Ricordo bene il periodo in cui Guy Ritchie fece il botto, quando tra Lock&Stock e The Snatch molti erano pronti a proclamarlo una sorta di nuovo Tarantino, nel rispetto dello spirito sopra le righe del ragazzaccio di Knoxville che scomponeva il tempo di narrazione e giocava con i diversi generi: purtroppo, però, a prescindere dalle decisamente più limitate capacità di scrittura ed approccio, il buon Guy, al contrario di Quentin, ha finito per imborghesirsi, negli anni, e giocare sempre in casa fornendo al pubblico quello che il pubblico si aspettava da lui.
Niente di più, niente di meno.
Penso ai due Sherlock Holmes, più fumo che arrosto - per quanto piacevoli da vedere -, o a questo recente King Arthur, che pare una sorta di Robin Hood caciarone più che il ritratto di uno dei personaggi più sfaccettati ed interessanti della Letteratura anglosassone: ricordo ancora l'effetto che mi fece, pensando ai personaggi trattati, fin dalla prima visione, Excalibur di John Boorman, che affascinò e stimolò nel Ford bambino la curiosità del recupero del ciclo arturiano, lontano anni luce da questo "moderno" cocktail che pare shakerare Il signore degli anelli - clamorosamente scopiazzato nella battaglia che apre il film -, un pò di musica tradizionale che stimola lo spirito dei maschi alfa in cerca di un confronto, una rissa o un modo per mostrare i muscoli ed uno sviluppo talmente noioso da far apparire una cosa come il tanto criticato Macbeth dello scorso anno una vera e propria passeggiata.
Ritchie, da par suo, cerca di affiancare lo stile scanzonato e sopra le righe all'epicità della materia, senza riuscirci, poggiandosi sulle spalle dei due - sempre bravi e sempre fordiani - Jude Law e Charlie Hunnam, che paiono due fuoriclasse di una squadra di calcio abbandonati in campo senza una direzione nel corso di una partita destinata a finire nel peggiore dei modi.
Un peccato, considerata l'ispirazione di base, molti dei caratteristi e la possibilità di andare oltre a quello che ci si aspetterebbe da Guy Ritchie ma in una versione più seriosa e pesante rispetto a quella di un film di Guy Ritchie.
Ed un peccato anche per il Saloon ed i suoi abitanti, che hanno aspettato questo film quasi quanto Covenant ed ora si trovano a sperare che l'operato di Ridley Scott non sia così pessimo come si legge in giro per evitare di vedere bruciata la prima settimana di uscite interessanti da un paio di mesi a questa parte.
In qualche modo, pare quasi che Ritchie non abbia saputo che direzione dare al suo lavoro: si tratta di un blockbuster tamarro e casinaro o di un tentativo autoriale di modernizzare un charachter ed una saga splendidi per conto loro?
Ha più importanza l'utilizzo della CGI o delle sequenze ad effetto oppure l'epicità del dramma in stile Shakespeariano?
Le risposte, purtroppo, latitano dall'inizio alla fine, ed il risultato, più che una battaglia da ricordare, è una lotta per restare svegli senza pensare di essere finiti su una giostra già provata e riprovata mille volte, semplicemente ridipinta per apparire diversa.
Oltre a fare la fortuna della sua autrice ed aver in qualche modo veicolato la vittoria del viaggio ad Orlando ed ai suoi fantastici parchi giochi dei Ford qualche anno fa, Harry Potter è stato senza ombra di dubbio un vero e proprio fenomeno di massa per le generazioni che ora vanno dall'adolescenza ai quaranta, in termini letterari, ludici o cinematografici.
Nonostante non sia mai stato un fan accanito del maghetto - mi sono fermato a L'ordine della fenice per quanto riguarda i romanzi, mentre ho amato solo a corrente alterna le trasposizioni su grande schermo - occorre ammettere che la sua saga ha avuto il merito di coinvolgere anche chi non se lo sarebbe mai aspettato, dando vita ad una vera e propria mitologia e ad opere "sorelle" come questa: Animali fantastici e dove trovarli, infatti, rappresenta l'inizio di una nuova epopea ambientata nello stesso mondo di Harry Potter, ma a partire dagli Stati Uniti degli anni venti, dunque ben prima che non solo il piccolo predestinato ma anche i suoi genitori nascessero.
Personalmente, non smaniavo all'idea di buttarmi in un'altra produzione di questo genere, ed ho approcciato la visione principalmente spinto dall'hype di Julez all'idea di tornare a gettarsi nel mondo della magia e dei babbani - o nomag, come pare si usi nel Nuovo Mondo -, e considerato il mio scetticismo, devo dire che il risultato del lavoro di David Yates è stato più che discreto: nonostante, infatti, una durata eccessiva ed una certa freddezza di fondo, Animali fantastici e dove trovarli è divertente e piacevole, non rappresenta nulla di nuovo per quanto riguarda il Cinema d'avventura per ragazzi ma non sfigura neppure, principalmente grazie alle creature curiose portate a spasso dal protagonista - un Eddie Redmayne che ha già cominciato a fare l'Eddie Redmayne, e per un attore al top del successo non è mai un bene - e alla spalla comica dello stesso, il Kovalski di Dan Fogler, vero e proprio jolly di una pellicola che, senza queste presenze decisamente spassose, avrebbe finito per apparire quasi troppo pretenziosa e seriosa, considerati i suoi elementi cardine.
Proprio la parte più dark, infatti, che aveva fatto la fortuna dei capitoli migliori della saga di Harry Potter - più precisamente quelli dal due al quattro, il mio personale favorito -, in questo caso pare appesantire eccessivamente una proposta che, al contrario, gira decisamente meglio quando lavora come fosse una pellicola figlia degli anni ottanta dei vari Il bambino d'oro e Labyrinth e perfino quando è il romanticismo a farla da padrone - immagino che la storia incrociata tra Newt, Kovaski e le due sorelle trovatesi sulla loro strada sia destinata a proseguire -, e prima Colin Farrell e dunque - per fortuna solo per una manciata di minuti, almeno per ora - Johnny Depp fanno sorgere più dubbi che altro proprio rispetto al "lato oscuro" di un prodotto che pare proprio non averne.
Promosso, parlando di "cattivi", Ezra Miller, che al contrario dei suoi blasonati colleghi appena citati, con i suoi turbamenti pare mostrare uno spessore in grado quantomeno di non far rimpiangere charachters come Voldemort, Codaliscia o Piton: un inizio sicuramente abbastanza promettente di una saga che, comunque, anche ora non ho così tanta voglia di seguire, priva della scintilla che trasforma un giocattolone in qualcosa destinato a segnare davvero un'epoca.
Ma la magia, così come gli animali, è imprevedibile: dunque chissà che, con il prossimo capitolo, non finisca per uscire davvero a bocca aperta anch'io.
Ai tempi delle vette più alte della mia passione di lettore di fumetti - in particolare di supereroi - c'erano due categorie di personaggi che faticavo sempre a digerire: i cosiddetti "eroi cosmici" - troppo da fantascienza nerd, troppo potenti, troppo divini per i miei gusti - e quelli "magici" - a prescindere dal contesto in cui potevano muoversi, dalla Scarlet degli Avengers a Sciamano di Alpha Flight -.
