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martedì 26 gennaio 2016

Beasts of no nation

Regia: Cary Joji Fukunaga
Origine: USA
Anno: 2015
Durata: 137'






La trama (con parole mie): nel cuore di una innominata nazione africana, il piccolo Agu e la sua famiglia vengono colti di sorpresa dal sopraggiungere di una guerra civile che ne sconvolge la vita. Separato dai suoi cari, in parte fuggiti ed in parte uccisi durante il tentativo di fuga, Agu è reclutato forzatamente da un gruppo di miliziani per la maggior parte composto da bambini come lui o ragazzi poco più grandi agli ordini di un Comandante pronto a seguire l'onda sanguinaria della nuova rivoluzione in atto.
Quando, dopo mesi di lotta, morte e massacri, droga e situazioni traumatiche, Agu ed i suoi compagni vengono richiamati nella capitale dal nuovo leader, le cose cambiano ancora, e per il piccolo esercito giunge il momento di confrontarsi con la possibilità di non riuscire più a smettere di combattere.










La realtà del mondo in cui viviamo, inutile negarlo, è spesso e volentieri tosta e dura da digerire: che si tratti di condizioni sociali invivibili, lavori al limite della follia, guerre, malattie e chi più ne ha, più ne metta, sono molti i luoghi della Terra che non prospettano ai loro abitanti una vita non tanto lontanamente decente, quanto lunga abbastanza per poter quantomeno pensare di aver vissuto.
La realtà dei bambini soldato in alcuni paesi dell'Africa - ma non solo, ovviamente - è una delle più amare da mandare giù non soltanto per chi, come il sottoscritto, ha dei figli, ma penso in generale per qualsiasi adulto sano di mente: senza, però, scadere in pistolotti retorici in proposito, ricordo in questo senso l'analisi splendida di Rebelle, pellicola che qualche anno fa non solo fotografò alla grande il fenomeno, ma lo fece per la prima volta sfruttando lo sguardo di una protagonista femminile.
Si inserisce nello stesso filone questo Beasts of no nation, più che buon prodotto targato Netflix - che sta diventando una delle realtà più felici del piccolo schermo e non solo - firmato dallo stesso Cary Joji Fukunaga divenuto noto prima per la sua trasposizione di Jane Eyre e dunque per True Detective -: l'odissea terrificante del piccolo Agu, divenuto un miliziano e forzatamente "educato" da un comandante che assume una doppia connotazione di padre e padrone - un ottimo Idris Elba, al centro delle recenti discussioni originate dal "solito" Spike Lee a proposito delle candidature agli Oscar "troppo bianche" -, diretta con occhio come al solito efficace dal regista californiano, fotografata splendidamente - la sequenza lisergica della battaglia con Agu sotto effetto di droga o la camminata tra le trincee nel finale sono visivamente indimenticabili - e ben in equilibrio tra racconto pronto a sensibilizzare il grande pubblico e lavoro autoriale è una delle visioni più interessanti uscite sul finire dello scorso anno, che ho recuperato e vissuto con grande partecipazione, ma che, rispetto al già citato Rebelle, ha finito per convincermi in misura minore.
Probabilmente, e paradossalmente a causa dei pregi appena elencati, ho trovato il lavoro di Fukunaga fin troppo patinato ed in equilibrio per essere davvero sentito dal suo autore, che, indubbiamente, risparmia al pubblico l'americanata finto sconvolgente in stile Blood Diamond ma non ha il coraggio di andare fino in fondo, pur non risparmiando certo passaggi di grande impatto emotivo.
I punti di forza più efficaci restano la riflessione rispetto a questi bambini combattenti, bestie senza paese costrette a combattere fino alla morte - come recita il titolo del film stesso - e la figura del Comandante cui presta volto e fisicità il succitato Elba, in grado di guidare i suoi "uomini" come fossero una sorta di ibrido tra figli, reclute, fratelli di sangue e di lotta ed animali: in questo senso, il suo ruolo di eterno combattente alla ricerca del confronto di forza e dell'affermazione del proprio valore risulta affascinante se messo in relazione con la parte più politica anche di questi sanguinosi conflitti - come si evince dal confronto con il leader della rivoluzione, pronto a relegare il Comandante ad un ruolo di controllo anche a dispetto della volontà di quest'ultimo di continuare a battersi accanto ai suoi "ragazzi" -, che finisce sempre e comunque non solo per essere la causa primaria dei conflitti stessi, ma anche per svilire la lotta di chi li vive in prima linea.
Una prima linea che fagocita anche una volta riusciti ad allontanarsi tutti interi - o quasi - dalla stessa, e rende ancora più selvaggi delle bestie che, in guerra, si è costretti a diventare: bestie che il resto del mondo - quello più vicino alla normalità - dovrà faticare non poco per addomesticare una volta ancora, in cerca di un futuro migliore per entrambe le parti in campo.




