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sabato 16 agosto 2014

CM Punk - Best in the world

Regia: Kevin Dunn
Origine: USA
Anno: 2012
Durata: 109'




La trama (con parole mie): all'apice della sua carriera in WWE, l'allora campione assoluto CM Punk - il più longevo con la cintura alla vita degli ultimi venticinque anni con quattrocentotrentaquattro giorni di regno titolato - è omaggiato dalla Federazione con un documentario che ripercorre le tappe fondamentali del suo percorso, dagli esordi con una promotion "fatta in casa" sul retro di un cortile a Chicago ai palcoscenici più prestigiosi delle indies come la Ring of honor, fino ad arrivare alla corte più importante del wrestling professionistico, quella di Vince McMahon, patendo e sudando fino a conquistare perfino una sfida apparentemente impossibile.
Punk rock e filosofia straight edge, un atteggiamento arrogante ed una dedizione totale, grande tecnica ed un'abilità al microfono degna dei migliori di tutti i tempi: questo è il "best in the world".
Questo è CM Punk.






E' ormai nota a tutti gli avventori abituali del Saloon - ed anche a quelli non abituali - la mia grandissima passione per il wrestling, spettacolare circo dell'intrattenimento made in USA che seguo fin da quando ero bambino.
Negli anni questa curiosa disciplina che la maggior parte continua a considerare "finta" - e vi assicuro, avendolo provato sulla pelle, che finta è soltanto nella predeterminazione dei risultati - è sempre riuscita a conquistarmi, eppure i lottatori in grado di emozionarmi davvero, di lasciare che tutto fosse alle spalle e tornasse come quando, da bambino, vivevo questi scontri come fossero battaglie di eroi dei fumetti, si contano sulle dita di una mano: Ultimate Warrior, Ric Flair, Shawn Michaels. E CM Punk.
Phil Brooks - questo il suo nome di battesimo -, nato a Chicago nel settantotto - solo un anno avanti al sottoscritto - alla fine di ottobre - scorpione fatto e finito come il sottoscritto -, mi colpì fin dal suo esordio televisivo sotto l'egida a volte scomoda di Vince McMahon: l'approccio, i tatuaggi, qualcosa nel modo di fare riuscirono a rendermelo più vicino di quanto non fossero molti altri, e nonostante il suo essere straight edge lo renda, di fatto, quanto di più lontano possibile esista da questo vecchio cowboy - dedito ad alcool, istinto e carne come se non ci fosse un domani -, l'abilità di questo ragazzo ed il suo essere costantemente l'underdog della situazione - anche nei periodi trascorsi come campione - lo resero immediatamente un mio beniamino.
Questo documentario - parte di un'uscita in dvd e bluray a dischi multipli corredata dagli incontri più importanti combattuti dagli anni delle indies fino alla WWE -, risulta senza dubbio essere interessante dal punto di vista di ogni appassionato di sport entertainment e fan di CM Punk, dalla sua adolescenza a Chicago ai palcoscenici internazionali del wrestling, passando attraverso gli incontri, le rivalità ed i momenti più importanti nella vita dell'allora campione della federazione più importante del mondo di questa disciplina: peccato che, almeno in una certa misura, il tutto funzioni fin troppo nel classico WWE Style che punta allo sfruttamento assoluto e sotto ogni aspetto dei suoi campioni più amati e riconosciuti, cerchia ristrettissima alla quale Punk riuscì a legarsi grazie ad uno dei momenti più importanti della Storia dello sport entertainment, il fantastico promo che realizzò in chiusura della puntata di Raw del ventisette giugno duemilaundici, quando lo stesso Punk pensava di essere ormai in piena rottura con Vince e soci ed in odore di rilascio alla scadenza del contratto.
Al contrario, quello stesso momento cambiò di fatto e per sempre la carriera dell'outsider di Chicago, passato di colpo dall'essere il ragazzo problematico e talento sprecato del backstage all'uomo di punta, complice un feud ed un incontro spettacolare che lo vide opposto a John Cena nel luglio di quello stesso anno, tra i migliori che la WWE abbia proposto in tutta la sua lunga storia.
Eppure l'idea che il tutto suoni come un pò troppo pilotato resta, e da fan accanito di questo scomodo personaggio - perchè, senza dubbio, scomodo è - non posso che rimanere almeno parzialmente deluso da quello che appare come un viaggio con il freno a mano tirato, per evitare che altre "pipebombs" potessero esplodere in faccia a Vince e famiglia.
Il rammarico più grande, però, cresciuto con la visione di questo documentario, è quello di aver visto, all'inizio di quest'anno, CM Punk abbandonare la WWE sbattendo la porta, compromettendo, di fatto, la propria professionalità, a seguito dell'ennesima delusione maturata rispetto alle alte sfere della stessa: ad inizio visione, infatti, è lo stesso Punk a dichiarare "è difficile poter cambiare davvero le cose seduto sul mio divano, a Chicago".
E invece, è proprio quello che questa volta pare che il buon Brooks abbia deciso di fare.
Io, ovviamente, continuo a sperare in un suo ritorno.
E in un'altra disarmante, rivoluzionaria pipebomb.