Doctor Strange era parte assoluta - e forse simbolo - di quest'ultima categoria: ricordo infatti di aver letto ben poche storie con protagonista lo Stregone Supremo, e di averlo digerito a stento anche quando incrociava la strada di uno dei miei favoriti, Spider Man, che in più di un'occasione ha stretto alleanza con il mistico.
L'idea, dunque, che il Cinematic Universe della Casa delle Idee si potesse arricchire con un lungometraggio dedicato proprio al dottore mi entusiasmava ben poco, specie considerato che, ormai, le dimensioni di questo affresco stanno rischiando di divenire talmente grandi da saturare lo stesso: lo stesso trailer, incentrato sull'azione più che sul contesto dark dello stregone, aveva alimentato i timori nonostante la presenza di una certezza come Cumberbatch, che negli ultimi anni, tra Sherlock e Star Trek, è riuscito a convincermi anche nei casi in cui si è trovato al confronto con produzioni mainstream.
Ebbene, nel corso delle quasi due ore della visione, mi sono dovuto ricredere totalmente.
Non solo Scott Derrickson - che, del resto, mi aveva già molto convinto con il primo Sinister - e gli sceneggiatori sono riusciti a rendere il charachter attuale, ironico e molto piacevole - una sorta di versione "magica" del Tony Stark tutto raziocinio e tecnologia -, ma questo Doctor Strange è senza dubbio il miglior prodotto Marvel degli ultimi anni insieme a I Guardiani della Galassia e The Winter Soldier, funge da veicolo per il terzo capitolo di Thor - si veda la coda dei titoli di coda - e prepara il terreno per l'Infinity War che coinvolgerà non solo gli Avengers ma anche i succitati Guardiani nei prossimi anni quando collideranno con il terrificante Thanos - già intravisto in un paio di occasioni -, è un solidissimo intrattenimento intelligente e si presenta come un riuscito cocktail di Batman Begins, Inception, momenti ad alto contenuto nerd ed approccio da giungla d'asfalto.
L'evoluzione del charachter di Strange, come molti nati dalla penna di Stan Lee - che continua imperterrito ad apparire in ogni pellicola targata Marvel Studios, sempre in gran forma nonostante i novantatre anni -, è legata ad una rinascita dopo una caduta rovinosa, e per molti versi corre parallela a quella del già citato Tony Stark di Iron Man, ed è resa molto bene da un Cumberbatch senza dubbio credibile supportato da un cast di prim'ordine, che vede tra le sue fila Chiwetel Ejiofor, Rachel McAdams, Mads Mikkelsen e Tilda Swinton: come se non bastasse, l'equilibrio mostrato tra le parti "mistiche" e quelle action è davvero notevole, l'ironia piazzata alla grande in ogni passaggio che potrebbe annoiare il pubblico - bellissime le battute legate al "nome unico" di Wong o al "mantra" dato allo stesso Strange all'inizio dell'addestramento - ed i passaggi da viaggio cosmico realizzati splendidamente, quasi un omaggio alle inarrivabili immagini di 2001 così come al Cinema trash di gente come Mario Bava o ai paradossi temporali di Ritorno al futuro, Ricomincio da capo o il recente Edge of tomorrow - il confronto con Dormammu, nemesi di Strange, è uno dei più divertenti faccia a faccia buono contro cattivo che ricordi nel Cinema di genere e non solo -.
Certo, qualche sbavatura si può trovare - soprattutto nei raccordi di sceneggiatura -, ma poco importa: Doctor Strange diverte, intrattiene, a suo modo fa sognare e rappresenta senza dubbio il prototipo perfetto di come dovrebbe essere un film di supereroi in grado di far godere fan e non.
Da un punto di vista mistico, direi che ho trovato senza ombra di dubbio la mia reliquia di Casa Marvel.
La trama (con parole mie): nel millenovecentosessantanove Alan Parrish, un ragazzino emarginato dai coetanei e schiacciato dalla figura paterna e dal suo ingombrante cognome, storico per la piccola cittadina in cui vive, trova per caso un gioco da tavolo dai poteri magici che fu sepolto ai tempi dei suoi antenati, Jumanji. Ignaro dei poteri dello stesso, inizia una partita con un'amica e finisce intrappolato all'interno del gioco stesso.
Quando, ventisei anni più tardi, due ragazzini appena trasferiti in quella che fu la sua casa con la zia dopo la morte dei genitori ritrovano ed utilizzano Jumanji, per Alan si presenta l'occasione di tornare nella sua vecchia realtà e rimettere a posto le cose con il passato ed il futuro.
Tutto questo, se il gioco lo permetterà.
Gli anni novanta - o almeno la seconda parte degli stessi - furono un periodo piuttosto delicato, per il sottoscritto, come spettatore e non solo: di fatto, l'ingresso nella fase dell'adolescenza che ti fa pensare di avere qualcosa in più di tutti gli altri, il sorgere della passione per la scrittura ed una vera e propria fame di scoperte in termini musicali, letterari e, per l'appunto, cinematografici, mi fece allontanare e non poco da tutte le proposte "ludiche" che ho recuperato con enorme piacere in anni più recenti.
In particolare, nel novantacinque che vide uscire ed affermarsi da subito come un cult per ragazzi Jumanji, io cominciavo a spostare l'attenzione sul filone gangsteristico che di fatto mi avrebbe accompagnato, qualche anno dopo, alla riscoperta del Cinema d'autore e dei Classici, mentre mio fratello, più giovane di sei anni, impazzì letteralmente consumando la vhs a furia di visioni.
Proprio a seguito di una di queste, e probabilmente mentre ero impegnato a giocare o scrivere al computer, avvenne il mio incontro fortuito con la pellicola di Joe Johnston, che passò senza lasciare il segno e non rividi più per oltre vent'anni: la recente visione del sorprendentemente positivo Piccoli brividi, però, ha finito per stuzzicare la curiosità del sottoscritto rispetto ad un recupero di Jumanji, che si è rivelato piacevolissimo e divertente, alimentando addirittura la sensazione di quasi malinconia legata al fatto che probabilmente, se l'avessi visto come si deve all'epoca e me lo fossi goduto quanto mio fratello, a quest'ora probabilmente sarebbe un mio cult dell'infanzia al pari di cose come Labyrinth o La storia infinita.
Certo, rispetto ai supercult appena citati appare invecchiato peggio - un pò come la maggior parte delle produzioni figlie degli anni novanta, oserei dire -, ma resta una pellicola dallo spirito che ricorda quello di pietre miliari come Ritorno al futuro mescolandolo a Hook anche grazie alla presenza dell'indimenticato Robin Williams, che è sempre un piacere enorme rivedere sullo schermo: considerata, poi, la passione sempre crescente del Fordino per gli animali, nel corso di tutta l'entusiasmante partita dei protagonisti a Jumanji ho finito per immaginare cosa accadrebbe se a prendere i dadi in mano per tentare l'impresa fossimo noi abitanti del Saloon.
