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lunedì 17 agosto 2015

Il diamante bianco

Regia: Werner Herzog
Origine: Germania, Giappone, UK
Anno:
2004
Durata:
88'





La trama (con parole mie): Werner Herzog segue nella foresta pluviale della Guyana, nei pressi delle cascate mozzafiato di Kaieteur il dottor Graham Dorrington, ingegnere appassionato di volo che sognava di essere un astronauta da tempo legato ad imprese compiute con dirigibili da lui stesso progettati e realizzati.
Legata a doppio filo alla tragica fine dell'amico documentarista dello stesso Dorrington Dieter Plage, scomparso una decina d'anni prima, ed all'idea di dare una maggiore manovrabilità al dirigibile, da sempre considerato un mezzo "statico", l'impresa del "Diamante bianco" è quella di sorvolare la foresta, con le sue leggende, i misteri e la popolazione, pronta ad ispirare ed attrarre con le proprie storie la troupe di Herzog.










Una delle cose che mi ha sempre conquistato del Cinema di Herzog, che si parli di fiction o documentari, è la capacità del regista tedesco di raccontare con un piglio unico la sfida dell'Uomo all'ignoto, alla Natura.
Il superamento del limite come filosofia di vita, più che come concetto.
L'idea che, probabilmente, stava dietro alle imprese dei grandi esploratori dei secoli scorsi, o di viaggi indimenticabili di tempi più recenti come quello del Kon-Tiki, ben raccontato pochi anni fa da un'altra pellicola legata a doppio filo a questo tipo di scelte, sfide, bisogni.
Da Aguirre a Fitzcarraldo, pare che Herzog abbia deciso di trasformare il suo Cinema in una sorta di inno alla follia ed all'istinto tutto umano di muovere un passo oltre, scoprire tutto quello che, all'apparenza, l'occhio non vede, o non riesce a vedere, che si parli di Natura, Tempo, Spazio, fisicità o spirito.
Il diamante bianco, appartenente alla "trilogia" del ritorno al documentario del Maestro tedesco - insieme a L'ignoto spazio profondo e Grizzly Man, che conto di proporre qui al Saloon il più presto possibile -, riprende appieno questi concetti: l'impresa di Graham Dorrington, fin da bambino spinto verso l'oltre dal desiderio di diventare astronauta - che, come testimoniano il suo corpo ed il racconto legato alla costruzione del razzo artigianale, non è sempre stato facile -, è paragonabile a quelle dei grandi (anti)eroi herzoghiani, e la potenza delle immagini che raccontano la sfida del Diamante bianco alla foresta pluviale della Guyana ed alle cascate di Kaieteur rendono al meglio questo stesso concetto.
Come sempre, poi, l'autore si prende il tempo necessario - nonostante il minutaggio assolutamente abbordabile anche da parte dei meno avvezzi al genere - per scoprire il mondo attorno all'impresa stessa, dalla bellezza mozzafiato del paesaggio al crudele e magnifico distacco delle creature figlie dei luoghi "invasi" dall'Uomo, concedendosi ben più di una parentesi anche rispetto alle storie dei lavoratori locali assunti per l'assistenza tecnica - dal ballerino al saggio che conosce erbe mediche e sogna di volare con la mongolfiera fino a ritrovare i suoi parenti perduti a Malaga, in Spagna -.
Lo stesso tempo che permette a Dorrington di ripercorrere, con le lacrime agli occhi, gli istanti più drammatici dell'incidente occorso all'amico Dieter Plage, regista che l'aveva seguito da vicino, proprio nel corso di un volo, e la cronaca della morte dello stesso, o al pubblico di immaginare cosa potrebbe mai celarsi dietro il muro d'acqua dalle correnti impetuose di Kaieteur, ove milioni di rondoni volano per nidificare, prosperare, scoprire, vivere prima di riprendere il loro viaggio, e le migrazioni.
La poesia delle immagini degli uccelli che scendono in picchiata oltre la cascata è da brividi, tra le più potenti cui abbia assistito in un documentario, e non solo, così come assolutamente condivisibile è la scelta di Herzog e della sua troupe di non divulgare il girato del medico ed esperto di arrampicata sceso lungo i margini delle cascate stesse, alla ricerca di uno scorcio del mondo oltre.
Ma nessun post, interpretazione o visione trasmessa attraverso gli occhi di qualcun'altro potrebbe rendere giustizia al senso de Il diamante bianco, dalla semplicità in grado di trasformarsi in epica alla tecnica che diventa di colpo potenza tutta istintiva: in fondo, nel cuore di ognuno di noi alberga la curiosità di spingersi oltre, di scoprire la brace che ci arde dentro, la stessa in grado di renderci folli, appassionati, vivi.
La stessa che ha guidato, nonostante gli insuccessi e la fatica, ogni grande esploratore al culmine della propria ricerca.
La stessa che mosse Dieter Plage fino all'ultimo istante di vita.
E Dorrington ed il suo Diamante bianco.
E Marc Anthony Yhap, con i suoi sogni di ricerca della madre in Spagna.
E Herzog con ogni suo folle protagonista.
E noi. 
Tutti quanti.
Anche chi resta fermo tutta la vita in attesa dello stimolo giusto per poter andare oltre.




