubblico - bellissime le battute legate al "nome unico" di Wong o al "mantra" dato allo stesso Strange all'inizio dell'addestramento - ed i passaggi da viaggio cosmico realizzati splendidamente, quasi un omaggio alle inarrivabili immagini di 2001 così come al Cinema trash di gente come Mario Bava o ai paradossi temporali di Ritorno al futuro, Ricomincio da capo o il recente Edge of tomorrow - il confronto con Dormammu, nemesi di Strange, è uno dei più divertenti faccia a faccia buono contro cattivo che ricordi nel Cinema di genere e non solo -.
Certo, qualche sbavatura si può trovare - soprattutto nei raccordi di sceneggiatura -, ma poco importa: Doctor Strange diverte, intrattiene, a suo modo fa sognare e rappresenta senza dubbio il prototipo perfetto di come dovrebbe essere un film di supereroi in grado di far godere fan e non.
Da un punto di vista mistico, direi che ho trovato senza ombra di dubbio la mia reliquia di Casa Marvel.




MrFord




 

lunedì 9 maggio 2016

Codice 999

Regia: John Hillcoat
Origine: USA
Anno: 2016
Durata:
115'








La trama (con parole mie): Marcus Belmont, un ex militare legato a doppio filo alla moglie di un boss della mafia russa di Atlanta, è coinvolto con un gruppo di compagni - composto da ex commilitoni e poliziotti corrotti - in un duplice colpo apparentemente impossibile volto a permettere la scarcerazione dello stesso boss. 
Quando Chris Allen, un poliziotto di recente assegnato alla squadra anti gang della città, nipote del detective veterano Jeffrey, è indicato come partner ad uno dei soci di Marcus e la consorte del padrino, Irina, mostra a Belmont cosa sarebbero in grado di fare se lui ed i suoi soci decidessero di non obbedire ai loro ordini, la situazione precipita: cosa saranno disposti a fare i rapinatori per portare a casa soldi e pelle? E quanto influirà nella vicenda il ruolo di Chris e Jeff?