Senza dubbio, tra scimmie, rinoceronti e chi più ne ha, più ne metta, il più piccolo della tribù finirebbe per avere quasi voglia di rimanere imprigionato in un mondo pericoloso eppure affascinante come il buon Alan, con la differenza che, da questa parte, avrebbe un padre che è più un complice ed un compagno di giochi, che non un severo e quadrato capitano d'industria.
E mentre i tamburi di Jumanji suonano, e nel cuore ho già il terrore per il remake annunciato per il prossimo anno - che rischia di suscitare le ire dei fan almeno quanto quello recente di Point Break -, sono contento di poter tornare indietro nel tempo e recuperare un'avventura che l'adolescenza con tutte le sue contraddizioni mi aveva tolto: in un certo senso, ho rimesso piede anch'io nel mondo dopo tanti anni da un esilio, e senza dubbio meno riluttante di Alan riprendo in mano i dadi e mi lancio senza neppure guardarmi troppo indietro in una nuova, entusiasmante partita.
Del resto, questo è lo spirito che ci mantiene vivi, eterni Peter Pan oppure no.
MrFord
"Look over your shoulder, ready to run. Like a good little bitch, from a smoking gun. I am the game and I make the rules. So move on out here and die like a fool. Try to figure out what my moods gonna be. Come on over sucker, why don't you ask me? Don't you forget that the price you can pay cause I am the game and I want to play...."
Origine: USA, Cina, Canada Anno: 2015 Durata: 106'
La trama (con parole mie): Kaulder, un guerriero che prese parte alla prima, grande spedizione degli umani volta ad annientare la minaccia della regina delle streghe ottocento anni fa, riuscì proprio in quell'occasione a colpire mortalmente la stessa, guadagnando una maledizione che l'avrebbe reso solo ed immortale, condannato per l'eternità a ricordare la moglie e la figlia, morte proprio a causa della peste scatenata dalla sua nemica.
Affiancato nei secoli da una misteriosa organizzazione legata a doppio filo alla Chiesa e da un assistente personale, Kaulder è stato l'arma dell'umanità ed il collante tra due mondi dopo l'accordo di non belligeranza stipulato dal Consiglio delle streghe e l'Uomo.
Quando, però, una misteriosa forza oscura torna a farsi sentire a New York proprio mentre sta avvenendo l'avvicendamento tra il vecchio ed il nuovo braccio destro di Kaulder, il cacciatore si troverà a dover affrontare un nemico che credeva sepolto, e a capire di chi si potrà fidare per affrontarlo.
In tutta onestà, ero quasi sicuro che la visione di The last witch hunter, action di matrice fantasy con protagonista Vin Diesel - che al di fuori dei panni di Dom Toretto e di Riddick e della convincente prova di Find me guilty di qualche anno fa, non mi ha mai detto qualcosa di più dello zero, come attore - si sarebbe rivelata un disastro delle proporzioni di quella di Hansel e Gretel, con tanto di incazzatura e post votato al massacro.
Al contrario di qualsiasi previsione, invece, ammetto di essermi discretamente goduto questa tamarrata firmata da Breck Eisner, una proposta senza particolari pretese, confezionata ad uso e consumo dello spettatore occasionale ed alla ricerca di un potenziale sequel, dal cast tutto sommato interessante per un prodotto di questo tipo - arma a doppio taglio che, nello specifico, è riuscita sia a valorizzare gente come lo stesso Diesel, la Igritte di Game of thrones Rose Leslie o Elijah Wood, che continuo a detestare, sia a non far apparire troppo assetato di soldi extra il vecchio leone Michael Caine, che personalmente è sempre un piacere vedere sullo schermo - e divertente abbastanza da non risultare troppo tronfia o appesantita - sia ringraziato un minutaggio normale, e non le sbrodolate da due ore e mezza che negli ultimi tempi paiono aver contagiato anche il Cinema di grana grossa -.
Senza dubbio non si potrà mai affermare che si tratti di qualcosa di memorabile o in grado di andare oltre la visione da popcorn e cervello spento, o di un film scritto dignitosamente - la sceneggiatura risulta quantomeno elementare -, eppure mi è parso di avvertire una leggerezza di fondo che ha permesso all'ingranaggio di funzionare sia nell'ambito del puro intrattenimento - la cornice e gli effetti fanno il loro lavoro -, sia nella costruzione di una vicenda vecchia come il mondo - l'eroe maledetto e solitario che scopre, di colpo, non solo la propria vulnerabilità, ma anche che chi avrebbe dovuto guardargli le spalle ha sempre approfittato per piazzarglielo dritto dove non batte il sole: una cosa che non si fa mai, ad un eroe maledetto e solitario, e che di fatto accompagna prevedibilmente dove ogni film di questo tipo deve accompagnare, quasi fosse una spalla per il protagonista che, in bilico tra tamarraggine sopra le righe - l'auto di Kaulder non poteva che essere degna di Dom Toretto - e sapore da tenebroso che viene sempre buono per rimorchiare la bella strega ovviamente non malvagia di turno - che, purtroppo, non regala neanche un "You know nothing, Kaulder Snow" -.
Anche la parte prevalentemente action funziona, dall'incipit che mescola Il signore degli anelli, Vikings e Il trono di spade al presente di narrazione nella parte "oscura" di New York - che penso sia il teatro più gettonato delle catastrofi cinematografiche di Hollywood -, grazie ad un'ottima resa del personaggio della Regina delle streghe e dell'oscuro Belial, che nel suo salmodiare ha ricordato agli occupanti di casa Ford le sequenze di parole senza senso che giochiamo ad inventare insieme al Fordino: e dunque tra un incantesimo ed un paio di cazzotti, colpi di fucile e di spada, tutto scorre agevolmente fino alla conclusione ed alla speranza di Eisner e dei suoi di avere la possibilità di ripescare l'allegra brigata di Kaulder, nonostante il botteghino abbia decisamente espresso il suo parere negativo in merito.
In un certo senso, però, questa potrebbe risultare addirittura un indicazione positiva: quando si tratta di trashoni da neuroni in vacanza, infatti, spesso il pubblico da multisala nel weekend finisce per capirne anche meno dei più inossidabili tra i radical chic.
Nel caso di insuccesso, comunque, il buon Kaulder potrà pigiare sull'acceleratore e tornare ai più sicuri - in termini di incassi e fama planetaria - panni di Dom Toretto.
Non troverà streghe e demoni di fronte a lui, ma di sicuro un certo vecchio cowboy davanti allo schermo.
MrFord
"Who's a heretic now?
Am I making sense?
How can you make it stick?
Waiting 'til the beat comes out
who's a heretic, child?
Can you make it stick, now that I'm on trial
waiting 'til the beat comes out."
La trama (con parole mie): Stanley, illusionista tra i migliori al mondo sul finire degli anni venti, viene contattato da un suo vecchio compagno, eterno secondo nell'esercizio della professione di mago rispetto a lui, in modo che si rechi al suo fianco nel Sud della Francia, dove una giovanissima medium americana pare stia circuendo un'agiata famiglia nonchè l'erede della fortuna della stessa.