MrFord




"I was born into a scene of angriness and greed, and dominance and persecution.
my mother was a queen, my dad I've never seen, I was never meant to be.
and now I spend my time looking all around,
for a man that's nowhere to be found.
until I find him I'm never gonna stop searching,
I'm gonna find my man, gonna travel around."
Iron Maiden - "Wrathchild" - 






sabato 26 settembre 2015

African cats - Il regno del coraggio

Regia: Alastair Fothergill, Keith Scholey
Origine: USA
Anno: 2011
Durata: 89'





La trama (con parole mie): nel cuore della riserva Maasai Mara, in Kenya, vivono le stagioni ed il loro susseguirsi animali nomadi e stanziali, solitari o abituati a vivere in branco, predatori come coccodrilli o tranquilli erbivori come antilopi e giraffe. 
In ognuno di loro, però, vive l'istinto più forte in Natura, quello che lega madri e figli: in questo contesto seguiamo le vicende parallele di Mara e Sita, leonessa e ghepardo, alle prese con la dura realtà della sopravvivenza e quella che lega indissolubilmente genitori e prole anche nel regno animale: le vicende che travolgono il branco di Mara, sconvolto da una successione in termini di potere del leone dominante, e quelle che vedono l'indipendente Sita lottare per la sopravvivenza e la crescita dei suoi cuccioli.
Riusciranno nei loro intenti, o la crudeltà che a volte mostra la Natura avrà il sopravvento su di loro?








La passione che sta sviluppando il Fordino per gli animali è ormai una delle grandi certezze del Saloon, a partire dalla splendida giornata passata qualche mese fa allo Zoo di Barcellona - che il Fordino ancora cita facendo un elenco degli animali che ha visto - fino alle visioni, che di norma, dall'animazione ai veri e propri film, finiscono per essere wild animals oriented: quando, non troppo tempo fa, passò il trailer di African Cats sul dvd de Il re leone, il più piccolo della tribù si profuse in un ovazione da stadio, inducendomi a recuperare quanto prima il titolo suddetto.
In tutta onestà, essendo una produzione figlia della grande D costruita come un documentario "romanzato" - del resto, il successo di questo tipo di format è noto dai tempi de La marcia dei pinguini -, non nutrivo grandi aspettative o speranze, e pensavo che avrei finito per metterlo come sottofondo nel corso delle sessioni intensive di gioco o per occupare AleLeo mentre il suo vecchio si dedica ai fornelli o prende cinque minuti di pausa dal suo ruolo di pupazzone formato famiglia: devo ammettere che, visione - pur se frammentaria - alle spalle, il lavoro di Fothergill e Scholey funziona, affascina nonostante la narrazione troppo enfatizzata dalla voce off di Claudia Cardinale - molto meglio l'originale, con Samuel Jackson e Patrick Stewart come narratori -, esalta alla grande l'hd e mostra senza troppi sconti anche le parti meno "carine e coccolose" del mondo degli animali e della Natura.
In questo senso, spiegare al Fordino che il ghepardo non è arrabbiato quando insegue la gazzella e l'azzanna, ma che semplicemente sta procurando il cibo ai suoi cuccioli è una delle prime lezioni rispetto alle regole del mondo che il Cinema mi permetta di cominciare a trasmettergli, e se a questo tipo di riflessioni si aggiunge la presenza di alcune delle sue specie preferite in assoluto - elefanti, coccodrilli ed ippopotami, frutto di ulteriori ovazioni da stadio e di uno dei neologismi che amiamo di più, "Potottii" - il gioco è fatto: abbiamo di fronte mesi e mesi di ripetuti passaggi nel lettore bluray delle vicende di Mara e Sita, della rivalità tra i due leoni alfa che vivono ai lati del fiume infestato dai coccodrilli e dei paesaggi mozzafiato del Kenya, che spero un giorno o l'altro possano essere i protagonisti di un viaggione zaino in spalla di tutti i Ford, ed alimentare i sogni di esplorazione e scoperta di AleLeo, che spero possa mantenere il più possibile della curiosità entusiasta che soltanto i bambini alla scoperta del mondo e della vita a quell'età possono avere.
Nel frattempo, il vecchio leone sarà sempre accanto a suo figlio, pronto a dargli tutto l'aiuto possibile e a lottare con lui e per lui: se, poi, nonostante il nome non dovesse essere la scelta preferita, mi metto tranquillamente a disposizione per diventare un coccodrillo o un potottio.
In fondo, mi basta stare al suo fianco.




MrFord




"Slow cheetah come
before my forest
looks like it's on today
slow cheetah come
it's so euphoric
no matter what they say."
Red Hot Chili Peppers - "Slow cheetah" -





venerdì 10 ottobre 2014

Io sto con gli ippopotami

Regia: Italo Zingarelli
Origine: Italia
Anno: 1979
Durata:
108'




La trama (con parole mie): il burbero e corpulento Tom vive nel cuore dell'Africa cercando di sbarcare il lunario accompagnando i turisti in safari organizzati decisamente alla buona, e vive in compagnia della sua vecchia balia Mama. Quando il fratellastro Slim fa il suo ritorno e gli propone di mettersi in affari insieme, i due si troveranno in men che non si dica nel mirino dello spietato imprenditore Ormond, ex campione di boxe divenuto bracconiere e trafficante di animali deciso a costruire un parco a suo nome ed esportare esemplari catturati in quelle terre.
Tom e Slim, dal canto loro, sapranno riportare le cose alla normalità sistemando Ormond e i suoi come si conviene a suon di grandi botte, concedendosi nel mentre le consuete mangiate e le schermaglie da grandi amici e rivali.