Se John Hillcoat mi garantisse un'uscita a settimana per alleviare i pensieri da spettatore costretto a lottare con il sonno, gli impegni genitoriali, il lavoro e gli incastri della vita di tutti i giorni, penso sarei pronto a mettere la firma per godermi il suo operato tosto e senza fronzoli ed andare a letto felice neanche fossi nel pieno di una sbronza più che allegra o alla fine di una goduriosa scopata pronta a prendere a braccetto e gettare tra le braccia di Morfeo.
Del resto, con Lawless alle spalle, il buon John partiva già avvantaggiato qui al Saloon, finendo per uscire rafforzato grazie ad un cast di tutto rispetto - da Kate Winslet a Chiwetel Ejiofor, passando per Woody Harrelson e Casey Affleck, solo per citare i nomi più grossi -, un ottimo trailer ed un'atmosfera che pareva un incastro tra Michael Mann e l'action con le palle di Katheryn Bigelow: e, occorre ammetterlo, oltre ad avermi soddisfatto alla grande, Hillcoat ha rischiato, per buona parte del film, addirittura per sorprendermi e superare il suo lavoro precedente, arrivando ad un soffio dal piazzare una bomba che non aspettavo neppure nei sogni più sfrenati.
Peccato che, soprattutto nella parte che precede l'escalation finale - che torna ad essere ottima - Codice 999 finisca per dilungarsi quel tanto di troppo da far calare la tensione pregiudicando un risultato che, altrimenti, sarebbe stato davvero strepitoso: certo, non starò qui a lamentarmi di non aver assistito ad un nuovo Inside man o Heat - La sfida, ma un pizzico di rammarico resta nel vedere una delle proposte migliori dell'hard boiled americano recente venire frenata da, almeno credo, un eccesso di confidenza proprio nel momento in cui ci sarebbe stato bisogno di spiccare letteralmente il volo.
Ad ogni modo, ho voluto affrontare per primo l'argomento pseudo delusione così da togliermi il sassolino dalla scarpa ed affermare in tutta tranquillità che Codice 999 è un'assoluta figata, un film da palle quadrate che ricorda The Shield o una versione più riuscita del recente Sabotage, un poliziesco di quelli che sono il vero e proprio pane quotidiano per gli appassionati del genere, interpretato benissimo da tutto il cast, pronto a regalare violenza sotto forma di parole, sangue e pensieri ed a mostrare la vita dura che certe strade riservano a chi decide di percorrerle, da una parte o dall'altra del labile confine della Legge.
Da un certo punto di vista, e forse proprio per quest'ultimo aspetto, il lavoro di Hillcoat potrebbe essere senza alcun problema considerato un Western moderno fatto di scontri all'ultimo sangue, sparatorie, rapine in banca e rocambolesche fughe, banditi pittoreschi destinati al fallimento, malvagi ed apparentemente intoccabili boss ed (anti)eroi solitari e disequilibrati - splendida, in questo senso, la coppia formata dallo zio Harrelson, strafatto e geniale come non mai, ed il nipote Affleck, tagliente e deciso tanto da apparire la versione palestrata del Tim Roth che ormai vent'anni fa rubava la scena a tutti in Le iene -: poco importa che il teatro dell'azione sia Atlanta, o che si parli di mafia russa e bande di latinos tagliateste, che i duelli da mezzogiorno di fuoco siano sostituiti da trappole esplosive o sventagliate di fucili d'assalto automatici.
La dimensione che mostra Codice 999 è quella della Frontiera, che si parli di Legge, Famiglia, sangue o vendetta.
Di successo o fallimento.
E qui al Saloon, quando entra in gioco quel confine sottile, si sfonda una porta aperta: anche perchè il punto forte di questo film è rappresentato, a prescindere dall'adrenalina che pompa ed il sangue che scorre, proprio dall'umanità di ogni personaggio, anche di quelli più disumani.
Perchè ognuno di noi, poliziotto o criminale, padre o figlio, tutto d'un pezzo o corrotto, conosce bene il caos che si porta dentro, o quantomeno intuisce la portata dello stesso: resta solo da capire se la Frontiera stessa riuscirà a mostrare la via migliore che possiamo percorrere.
Per poter vivere al meglio che possiamo, e portare a casa la pelle.





MrFord





"And you can see my heart beating
no, You can see it through my chest
said I'm terrified but I'm not leaving no
know that I must pass this test
you can see my heart beating
oh, you can see it through my chest
I'm terrified but I'm not leaving no
know that I must pass this test."
Rihanna - "Russian roulette" - 





mercoledì 27 aprile 2016

Il segreto dei suoi occhi

Regia: Billy Ray
Origine: USA
Anno:
2015
Durata:
111'







La trama (con parole mie): nel pieno della lotta al terrorismo post-undici settembre, un team di investigatori scopre che la figlia di una dei membri dello stesso è stata violentata ed uccisa prima di essere scaricata in un cassonetto accanto ad una moschea già sorvegliata a causa dei possibili legami con cellule pronte ad attaccare Los Angeles.
Quando i sospetti si concentrano su Marzin, un giovane frequentatore della moschea stessa, i coordinatori dell'indagine cercano in tutti i modi di mettere un freno a Ray Kasten, deciso a catturare il colpevole dell'omicidio, in modo da non pregiudicare l'intera operazione: quando i conflitti interni diverranno così evidenti da non poter essere più arginati, Kasten abbandonerà l'incarico ed il tempo trascorrerà.
Tredici anni dopo, convinto di aver ritrovato Marzin sotto un'altra identità, Ray tornerà dai suoi vecchi colleghi in modo da riaprire il caso che ha sconvolto le loro vite: ma le cose non andranno come poteva sperare.