L'uomo, cinico e misogino, accetta l'invito stimolato dalla sfida di poter smascherare l'ennesima truffatrice e dal suo approccio alla vita, assolutamente razionale e distaccato: quando, però, Sophie farà breccia nel suo cuore, le regole del confronto cambieranno, e Stanley si ritroverà a far fronte non solo alla tempesta dei sentimenti, ma anche e soprattutto ad un approccio con il mondo, la vita e la morte decisamente diverso da quello tenuto nel corso della sua intera esistenza.
Sophie si rivelerà davvero in grado di comunicare con gli spiriti? E vinceranno i sentimenti, o la ragione?
Personalmente, non sono mai stato in guerra allo stesso modo di alcuni - appassionati compresi - con Woody Allen, così come non ho mai pensato fosse il Maestro indiscusso che altri dichiaravano incondizionatamente fosse: ho sempre pensato che il vecchio Woody avesse regalato grandissime perle alla settima arte senza, di fatto, aver mai centrato il bersaglio grosso, scivolando soprattutto negli ultimi anni spesso e volentieri spinto da una sorta di ingordigia cinematografica - penso sia rimasto l'unico tra i grandi registi a far uscire un titolo a stagione - capace di regalare al pubblico schifezze come Vicky, Christina Barcelona o Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni, senza contare To Rome with love, forse il punto più basso della carriera del regista.
E' altrettanto vero, però, che con Match point o Midnight in Paris Allen è stato senza dubbio protagonista di prove clamorose, in grado di riportare anche i fan più hardcore ai tempi d'oro della sua produzione: Magic in the moonlight, sua ultima fatica, sinceramente non partiva con il piede giusto, qui al Saloon.
Colin Firth è uno degli attori meno sopportati a questo bancone, l'idea dell'ennesima commedia romantica dai ritmi blandi lontana dagli indimenticabili Io e Annie o Manhattan non faceva che rendermi nervoso, così come il fatto che tutto potesse suonare come una robetta da camera per vecchie signore all'ora del the.
Fortunatamente per il sottoscritto, archiviata la visione posso dirmi sorpreso in positivo, così come affermare che gli anni venti ed affini e le loro ambientazioni - Accordi e disaccordi, Ombre e nebbia, Scoop - non facciano altro che un gran bene a Woody, che senza eccedere o strafare confeziona un titolo garbato e piacevole, una commedia romantica all'interno della quale sono scandagliati i massimi sistemi senza che gli stessi siano presi o troppo alla leggera o caricati di un peso eccessivo: e perfino il tanto detestato Firth, grazie ad un personaggio antipatico quanto vulnerabile, razionale e preciso quanto preda degli istinti, si conferma una scelta azzeccata, funziona così come una davvero imbruttita Emma Stone, che comunque resta uno dei volti più interessanti che si possano sponsorizzare tra le giovani attrici USA.
L'idea del confronto tra l'idea dell'amore e l'applicazione alla vita dello stesso - ben incarnate dai rapporti tra Stanley e Sophie così come da quello dello stesso illusionista con la fidanzata storica - è ben orchestrata e decisamente profonda, così come il continuo schierarsi del protagonista contro l'illusione e l'illusionarietà dei sentimenti, colpevoli di rendere felici così come di complicare senza possibilità di appello la vita di chiunque decida di abbracciarli.
Da istintivo cronico, trovo possa essere davvero limitante vivere un'esistenza lontano da ogni tipo di sentimento o passione, pur se allo scopo di preservarsi e mantenere un logico e sensato equilibrio, eppure nel corso della visione non sono riuscito a non parteggiare per Stanley, messo all'angolo da una trama più complessa di quanto non si possa credere e pronto ad una ribalta - culminata con il colpo di scena della rivelazione del ruolo di Sophie - capace di aprire la strada al confronto con la zia, senza dubbio il charachter più interessante della pellicola e, forse, specchio delle opinioni dello stesso regista, pronto a lasciarsi andare alla magia dell'amore - e a farsi ingannare da essa - quanto a comprendere l'insensatezza insita per Natura nelle scelte di cuore.
Del resto, se non fossimo passionali non avrebbe senso neppure l'illusionismo.
Così come molte altre cose che danno colore e significato ad esistenze altrimenti piatte, noiose e grigie, fatte di stonatissime serenate eseguite con l'ukulele.
Le stelle non sono certo messe dove sono perchè noi le si stia ad ammirare estasiati, quanto per qualche legge fisica e casualità cosmica: eppure guardarle pensandole tutte come desideri inespressi o realizzati finisce per renderle decisamente più brillanti.
E dovremmo davvero ringraziare che sia così.
Un pò come fa Woody Allen con questo suo Magic in the moonlight.
MrFord
"Dancing in the moonlight
everybody's feelin' warm and bright
it's such a fine and natural sight
everybody's dancing in the moonlight."
Van Morrison - "Dancing in the moonlight" -
La trama (con parole mie): Daniel Atlas, Henley Reeves, Merritt McKinney e Jack Wilder sono illusionisti di strada specializzati ognuno in un diverso campo. Contattati da un misterioso committente, i quattro vengono messi in condizione di dare il via ad uno show pronto a sbancare non solo l'audience, ma anche importanti istituti di credito ed assicurazioni proprio nel corso degli eventi, live divenendo, di fatto, una sorta di novelli Robin Hood.
Quando il detective dell'FBI Dylan Rhodes viene affiancato dall'investigatrice dell'Interpol Alma Dray ed il caso esplode anche sui media, la corsa contro il tempo per fermare i quattro inafferrabili illusionisti diviene una priorità delle alte sfere delle forze dell'ordine, pronte a rivolgersi perfino ad ex maghi divenuti esperti nello smascherare trucchi ed illusioni come Thaddeus Bradley.
Riusciranno i quattro a farsi beffe di chi da loro la caccia ed ultimare un piano decisamente più ambizioso di quello che sembra? E chi muove le fila alle loro spalle?
L'estate, come si sa, è spesso e volentieri simbolo di disimpegno artistico, fisico e mentale, una sorta di inno alla leggerezza che ci riporta ai tempi magici della scuola in cui da giugno a settembre ci si dimenticava di tutto e di tutti per ritrovarsi in una realtà parallela - quella delle vacanze al mare o in montagna - fatta di amicizie, storie e situazioni in grado di regalare l'illusione di qualcosa di magico.
Louis Leterrier, regista di caratura certo non clamorosa, autore di tamarrate amatissime dal sottoscritto come il primo Transporter e dell'Hulk post-Ang Lee nella sua versione Avengers-style, colpito da non so quale folgorazione, riesce nell'impresa di unire lo spirito di questa stagione ad un film fresco, intelligente, ritmato alla grande nonchè, senza dubbio, riferimento per quanto riguarda l'intrattenimento non soltanto del periodo, ma di questa intera prima parte di duemilatredici.
Sfruttando un cast eterogeneo ed in buona forma, Leterrier mescola elementi che ricordano il rocambolesco incedere della saga di Danny Ocean alle riflessioni sulla magia e la fede che furono alla base di cose decisamente buone come Red lights ed ottime come The prestige: certo non ci troviamo dalle parti del filmone di Nolan, eppure Now you see me conserva - e molto bene - una sua dignità fornendo allo spettatore del sano e robusto divertimento che possa partire dal cervello invece che dalla pancia ed una leggerezza che gli permette di toccare argomenti sicuramente importanti senza per questo risultare appesantito nella struttura e nell'evoluzione.