Ero in terza elementare quando nell'allora casa Ford entrò per la prima volta un videoregistratore, prodigio della tecnica destinato a cambiare per sempre l'esistenza del sottoscritto, sancendo, di fatto, l'inizio della passione per il Cinema che continua ad esistere ancora oggi.
Ai tempi non avevo ancora avuto l'incredibile e rivoluzionario incontro con Paolo e la sua videoteca, dunque le prime esperienze di noleggio non diventarono mitiche per chi le veicolava quanto per i titoli recuperati: oltre al Robin Hood della Disney, infatti, ricordo che approfittai per rivedere praticamente l'intera filmografia di Bud Spencer e Terence Hill, che avevo imparato ad amare grazie a mio nonno e che tornavo a rivedere con grandissimo piacere, una botta dopo l'altra, quasi fosse una sorta di antipasto per quelli che sarebbero stati gli anni degli action heroes e della pre-adolescenza.
Come per questi ultimi, il periodo che mi vide in pieno fervore radical chic ed orientato al solo Cinema d'autore portò nel dimenticatoio tutte le perle della mitica coppia, riscoperte solo di recente e già prenotate per una serie di maratone in compagnia del Fordino appena sarà un pò più cresciuto: Io sto con gli ippopotami sarà dunque il primo di un discreto numero di recuperi che dedicherò a Carlo Perdersoli e Mario Girotti, che fecero fortuna rappresentando, di fatto, gli stessi personaggi - uno il burbero invincibile, l'altro lo scaltro belloccio - rendendoli immortali a suon di cazzotti.
Per quanto, parafrasando Maude Lebowski, "la trama sia quantomeno risibile", dunque, mi sono goduto oltremodo questo tuffo nel passato, dai giochi di prestigio, di parola e di mano di Terence Hill ai pesantissimi pugni sulla nuca di Bud Spencer - indubbiamente il mio preferito del duo -, condito come al solito da una colonna sonora memorabile in pieno stile seventies, risse a profusione e perfino un sottotesto "ecologico" che potrebbe addirittura classificarlo come film impegnato, pur restando collocato all'interno di un genere assolutamente ludico e senza pretese.
In questo senso, sono ancora irresistibili le gag come il braccio di ferro con lo sgherro di Ormond vissuto prima nello stile Hill e dunque in quello Spencer, entrambi comunque destinati a finire allo stesso modo, così come l'approccio da spacconi dei due protagonisti, perfetti nel ritagliarsi ognuno il suo spazio sullo schermo definendo il proprio charachter senza troppi giri di tecnica o parole: del resto erano i tempi di un Cinema italiano che sapeva divertire e prendersi in giro senza la spocchia e la volgarità attuali, e che tornare ad assaporare ora, a più di trent'anni di distanza, finisce per non essere solo amarcord, ma un'operazione di rivalutazione di quella che era considerata settima arte "bassa", che se confrontata con i cinepanettoni e le schifezze del nuovo millennio rischia perfino di assumere i connotati di grindhouse d'alta scuola.
Ma una polemica di questo tipo non renderebbe giustizia a prodotti come Io sto con gli ippopotami, che semplicemente vanno goduti così come sono, un pranzo senza posate gustato dall'antipasto al dolce, con tanto di ammazzacaffè.
E fischiettando il motivetto che è alla base della soundtrack, ritmare le botte che Bud Spencer e Terence Hill puntualmente finiranno per rifilare con una serie di rutti da competizione.



MrFord



"Some people aren't nice to lions
some people aren't nice to hippos
we better think twice let's try it be nice
grau grau grau."
Oliver Onions - "Grau grau grau" - 




martedì 1 luglio 2014

Saloon Mundial: Vecchi Continenti

La trama (con parole mie): con il terzo giorno degli ottavi di finale lasciamo momentaneamente il Nuovo Mondo per trasferirci nel Vecchio, complice un doppio confronto tra Europa e Africa. Francia e Nigeria prima, Germania e Algeria poi, infatti, si sono giocate un posto tra le best eight del Mondiale, con l'intenzione di non far rimpiangere le sfide combattutissime dei giorni appena precedenti.
Un viaggio che, attraverso il pallone, ha portato il pubblico a cavallo tra passato e futuro, frontiere aperte e colonialismo, tradizione e nuove realtà.