E' universalmente noto ad appassionati e non di Cinema quanto possa essere difficile realizzare sequel all'altezza degli originali, che possano appassionare e convincere senza risultare copie sbiadite degli stessi, conquistare se possibile una parte di pubblico ancora maggiore - discorso già fatto ieri, tra l'altro, rispetto a Il cacciatore e la regina di ghiaccio -.
Allo stesso tempo, penso sia ancora più difficile realizzare un remake che possa in qualche modo eguagliare il livello - quando è buono - del titolo che l'ha ispirato, riuscendo all'occorrenza anche ad aggiungere qualcosa che ne definisca addirittura una profondità maggiore: in questo senso, in tempi recenti l'unico titolo che posso pensare di inserire in questa categoria è il Millennium di David Fincher, in grado di superare - e neppure di poco - il suo epigono scandinavo, ma parliamo, comunque, di merce molto rara.
Il segreto dei suoi occhi, film cileno vincitore dell'Oscar come miglior film straniero nel duemiladieci, per tematiche, tecnica ed intensità emotiva, aveva fatto breccia nel mio cuore ai tempi della sua uscita, lasciando un segno che ancora oggi posso quasi toccare con mano: l'idea di un remake in salsa a stelle e strisce già di partenza risultava, a prescindere dalla così breve distanza temporale dal suo ispiratore, davvero fuori luogo, anche e soprattutto perchè priva della carica che la questione della dittatura di Pinochet garantiva al lavoro originale di Campanella, qui presente in veste di produttore.
Il risultato, senza dubbio ottimamente portato sullo schermo e reso interessante da un cast di prim'ordine - dalla Kidman ad un'ottima Julia Roberts, passando per Chiwetel Ejiofor -, in grado di funzionare discretamente come thriller a sè stante, finisce però per perdere nettamente il confronto, dimostrandosi ad un tempo privo del carattere necessario per risultare in qualche modo memorabile per chi non ha ancora avuto modo di gustarsi l'originale, della tecnica per emularlo - sequenze come quella dello stadio, per quanto ben trasposte, parlano da sole - e soprattutto in grado di far ricredere chi, come questo vecchio cowboy, lo approcciava con il dubbio che non potesse esserne all'altezza.
Non che questo secondo Il segreto dei suoi occhi sia un brutto film - anzi, oserei dire il contrario -, che non coinvolga - del resto, le tematiche restano profonde ed importanti, pur cambiando l'ordine degli addendi, per dirla come ai tempi della scuola - o non catturi l'attenzione quanto basta per rimanerne avvinti: più che altro, pare mancare la scintilla che distingue i grandi film da quelli che si possono guardare - o riguardare - al loro passaggio in tv ma finiscono per essere sempre e comunque pellicole tra le tante, perse nell'oceano di proposte di un genere - come il thriller - decisamente sfruttato soprattutto oltreoceano.
Un risultato a metà, dunque, per Billy Ray ed il suo cast, di quelli che funzionano ma non convincono, non hanno nulla di cui rimproverarsi ma, allo stesso tempo, che possa davvero distinguerli dal resto: sarei comunque eccessivo se affermassi di non essermi goduto la visione - e quasi mi sentirei di consigliarla a tutti coloro che ancora non avessero visto l'originale, fosse anche solo un tentativo per approcciare il genere -, o allo stesso tempo promuoverlo senza riserve.
Va riconosciuto, comunque, a regista ed attori l'impegno profuso ed il coraggio di mostrare una certa comunanza di idee con la pellicola d'ispirazione nonostante, di fatto, in questo caso si parlasse del decisamente più politicamente corretto mercato distributivo statunitense ed internazionale.
Niente di perfettamente riuscito, dunque, ma un tentativo: e, chiedetelo pure a Ray, un tentativo, a volte, è in grado di fare la differenza rispetto a silenzi pesanti come macigni.