A partire dai quattro protagonisti - mai troppo approfonditi, eppure in grado di essere definiti perfettamente da poche ma efficaci sequenze - fino ai due detectives incaricati della loro cattura - una coppiata Ruffalo/Laurent che funziona molto più di quanto non mi sarei aspettato -, passando per l'esperto "smascheratore" Bradley interpretato da Morgan Freeman, nessuna sbavatura perviene allo spettatore, che avvicinandosi sempre più - come viene più volte suggerito dai "Quattro cavalieri" - non solo finisce inevitabilmente per essere ingannato come illusionismo e magia vogliono, ma per godersi senza pensieri una caccia agli uomini divertentissima e ben orchestrata, che avrà pure la pecca di non avere davvero nessuna sbavatura ma che, di fatto, rispolvera il concetto dell'heist movie da una nuova prospettiva, aggiungendo alla sua ricetta diverse chicche - il confronto finale con "l'occhio" - e regalando almeno un paio di twist che, forse proprio perchè impegnati "ad avvicinarsi troppo" riescono nell'intento di sorprendere e rendere l'evoluzione dello script ancora più interessante, oltre a creare una piacevole empatia con questi curiosi, improvvisati ed insoliti Robin Hood pronti a rubare ai ricchi per dare ai poveri in nome di una vendetta che non è soltanto quella rispetto ad un loro collega smascherato decenni prima, ma della meraviglia - e della voglia di meravigliarsi - rispetto al cinismo e alla razionalità eccessivi, aspetto ovviamente molto apprezzato dalle parti del Saloon.
Leterrier firma dunque la sua opera migliore ed una delle sorprese più piacevoli di questo periodo, in barba ai santoni dell'autorialità eccessiva - qualcuno ha detto Malick!? - ma anche ai solo presunti tamarri da giocattoloni per bambini grandi - vero, Del Toro!? -: niente male per quattro illusionisti di strada passati in breve tempo ad essere idoli delle folle - chi non starebbe dalla loro parte, in fondo!? - nonchè alfieri della rivincita del sogno sulla realtà e dell'illusione della magia rispetto alle solide fondamenta dei massimi sistemi dell'economia attuale.
Potrebbe essere da folli, pensare che il potere di quest'illusione è necessario come l'aria a noi poveri vagabondi della Frontiera, eppure non può che essere così: in fondo non esiste Denaro in grado di comprare il Tempo, e non esiste Sogno - o illusione, perchè no - che non possa superare un'apparente certezza.
Basta guardare più da vicino, e lasciarsi ingannare.
In fondo il viaggio è sempre più importante della sua destinazione.
MrFord
"I never believed in things that I couldn't see
I said if I can't feel it then how can it be
no, no magic could happen to me
and then I saw you."
La trama (con parole mie): Komona, una dodicenne che vive in un villaggio nel cuore dell'Africa dei ribelli e delle bande armate, è costretta dai seguaci della Grande Tigre ad uccidere i suoi genitori per sopravvivere ed impedire che gli stessi siano trucidati a colpi di machete.
Una volta divenuta essa stessa una ribelle e sfuggita ad un'imboscata dei soldati governativi grazie ad una visione dei fantasmi di madre e padre, il suo ruolo diviene quello di strega, temuta e rispettata dal Tigre in persona e da tutti i suoi uomini: dopo più di un anno di battaglie ed uccisioni, Komona fugge accanto ad un altro giovane stregone innamorato di lei, che si prodiga per trovare un gallo bianco, tributo necessario per averla in moglie.
Finalmente sposati, i due si stabiliscono dallo zio del ragazzo in modo da poter cominciare una nuova esistenza, quando gli uomini del Tigre li raggiungono, tornando ad alimentare il dramma della ragazzina, che dovrà liberarsi del loro giogo, partorire il figlio che porta in grembo sperando che non abbia portato il male che l'ha originato e tornare a vivere.
Capita, a volte, di vedere passare sullo schermo storie profondamente drammatiche e toccanti che non lasciano alcuno scampo alla retorica così come al respiro dello spettatore, pregne di emozioni come se fossero pronte a tracciare segni dalla pelle fin dentro l'anima, e scoprire di non essere di fronte a meraviglie a loro modo fiabesche come Beasts of the Southern Wild, ma a vicende ispirate a fatti tristemente reali forse addirittura edulcorate affinchè la violenza non assuma i connotati di disturbato piacere voyeuristico del regista che li porta in scena: Rebelle è senza dubbio parte di questa categoria di opere.
Candidato canadese per la categoria di Miglior film straniero agli ultimi Oscar, Orso d'argento per la migliore interpretazione femminile e Premio della Giuria a Berlino, il film firmato da Kim Nguyen è un viaggio senza ritorno nel mondo delle milizie del cuore dell'Africa Sud-sahariana costituite principalmente da reclute di giovanissima età strappate ai loro villaggi con la forza e cresciute nella violenza e nel sangue che poggia tutto sulle spalle della fenomenale protagonista Rachel Mwanza, che con la sua Komona porta in scena una versione profondamente più oscura e terribile della Hushpuppy del già citato Beasts of the Southern Wild.
Ma l'essere prezioso di Rebelle non dimora tanto nella sua parte più disperata e fedele alla realtà, nella qualità delle immagini e nel gusto di una fotografia che a tratti rimanda addirittura al Capolavoro Apocalypse Now, bensì nella carica di speranza che, anche a fronte di un destino avverso e di condizioni di vita ben oltre ogni limite di sopportazione gestite da quelli che sono poco più che bambini, aleggia dal primo all'ultimo fotogramma, e che rimanda - anche grazie all'utilizzo della voce narrante off della protagonista - al primo Malick: anche in questo caso, tra l'altro, ritroviamo un'analogia con il lavoro di Ben Zeitlin, che nel post ad esso dedicato avevo paragonato a Badlands - distribuito in Italia come La rabbia giovane -, mentre rispetto all'opera di Nguyen mi tornano alla mente le immagini violente e splendide ed il lirismo de I giorni del cielo.
Riferimenti importanti, dunque, per due lavori gemelli ed a loro modo complementari, che trovano in Rebelle la loro anima più oscura venata da una magia ed un tocco a dir poco meravigliosi - come nella parentesi di salvezza che Komona ed il suo altrettanto giovane marito cercano di ritagliarsi nel villaggio dello zio di lui, sotto gli alberi ad accarezzarsi l'un l'altra o lavorando al frantoio -: due novelli Romeo e Giulietta destinati al macello di un continente ancora lacerato ed in balìa della crudeltà degli uomini mano nella mano come se potessero vivere davvero la loro età, sopravvissuti per necessità più che vocazione, aggrappati ad una magia che non riuscirà comunque a garantire di poter essere immuni ai proiettili, ai machete, alle malattie, alla malvagità.