MrFord



"Look in my eyes, what do you see?
The cult of personality
I know your anger, I know your dreams
I've been everything you want to be."
Living colour - "Cult of personality" - 




sabato 14 giugno 2014

Uruguay - Costarica

La trama (con parole mie): e in una terza giornata di Mondiale quasi solo di attesa rispetto alla partita dell'Italia, mentre la Colombia passeggia sulla Grecia, arriva una sorpresa che pare esaudire i miei desideri del primo giorno post Brasile-Croazia.
E tra neppure mezzora tocca a noi. Chissà cosa riusciremo a combinare.




E così l'Uruguay delle stelle Cavani e Suarez, quarto nel duemiladieci e principale favorito del nostro girone, sorprende in negativo quanto la Spagna facendosi rifilare tre pere dagli allegri e veloci amici del Costarica, che tra qualche giorno potrebbero giocare un tiro mancino anche a noi.
Personalmente, sono felice come un bambino: quello che era iniziato come un Mondiale costruito ad uso e consumo dei favoriti, nel giro di un paio di giorni sta diventando quello delle sorprese e dei Goonies.
Bene, bene così.
Ora resta da vedere se e in che misura la Nostra Nazionale regalerà emozioni al suo primo match, nella speranza che tutto possa risolversi con novanta minuti di passione, invece che con la noia delle telenovelas del campo di Manaus e del forfait di Buffon.
Sono al mio nono Mondiale da spettatore, il settimo che possa ricordare davvero - Spagna '82 e Messico '86 sono avvolti dalla nebbia -, e devo ammettere che, nonostante tutto, l'esordio dell'Italia regala sempre un brivido da "notti magiche".
O meglio, è come se la kermesse calcistica più importante del mondo avesse un secondo inizio coincidente con la partita numero uno degli Azzurri.
E noi siamo qui, pronti a soffrire e lottare, come sempre.
Sperando che la scorta di figuracce, per il momento, si sia esaurita con Spagna e Uruguay.



MrFord






sabato 9 novembre 2013

Il collare di fuoco

Autore: Valerio Evangelisti
Origine: Italia
Anno:
2005
Editore: Mondadori




La trama (con parole mie): il Messico della Frontiera, dei colpi di stato, delle rivolte contadine ed operaie, delle schermaglie con gli USA appena usciti dalla Guerra di Secessione e con l'Europa del colonialismo raccontato attraverso un mosaico che incastra personaggi di fiction ed accadimenti reali dal 1869 al 1890, con il trionfo di Porfirio Diaz ed un regime mascherato da repubblica.
Vedove, soldati, braccianti, bandoleros, ribelli ed avventurieri incrociano vite, morti, amori e vendette che furono le fondamenta di uno degli Stati più ribollenti del Continente americano: politica ed assassinii, ideali e vita vissuta, la sottile linea che corre tra il sogno di uno stato sociale basato sull'eguaglianza e gli interessi economici della classe dirigente.