MrFord




"And just like a burning radio
I'm on to you (you’re spell I’m under)
in the silver shadows I will radiate
and flow you
what you see and what it seems
are nothing more than dreams within a dream
like a pure white diamond
I’ll shine on and on and on and on and on."
Kylie Minogue - "White diamond" - 





lunedì 18 agosto 2014

Open - La mia storia

Autore: Andre Agassi
Origine: USA
Anno: 2009
Editore: Einaudi


  
La trama (con parole mie): a partire dall’ormai considerato classico match contro Baghdatis agli US Open del 2006, prossimo al ritiro, Andre Agassi, uno tra i tennisti più noti e vincenti della Storia di questo sport, racconta la sua vita dai tempi in cui, bambino, si confrontava con l’autorità schiacciante del padre, suo primo maestro, all’adolescenza trascorsa lontano dagli amici di Las Vegas, nell’accademia di Nick Bollettieri, in Florida, per giungere alle prime vittorie importanti e agli alti e bassi personali e sportivi di una vita intera. 
Il matrimonio con Brooke Shields e quello con Steffi Graf, la vita di un uomo bambino con un’infanzia da recuperare a quella di un padre che non vorrebbe mai imporre la sua disciplina ai figli come è stato fatto con lui. 
Perché Andre Agassi odia il tennis. E in questo libro racconta la sua vita, e non il suo sport.






Fin da bambino, sono sempre stato affascinato dallo sport in generale e dai suoi eroi, probabilmente a causa dell’amore incondizionato che mio padre ha per qualsiasi disciplina agonistica e non a partire dall’adorato – e tuttora praticato – ciclismo: ricordo i primi anni da tifoso calcistico, il Milan di Sacchi e l’avvento di Baggio, la Formula Uno con i duelli tra Senna e Prost – benchè tifassi la Benetton di Nannini e rimpiangessi di non essere nato prima per esaltarmi alle imprese di Gilles Villeneuve -, Carl Lewis, Greg Lemond, e tanti altri personaggi che cominciarono ad affascinarmi fin dalle elementari.
Non sono mai stato, però, un accanito tifoso di tennis: forse perché non avevo mai avuto modo di praticarlo, ma fatta eccezione per qualche match guardato in tv ed i nomi principali del circuito, non mi sono mai trovato particolarmente attratto dalle battaglie che uomini e donne ai tempi quasi esclusivamente di bianco vestiti combattevano fino allo stremo delle forze. 
Eppure, tra tutti quei campioni che parevano più o meno uguali, uno svettava grazie non solo ad un look unico, ma ad uno stile ed un modo di porsi che non avevo mai visto applicare a questa disciplina: Andre Agassi.
Ricordo che, colpevole la pronuncia del nome, pensavo fosse francese – e se anche avessi puntato sugli USA, mai avrei pensato a Las Vegas -, e che, come spesso e volentieri lo definiva la stampa, fosse il ribelle in tutto e per tutto dei piani alti delle classifiche mondiali. 
Un ragazzo problematico con uno stile e risultati assolutamente non lineari, probabilmente destinato a bruciarsi.
Come tutti ben sappiamo – e fortunatamente – il buon Andre non solo è riuscito a resistere a critiche e sconfitte concludendo una carriera tra le più impressionanti della Storia del tennis, ma a trovare una sua identità che andasse ben oltre l’immagine ed il look, divenendo un punto di riferimento per colleghi e tifosi in tutto il mondo: dai suoi duelli con il rivale di sempre Pete Sampras alle numerose rinascite, la sua carriera è senza dubbio una tra le più emozionanti e toccanti che si possano anche soltanto immaginare.
Ma non è di tennis, che vorrei parlare qui.
Non solo perché Andre odia il suo sport – come non manca di sottolineare tra queste pagine -, ma perché Open è il racconto di una vita, a prescindere da quello che il suo protagonista ha ottenuto grazie ad un talento unico e a duro lavoro, spesso non piacevole. 
E qui al Saloon, quando si parla di vita con partecipazione, commozione, sentimento, le porte si aprono in men che non si dica.
Sono stato felice come raramente quest’anno leggendo un libro di essere letteralmente trascinato dalle pagine di un racconto simile a quello che potrebbe condurre un amico di fronte ad un bicchiere, in una di quelle serate in cui si ha voglia di ripercorrere il viaggio che ci ha portati fino a dove ci troviamo, ed altrettanto di scoprire che il mio istinto, quando lo elessi a mio favorito tra gli eroi della racchetta, non aveva sbagliato.
Andre Agassi è una persona che mi piacerebbe, se la conoscessi. 
Una persona con la quale si potrebbe stabilire un contatto. 
Perché, nonostante si sia diversi, certe cose finiscono per passare attraverso meccanismi terribilmente simili: l’accettazione di se e la fatica che la stessa comporta, dai pregi ai difetti che portiamo con noi, la capacità di passare da momenti di euforia e commozione e vittorie memorabili ad altri salati e brucianti come le lacrime, o le sconfitte peggiori. Non importa su quale terreno, non importa in quale campo. E non importa il tennis. Qui si parla di esperienza, di passione, di sentimenti.
Di vita, per l’appunto.
Di voglia di viverla e raccontarla.
I trofei, i titoli, la distanza geografica, i destini ed i percorsi differenti, i soldi, nulla importa.
L’impressione che ho avuto, leggendo Open, è che potrei senza problemi fare parte della squadra di Andre.
E Andre della mia.
La scoperta di una storia che prosegue senza che abbia un senso, una soddisfazione condivisa con le persone che amiamo di più, e solo con loro, un’amicizia unica, la sensazione di avere qualcuno che ti copre le spalle, qualcuno da conquistare, qualcuno da amare e da crescere: leggendo Open, mi è parso di vedere l’Agassi che conta.
Che non è il tennista, a dispetto di tutte le sue vittorie sul campo.
Ma l’uomo. Quello che si è formato, che ha vinto e perso, che ha guardato dentro se stesso e ha deciso cosa lasciare alle spalle e cosa portare avanti, fino alla prossima destinazione.
E sono stato felice che l’abbia condiviso. 
Proprio come se fossimo stati in un tavolo d’angolo in qualche bar sperduto lungo la Frontiera. Proprio come avrebbe ascoltato la mia.
Perché partite come quelle che giochiamo ogni giorno valgono infinitamente più di quanto il solo conto dei successi e delle sconfitte il nostro lavoro ci riservi.
Numeri chiusi contro esperienze senza confini.
Corpo, cuore e menti aperte. Pronti a muovere sempre un passo in avanti.
Open.
Come la testa, senza dubbio prima di un qualsiasi torneo.