Nella vicenda di Komona c'è tutto il cuore di tenebra che da Conrad porta dritti all'orrore firmato Coppola, eppure negli occhi di questa piccola guerriera non c'è abbandono, o resa, così come nelle parole da lei lasciate in eredità al piccolo nascituro non c'è odio rispetto alla sua origine, a tutta la terrena espressione del Male che l'ha portato in questo mondo: c'è tanta paura, ma è legittimo.
Komona deve ancora crescere, e dovrà farlo a partire da un orizzonte che l'ha vista uccidere e seppellire i suoi genitori, assistere alla caduta di compagni di lotta e a danze di spettri imbiancati, fare affidamento su una magia che gioca sulle vite e sulle paure quanto e più è possibile per una religione portata all'estremo.
Komona deve ancora lottare, e camminare lungo una strada che non prevede che qualcuno la carichi senza pensare di portarla a morire da qualche parte, nascosta al mondo.
Fortunatamente, Komona è una ribelle.
E prima o poi il Destino dovrà concederle una possibilità, fosse anche soltanto un passaggio da qualcuno che non avrà intenzione di violentarla e schiaffarle un AK-47 tra le braccia.
Del resto, nel mondo di Komona non ci sono Bestie del profondo Sud da domare, ma l'animale più feroce di tutti. L'Uomo.
E se non si è ribelli fin nel profondo dell'anima, prima o poi si finisce per soccombere, masticati e risputati dalla sue fauci.
E Komona lo è, eccome. Prima ancora dell'essere strega, combattente, assassina, figlia, moglie, madre, fiore avvelenato.
Komona si è ribellata al mondo. E speriamo tutti che vinca la sua guerra.
MrFord
"I'm a rebel, let them talk,
soul rebel, talk won't bother me
I'm a capturer, that's what they say
soul adventurer, night and day
I'm a rebel, soul rebel
do you hear them lippy
I'm a capturer, gossip around the corner
soul adventurer, how they adventure on me."
La trama (con parole mie): un impiegato incontra, ad una fermata, una ragazza che si sta recando ad un colloquio di lavoro. Tra i due scocca una scintilla che rimane inespressa fino a quando l'uomo non si accorge di essere in balìa della sua scrivania e delle pratiche da sbrigare proprio nel palazzo di fronte a quello in cui è diretta la ragazza.
Da quel momento in poi, ci sarà spazio soltanto per un utilizzo creativo del lavoro e tanta poesia.
Il cortometraggio animato di John Kahrs prodotto da Mamma Disney e candidato all'Oscar è tutto qui. Ed è una vera perla.
E a volte non c'è proprio bisogno di parole.
MrFord
"I fly like paper, get high like planes
if you catch me at the border I got visas in my name
if you come around here, I make 'em all day
I get one down in a second if you wait."
La trama (con parole mie): Calvin Weir-Fields è un giovane scrittore che neppure ventenne sconvolse il mercato letterario statunitense assurgendo a vero e proprio caso, acclamato come genio ed idolatrato da specialisti del settore e groupies appassionate agli autori.
Ma Calvin è anche un più o meno trentenne complessato, che come il suo cane fatica ad avere frequentazioni ed amici a parte il fratello Harry, è in cura da uno strizzacervelli ed in perenne conflitto con la nuova vita della madre - ora accanto al fabbricante di "mobili naturali" Mort - e l'ex fidanzata Lisa, che lo lasciò poco tempo dopo la morte di suo padre.
Così, senza ancora aver dato alla luce un secondo romanzo, Calvin si barcamena in giornate di semi-solitudine tutte uguali, fino a quando un sogno accende la scintilla dell'ispirazione: nasce così Ruby Sparks, protagonista del suo nuovo lavoro letterario.
Calvin è felice, il suo agente è felice, il suo editore è felice.
Fino a quando la ragazza non fa effettivamente la comparsa nella sua vita.
Lei. Vera. In carne ed ossa.
E ad ogni frase sulla macchina da scrivere Calvin può cambiarla così come gli aggrada.
Avete presente quando, ancora con gli occhi chiusi, avvolti dalle lenzuola, potete già sentire il profumo della sua pelle, o i piedi che si sfiorano, il contatto?
O quei primi periodi in cui non esiste altro che il sesso, così frequente e così travolgente da farvi pensare se davvero si tratta di realtà, o di un sogno che avete inseguito tutta la vita?
E gli sguardi che dicono tutto, senza che ci sia bisogno di spiegare proprio nulla? Come un passaggio a memoria su un campo da gioco, di quelli telecomandati.
Certo, poi, non ci sono rose senza spine: e dunque quelle discussioni che vorreste evitare, e finiscono per accumularsi scoppiando sempre nei momenti meno opportuni, i momenti in cui si vorrebbe quasi tirare fuori la testa dall'acqua, quasi si vivesse in apnea, o quelli in cui si comincia a dubitare di poter essere sempre dove si dovrebbe essere.
L'amore è un gioco duro, signori miei.
La cosa più bella e più terribile del mondo.
Drammi, commedie, romanzi, canzoni, film sono stati scritti, ascoltati, visti, letti, amati ed odiati fin dall'alba dei tempi, in merito, alcuni riusciti, altri meno.
Tra quelli che ricordo con maggior stupore - almeno negli ultimi anni - c'è senza ombra di dubbio Eternal sunshine of the spotless mind - tradotto qui nella Terra dei cachi in maniera imbarazzante come Se mi lasci ti cancello -, una delle più sorprendenti pellicole "romantiche" che mi sia mai capitato di trovare sul grande schermo: Jonathan Dayton e Valerie Faris, autori del magnifico Little Miss Sunshine - uno dei miei film del cuore di tutti i tempi -, con la loro opera seconda, Ruby Sparks, raccolgono idealmente il testimone di Gondry e mescolandolo sapientemente ad un certo qual tono raffinato nello stile di Restless confezionano uno dei film più leggeri, intensi e piacevoli dell'anno, una vera chicca scritta ed interpretata da Zoe Kazan - nipote dell'indimenticato Elia - e dal suo compagno nella vita reale Paul Dano, tra i protagonisti della già citata opera prima dei registi.
E se fronteggiare una storia d'amore non è semplice, realizzare un film che parli del sentimento più incasinato della Storia lo è ancora di più, specialmente in coppia: la premiata ditta Dayton/Faris esce comunque alla grandissima dal confronto, e lo fa confermando la verve che aveva reso il suo esordio così strabiliante, toccando corde profonde e commoventi quasi impercettibilmente, mantenendosi in equilibrio sul sottilissimo filo dell'(auto)ironia - splendidi i riferimenti alla pressione su un autore acclamato rispetto all'opera seconda, come è stato anche per loro, e alla realizzazione di un eventuale film sul primo libro firmato dal protagonista di Ruby Sparks per mano di due registi in grado "di farti sentire in famiglia" - e consegnando al pubblico una galleria di personaggi che paiono uscire dallo schermo per sedersi sul divano accanto a noi.
Ci sono i due fratelli, Harry e Calvin, il primo tamarro e pane e salame quasi più del sottoscritto, tutto palestra e grandi tette, il secondo magrolino e solitario, allampanato e geniale, innamorato del mondo ma così intimorito da nascondersene.