MrFord





"I saw you creeping around the garden
what are you hiding?
I beg your pardon don't tell me "nothing"
I used to think that I could trust you
I was your woman
you were my knight and shining companion
to my surprise my loves demise was his own greed and lullabies."
Lana Del Rey - "Big eyes" - 





lunedì 30 marzo 2015

Inside man

Regia: Spike Lee
Origine: USA
Anno: 2006
Durata:
129'






La trama (con parole mie): Dalton Russell sa bene quello che deve fare. E conosce il piano come le sue tasche. Una rapina, nel pieno centro di Manhattan. Arthur Case è il proprietario e socio della Banca assalita dal commando di Russell, e sa bene cosa potrebbe perdere, se il contenuto di una certa cassetta di sicurezza venisse allo scoperto. Madeleine White è una negoziatrice, una donna con le palle d'acciaio sempre pronta a risolvere le grane peggiori dei potenti, per la giusta parcella. Keith Frazier è un detective tosto ed incasinato, indagato dalla disciplinare per una vicenda di soldi rispetto alla quale si dichiara innocente e una voglia di riscatto che punta ad una promozione.
Quando le loro strade finiranno per incrociarsi, mantenere l'equilibrio potrebbe diventare decisamente difficile: a fare da arbitro, la Grande Mela, New York City, la città che più di ogni altra ha simboleggiato la modernità ed il concetto di metropoli cosmopolita.








Questo post partecipa alle celebrazioni del Black Power Day.





"Ed è qui, come direbbe il Bardo, che sta l'inghippo", sentenzia Dalton Russell, guardando in camera, in apertura di uno dei più straordinari film degli Anni Zero.
Onestamente, l'unico inghippo che mi pare di trovare, è dato dal fatto che si tratti del più grande film che Spike Lee - regista manifesto della cultura "black" - abbia mai girato, nonchè uno dei titoli più importanti, parlando di heist movies, dai tempi di Rapina a mano armata.
E non parliamo, dunque, di piccoli calibri.
Personalmente, ho sempre pensato che il problema del vecchio Spike risiedesse principalmente nella sua eccessiva ed incontrollata rabbia, e nel fatto che i suoi prodotti - anche i migliori - fossero razziali e razzisti, in una certa misura, quanto il sistema che il cineasta newyorkese cercava di criticare: il suo percorso per giungere a questo vertice assoluto, partito con Summer of Sam e passato attraverso l'altrettanto splendido La 25ma ora, ha visto come protagonista principalmente una sorta anestetizzazione del lato più black del suo approccio, affidandosi alla tecnica e ad un'ironia - in questo caso - graffiante in grado di colpire ad ogni latitudine sociale e, allo stesso tempo, fornire al pubblico una delle dichiarazioni d'amore più profonde per New York che siano state mai portate sullo schermo.