MrFord



"Yeah i laugh and i jump
and i sing and i laugh
and i dance and i laugh
and i laugh and i laugh
and i can't seem to think
where this is
who i am
why i'm keeping this going
keep pouring it out
keep pouring it down
and the way the rain comes down hard
that's the way i feel inside."
The Cure - "Open" - 



sabato 16 agosto 2014

CM Punk - Best in the world

Regia: Kevin Dunn
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 109'




La trama (con parole mie): all'apice della sua carriera in WWE, l'allora campione assoluto CM Punk - il più longevo con la cintura alla vita degli ultimi venticinque anni con quattrocentotrentaquattro giorni di regno titolato - è omaggiato dalla Federazione con un documentario che ripercorre le tappe fondamentali del suo percorso, dagli esordi con una promotion "fatta in casa" sul retro di un cortile a Chicago ai palcoscenici più prestigiosi delle indies come la Ring of honor, fino ad arrivare alla corte più importante del wrestling professionistico, quella di Vince McMahon, patendo e sudando fino a conquistare perfino una sfida apparentemente impossibile.
Punk rock e filosofia straight edge, un atteggiamento arrogante ed una dedizione totale, grande tecnica ed un'abilità al microfono degna dei migliori di tutti i tempi: questo è il "best in the world".
Questo è CM Punk.






E' ormai nota a tutti gli avventori abituali del Saloon - ed anche a quelli non abituali - la mia grandissima passione per il wrestling, spettacolare circo dell'intrattenimento made in USA che seguo fin da quando ero bambino.
Negli anni questa curiosa disciplina che la maggior parte continua a considerare "finta" - e vi assicuro, avendolo provato sulla pelle, che finta è soltanto nella predeterminazione dei risultati - è sempre riuscita a conquistarmi, eppure i lottatori in grado di emozionarmi davvero, di lasciare che tutto fosse alle spalle e tornasse come quando, da bambino, vivevo questi scontri come fossero battaglie di eroi dei fumetti, si contano sulle dita di una mano: Ultimate Warrior, Ric Flair, Shawn Michaels. E CM Punk.
Phil Brooks - questo il suo nome di battesimo -, nato a Chicago nel settantotto - solo un anno avanti al sottoscritto - alla fine di ottobre - scorpione fatto e finito come il sottoscritto -, mi colpì fin dal suo esordio televisivo sotto l'egida a volte scomoda di Vince McMahon: l'approccio, i tatuaggi, qualcosa nel modo di fare riuscirono a rendermelo più vicino di quanto non fossero molti altri, e nonostante il suo essere straight edge lo renda, di fatto, quanto di più lontano possibile esista da questo vecchio cowboy - dedito ad alcool, istinto e carne come se non ci fosse un domani -, l'abilità di questo ragazzo ed il suo essere costantemente l'underdog della situazione - anche nei periodi trascorsi come campione - lo resero immediatamente un mio beniamino.
Questo documentario - parte di un'uscita in dvd e bluray a dischi multipli corredata dagli incontri più importanti combattuti dagli anni delle indies fino alla WWE -, risulta senza dubbio essere interessante dal punto di vista di ogni appassionato di sport entertainment e fan di CM Punk, dalla sua adolescenza a Chicago ai palcoscenici internazionali del wrestling, passando attraverso gli incontri, le rivalità ed i momenti più importanti nella vita dell'allora campione della federazione più importante del mondo di questa disciplina: peccato che, almeno in una certa misura, il tutto funzioni fin troppo nel classico WWE Style che punta allo sfruttamento assoluto e sotto ogni aspetto dei suoi campioni più amati e riconosciuti, cerchia ristrettissima alla quale Punk riuscì a legarsi grazie ad uno dei momenti più importanti della Storia dello sport entertainment, il fantastico promo che realizzò in chiusura della puntata di Raw del ventisette giugno duemilaundici, quando lo stesso Punk pensava di essere ormai in piena rottura con Vince e soci ed in odore di rilascio alla scadenza del contratto.
Al contrario, quello stesso momento cambiò di fatto e per sempre la carriera dell'outsider di Chicago, passato di colpo dall'essere il ragazzo problematico e talento sprecato del backstage all'uomo di punta, complice un feud ed un incontro spettacolare che lo vide opposto a John Cena nel luglio di quello stesso anno, tra i migliori che la WWE abbia proposto in tutta la sua lunga storia.
Eppure l'idea che il tutto suoni come un pò troppo pilotato resta, e da fan accanito di questo scomodo personaggio - perchè, senza dubbio, scomodo è - non posso che rimanere almeno parzialmente deluso da quello che appare come un viaggio con il freno a mano tirato, per evitare che altre "pipebombs" potessero esplodere in faccia a Vince e famiglia.
Il rammarico più grande, però, cresciuto con la visione di questo documentario, è quello di aver visto, all'inizio di quest'anno, CM Punk abbandonare la WWE sbattendo la porta, compromettendo, di fatto, la propria professionalità, a seguito dell'ennesima delusione maturata rispetto alle alte sfere della stessa: ad inizio visione, infatti, è lo stesso Punk a dichiarare "è difficile poter cambiare davvero le cose seduto sul mio divano, a Chicago".
E invece, è proprio quello che questa volta pare che il buon Brooks abbia deciso di fare.
Io, ovviamente, continuo a sperare in un suo ritorno.
E in un'altra disarmante, rivoluzionaria pipebomb.