Per chi non fosse stato presente ai tempi, ricordo quanto il Messico ed uno dei romanzi di riferimento legato ai suoi certo non tranquilli rapporti con gli States - il Capolavoro Il potere del cane firmato da Don Winslow - ha finito, negli anni, per diventare uno dei pilastri letterari del Saloon, in bilico tra le atmosfere western ed il concetto di Frontiera, più che caro a questo vecchio cowboy.
Nello stesso periodo che vide esplodere la passione del sottoscritto per la saga di Hap e Leonard e per l'appena citato caposaldo di Winslow, Julez, in vista delle vacanze estive, decise di scommettere su Valerio Evangelisti e due titoli che rivelarono di fatto il talento dello scrittore bolognese anche al di fuori delle vicende legate alla figura dell'inquisitore Eymerich, suo charachter più noto: Il collare di fuoco ed il successivo Il collare spezzato - che senza dubbio in futuro farà capolino tra queste pagine -.
Il recupero del primo di questi due titoli è avvenuto soltanto quest'anno, ed è stato senza dubbio di quelli da ricordare: Evangelisti, mescolando abilmente avvenimenti realmente accaduti e legati a doppio filo alla Guerra di Secessione ed alle numerose rivolte sorte in Messico negli anni che videro passare lo scettro del potere da Juarez all'Imperatore Massimiliano, fino a Porfirio Diaz a personaggi di fiction racconta infatti l'evoluzione di un Paese lacerato nel profondo da un eccesso di passione ed ingordigia che coinvolge ogni strato sociale, e che dai sogni di uguaglianza e libertà di contadini ed operai contrappone i giochi di potere di statisti, rivoluzionari, nobili o aspiranti tali.
E dallo spietato Big Bill Henry, prima ranger e dunque sicario - affascinante il suo soprannome, El Cola, ed agghiaccianti le sue esecuzioni, neanche fossimo proiettati al Messico del traffico di droga di un secolo dopo - all'opportunista e meschina vedova Gillespie dunque Marchesa San Ramon, il lettore si trova travolto da una galleria di personaggi assolutamente imperfetti eppure inesorabilmente umani, pronti a crescere, evolvere, redimersi o sprofondare proprio come tutti noi, cercando di sopravvivere quanto e più a lungo possibile.
Pagine dedicate, dunque, alla bellezza mozzafiato del paesaggio o all'amore e alla Famiglia si mescolano con le fotografie di massacri e violenze indicibili  perpetrate nel nome di un qualche ideale usato come specchietto per le allodole, o come scusa per poter liberare la propria vera Natura.
Un romanzo fiume, impegnativo ed intenso, che richiede tutta l'attenzione del lettore travolto da riferimenti, nomi, date e circostanze, gestito alla grande da Evangelisti - che dimostra di avere il passo ed il respiro dei grandi narratori internazionali -, che approfitta con intelligenza degli stacchi - anche temporali - che separano i singoli capitoli per raccontare in poche righe del destino di charachters fino a quel momento creduti fondamentali, ed al contrario travolti dalla corrente della vita in modo clamorosamente simile a quello che, effettivamente, accade quando uomini e donne semplici si trovano al cospetto della Storia.
Una cavalcata, dunque, che forse risulterà ardua per chi non è avvezzo ai paesaggi e alle prospettive della Frontiera, ma che mostra con grande trasporto il motore vero dell'evoluzione umana: la passione.
Sia essa votata al Bene o al Male, alla sopravvivenza o all'affermazione, al Potere o alla Libertà.


MrFord


"Que dificil cantarle a tierra madre
que nos aguanta y nos vio crecer
y a los padres de tus padres
y a tus hijos los que vendrán despues."
Macaco - "Mama tierra" -


venerdì 27 settembre 2013

Passion

Regia: Brian De Palma
Origine: Germania, Francia, USA
Anno:
2012
Durata:
102'




La trama (con parole mie): Christine Stanford, direttrice di un'agenzia pubblicitaria a Berlino, è una donna abituata a gestire il potere ed esercitarlo, così come ad avere tutti - in ufficio come nel letto - ai suoi ordini. Isabelle James è il talento più cristallino del suo team, una ragazza che Christine traduce in un'occasione di carriera così come in una sorta di giocattolo e sogno erotico idealizzato.
Quando quelli che apparentemente paiono normali conflitti lavorativi finiscono per trasformarsi in ossessioni e vendette, tra le due donne si innescherà un meccanismo mortale pronto ad oliarsi con il sangue di un omicidio apparentemente perfetto.
Ma le cose sono davvero come sembrano? O qualcuno, dietro le quinte, ha finito per manovrare anche chi pensava di essere regista di una vicenda pronta a concludersi con un finale senza sbavature?