Se ripenso agli inizi degli Anni Zero, e all'odiosa Francia di Zidane, quella dei ragazzi di Deschamps - allora in campo, nella Juve e con la Nazionale, accanto a Zizou - mi pare una squadra proveniente da un altro pianeta: la nuova generazione calcistica dei cugini transalpini, figlia di una realtà sempre più multietnica, è piacevole, vogliosa e grintosa, perfettamente simboleggiata da Benzema - che più che un giocatore del Real Madrid, pare un lottatore di una squadra di seconda fascia - e Pogba, che è destinato a diventare un fenomeno quanto e forse più di pilastri del centrocampo della Francia del passato recente come Desailly e Vieira.







Va detto, comunque, che la Nigeria - come fece con noi nel '94 - vende carissima la pelle, sfiorando il gol il più occasioni prima del vantaggio francese a dieci minuti dalla fine colpendo anche una traversa dando un seguito a quella ormai nota come "La maledizione di Pinilla".
Un autogol ingrassa un bottino che sarebbe stato forse più giusto fissare sulla differenza di misura, e lancia i Galletti verso un quarto di finale alla vigilia insperato - occorre considerare che la squadra uscita malamente nel duemiladieci è stata completamente rifondata basandosi principalmente sui giovani con un coraggio non indifferente -, finendo per gettare benzina sul fuoco a proposito di sogni di gloria che paiono molto, molto simili a quelli che, match dopo match, sentimmo crescere noi nel duemilasei.
Tra l'altro, otto anni fa, il trenta giugno, una decisamente diversa Italia superò l'Ucraina nei quarti di finale infilando agilmente tre pere per volare in semifinale contro i padroni di casa della Germania.
Altri tempi davvero.







Rimanendo in tema teutonico, questa sera i nostri quasi vicini tedeschi hanno avuto la meglio sull'indomita Algeria - che, lo ammetto, ho tifato fino all'ultimo secondo -, imponendosi per due a uno nel corso dei supplementari evitando dunque lo spettro dei calci di rigore ed agguantando un quarto di finale tutto europeo con la suddetta Francia.
Una partita combattuta e molto bella, che la Germania ha vinto grazie ad una maggior organizzazione ed esperienza, a Neuer - che indovina un paio di uscite assolutamente provvidenziali -, a cambi più che azzeccati - dall'autore del gol che sblocca il risultato, Schuerrle, a Khedira - e a Mueller, che pur non andando in rete si dimostra decisivo.
Nel corso della visione di questa battaglia - e onore delle armi agli algerini, che non hanno mollato neanche di fronte all'evidenza - ho avuto una sorta di epifania: dobbiamo ringraziare che l'Italia sia uscita.
Perchè contro squadre così determinate, avrebbe fatto una figura decisamente peggiore.
Chiudo con un paio di appunti rispetto all'andamento degli ottavi: al momento, con alle spalle le prime sei partite su otto, si sono viste trionfare solo le squadre che, nel corso dei gironi, si erano qualificate come prime.
Speriamo che la Svizzera, domani contro l'Argentina, possa smentire questo dato.
Altra cosa curiosa è che tre match su sei sono finiti dopo centoventi minuti - in due casi, anche dopo i calci di rigore -: per un Mondiale che, nel corso della prima fase ha visto pochissimi pareggi, può significare soltanto il timore legato ad una posta in gioco che si alza sempre di più.



MrFord




domenica 22 giugno 2014

Saloon Mundial: l'altro mondo del calcio

La trama (con parole mie): ogni Mondiale ha le sue sorprese, pronte giusto a scombinare l'andamento della competizione almeno per una partita o due.
La rassegna iridata brasiliana, però, fino ad ora pare non aver affatto voglia di smettere di regalarne.
Così, nella giornata di oggi, malgrado i risultati non siano stati quelli che speravo personalmente, si è cominciato a vedere un cambiamento nel calcio globale che porterà, probabilmente, ad un'evoluzione e ad una maggiore incertezza non soltanto da qui alla fine di questo torneo, ma anche delle prossimi.






Se, un paio di settimane fa, qualcuno mi avesse predetto che, ad un giro di giostra dagli ottavi di finale - o quasi, dato che ancora manca una manciata di partite -, ci saremmo ritrovati con un Brasile deludente, un'Argentina spenta, Spagna ed Inghilterra a casa, Uruguay e Italia costrette a giocarsi un posto da seconda dietro il Costarica, avrei probabilmente chiesto informazioni al suddetto qualcuno rispetto alla tipologia di cocktail alla quale aveva deciso di consacrare la sua esistenza.
Invece, eccoci qui.
Fortunatamente per tutti gli spettatori, il Mondiale carioca si sta rivelando uno dei più sorprendenti e "nuovi" della Storia, con Nazionali fino ad ora mai salite agli onori della cronaca pronte a guadagnarsi le luci della ribalta, qualificazioni improbabili ed eliminazioni eccellenti: ieri notte, per rimanere in tema rispetto alle nuove compagini pronte a giocarsi un posto da protagoniste, si è tenuta Ecuador - Honduras, una delle partite, lo ammetto, che meno mi ha interessato fino ad ora, se non per il fatto che quell'H enorme sulle magliette degli honduregni - ma si dirà così!? - mi hanno ricordato quelle della Hot Dog di Holly&Benji.
Peccato che non militino tra le fila dei suddetti centroamericani i gemelli Derrick.
Per la cronaca, al triplice fischio è risultato imporsi l'Ecuador, che ora punta forte ad un secondo posto - forse anche primo, a seconda di quale sarà l'esito dello scontro all'ultima partita - dietro la Francia: Valencia e compagni saranno carne da cannone per gli ottavi o continueranno a sorprendere?