MrFord



"Look in my eyes, what do you see?
The cult of personality
I know your anger, I know your dreams
I've been everything you want to be."
Living colour - "Cult of personality" - 




martedì 15 luglio 2014

Saloon Mundial: Brasile 2014

La trama (con parole mie): avendolo seguito così da vicino, non potevo salutare il Mondiale appena conclusosi con la vittoria della Germania senza un post che ripercorresse le sue tappe più importanti - o almeno, quelle fondamentali per il sottoscritto -.
E' stata senza dubbio una kermesse combattuta, ricca di sorprese e delusioni, forse la migliore - insieme, per ragioni affettive, a quella del duemilasei - dal novantaquattro a questa parte.
L'appuntamento ora è tra due estati per gli Europei, e in Russia, nel duemiladiciotto.
Nel frattempo, come se fosse un film, ripercorro quello che è stato un mese all'insegna del pallone.







Non posso non cominciare, in questo senso, dalla partita inaugurale, giunta in un giorno lavorativamente molto pesante per il sottoscritto, arrivato a sera con la voglia di rivalsa di ogni outsider che si rispetti.
Purtroppo, i sogni di gloria sono rimasti inespressi - complice anche un arbitraggio più che scandaloso -, e Brasile - Croazia ha rappresentato una delle incazzature più feroci del Mondiale.






Fortunatamente la sofferenza è stata quasi immediatamente mitigata grazie alla debacle della Spagna Campione uscente - in tutti i sensi, di cui parlerò a breve -, in una partita già cult simboleggiata da un gol in pieno stile Holly&Benji di Van Persie, tra i più belli del Mondiale.






Questo torneo, però, è stato senza dubbio quello dei portieri: le emozioni più grandi ed i personaggi più incredibili sono stati quelli tra i pali.
Ochoa, istintivo e decisamente improvvisatore, attualmente senza contratto, è diventato da subito - con il suo Messico - uno degli eroi di casa Ford.
Peccato solo che il cammino dei Sombreros si sia interrotto brutalmente agli ottavi di finale.







La Spagna spocchiosa e radical chic del tiki-taka, invece, con la sua clamorosa eliminazione è stata una delle più grandi gioie del Mondiale. Conferma della maledizione che, dopo Francia '98, ha cominciato a colpire l'edizione successiva tutte le compagini detentrici del titolo.
Cinque pere dall'Olanda, due dal Cile, un'inutile vittoria contro l'Australia.
Roja quasi peggio dell'Italia, che è tutto dire.






Proprio l'Italia, dopo un'incoraggiante vittoria con l'Inghilterra al debutto - e, forse, una fiducia eccessiva nei propri mezzi maturata proprio a seguito di quel risultato - finisce praticamente peggio che nel duemiladieci, per la seconda volta successiva eliminata nella fase a gironi, tra polemiche e poco carattere.
Unico ricordo, il siparietto del morso di Suarez a Chiellini.






Chiuso il discorso gironi, ecco che la Colombia - una delle squadre ad aver espresso il calcio migliore - stende il tappeto rosso della ribalta al suo astro, il mio omonimo James Rodriguez, capocannoniere del torneo ed autore di una delle reti più spettacolari della rassegna, negli ottavi di finale contro l'Uruguay.
Peccato per come sia andata ai quarti, perchè la mia finale da sogno avrebbe avuto da una parte senza dubbio i Cafeteros.






Gli ottavi hanno rappresentato anche la seconda grande incazzatura del sottoscritto rispetto all'evoluzione di quello che pareva il Mondiale delle sorprese che, al contrario, si divertì a ridefinire una geografia molto più consona ai luoghi comuni del calcio. Il Brasile - che pagherà con gli interessi in seguito - supera ai rigori il combattivo Cile che, sul finire del secondo tempo supplementare, colpisce una traversa clamorosa con Pinilla, che finirà per tatuarsi anche l'immagine di quello stesso momento.