Occorre ammettere che, nonostante il tempo che passa ed una distribuzione non più in grado - o disposta - a supportarlo come meriterebbe, Brian De Palma continua a difendersi decisamente meglio di molti suoi anche più illustri colleghi, dedicandosi alla realizzazione e messa in scena di pellicole che è evidente quanto finisca per amare senza tradire in alcun modo quella che, di fatto, è la sua poetica voyeuristica ed elegante fin dalle prime affermazioni di una lunga carriera.
Partendo da Crime d'amour di Alain Corneau, infatti, il regista di Newark porta sullo schermo una perfetta storia in piena De Palma's Way, circondando i consueti preziosismi tecnici con una cornice che ricorda i thriller di matrice hitchcockiana - del resto, il vecchio Hitch resta il Maestro ed il riferimento assoluto del buon Brian -, affiancando due protagoniste diversissime tra loro eppure insolitamente funzionali - non amo particolarmente Noomi Rapace, così come Rachel McAdams - e costruendo un crescendo di tensione e twist in grado di avvincere - seppur non convincendo fino in fondo - il pubblico dal primo all'ultimo minuto come di recente era stato in grado di fare Soderbergh con il suo Effetti collaterali, che in qualche modo ho trovato associabile - e non solo per genere - a questo Passion.
Dunque, ad un'algida fotografia e passaggi d'alta scuola - le riprese del finale, lo splendido split screen affiancato al piano sequenza di poco precedente alla scena dell'omicidio - vediamo svilupparsi temi attuali ed importanti come le molestie sul posto di lavoro - siano esse sessuali o no -, una critica feroce all'Uomo come predatore senza morale ed un deciso sguardo all'anima nera che guida la nostra mano - e non solo quella - quando all'istinto di sopravvivenza si mescola il desiderio di qualcosa, o qualcuno.
In questo senso, interessante notare come nessuno tra i protagonisti esca completamente pulito dalla vicenda, che spesso e volentieri pare quasi un complicato gioco delle parti all'interno del quale, inesorabilmente, tutti e senza complimenti lavorano in modo da colpire alle spalle chi sta loro attorno principalmente per un rendiconto personale, sia esso legato al denaro, alla carriera o al desiderio sessuale - anche perchè, di sentimenti, malgrado le complesse psicologie di Christine, Isabelle e Dani, pare davvero arduo parlare -, e che perfino nella figura dell'ispettore di polizia innamorato segretamente della sospettata principale trovano la conferma della debolezza e dell'oscurità che in quanto esseri umani portiamo in dote al mondo.
Certo, non stiamo comunque parlando del miglior lavoro del regista - i gloriosi anni ottanta e l'ironia nerissima di Omicidio a luci rosse sono purtroppo ormai lontani - ed alcuni snodi della sceneggiatura paiono a tratti troppo facili - l'escalation giudiziaria a seguito dell'omicidio e la chiusura "onirica" su tutti -, eppure il piacere di osservare un grande al lavoro resta, anche perchè l'amore che De Palma continua a nutrire per Hitchcock traspare senza spocchia alcuna da ogni fotogramma, e se il risultato resta pur sempre quello di un epigono - di classe, ma un epigono - incapace di raggiungere le vette dell'originale, il piacere si sente, negli occhi come sulla pelle.
A Brian De Palma continua, dopo decenni di onorata carriera, a non mancare la "passione".
E fortunatamente, noi amanti del Cinema siamo sempre qui, pronti a prenderci un pezzo in più di questo stesso torbido, sanguigno, travolgente istinto.


MrFord


"In the bars and the cafes, passion
in the streets and the alleys, passion
a lot of pretending, passion
everybody searching, passion."
Rod Stewart - "Passion" - 


giovedì 27 dicembre 2012

Ford Awards 2012


La trama (con parole mie): con l'avvicinarsi della conclusione di questo duemiladodici e la fine del mondo scongiurata, si prospettano giorni di bilanci e classifiche come di consueto per questo periodo dell'anno.
Videogiochi, libri, serie tv, film non distribuiti in Italia e film usciti nel corso di questa stagione, senza dimenticare, ovviamente, il peggio della settima arte: chi la spunterà a questo giro?
Nei prossimi giorni tutte le risposte. Restate sintonizzati!



Tradizione ormai radicata del Saloon da contrapporsi alle numerose iniziative analoghe del mio eterno rivale Cannibale, siamo giunti ai nastri di partenza per le tanto attese - se così si può dire - classifiche di fine anno pronte ad esplorare tutti i campi in cui il vecchio cowboy è abituato a muoversi ed esplorare: post dopo post, settimana dopo settimana, mese dopo mese, abbiamo cavalcato fino a questo punto, ed ora siamo pronti ad affrontare i verdetti del sottoscritto rispetto agli ultimi dodici mesi di visioni e non solo.
Ovviamente, ogni giro di giostra sarà una scusa per chiacchierare e discutere un pò, ed ovviamente bere tutti insieme.


MrFord


"I've paid my dues -
time after time -
I've done my sentence
but committed no crime -
and bad mistakes
I've made a few
I've had my share of sand kicked in my face -
but I've come through."
Queen - "We are the champions" -


sabato 4 agosto 2012

The big year - Un anno da leoni

Regia: David Frankel
Origine: Usa
Anno: 2011
Durata: 100'




La trama (con parole mie): ogni anno gli appassionati di birdwatching degli States si concentrano su quella che è la loro più importante sfida e competizione, la Grande Annata.
Basandosi sulla fiducia e sulla parola senza una documentazione obbligatoria gli osservatori, viaggiando da una parte all'altra degli Usa, collezionano avvistamenti delle più disparate specie di pennuti segnalandole agli organi ufficiali in modo che possa essere così redatta una classifica finale.
Il vincitore della gara sarà l'osservatore con il numero più elevato di avvistamenti contati.
Kenny Bostick, ossessionato e decisamente borioso detentore del record - con più di settecento specie in lista -, decide di ritentare l'impresa compiuta qualche anno prima ovviamente senza dichiarare il suo interesse nella competizione.
Stu Preissler, capitano d'industria fresco di pensione, si imbarca nella Grande Annata ed in quello che, di fatto, è il sogno della sua vita da tanto, troppo tempo, cercando di lasciarsi alle spalle il lavoro.
Brad Harris, che del birdwatching ha fatto una passione nonostante il lavoro full time ed un rapporto non semplice con il padre, investirà risparmi ed energie cercando di battere il record apparentemente inarrivabile di Bostick.
Al termine della competizione tutti e tre avranno guadagnato o perso qualcosa.