Nel pomeriggio, invece, l'Argentina di Leo Messi si è imposta - qualificandosi anzitempo per gli ottavi - contro il coraggioso Iran, che non solo ha resistito per novantuno minuti, ma si è anche visto negare un rigore neanche avesse di fronte il Brasile padrone di casa.
Accantonati, comunque, i sospetti rispetto alla volontà di chiudere questo Mondiale con una finale - vinta dai verdeoro - tra la suddetta Argentina ed il Brasile, restano diverse certezze: questa Albiceleste è lontana anni luce da quella di Maradona, e Messi, suo trascinatore, in barba a premi e pubblicità, e alle sue capacità tecniche, risulta uno dei fuoriclasse meno interessanti della Storia del Calcio, noioso quanto la sua pettinatura e carismatico quanto un paio di ciabatte.
Nonostante il divario tecnico sia incolmabile, preferisco mille volte avere in squadra un Balotelli dedito alle stronzate che un Messi sempre precisino e perbenino, ma questo forse è un mio problema.
Anche perchè, con buona pace di qualsiasi detrattore, il piccolo Lionel con i suoi compagni si sono, di fatto, dichiarati presenti, e stando come sono ora le cose finiranno per trovarsi un calendario decisamente favorevole fino alla semifinale.
Ad ogni modo, non mi stupirei se fossero rispediti a casa anzitempo: questo Mondiale non ha padroni, a prescindere dai nomi di copertina.









Ma il piatto clou della giornata è stato senza dubbio fornito dalla partita di stasera, assolutamente bellissima soprattutto nel secondo tempo - il primo ha ricordato più una prolungata fase di studio -, roba da far apparire quella di ieri dell'Italia come una sorta di copia più che brutta del gioco del calcio.
I ragazzi africani - tutti, ormai, europei d'adozione, per quanto riguarda l'approccio - non solo, infatti, hanno tenuto testa ai teutonici panzer che parevano inarrestabili, ma con un gol di vantaggio hanno finito per rischiare perfino che il bottino fosse più grosso, divorando un'occasione che avrebbe concretizzato una delle sorprese più inaspettate del Mondiale e messo pepe a volontà sull'ultima giornata del girone.
C'è voluto quel vecchio volpone di Klose, che scippando fondamentalmente un gol ad un compagno eguaglia il record realizzativo di Ronaldo nella fase finale della competizione, per rimettere le cose a posto: l'arcigno e salterino Miro, in un certo senso, è un pò come Inzaghi.
Il fiuto della palla in rete gli cresce nel sangue, e ho come l'impressione che non abbia ancora finito, e che il conto aperto con la competizione continuerà a stimolarlo.
Bravissimi, comunque, i ragazzi africani - e non lo dico con condiscendenza -, che spero proprio possano cavalcare l'onda e sfruttare la stessa affinchè il continente più vecchio del mondo non debba ammettere una sconfitta su tutta la linea.
La speranza è che tutto possa evolversi senza troppo legarsi a schemi e giochi di potere, lasciando che il pubblico possa spalancare la bocca e lasciarsi travolgere dal piacere di uno sport soffocato, senza dubbio, da denaro, pubblicità e chi più ne ha, più ne metta, ma in grado di emozionare come pochi altri.
E per quanto possa preferire la Germania al Brasile stesso o all'Argentina - in fondo parliamo della Nazionale con più finali perse nella Storia dei Mondiali -, coltivo in segreto il pensiero di un'altra vincitrice della coppa fino ad ora estranea al successo.
Che sia l'Olanda, o l'Ecuador, o l'Iran, o il Ghana, poco importa.
Basta ci metta il cuore.
E non mi lamenterò di certo se fossimo noi, a godere di quei brividi.




MrFord



P. S. Si sta giocando, nel frattempo, Nigeria-Bosnia. Zero a zero. Propendo, comunque, per i secondi, che pronostico come ombre dell'Argentina nonchè altra possibile outsider da stupore per il resto del torneo.

sabato 12 ottobre 2013

24: redemption

Regia: Jon Cassar
Origine: USA
Anno: 2008
Durata: 84'




La trama (con parole mie): Jack Bauer, al termine delle vicende della sesta stagione di 24, si trova nel cuore dell'Africa presso la scuola amministrata da un ex agente delle Forze speciali suo vecchio amico, rifugio presso il quale ha trovato una sua dimensione da mesi dopo aver viaggiato praticamente in ogni continente.
Quando un sedicente generale pianifica un colpo di stato sfruttando bambini soldato e armamenti forniti da un misterioso finanziatore di Washington, il ruvido Jack si troverà di nuovo costretto ad imbracciare le armi in modo da salvare i giovani allievi della scuola, e garantire loro una via di fuga verso un futuro di speranza negli States, in procinto di salutare l'elezione di un nuovo Presidente.