Allo stesso modo viene beffata la Svizzera, che vede infrangersi sul palo e con una carambola da fantascienza il sogno di portare ai rigori nientemeno che la celebrata Argentina di Messi - che sconterà anch'ella, pur se in misura minore rispetto al Brasile -.
Va detto che anche l'Algeria, indomita e combattiva, non avrebbe meritato l'uscita. Peccato.
Sogno ancora un Mondiale tutto di outsiders.






Con i quarti, però, la musica cambia, e il dio del calcio pare riconoscere il suo debito rispetto al Saloon e alle maledizioni lanciate nel corso della prima parte del torneo.
Neymar, uno dei giocatori che più detesto nel panorama calcistico, finisce anzitempo la sua avventura a seguito di una frattura ad una vertebra rimediata dopo una ginocchiata del colombiano Zuniga.
Avrei preferito vederlo uscire in lacrime dal campo con le sue gambe dopo una sconfitta, ma me lo sono fatto bastare.














Scrivevo poco sopra che questo è stato, senza dubbio, il Mondiale dei portieri: da Neuer, strepitoso estremo difensore con ambizioni offensive tedesco premiato come il migliore della competizione alla sorpresa felina Navas, capace di portare il Costa Rica quasi in semifinale, fino al personaggio Krul, entrato proprio per l'occasione dei rigori contro gli appena citati centroamericani e protagonista di un duello con i tiratori avversari da urlo.
Spocchioso e con il fare da duro di periferia, il suo incedere verso i malcapitati rigoristi con la mimica che pareva dire "Ma tu davvero vuoi segnare a me?" neanche fossimo in Taxi driver rappresenta una delle immagini più cult del Mondiale.






Con la Colombia, ricorderò anche il Belgio, tra le protagoniste di Brasile 2014: la squadra di Wilmots - grande ex giocatore - ha mostrato bel gioco, talento da vendere, grinta ed un potenziale futuro enorme. Peccato che abbiano pagato - sempre come la Colombia - il prezzo dell'inesperienza nei quarti di finale contro l'Argentina.
Spero davvero si possano rifare tra due anni, all'appuntamento con l'Europeo.










E' con le semifinali, che cominciano ad arrivare le vere soddisfazioni, ripagando tutte le delusioni precedenti: il Brasile, privo di Neymar e Thiago Silva - ma non sarebbe cambiato l'esito dell'incontro, se non nel risultato - subisce un clamoroso sette a uno dalla Germania in semifinale, un evento mai verificatosi nella Storia del Mondiale.
Una debacle clamorosa, che lascia di stucco perfino gli spettatori - come i Ford - che tifavano spudoratamente contro i verdeoro.
Come se non bastasse, nella finalina per il terzo e quarto posto, l'Olanda - eliminata ai rigori dall'Argentina nell'altra semifinale in una delle partite più brutte della rassegna iridata - regala una seconda pettinata a Neymar e soci, chiudendo, di fatto, la loro epoca prima ancora che possa considerarsi iniziata.






La finale è storia recente.
La Germania agguanta il suo quarto titolo raggiungendo l'Italia - che pare, ormai, in un'altra epoca e su un altro pianeta calcistico - grazie ad un progetto tecnico a lungo termine tra i migliori al mondo, con una rosa giovanissima e pronta a dare ancora tantissimo a questo sport, al termine di una delle finali più combattute ed intense tra quelle delle edizioni recenti.
Per quanto mi riguarda, e nonostante l'uscita di scena delle mie favorite - parlo di Algeria, Colombia e Belgio, ma anche dell'Olanda, a conti fatti - questo è stato un Mondiale molto divertente ed emozionante, che mi sono goduto dall'inizio alla fine e che, nonostante il ritorno al grande amore per il Cinema, mancherà davvero al bancone del Saloon.
Ma come tutte le cose, è giusto che si scriva la parola fine e si vada avanti.
In fondo, quattro anni passano più in fretta di quanto si possa pensare.



MrFord


lunedì 14 luglio 2014

Saloon Mundial: Panzer 4x4

La trama (con parole mie): questa sera si è giocata la finale dei Mondiali, che ha chiuso il cerchio su una delle rassegne sportive più seguite del pianeta, nonchè di una delle edizioni della stessa più combattute e sorprendenti - malgrado i nomi altisonanti delle prime quattro classificate -.
E dopo tre appuntamenti giocati da perenne loser, la Germania torna ad alzare la coppa ventiquattro anni dopo l'ultima volta: è la vittoria di un gruppo, di un progetto, dell'applicazione.
E dell'incapacità di Messi e soci di mettere il carattere necessario per fare davvero la differenza.








E alla fine, è andata come speravo andasse.
La Germania di Loew si è finalmente laureata Campione del Mondo battendo un'Argentina mai doma - forse la più vivace del Mondiale - guidata come di consueto da un Messi in preda alle crisi di vomito e fermato dall'incapacità di fare la differenza nel momento decisivo come capitava spesso e volentieri a quello che è considerato il suo predecessore e riferimento, tale Diego Maradona - in questo senso, esemplare il riso isterico del numero dieci dell'Albiceleste una volta fallita la punizione che, di fatto, è stata l'ultima speranza della sua squadra, ben oltre il centoventesimo minuto -.