Da tempo, ormai, si combatte contro i mulini a vento di una distribuzione italiana completamente scriteriata nell'assegnare titoli in grado di fuorviare il pubblico minando la credibilità di film che potrebbero, al contrario, risultare interessanti: Un anno da leoni è soltanto l'ultima di una lunga serie di vittime che, a causa dei suddetti adattamenti, hanno rischiato di passare completamente inosservate in casa Ford, un pò come capitò con Se mi lasci ti cancello, Quando l'amore brucia l'anima o Strafumati - per citare solo alcuni esempi a dir poco eclatanti -.
Fortunatamente per il sottoscritto, la consueta rubrica sulle uscite settimanali che condivido con quello scellerato del mio antagonista Cannibale ha portato alla visione del trailer di The big year, con conseguente curiosità rispetto a ciò che un regista avrebbe potuto tirare fuori da quello che è notoriamente uno degli argomenti più noiosi del mondo per i non appassionati: il birdwatching.
E qui, dopo l'agghiacciante titolo italiano, c'è stata la seconda sorpresa: perchè nonostante la presenza di Jack Black, Steve Martin e Owen Wilson e l'aria da commedia leggera, il lavoro di David Frankel - che firmò Il diavolo veste Prada ed il sottovalutato e da me decisamente gradito Io e Marley - ha più lo spirito della malinconia agrodolce tipico del Sundance, e gioca le sue carte migliori raccontando, di fatto, la storia di tre passioni - e tre solitudini - profondamente diverse tra loro ma che hanno nel birdwatching lo stesso canale di sfogo.
Interessante, in questo senso, il piglio di regista e sceneggiatori rispetto ai protagonisti, descritti con grande equilibrio e mostrati nei loro lati migliori e peggiori con un'affezione insolita, quasi più simile a quella di un romanzo che non al classico lungometraggio senza impegno che si pensa di incontrare nove volte su dieci in sala in questo periodo dell'anno.
Ma oltre alla cura sentimentale dei protagonisti, Frankel e i suoi confezionano un'opera decisamente più che discreta anche rispetto alle ambientazioni - varie e ben fotografate, ottime le sequenze in Alaska - senza mai risultare spocchiosi - del resto, le premesse potevano esserci senza neppure troppa fatica - o tremendamente noiosi - il birdwatching, almeno sulla carta, non pare essere qualcosa in grado di tenere inchiodati alla poltrona per la tensione, per intenderci -: al contrario, invece, The big year riesce a mostrare il lato passionale e decisamente "adrenalinico" di questo curioso passatempo mostrandone anche l'aspetto più antico ed "onorato" - clamoroso, in un'epoca segnata da illeciti sportivi di tutti i generi, che possa esistere una competizione basata tutta sulla parola data, senza obbligo di prove certe degli avvistamenti -, fungendo al contempo da terreno di crescita per i suoi tre curiosi paladini.
Così, mentre Bostick conserverà l'enigmatico approccio in bilico tra l'egoista approfittatore e borioso e l'appasionato all'ultimo stadio disposto a sacrificare tutto - ma proprio tutto - per raggiungere la meta, Preissler sarà in grado di riscoprire la gioia di una vita che gli ha dato ogni cosa - fortuna negli affari, ricchezza, una famiglia numerosa - ma solo in cambio del sacrificio di ogni briciolo del tempo da dedicare ai propri reali interessi, mentre Harris vivrà un nuovo e decisivo confronto con il padre - perfetto il momento nella foresta che vede per la prima volta il genitore prendere coscienza della passione e del talento del figlio - riscoprendosi vincente nonostante premesse assolutamente opposte - trentasei anni, divorziato, tornato sotto il tetto di mamma e papà, legato ad un lavoro che non sarà mai quello della vita -.
Tre realtà differenti per tre crescite differenti eppure ugualmente intense e funzionali, pronte a giocarsi le preferenze del pubblico e la vittoria finale con la consapevolezza di chi, in cuor suo, già sa che potrebbe esserci qualcosa di molto, molto più grande in palio, che non il titolo di miglior birdwatcher degli Usa.
Una quasi fiaba sentimentale ed intelligente, un film onesto e semplice di quelli che si torna sempre volentieri a vedere, un pò come fossero dei vecchi amici, forse troppo lineare per i palati più fini dei circoli radical chic eppure assolutamente efficace e ben più profondo di quanto non si sarebbe portati a credere.
Un film per sognatori, di quelli che da bambini sperano, in cuor loro, di trovare un bel paio d'ali grazie alle quali prendere il volo e sentirsi liberi.
Ma anche per tornare a casa e riscoprire il piacere di essere se stessi.