I frequentatori più assidui del Saloon ben conoscono, ormai, la predilezione ed il profondo rispetto che suscitano nel sottoscritto gli action heroes, personaggi destinati ad entrare nell'Olimpo dei preferiti fordiani di sempre nonchè a costutuire l'ossatura di quelle che saranno le prime visioni del Fordino non appena comincerà a desiderare qualcosa di diverso dai cartoni animati.
Negli ultimi anni, complice la crisi "cinematografica" del genere, in soccorso a questo vecchio cowboy è giunto uno dei charachters più tosti del genere, il reazionario Jack Bauer, protagonista di una serie cult - 24, di ritorno nel 2014 con una nuova stagione - dal ritmo serratissimo e sempre in grado di divertire grazie ad una mancanza di ironia dal curioso potere di assumere una valenza positiva proprio perchè pronta a prestare il fianco a commenti e riflessioni a proposito di problematiche quali la stupidità dei terroristi di turno che, dopo aver constatato di aver a che fare con il suddetto Bauer, continuano a sperare che i loro piani possano andare a buon fine.
Avendo da non troppo tempo terminato la visione della sesta stagione, ed avendo appreso dell'esistenza di un film per la tv realizzato come raccordo con la settima - prossimamente su questi schermi -, ho recuperato in men che non si dica 24: redemption, che racconta una disavventura nel cuore dell'Africa dilaniata dalle guerre civili e dal problema dei bambini soldato vissuta dal vecchio Jack, convinto a non fare più ritorno negli States.
Badate, però: non siamo nei paraggi del bellissimo Rebelle, o di un titolo di genere come potrebbe confezionarlo Michael Mann.
A dire il vero non siamo neppure vicini a Michael Bay, o a Blood diamond.
Purtroppo, quello che pare una sorta di episodio tirato per le lunghe - seppur sempre narrato in tempo reale - della serie è un prodotto di qualità decisamente bassa, reso divertente solo dai commenti e che neppure le gesta come di consueto al limite dell'incredibile di Bauer riescono a rendere interessante.
Uniche segnalazioni degne di nota sono la partecipazione di Robert Carlyle e l'introduzione di un Presidente degli Stati Uniti donna, segno di quanto in qualche modo avveniristica è stata questa serie: dopo aver anticipato i tempi inserendo il charachter del Presidente afroamericano Palmer, infatti, è la volta dell'ex senatrice Allison Taylor segnare un'epoca che, dalla nostra parte dello schermo, non si è ancora trasformata in realtà - anche se sono convinto che non manchi poi molto, a quel momento -.
Per il resto parliamo di un action movie scontato e piuttosto bolso che senza dubbio non risultava necessario al brand di 24, e che ha il solo merito di preparare il terreno alla visione della già citata settima annata, attesissima dal sottoscritto e che, spero, si rivelerà all'altezza di quella che è stata la saga di Jack Bauer fino ad ora.
Redemption, ovviamente, escluso.


MrFord


"It's gonna take a lot to drag me away from you
there's nothing that a hundred men or more could ever do
I bless the rains down in Africa
gonna take some time to do the things we never had."
Toto - "Africa" - 


domenica 21 luglio 2013

Venere nera

Regia: Abdellatif Kechiche
Origine: Francia
Anno: 2010
Durata: 162'




La trama (con parole mie): Saartje Baartman, giovane donna sudafricana, fu uno dei fenomeni più clamorosi che all'inizio dell'ottocento attraversarono il Vecchio Continente da Londra a Parigi. Appartenente all'etnia degli Ottentotti e presentata come una selvaggia dal suo vecchio padrone - il sudafricano Caezar -, la ribattezzata Sarah venne coinvolta per anni in uno spettacolo di dubbio gusto che la poneva come un vero e proprio fenomeno da baraccone, un freak culturale e razziale, che la ragazza riusciva a sopportare soltanto bevendo fino allo spasimo e sognando, un giorno, di poter tornare nel proprio Paese e cercare di ricostruirsi una famiglia superando il trauma della morte del figlio.
Quando la sua ribellione ai metodi di Caezar la porta tra le mani di Reaux - altro "artista di strada" accompagnato dalla prostituta Jeanne - e dall'Inghilterra il suo show viene portato in Francia, pare che le cose possano migliorare, anche grazie all'interesse della comunità scientifica per lei: ma sarà solo l'illusione di un'uguaglianza che Saartjie non potrà mai assaporare.