C'è il dottor Rosenthal, alla ricerca della chiave che possa aprire le porte bloccate di Calvin.
Langdon Tharp, tipico autore che sa molto di "californicazione" da piscina riscaldata.
Gertrude e Mort - impagabili Annette Bening e Antonio Banderas nella loro magione modello hippie nel cuore di quella meraviglia che è Big Sur, paradiso dei surfisti -, con le risate, gli spinelli, la casa sull'albero e i mobili ricavati da antichi esemplari di pino.
E poi c'è Ruby.
Ruby che parla francese, che pensa che chiamare Scotty in onore di Fitzgerald il proprio cane sia irrispettoso verso un autore che neppure conosce, che chiede a Calvin se è piaciuta a suo fratello - un piccolo momento da brividi -, che ride, piange, adora fare i pompini e poi d'un tratto è stanca, e ha bisogno di libertà, di frequentare un corso d'arte, e poi, in men che non si dica, non c'è più.
Ruby che c'è ancora, triste, arrabbiata, attaccata, persa senza Calvin.
Ruby semplicemente se stessa.
Perchè questo è un film d'amore, e l'amore si prende tutto, anche il caffè, come dice una canzone: un amore che passa dai tasti di una macchina da scrivere, o di un computer, e che nella presentazione del nuovo libro firmato dal giovane genio Weir-Fields mi ha scoperchiato come un vaso di Pandora.
Citando Salinger, Calvin parla della scrittura come di una storia che ci ha sconvolto la vita, di qualcosa che, in alcuni, particolari momenti, ti esce da dentro, e finisce che le tue mani sono solo uno strumento di qualcosa che deve uscire, perchè non può fare altro.
Uscire, vivere, essere vissuta.
E poi, chissà, forse neppure tornare più.
Perchè Ruby è così.
Tutto e niente. Risate e lacrime. Sesso e abbracciati insieme sotto la coperta sul divano.
E soprattutto, Ruby ha bisogno di una cosa, per essere davvero tutto quello che può.
Ruby deve essere libera.
Libera di amare, di essere presente o di andarsene.
Libera di sconvolgerci la vita, e lasciarci solo la forza per scriverne.
So che capite cosa intendo anche senza avere ancora visto il film.
Perchè un o una Ruby l'abbiamo incontrata tutti, nella vita.
C'è chi è stato bravo, o fortunato, e si gode ogni giorno la sua presenza accanto, e chi, invece, può solo andare avanti e vivere ancora, magari scrivendoci su.
E chissà che un giorno non si giunga ad una nuova pagina.
Ruby Sparks è come una storia d'amore.
Sarebbe un delitto non viverla a fondo.
MrFord
"Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a chiederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo
tu non darglielo in fretta."
Fabrizio De Andrè - "Verranno a chiederti del nostro amore" -
Regia: Mark Andrews, Brenda Chapman, Steve Purcell
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 100'
La trama (con parole mie): a capo di un grande territorio del Nord basato sull'alleanza di quattro grandi clan regna Fergus, celebre per aver perso una gamba lottando contro un ferocissimo orso leggendario che dal giorno dell'incredibile scontro nessuno è più riuscito a scovare.
Pace e prosperità rendono possibile una vita in armonia con la Natura da parte di ogni abitante del reame, e la famiglia del sovrano vive una quotidianità turbolenta ma felice.
Quando Merida, primogenita di Fergus, però, per ribellarsi alla madre Elinor che la vorrebbe una perfetta principessa gareggia trionfando nella gara che dovrebbe determinare il suo futuro marito, l'equilibrio si spezza: in famiglia scoppiano le liti ed i capi dei clan i cui figli sono stati umiliati dalla ragazza meditano di muovere guerra.
Per risolvere la situazione la stessa Merida, fuggita nei boschi, trova un inaspettato "aiuto" in una strega che le promette un incantesimo in grado di cambiare il suo destino: peccato che gli effetti collaterali dello stesso finiranno per essere inattesi ed addirittura più minacciosi di un potenziale conflitto.
Nel momento stesso in cui hanno cominciato a scorrere i titoli di coda del consueto corto che precede ogni nuovo lavoro della Pixar ho tirato un sospiro di sollievo: la casa di produzione responsabile di alcuni tra i più straordinari film d'animazione della Storia del Cinema recente - e non solo - era sulla via del ritorno sulla retta via.
Quando, infatti, lo scorso anno corsi in sala per gustarmi Cars 2 - sequel di uno dei titoli forse meno amati dalla critica degli Studios satellite (?) della Disney cui di contro sono più affezionato - rimasi deluso non tanto rispetto all'aspetto tecnico - sempre impareggiabile -, quanto dal gusto dell'intera operazione, che mi era parsa una vuota soluzione commerciale operata in modo da intascare il più possibile sfruttando un franchise che lo permetteva praticamente in ogni campo - dai biglietti d'ingresso ai giocattoli, dai videogames ai pupazzi -.
Fortunatamente, già con La luna - il corto rispetto ai titoli di coda del quale ho accennato poco sopra - l'approccio e le atmosfere sono tornate ad essere quelle della Pixar che ho amato negli ultimi quasi vent'anni, complici un soggetto semplice eppure magico che è riuscito addirittura a riportarmi con la mente alla poesia di Melies, alla faccia di quella mezza sòla di Hugo Cabret.
Con i migliori auspici aveva dunque inizio Brave, titolo attesissimo dal sottoscritto per ambientazione, cornice, tecnica - i capelli, e non parlo solo della criniera rosso fuoco della protagonista, paiono perfino più veri del vero - e Merida: la principessa in lotta per la sua indipendenza in piena crisi adolescenziale ed in aperto conflitto con la madre prometteva di essere uno dei charachters più interessanti che la Pixar avesse mai sfornato, di quelli in grado di entrare subito nel cuore degli spettatori, a prescindere dalla loro età.
Ed ecco che gli auspici di cui sopra finiscono per essere rispettati come meglio non si poteva sperare: certamente lo script e l'evoluzione della trama non sono lontani da quelli che fecero la fortuna di titoli come Il libro della giungla, La sirenetta ed il più recente Alla ricerca di Nemo, tutto ha il sapore del Classico, non ci sono sconvolgimenti o invenzioni di rottura, eppure l'ironia e la partecipazione emotiva grazie ai quali è descritto non solo uno dei periodi più turbolenti delle nostre esistenze - l'adolescenza -, ma anche il rapporto tra madre e figlia con il succedersi delle stesse in ruoli ben più vicini di quanto all'apparenza non possa sembrare coinvolgono e scuotono quasi ci si trovasse a cavalcare accanto a Merida, o si accusasse il colpo al cuore del distacco nel momento in cui l'arazzo viene tagliato da una lama che, più della stoffa, tenta di recidere un legame destinato ad essere sempre parte di chi lo vive sulla pelle in barba ad incomprensioni e Tempo che scorre.