Va comunque reso l'onore delle armi ad un'Argentina che si gioca ad armi pari con la corazzata tedesca il titolo, che spreca molto - clamoroso l'errore di Higuain nel primo tempo - e viene colpita proprio quando cominciava a diventare opinione comune l'ipotesi dei calci di rigore.
Ha vinto, ad ogni modo, la squadra dal miglior collettivo - non a caso, l'azione decisiva è passata dai piedi di due giocatori entrati dalla panchina - e dal progetto più convincente - escluso Miro Klose, trentaseienne, la rosa tedesca è forse la più giovane, mediamente, della rassegna -, portata al trionfo da un giocatore che non aveva entusiasmato fino a questo momento, ma che, con la sua classe novantadue diviene il simbolo di un rinascimento calcistico del quale, probabilmente, sentiremo ancora parlare.







Lostiani, poi, i numeri.
La Germania, infatti, conquista il quarto Mondiale ventiquattro anni dopo l'ultimo trionfo, che risale all'Italia del millenovecentonovanta delle Notti Magiche - finale vinta ancora contro l'Argentina e ancora per uno a zero -, così come l'Italia lo conquistò proprio in Germania nel duemilasei ventiquattro anni dopo l'ottantadue - che vide gli Azzurri imporsi proprio sui tedeschi -: coincidenze niente male per le due Nazionali lanciate all'inseguimento del Brasile, ancora in testa per quanto riguarda i titoli vinti con cinque vittorie all'attivo.







Senza dubbio, e senza nulla togliere agli sforzi degli argentini - che, comunque, devono ancora maturare parecchio, fatta eccezione per gente con gli attributi come Mascherano -, la Germania ha meritato più di ogni altra di sollevare la coppa, afferrata con carattere, grinta, voglia e talento.
Evidentemente, l'occhio clinico teutonico riesce a fare tesoro delle sconfitte e sfruttare al meglio l'esperienza - dall'edizione del millenovecentocinquantaquattro, la prima vinta dai nostri secondi cugini, non c'è mai stata un'edizione dei Mondiali in cui la loro selezione non sia arrivata almeno ai quarti, dunque tra le prime otto del torneo -, oltre a permettere ai giocatori di scendere in campo con una determinazione assolutamente incrollabile.
Non a caso, sono stati loro i primi europei a sollevare la Coppa del Mondo nel continente americano, così come saranno, in Russia tra quattro anni, con ogni probabilità i primi a sfatare la maledizione delle vincenti che ha colpito tutte le Nazionali vittoriose nell'edizione precedente dal duemiladue ad oggi.






Ma poco importano le speculazioni, ora.
Che giocatori, tifosi e staff si godano i festeggiamenti, e che il Mondiale di calcio - forse l'appuntamento sportivo più seguito al mondo - si concluda come è giusto che sia: con una festa.
Il Saloon, approfittando, alzerà un paio di calici in più in onore dei vincitori.
Senza contare che, stasera, sono proprio quelli che sperava fossero.



MrFord




domenica 13 luglio 2014

Saloon Mundial: samba orange

La trama (con parole mie): ieri sera si è tenuta la "finalina" dei Mondiali, l'inutile consolazione che decide il terzo e quarto posto del torneo. Onestamente sono tra quelli che ritengono questa sfida inutile, buona giusto per giocare una partita in più ed incassare con sponsor e pubblicità, ma in questo caso non posso che essere felice di essermela gustata dal primo all'ultimo minuto.
Perchè ancora una volta, il dio del pallone ha deciso che i carioca padroni di casa dovevano pagare un dazio forse addirittura eccessivo perfino per loro.








Pronti via e subito non ci si crede: complice un clamoroso doppio errore arbitrale -  la punizione con espulsione di Thiago Silva è diventata un rigore con ammonizione dello stesso - l'Olanda piazza il primo gol dopo neppure due minuti, con Van Persie che zittisce le polemiche che hanno circondato gli Orange e la loro unità di squadra dopo la sconfitta ai rigori con l'Argentina.
L'impressione è che si prospetti, per i verdeoro, un'altra ripassata come quella subita contro la Germania in semifinale.
Il mojito che stringo nella destra preparato da Julez - che, per essere praticamente astemia, è un'ottima barwoman - di colpo diventa ancora più buono.







Neanche il tempo di constatare la pochezza del Brasile cui neppure il simbolo Neymar trascinato zoppicante in panchina come un amuleto pare servire, ed ecco che gli arancioni infilano la seconda pera, complice un inguardabile pasticcio della difesa avversaria. Ora, più che un'impressione, arriva la certezza che sarà un match a senso unico e che Thiago Silva e soci dovranno rimboccarsi le maniche per evitare un altro punteggio tennistico.







Vedere l'Olanda dominare la gara quasi completamente - se si esclude Oscar, i carioca praticamente non si vedono - rischiando di andare a segno almeno due o tre altre volte nel corso del primo tempo aumenta purtroppo il rammarico di non aver visto Robben e compagni giocare in questo modo anche contro l'Albiceleste, regalando al sottoscritto la finale europea che sperava di vedere stasera.