Abdellatif Kechiche è uno dei registi attuali più interessanti che il panorama europeo possa considerare, nonostante il grande pubblico continui sostanzialmente ad ignorare la sua esistenza benchè i festival più importanti abbiano ormai consolidato l'ammirazione che gli addetti ai lavori nutrono rispetto all'opera di questo interessante autore nordafricano ormai di casa in Francia.
Fin dai tempi di Tutta colpa di Voltaire, una delle basi fondamentali della sua poetica è stata l'integrazione, che dalle periferie de La schivata alla famiglia di Cous cous ha costituito la cartina tornasole dei suoi protagonisti più importanti: la recente conquista della Palma d'oro a Cannes del regista mi ha ricordato che un titolo mancava ancora all'appello del sottoscritto, e appena ho potuto sono corso a recuperare il dvd di Venere nera, pellicola fiume lontana dalle logiche della grande distribuzione e delle concessioni "di cassetta" passata a Venezia qualche anno fa raccogliendo, come di consueto, ottimi pareri dalla critica.
La vicenda che vide giungere al successo, dunque affrontare un processo, viaggiare dall'Inghilterra alla Francia e ai suoi salotti per poi sprofondare lentamente Saartje Baartman ribattezzata Sarah, simbolo di una cultura e di una realtà allora profondamente lontana da quella del Vecchio Mondo - non che ad oggi le cose siano diverse, forse solo meno evidenti - si lega a doppio filo a quella di molti dei "fenomeni" che in quel periodo scolvolsero la borghesia europea come John Merrick, più noto al grande pubblico come Elephant man, descritto con tocco magico da David Lynch ormai un trentennio fa: la giovane ottentotta presentata come selvaggia "addomesticata" dal suo "socio" Caezar prima e dal bieco artista di strada Reaux poi è lo specchio dell'anima del cosiddetto Continente Nero costretto a passare attraverso a secoli di schiavitù e colonialismo, privato di una dignità prima intellettuale e dunque fisica, studiato come un freak destinato ai circhi ed ugualmente in grado di esercitare sull'uomo bianco tutto il fascino primordiale che ispirò fin dall'Età della pietra le rappresentazioni ideali della Fertilità e delle forme femminili.
Forse per l'ambientazione, rispetto agli altri lavori di Kechiche il distacco dell'autore si fa più marcato - almeno dal punto di vista dell'immediatezza nella narrazione -, quasi lo stesso volesse mostrare all'audience uno spettacolo come quello che i biechi sfruttatori di Saartje offrivano promettendole un avvenire unico una volta tornata nella sua terra, dove avrebbe potuto vivere da regina - agghiacciante il confronto con il giornalista che le chiede il permesso di scrivere di lei come di una principessa - nella speranza di ricostruire una famiglia perduta fin troppo presto.
Le lunghe sequenze dedicate ai confronti tra la "Venere ottentotta" ed il suo pubblico sul palcoscenico - profondamente fisiche e d'impatto -, quelle rispetto ai suoi "soci" - in grado di sottolineare le armi attraverso le quali gli europei riuscivano ad imporsi su quelli che consideravano sempre e comunque come uomini e donne inferiori a loro, le cui ferite interiori finivano per essere guarite attraverso l'alcool, come fu per i Nativi Americani -, il confronto con la comunità scientifica - forse il più terribile - hanno il grande pregio di portare in scena una vicenda profondamente drammatica senza suggerire nulla a chi resta dall'altra parte dello schermo, lasciando che sia la coscienza del pubblico a porsi le domande necessarie ad affrontare una storia vera ed agghiacciante come questa, forse meno struggente di quella del già citato Merrick ma non per questo lontana dai cuori di ogni Uomo in grado di considerare la schiavitù - anche intellettuale e morale - una barbarie.
E la chiusura, legata a doppio filo all'incipit ed al concetto di freak show che percorre l'intera pellicola, è quanto di più drammatico gli occhi del sottoscritto abbiano osservato sul grande schermo da molto tempo a questa parte, riflessione amarissima su tante delle ferite che ancora segnano il nostro mondo e la nostra cultura.
E per nostra intendo di qualsiasi Paese.


MrFord


"Triste annoiata e asciutta
sarei la tua venere storpia
triste annoiata e asciutta
sarei un'inutile preda."
Carmen Consoli - "Venere" -



sabato 2 marzo 2013

Rebelle

Regia: Kim Nguyen
Origine: Canada
Anno: 2012
Durata: 90'



 
La trama (con parole mie): Komona, una dodicenne che vive in un villaggio nel cuore dell'Africa dei ribelli e delle bande armate, è costretta dai seguaci della Grande Tigre ad uccidere i suoi genitori per sopravvivere ed impedire che gli stessi siano trucidati a colpi di machete.
Una volta divenuta essa stessa una ribelle e sfuggita ad un'imboscata dei soldati governativi grazie ad una visione dei fantasmi di madre e padre, il suo ruolo diviene quello di strega, temuta e rispettata dal Tigre in persona e da tutti i suoi uomini: dopo più di un anno di battaglie ed uccisioni, Komona fugge accanto ad un altro giovane stregone innamorato di lei, che si prodiga per trovare un gallo bianco, tributo necessario per averla in moglie.
Finalmente sposati, i due si stabiliscono dallo zio del ragazzo in modo da poter cominciare una nuova esistenza, quando gli uomini del Tigre li raggiungono, tornando ad alimentare il dramma della ragazzina, che dovrà liberarsi del loro giogo, partorire il figlio che porta in grembo sperando che non abbia portato il male che l'ha originato e tornare a vivere.