MrFord


"Like a bird on the wire,
like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.
Like a worm on a hook,
like a knight from some old fashioned book
I have saved all my ribbons for thee."
Leonard Cohen - "Bird on a wire" -



 

venerdì 22 giugno 2012

Sotto il vulcano

Autore: Malcolm Lawry
Origine: Uk
Editore: Feltrinelli
Anno: 1947




La trama (con parole mie):  è il 2 novembre 1938, e siamo nel cuore del Messico delle rivoluzioni, delle feste dei morti, dei campesinos e degli europei in esilio o esplorazione.
Geoffrey Firmin, console britannico dedito all'alcool ritrova la compagna Yvonne, partita con l'intenzione di lasciarlo tempo prima e tornata per salvare il loro matrimonio.
Ad accompagnarli in una giornata filtrata da bevute, corride, silenzi della Natura e caotiche spirali tutte figlie dell'Uomo, il fratello del console Hugh, giunto dagli Stati Uniti: il loro viaggio alla scoperta della geografia fatta di visioni e solitudini che si sviluppa sotto i vulcani messicani diviene un'epopea di ricordi e speranze che si mescolano incessantemente, una disperata dichiarazione d'amore ed una lettera d'addio intrisa di passione, sudore e lacrime.




Esistono romanzi che si guadagnano la loro lettura, un pò come a volte capita con film così impegnativi da apparire, più che visioni, imprese eroiche dello spettatore: in questo senso, mi torna sempre alla mente il meraviglioso L'infanzia di Ivan di Tarkovskij, novanta minuti scarsi, che ad ognuna delle quattro visioni che gli ho concesso nel corso della mia vita è riuscito a dilatare il tempo apparendomi più o meno come avesse lo stesso minutaggio di Via col vento.
Sotto il vulcano, uno dei romanzi cult più ammirato ed incensato della letteratura inglese del novecento, è diventato per il sottoscritto un caso molto simile a quello del film del regista russo: quattrocento pagine così dense ed apparentemente sconnesse da farmi ricordare Dostoevskij come se fosse più o meno un autore per bambini, in grado di spezzare il ritmo di lettura quanto e più di romanzi densi come petrolio come Suttree del mio adorato Cormac McCarthy.
Dall'altra parte, però, è impossibile non riconoscere i lampi di genio assoluti che Lawry è in grado di regalare quasi celandoli tra una visione e l'altra dei suoi tre protagonisti: le lettere di Yvonne, la corrida ed il mescolarsi di presente e passato, le vite di Geoffrey, Hugh e della stessa Yvonne, la geografia di un piccolo paesino dell'entroterra messicano che diviene passo passo un personaggio vivo e presente, vero e proprio collante del romanzo, lasciano ammirati per la loro sconvolgente bellezza, ed una padronanza del mezzo letterario gigantesca pur se a tratti persa in un flusso di coscienza che pare incontrollato ed incontrollabile.
In questo senso, Lawry è riuscito nell'impresa di scrivere il romanzo perfetto per interpretare la sbronza nel senso più filosofico del termine, e nessuno che non abbia mai provato l'ebbrezza della progressiva perdita di coscienza legata all'alcool riuscirà mai a lasciarsi andare ad un'opera come questa, se non associandola ad una sorta di capogiro in loop: Geoffrey ed il suo peregrinare fatto di anis, tequila e mescal, il mondo che pare scomparire e rinascere, dettagli apparentemente insignificanti che divengono d'improvviso il fulcro per viaggi in altri luoghi, ritratti di persone che paiono vivere, esistere ed avere un senso soltanto lungo quel confine invisibile che divide la sbronza dalla lucidità, il mondo di chi conosce questo lato oscuro e seducente, i suoi demoni e le sue fate e di chi, invece, come in attesa su una banchina, vede allontanarsi i figli di questa mitologia apparentemente inspiegabile senza cogliere il senso del loro abbandonarsi ad una corrente magica e terribile, in grado di mostrare il peggio ed il meglio di chi si disseta con il suo nettare, concedere la forza per andare oltre ogni confine o stroncare ogni resistenza, e non lasciare altro che ceneri.
Proprio come un vulcano, che esplode in tutta la sua potenza senza curarsi di quello che distrugge attorno.
E nell'attimo che precede l'eruzione, ci si trova come ipnotizzati da una sorta di bellezza ancestrale, incapaci di muoversi, ad attendere che la lava spazzi via tutto quello che incontra, lasciando che restino ricordi cristallizzati sotto la crosta di una ferita troppo profonda: sotto il vulcano si muore, per l'appunto.
Eppure, nella cronaca struggente di quest'epopea malinconica, nella storia destinata a finire di Geoffrey e Yvonne, nelle gesta sempre troppo lontane di Hugh, c'è tutta la meraviglia di una vita vissuta fino all'ultimo goccio di ogni dannata bottiglia, a scoprire un mondo che, forse, deve soltanto essere imbrigliato come un puledro impazzito in un rodeo, o mostrato anche nelle sfumature che possono fare paura a tutti quelli abituati a salutare nel momento di una partenza, senza mai pensare che, in realtà, il viaggio potrebbe coinvolgere anche loro.
Questa è la magia clamorosa di questo romanzo, che andrebbe gettato nel fuoco o abbandonato come quando, nel pieno dell'hangover, si giura che non si berrà mai più, e ripreso la volta successiva, riscoperto, riletto, riassorbito, assaporato anche una pagina alla volta, senza badare troppo ai numeri o al resto delle nostre esperienze di lettori.
Questo è il potere di una delle forze più grandi della Natura, che libera il suo fuoco direttamente dal cuore della Terra, e lo fa esplodere nel cielo affinchè cambino - almeno fino al giorno dopo - tutte le nostre geometrie astronomiche, di mente e di cuore.
Questo è stare sotto il vulcano.
Vivere, farsi male, prendere tutto quello che si può, perderlo, e poi tornare a vivere di nuovo.
Fino a morire di quella stessa vita.
E a volte, chissà, potrà anche capitare di portare così tanto fuoco dentro da sentirsi così in alto da non vedere alcuna banchina, e avere attorno solo cielo e sogni, come se la lava non potesse toccarci.
Prima di tornare al nostro piccolo posto di comuni marinai mortali.
Sotto il vulcano.
Che è dove voglio essere, voglio stare, voglio vivere, voglio morire.
Cheers, Mr. Lawry.
Hai tu l'onore del bicchiere della staffa.