Dalla sequenza della ricerca di qualcuno che possa comprendere il linguaggio della registrazione "donata" dai rapinatori alla polizia - "Siamo a New York, qualcuno conoscerà la lingua che stanno parlando" - alla vicenda di Vikram, passando per il cellulare di Peter Hammond ed il dialogo - da antologia - tra Dalton ed il bambino con il padre tra gli ostaggi a proposito del videogame che il piccolo sfrutta come passatempo nel corso delle ore del sequestro, tutto suona come un ritratto ironico ed allo stesso tempo traboccante amore di una città ricca di contraddizioni e conflitti, dalla strada ai salotti d'alto bordo, ma ugualmente e forse proprio per questo una delle più affascinanti al mondo.
Ma Spike Lee non si limita a questo: grazie soprattutto al confronto tra Russell ed il suo antagonista - il perfetto Frazier di Denzellone Washington - con Inside man viene a galla un Cinema di genere che ricorda i Classici come Un bacio e una pistola, o i romanzi di Mickey Spillane ed Elmore Leonard impreziosito da una tecnica ed un approccio assolutamente moderni, cui fa da cornice - o da cuore - una critica meno arrembante ma non per questo poco decisa agli anni del bushismo e della cultura del terrore, culminata con una parte finale grazie alla quale, in una certa misura, tutti i protagonisti di questo intrigo finiscono per cavarsela senza però uscire puliti, quasi come se la sceneggiatura ci ricordasse l'imperfezione - ed il bello della stessa - che si cela dietro l'umanità, rappresentata alla grande dagli ostaggi della banca e dai loro interrogatori.
E dato che, malgrado qualche scivolone nel corso degli anni - cinematografico ed in termini di dichiarazioni -, il pungente Spike non è affatto stupido, Inside man finisce anche per risultare uno degli esempi migliori di confezione hollywoodiana impeccabile e titolo assolutamente perfetto nell'ambito del Cinema dell'illusione - forse, a memoria del sottoscritto, superato soltanto, in tempi recenti, dall'appena precedente The prestige -, che lega lo spettatore alla poltrona e lo trasporta di prepotenza quasi dentro lo schermo: un'evoluzione, in questo senso, è riuscita a farmi rabbrividire, nel corso della revisione concessa a questo Modern Classic grazie al Black Power Day che celebriamo oggi.
Un passaggio che, dal primo gennaio del duemilaquattordici, era accaduto soltanto una volta.
La partenza dal divano e l'arrivo a terra del sottoscritto, cocktail alla mano e culo sul tappeto, a bocca aperta di fronte al televisore: come fu per The Wolf of Wall Street.
E basterebbe questo, per definire Inside Man.
Anche se, a ben guardare, forse l'idea rende di più per definire il filmone totale di Scorsese, altro grande interprete della cultura newyorkese nella settima arte.
Ma poco importa.
Qui non c'è nessun inghippo.
Solo un fottuto, grande colpo.
Un fottuto, grande film.
Anzi, più che grande.
"Noi non dimenticheremo", si intravede su un muro dietro Denzel Washington.
La ferita del World Trade Center ancora aperta.
Neppure io dimenticherò.
Non dimenticherò quanto è grande Spike Lee quando misura l'ego di Spike Lee e diventa un dannato, enorme interprete della cultura americana.
Black e non solo.