Capita, a volte, di vedere passare sullo schermo storie profondamente drammatiche e toccanti che non lasciano alcuno scampo alla retorica così come al respiro dello spettatore, pregne di emozioni come se fossero pronte a tracciare segni dalla pelle fin dentro l'anima, e scoprire di non essere di fronte a meraviglie a loro modo fiabesche come Beasts of the Southern Wild, ma a vicende ispirate a fatti tristemente reali forse addirittura edulcorate affinchè la violenza non assuma i connotati di disturbato piacere voyeuristico del regista che li porta in scena: Rebelle è senza dubbio parte di questa categoria di opere.
Candidato canadese per la categoria di Miglior film straniero agli ultimi Oscar, Orso d'argento per la migliore interpretazione femminile e Premio della Giuria a Berlino, il film firmato da Kim Nguyen è un viaggio senza ritorno nel mondo delle milizie del cuore dell'Africa Sud-sahariana costituite principalmente da reclute di giovanissima età strappate ai loro villaggi con la forza e cresciute nella violenza e nel sangue che poggia tutto sulle spalle della fenomenale protagonista Rachel Mwanza, che con la sua Komona porta in scena una versione profondamente più oscura e terribile della Hushpuppy del già citato Beasts of the Southern Wild.
Ma l'essere prezioso di Rebelle non dimora tanto nella sua parte più disperata e fedele alla realtà, nella qualità delle immagini e nel gusto di una fotografia che a tratti rimanda addirittura al Capolavoro Apocalypse Now, bensì nella carica di speranza che, anche a fronte di un destino avverso e di condizioni di vita ben oltre ogni limite di sopportazione gestite da quelli che sono poco più che bambini, aleggia dal primo all'ultimo fotogramma, e che rimanda - anche grazie all'utilizzo della voce narrante off della protagonista - al primo Malick: anche in questo caso, tra l'altro, ritroviamo un'analogia con il lavoro di Ben Zeitlin, che nel post ad esso dedicato avevo paragonato a Badlands - distribuito in Italia come La rabbia giovane -, mentre rispetto all'opera di Nguyen mi tornano alla mente le immagini violente e splendide ed il lirismo de I giorni del cielo.
Riferimenti importanti, dunque, per due lavori gemelli ed a loro modo complementari, che trovano in Rebelle la loro anima più oscura venata da una magia ed un tocco a dir poco meravigliosi - come nella parentesi di salvezza che Komona ed il suo altrettanto giovane marito cercano di ritagliarsi nel villaggio dello zio di lui, sotto gli alberi ad accarezzarsi l'un l'altra o lavorando al frantoio -: due novelli Romeo e Giulietta destinati al macello di un continente ancora lacerato ed in balìa della crudeltà degli uomini mano nella mano come se potessero vivere davvero la loro età, sopravvissuti per necessità più che vocazione, aggrappati ad una magia che non riuscirà comunque a garantire di poter essere immuni ai proiettili, ai machete, alle malattie, alla malvagità.
Nella vicenda di Komona c'è tutto il cuore di tenebra che da Conrad porta dritti all'orrore firmato Coppola, eppure negli occhi di questa piccola guerriera non c'è abbandono, o resa, così come nelle parole da lei lasciate in eredità al piccolo nascituro non c'è odio rispetto alla sua origine, a tutta la terrena espressione del Male che l'ha portato in questo mondo: c'è tanta paura, ma è legittimo.
Komona deve ancora crescere, e dovrà farlo a partire da un orizzonte che l'ha vista uccidere e seppellire i suoi genitori, assistere alla caduta di compagni di lotta e a danze di spettri imbiancati, fare affidamento su una magia che gioca sulle vite e sulle paure quanto e più è possibile per una religione portata all'estremo.
Komona deve ancora lottare, e camminare lungo una strada che non prevede che qualcuno la carichi senza pensare di portarla a morire da qualche parte, nascosta al mondo.
Fortunatamente, Komona è una ribelle.
E prima o poi il Destino dovrà concederle una possibilità, fosse anche soltanto un passaggio da qualcuno che non avrà intenzione di violentarla e schiaffarle un AK-47 tra le braccia.
Del resto, nel mondo di Komona non ci sono Bestie del profondo Sud da domare, ma l'animale più feroce di tutti. L'Uomo.
E se non si è ribelli fin nel profondo dell'anima, prima o poi si finisce per soccombere, masticati e risputati dalla sue fauci.
E Komona lo è, eccome. Prima ancora dell'essere strega, combattente, assassina, figlia, moglie, madre, fiore avvelenato.
Komona si è ribellata al mondo. E speriamo tutti che vinca la sua guerra.


MrFord


"I'm a rebel, let them talk,
soul rebel, talk won't bother me
I'm a capturer, that's what they say
soul adventurer, night and day
I'm a rebel, soul rebel
do you hear them lippy
I'm a capturer, gossip around the corner
soul adventurer, how they adventure on me."
Bob Marley - "Soul rebel" -


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