Nel secondo tempo la musica non cambia, con il già citato Robben che si tuffa e simula neanche fosse l'altrettanto già citato Neymar ad ogni piè sospinto - forse voleva omaggiare il suo collega grande assente - e le occasioni che piovono addosso agli Orange - anche se, occorre ammetterlo, un paio piuttosto grandi capitano anche sui piedi purtroppo non così brasiliani di questo Brasile -, che concludono la pratica con un gol di Wijnaldum in pieno recupero, giusto per essere, se non spietati quanto i tedeschi, almeno altrettanto sicuri della propria imposizione sugli avversari.






Forse mi sono accanito troppo anch'io, alla fine, su questo Brasile: ho tirato fuori tutte le maledizioni possibili e le ho scagliate - a quanto pare con successo - su Neymar e compagnucci nel corso di tutto il Mondiale.
Ma onestamente, non riesco a non godermela.
Mi sento come la Germania che, anche sul sei o sette a zero, continuava a macinare gioco ed usare la porta di Julio Cesar come un tiro al bersaglio.
L'Olanda, intanto, porta a casa un terzo posto meritatissimo - esce imbattuta dal Mondiale, di fatto, essendo stata eliminata ai rigori in semifinale - e si candida ad essere una delle protagoniste del prossimo Europeo, tra due anni.
Stasera, invece, si giocheranno il tetto del mondo i tedesconi di Loew e gli argentini mosci di Messi.
Inutile aggiungere che la speranza del Saloon è quella di vedere ancora una volta la Vecchia Europa regolare da par suo l'altra scuola più importante del calcio: quella sudamericana.



MrFord




giovedì 10 luglio 2014

Saloon Mundial: dio si è giocato tutte le carte ieri


La trama (con parole mie): archiviata la storica debacle del Brasile nella prima semifinale contro la Germania, Olanda e Argentina si giocano il tutto per tutto in modo da raggiungere gli uomini di Loew al Maracanà, domenica sera.
Ancora una volta, Europa contro Sud America, per una sfida dal sapore antico che fu finale di questo stesso torneo nel millenovecentosettantotto: le compagini guidate da Robben e Messi saranno riuscite ad eguagliare lo spettacolo portato in scena dai teutonici?


Forse il dio del calcio si è reso conto di avermi concesso un pò troppo, con le sette pere rifilate al Brasile dalla Germania.
Anzi, deve essersi perfino spazientito.
Perchè, all'indomani di una delle godurie più clamorose provate di fronte ad una partita di calcio nella mia storia di appassionato di questo sport, non solo l'Olanda - che avrei voluto vedere finalmente trionfatrice del Mondiale - ha detto addio ad ogni sua speranza lasciando campo libero all'abulica Argentina dell'ancor più abulico Messi, ma in campo si è svolta quella che, senza ritegno, è stata la partita inesorabilmente più brutta della competizione dagli ottavi di finale in poi.
Ritmo bassissimo, terrore dilagante, volontà di puntare ai calci di rigore fin dal quinto minuto del primo tempo - non supplementare -, pochissime occasioni, l'Albiceleste in piena siesta pronta ad "affrontare" un'Orange che, spinta dalla vittoria sul Costa Rica, ha pensato di poter replicare il miracolo degli undici metri perfino senza sostituzione del portiere - errore fatale, considerato l'inutile titolare Cillessen, decisamente più bravo con i piedi che con le mani, che tenta anche di mettere paura a Messi imitando la sua decisamente più efficace riserva Krul -.



Peccato, perchè a prescindere dal risultato e dalle mie speranze di una finale tra Germania e Olanda, speravo di poter assistere ad uno spettacolo degno di questo nome, e ad una partita commisurata ai talenti schierati in campo: al contrario, invece, Messi continua a mostrarsi per il fantasma che è - sarà pure un fenomeno, ma è uno dei giocatori più inutili e meno coinvolgenti che abbia mai calcato il terreno di gioco - facendo rimpiangere Di Maria, Higuain è spuntato mentre Aguero e Palacio impalpabili, e dall'altra parte un Robben supponente guida un inutile Van Persie ed un nervosissimo Sneijder - si capiva lontano un miglio che avrebbe fallito il suo tiro dal dischetto - alla sconfitta inevitabile.
Per fortuna che il geniale Van Gaal aveva dichiarato alla stampa che i genitori olandesi avrebbero dovuto tenere svegli i bambini nonostante l'ora tarda in attesa di uno spettacolo che non è mai arrivato.


A questo punto, sabato sera si giocherà la "finalina" di consolazione, che spero l'Olanda vincerà rifacendosi sul Brasile di quello che non ha combinato questa sera.
Mentre domenica, in uno degli stadi più famosi della Storia del calcio, si replicherà quella che è stata la finale di Messico '86 e Italia '90: Argentina - Germania.
Ai tempi, si imposero prima Maradona e compagni e dunque i panzer guidati dal trio interista Matthaus - Brehme - Klinsmann.
Si potrebbe quasi dire che si tratta di una vera e propria bella.
La terza coppa per l'Argentina - che raggiungerebbe proprio i trionfi tedeschi - o la quarta dei nostri vicini, che ci agguanterebbero dietro al Brasile.
Per come stanno le cose ora, pare non ci sarà partita.
I ragazzi di Loew paiono decisamente di un altro pianeta.
Ma il calcio è strano, e non è detto che accada il contrario.
Da parte mia, il Saloon, domenica notte, sarà tutto per la vecchia Europa.