MrFord






"Chal chaiyya chaiyya chaiyya chaiyya
chal chaiyya chaiyya chaiyya chaiyya
chal chaiyya chaiyya chaiyya chaiyya
chal chaiyya chaiyya chaiyya chaiyya."
A. R. Rahman - "Chaiyya Chaiyya" -





lunedì 24 febbraio 2014

12 anni schiavo

Regia: Steve McQueen
Origine: USA, UK
Anno: 2013
Durata: 134'




La trama (con parole mie): Solomon Northup, violinista, padre di famiglia e uomo libero vive come elemento di spicco della comunità di Saratoga, New York, nel 1841. Nel corso di un viaggio della moglie con i due figli è avvicinato da due uomini che gli offrono un ingaggio ben pagato attirandolo in una trappola: Solomon viene infatti rapito e venduto come schiavo, iniziando una vera e propria odissea costruita su sofferenza, tentativi di fuga, passaggi di proprietà da un padrone all'altro, sopportando vessazioni ed umiliazioni per poter sopravvivere.
Divenuto uno degli schiavi del tirannico Epps, Northup, ribattezzato Platt, dovrà attendere ben dodici anni prima di poter intravedere una speranza di tornare tra le braccia dei suoi cari.






Non ho mai amato particolarmente il lavoro di Steve McQueen.
Talento estetico indiscutibile, infatti, il regista anglosassone mi è sempre parso come un illustre appartenente alla categoria dei "belli senz'anima", capace di regalare qualche zampata ma non di coinvolgere fino in fondo: dunque, i precedenti Hunger e Shame, seppur validi, finirono presto nel dimenticatoio fordiano delle visioni dalle quali ci si poteva aspettare decisamente di più.
12 anni schiavo, pellicola che avrebbe potuto significare svolta o clamorose bottigliate per il suddetto McQueen, rappresentava anche una prova non semplice: lavorare su un film che racconti - peraltro molto bene - una storia vera legata ad una delle ferite più profonde della Storia americana, quella dello schiavismo, senza rischiare di scadere nella retorica di grana grossa non si prospettava certo come una cosa da nulla, pur considerando che - fortunatamente - tematiche come queste difficilmente incontrano critiche aspre ed agguerrite - un pò come la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti -, e come recitava Kate Winslet in Extras, di norma finiscono per essere premiate ai grandi Festival.
Senza dubbio, il corpulento Steve ha raggiunto il suo obiettivo: 12 anni schiavo è indubbiamente un grande film sia dal punto di vista tecnico che emotivo, in grado di smuovere sentimenti e toccare temi importanti come il diritto alla Libertà che dovrebbero essere sempre e comunque alla base della società umana, interpretato da un gruppo di attori in grande spolvero, fotografato con una cura maniacale ed in grado di passare dalla violenza estrema - fisica e psicologica - a momenti di delicatezza quasi straziante, senza risparmiare, in questo, neppure una fetta dell'audience.
Eppure, tolti il fattore tecnico e la lotta per la sopravvivenza affrontata da Solomon Northup, così come lo splendido finale - da brividi quel "perdonatemi" che ancora mi scuote dentro -, sono rimasto fino all'ultimo indeciso sul voto da assegnare a questo film, trovandomi a ripensare al percorso intrapreso dal regista, al coinvolgimento giustamente "obbligatorio" del pubblico, al fatto, per dirla come Julez, che ci si aspetti di piangere, alla fine, inesorabilmente.
Il passaggio decisivo che ha permesso a 12 anni schiavo di muovere un passo oltre è finito per essere il confronto che Solomon ha con il carpentiere Bass interpretato da Brad Pitt, charachter abolizionista e cresciuto in una realtà ben diversa - quella canadese - rispetto agli Stati del Sud, e nel faccia a faccia di quest'ultimo con il tirannico Epps cui presta lo sguardo spiritato un ottimo Fassbender: riflettendo sulle condizioni agghiaccianti dei lavoratori, la differenza di vedute tra Nord e Sud che sfocerà nella Guerra di Secessione si traduce nella questione posta da Bass al proprietario della piantagione che ha visto prigioniero Solomon per anni, ovvero il fatto che, a prescindere dalla razza, il concetto di schiavitù non dovrebbe esistere nella società.
Nello sguardo deciso di Brad Pitt rivolto a Chiwetel Ejiofor, e in quel "non l'aiuterò perchè è un piacere, l'aiuterò perchè è un dovere" si riassume tutto quello che ho vissuto affrontando questa visione.
12 anni schiavo non è un film indimenticabile, una bomba della settima arte come The wolf of Wall Street.
Non è neppure piacevole da vedere, perchè mette a nudo uno dei concetti più importanti che riguardano l'Uomo come animale sociale, e personalmente mi ha messo di fronte al fatto che, probabilmente, se fossi ridotto in schiavitù non riuscirei a sopravvivere, perchè finirei per seppellire di legnate il Paul Dano della situazione finendo impiccato a qualche albero sperduto.
Ma non è per piacere, che un'opera come questa va guardata, vissuta, ammirata.
12 anni schiavo va indiscutibilmente promosso perchè è un dovere di noi tutti non dimenticare quante persone hanno dovuto sputare sangue affinchè certe cose non si ripetessero, come si dice accada quando si parla di Storia.
Un dovere che Steve McQueen sceglie di raccontare nel modo più elegante possibile.
Ma indiscutibilmente un dovere.



MrFord



"Oh, when them cotton bolls get rotten
you can't pick very much cotton,
in them old cotton fields back home."

Creedence Clearwater Revival - "Cotton fields" -




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