Brave è un film di formazione, ma anche una fiaba divertente e leggera che diviene ritratto delle differenze tra i sessi - agli uomini, dai tre gemellini fratelli minori di Merida ai capi dei clan, viene affidata la parte più caotica, rovinosa, comica e pane e salame mentre all'altra metà del cielo è affidato il compito di amministrare, comprendere, tenere a bada le intemperanze dei bambini troppo cresciuti con i quali condividono la vita, dai giochi d'infanzia alle incombenze da regnanti e genitori e soprattutto costruire rapporti la cui profondità sfugge alla semplicità maschile, legata irrimediabilmente ai piaceri e alle sensazioni più pratiche ed immediate -, un'avventura diretta ed esplosiva come le chiassose popolazioni di cui narra le gesta, un omaggio a tutte le "principesse" che hanno smesso i lustrini e le apparenze ed hanno imparato ad essere Donne, figlie o madri che siano: splendidi, in questo senso, i momenti di confronto tra Merida ed Elinor nel post-incantesimo, con la reciproca scoperta a fare da sfondo, di fatto, alla presa di coscienza di poter sempre imparare - dagli altri come da se stessi - a prescindere dai ruoli, dalle età e dalle convenzioni sociali.
Un ottimo prodotto, dunque, che è un piacere pensare possano aver condiviso in sala madri e figlie di diverse età, e che è riuscito ad emozionareJulez e il sottoscritto, per la prima volta intenti a guardare un film che racconta la distanza - e l'emozione della vicinanza - tra genitori e figli dall'altra parte della barricata, immaginando non più di ribellarsi con Merida, ma di trasmettere la propria presenza senza far pesare troppo la volontà di proteggere nei panni di Elinor e Fergus.
E quando una pellicola riesce a parlare a più livelli, qui al Saloon diviene immediatamente un titolo che sarebbe un vero peccato perdere.
L'unica condizione, è che ci si tuffi a cuore aperto.
Del resto, questa è la meraviglia del Cinema.
Quella di essere figli, e genitori.
E soprattutto quella della vita.
MrFord
"I will ride, I will fly
chase the wind and touch the sky
I will fly
chase the wind and touch the sky
where dark woods hide secrets
and mountains are fierce and bold
deep waters hold reflections
of times lost long ago."
La trama (con parole mie): la guerra per conquistare il Trono di spade imperversa, e alla partita che vedeva coinvolti principalmente i Lannister e gli Stark si aggiungono eserciti e pretendenti da ogni parte del Continente. Mentre Robb Stark è impegnato nella sua marcia verso King's Landing, Jon Snow affronta un pericolosissimo viaggio oltre la Barriera, e Tyrion Lannister, nominato Primo Cavaliere, si ritrova a fronteggiare la minaccia di un assedio che potrebbe costare il potere alla sua famiglia: oltremare, nel frattempo, Daenerys Targaryen e i suoi draghi sono alla ricerca di una flotta di navi che possa condurre la giovane nelle sue terre d'origine, reclamando la corona che fu di suo padre.
Intrighi, morte, guerra e poteri sovrannaturali si mescolano nel sangue per un nuovo capitolo di un affresco sempre più impressionante.
Ogni serial televisivo, anche quelli meglio riusciti, ha un compito clamorosamente difficile da svolgere ad ogni inizio stagione: mantenere il suo livello alto abbastanza perchè il pubblico e la produzione non rinneghino quello che soltanto l'anno precedente - e a volte anche meno - osannavano senza riserve.
Come visto a fine 2011, anche i prodotti migliori - Misfits e Dexter, giusto per citarne due - hanno subito battute d'arresto notevoli, perdendo terreno rispetto a nuove proposte come la fulminante prima stagione di Game of thrones, una vera e propria pietra miliare del fantasy e non solo sul piccolo schermo e non solo.
La scommessa degli autori, dunque, era proporre una nuova annata che fosse all'altezza della prima, lasciando di nuovo a bocca aperta il pubblico: per quanto mi riguarda, l'obiettivo è stato quasi completamente centrato, considerato che abbiamo assistito ad una fase di transizione della guerra per il Trono di spade, destinata a durare ancora per molto - in fondo, i romanzi da cui è tratta la serie devono ancora narrare la conclusione della vicenda - sulla pagina così come sullo schermo.
Certamente, rispetto alla stagione d'apertura, è mancato il pathos di un crescendo strepitoso così come l'apporto di quello che era uno dei suoi protagonisti assoluti, una Daenerys tenuta in disparte per la maggior parte di questa annata ed esplosa soltanto con l'ultimo episodio, quasi ad alimentare la speranza di una sua sempre più decisiva influenza sugli eventi che attendono i pretendenti alla corona: ma è davvero un cercare il pelo nell'uovo per uno dei prodotti al momento meglio realizzati della HBO - e non solo -, recitato, scritto e realizzato a livelli altissimi ed in grado di catturare l'audience e la sua attenzione nonostante il numero consistente di sottotrame e personaggi pronti a darsi battaglia in campo aperto così come nei corridoi delle corti.
In particolare, ho apprezzato - una volta ancora - la struttura "in crescendo" della stagione, partita con passi lenti e circospetti ed esplosa in una doppietta conclusiva spettacolare, con gli episodi Blacwater - diretto, tra l'altro, da Neil Marshall - e Valar Morghulis, season finale da urlo: proprio prendendo spunto da quest'ultimo titolo, posso dichiarare ufficialmente di aver trovato un sostituto a due dei miei favoriti dipartiti - ATTENZIONE SPOILER - al termine della prima stagione - Ned Stark e Khal Drogo - nel misterioso assassino Jaqen, che promette di essere uno dei charachters più interessanti della saga, nonchè mentore di un'altra delle mie beniamine, Arya Stark.
Come se questo non bastasse, il come di consueto bravissimo Peter Dinklage da volto al sempre mitico Tyrion Lannister, che al contrario della prima annata si troverà spesso e malvolentieri a fronteggiare le sue battaglie con la spada, invece che con il cervello, confermandosi il cuore pulsante della sua casata, Jon Snow aprirà scenari epici e al limite dell'horror oltre la Barriera e la coppia Brienne di Tarth - personaggio di spessore pazzesco -/Jaimie Lannister promette già scintille per la prossima stagione, così come la fino ad ora poco sfruttata sacerdotessa Melisandre, eminenza grigia alle spalle di Stannis Baratheon.
Ma descrivere in questo modo tutti gli avvenimenti che scuotono nel profondo i Sette Regni appare riduttivo, rispetto alla cavalcata selvaggia e all'ultimo respiro che è questa serie di fattura sopraffina, confezionata con mano d'autore e portata agli occhi e al cuore dello spettatore con tutta la forza delle martellate di un fabbro: l'unica alternativa è prepararsi alla battaglia e lanciarvisi senza guardare indietro.
Chissà che non ci sia qualche possibilità di uscirne tutti d'un pezzo.
Di sicuro, a prescindere da chi siederà sul Trono di spade quando tutto sarà finito, gli autori di questa meraviglia possono già dirsi vincitori.
MrFord
"Running silent, running deep, we are your final prayer,
warriors in secret sleep, a merchantman's nightmare,
a silent death lies waiting, for all of you below,
running silent, running deep, sink into your final sleep."