MrFord



mercoledì 9 luglio 2014

Saloon Mundial: dio esiste. Ed è tedesco.


La trama (con parole mie): è appena finita la prima delle due semifinali dei Mondiali. E devo dire che il dio del calcio mi ha ripagato - e con gli interessi - per tutte le delusioni ed i bocconi amari ingoiati fino ad ora in questo Mondiale.
Vaja con dios, Selecao.
E soprattutto, scordati la sesta coppa.


Lo so, pare quasi brutto godersela tanto per una sconfitta storica, clamorosa, enorme.
E che avrebbe addirittura potuto essere ancora più disastrosa.
Ma davvero non ce la faccio.
Questo Brasile, dopo gli aiuti arbitrali, il finto buonismo da primi della classe e primi all'oratorio, il sogno di una finale tutta da giocare in casa con l'Argentina, le pose ed i cuoricini come esultanze, paga il suo debito rispetto al destino che fin dall'esordio Mondiale si era accumulato.



La Germania, del resto, è una vera corazzata.
Non una Colombia dal bel gioco ma dalla scarsa esperienza, non un Cile sgambettato dalla sfortuna, non un'Italia che non si sogna di lottare su ogni pallone come i teutonici, neppure sullo zero a zero.
E proprio la Germania ha svegliato ben sette volte un'intera popolazione da un sogno troppo grande per la pochezza della Nazionale che lo rappresenta.
Senza dubbio le assenze di Neymar e soprattutto Thiago Silva hanno pesato, ma non credo che il risultato finale - se non nel numero - sarebbe cambiato.


E ha ragione Neuer - portiere straordinario - ad incazzarsi per quel gol di Oscar al novantesimo.
Perchè il Brasile non lo ha meritato. Neanche per sbaglio.
Decisamente meno del mancato numero otto di Ozil pochi istanti prima.
Poco importa, comunque.


Applausi a Loew, che con una classe da signore compie un'altra impresa.
Al collettivo tedesco, sempre da ammirare.
A quelli come Khedira, che lottano su ogni pallone anche sul cinque a zero come se dovessero recuperare un gol all'ultimo secondo.
A Miro Klose, il miglior marcatore di sempre nella Storia dei Mondiali.
A questo roboante sette a uno, e alla finale che, domenica, la Germania giocherà per l'ottava volta nella sua storia.


E, perchè no, anche al Brasile.
Non è facile, uscire di scena dopo una serata come questa.
Nonostante non riesca davvero a contenere o nascondere una goduriosa soddisfazione.



MrFord




domenica 6 luglio 2014

Saloon Mundial: la grande illusione parte seconda

La trama (con parole mie): seconda giornata dei quarti di finale destinati a consegnare alla Storia le ultime squadre ad entrare nel ristrettissimo circolo che porterà alla designazione del titolo mondiale.
Tre settimane or sono erano in trentadue, oggi restano in quattro.
Sarà ancora una volta stato il torneo delle sorprese o quello dichiarato dalla fama che precede i team protagonisti?
Solo ai posteri l'ardua sentenza.






E così, nonostante tutte le mie speranze, l'ideale coltivato di vedere Colombia e Belgio affrontarsi per il titolo più importante del mondo del calcio è tramontato miseramente.
Complice un inizio degno di quello dei Cafeteros nella sfida con il Brasile, la squadra europea si inchina ad un colpo fulminante di Higuain, che apre la strada delle best four a Messi e soci a ventiquattro anni di distanza dall'ultima volta - era il millenovecentonovanta di Maradona e della dolorosissima eliminazione dell'Italia in semifinale ai calci di rigore -: peccato, perchè i Diavoli rossi hanno mostrato carattere da vendere e freschezza, mentre il calcio continua a preferire seguire binari più classici.









A fare da specchio alla sfida tra Brasile e Germania, infatti, troveremo Argentina - Olanda.
Quasi a dire Vecchio Continente contro Nuovo.
E le due scuole calcio più importanti del mondo ancora a confronto.
La favola del Costa Rica, comunque, vende cara la pelle, e solo i tiri dal dischetto portano gli Orange per la seconda volta consecutiva in semifinale: grande protagonista è il portiere di riserva Krul, mandato in campo ad una manciata di secondi dalla fine dei supplementari proprio in vista della lotteria più nota del mondo del pallone ed in grado di parare due tiri su quattro ai giocatori avversari, sfruttando una tattica perfetta che ha unito psicologia ad agonismo sfrenato.
Il Mondiale delle sorprese, dunque, si è tramutato in qualcosa di molto, molto più scritto senza per questo rinunciare alle emozioni che uno sport a tratti esageratamente ricco e famoso è in grado di regalare al suo pubblico in barba alla forma e alle regole del mercato.
Ora ci aspettano quarantotto ore di tregua, ma martedì e mercoledì il confronto tra le due sponde dell'Atlantico si prospetta essere molto più caldo di quanto le onde vorrebbero.



MrFord




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