Dedico questo post a mio fratello Dario, cui devo la scoperta di questa incredibile esperienza.
Io e te, brotha, sotto e sopra il vulcano. Sempre.


MrFord


"Flew into existence, just a sweet bird of youth.
hugged my friends on the pavement,
hid my dreams on the roof.
wrapped in a blanket from the national health.
It isn't money but then what is wealth?"
Pretty things - "Under the volcano" -



sabato 2 giugno 2012

The Italian Experience

La trama (con parole mie): questa volta niente Cinema, o Musica, o Letteratura. Solo un'iniziativa interessante che mi ha coinvolto.
Una specie di riconoscimento per questo saloon impolverato e non sempre perfetto che ospita il più possibile la benzina più importante del mondo: la vita.



Lavazza, che è nota per il caffè, in realtà ha anche un gran bel portale che pubblicizza cose interessanti che si cercano di produrre qui nel pieno della Terra dei cachi.
Ho avuto il piacere di essere contattato per parlare proprio di questo spazio che si consuma tra un bicchiere e l'altro, così approfitto per farmi un pò di pubblicità e farne parola anche con voi, che siete assidui frequentatori.
Dateci un'occhiata, giusto per spirito di gruppo.
E anche, ovviamente, per solidarietà con questo vecchio cowboy.
Trovate il mio racconto proprio qui.
Muchas gracias,
MrFord



"The man in me will do nearly any task
as for compensation, there's a little he will ask
take a woman like you
to get through to the man in me."
Bob Dylan - "The man in me" -


sabato 21 gennaio 2012

Mr. Nice

Autore: Howard Marks
Origine: Galles
Editore: Giano
Anno: 1996 (in Italia 2001 e 2010)



La trama (con parole mie): Dennis Howard Marks è ed è stato molte cose, nel corso della sua vita. Nato in un paesino del Galles da una modesta famiglia di lavoratori ha sognato di essere Elvis, si è laureato in fisica al prestigioso Balliol College, è divenuto il trafficante di droghe leggere più importante della storia, è stato una quasi spia dell'MI6, ha avuto rapporti con esponenti dell'IRA, della Mafia, della French Connection, è scampato ad una condanna in Inghilterra ed è stato perseguitato dalla DEA neanche fosse il più pericoloso dei criminali al mondo, ha scontato anni nel terribile penitenziario di Terre Haute, il peggiore degli States, è stato latitante per anni assumendo numerose differenti identità, ha accumulato e perso milioni, vissuto in numerosi Paesi e trafficato in altrettanti, fino ad arrivare a guadagnarsi il soprannome di Marco Polo per il ponte che costituì tra Oriente ed Occidente.
Ma soprattutto, Howard Marks è ed è stato un figlio, un padre ed un marito.
Ed ancora di più, un esploratore appassionato della vita.
Mr. Nice è la sua autobiografia.





Senza dubbio, prima di cominciare, devo ringraziare il mio fratellino Dembo per avermi fatto conoscere questo libro e, indirettamente, Howard Marks.
Ora, potrei stare qui a sproloquiare e raccontarvi, quasi idealizzandole, le imprese come trafficante di hashish e marijuana di uno dei veri pionieri del settore, uno dei più rivoluzionari ed estrosi personaggi della storia del crimine, un uomo che a quasi vent'anni ha scoperto di amare il rito della fumata - "High time" fu il primo libro che si dedico alle sue imprese, giusto per rimanere in tema - e ha deciso che procurare lo stesso piacere a quante più persone possibili arricchendosi e provando brividi unici nel contempo era quello che avrebbe voluto fare nella vita, ma non lo farò.
Cercherò di parlare il meno possibile, infatti, dell'aspetto più noto della vita di Howard Marks, in parte perchè ho sempre detestato il "fenomeno Scarface" che porta fin troppi ragazzi - e non solo, purtroppo - a considerare il crimine cool quasi fosse un'affermazione di potere e potenza, in parte perchè non sono le imprese come trafficante ad avermi colpito maggiormente, nel corso di questa autobiografia, ma l'uomo che le ha compiute.
Howard Marks, infatti, è riuscito subito ad entrarmi nel cuore grazie ad un innato carisma ed uno spirito da cercatore che, senza dubbio e più di una spiccata intelligenza, è stato il vero motore di ogni suo successo, e benzina per il riscatto nelle ore più buie: un ragazzo nato in un paesino di minatori nel cuore del Galles che da adolescente sognava di imitare Elvis, mosso quasi esclusivamente dalla curiosità e dalla voglia di scoprire il mondo ed il posto da occupare al suo interno, è arrivato ad essere considerato una sorta di quasi profeta, viaggiando in tutto il mondo - stupendo il passaggio del suo viaggio lungo il confine pakistano, dove nessun occidentale era mai stato, alla scoperta del mondo di contadini che vivono e muoiono su montagne che non hanno frontiere fabbricando l'hashish migliore del mondo - senza perdere lo spirito guascone e generoso di chi adora essere circondato dalle persone che ama, che dichiara che offrire una bevuta, cibo e una fumata a chi lo desidera resta uno dei più grandi piaceri della vita, che soffre per gli amici perduti lungo la strada ed anche per i nemici - ancora una volta, ottimi i passaggi che vedono Marks provare rimorso profondo per l'ufficiale che si tolse la vita quando il processo intentato contro di lui dalle corti inglesi fallì, o il momento in cui rifiutò di insultare la Spagna per evitare l'estradizione negli Usa, o ancora la punta di dispiacere per gli acciacchi fisici della sua nemesi più terribile, l'agente della DEA Lovato -, che nel carcere più duro e terribile degli Usa - Terre Haute, nell'Indiana, l'incubo di ogni detenuto - riesce a sopravvivere alla paura e allo sconforto mantenendo rapporti equilibrati con i membri delle più svariate organizzazioni criminali del mondo.
Un racconto di vita, questo, che ho associato immediatamente ad Educazione di una canaglia del mitico Edward Bunker, e che nonostante le differenze tra i due protagonisti mostra l'altra faccia di chi vive - o ha vissuto - oltre la legge e soltanto con il suo talento e la sua passione è riuscito non soltanto a trovare un riscatto, ma anche una nuova via verso il successo.
Da questo punto di vista, e al contrario della rabbia di Bunk, l'umanità di Howard Marks sta tutta nell'affetto che lo lega a luoghi e persone, dai lavoratori umili per le strade di Bangkok - di intensità notevole la vicenda di Sompop e la catenina protettiva che quest'ultimo gli regalerà - alla sua famiglia, dai genitori - da brividi il momento di sconforto vissuto dal protagonista nel corso della sua detenzione negli Usa, quando il costoso avvocato fu pagato grazie alla vendita della casa che i suoi comprarono da giovani, o la paura di Marks stesso di fronte all'idea di non riuscire a tornare in libertà in tempo per ritrovare i suoi vecchi ancora vivi - ai figli, fino alla compagna di una vita Judy, anch'ella autrice di un libro che racconta il loro rapporto, dalle sbronze dei giorni di gloria alla magia della prima figlia annunciata nella cornice di Campione d'Italia fino al dramma del loro arresto a Palma.
E tra Hong Kong, Manila, Bangkok, Karachi, il Canada, gli States, l'Europa - il passaporto di Mr. Nice, una delle identità assunte da Howard nei suoi anni di latitanza, pare si trovi ancora sepolto da qualche parte nei giardini pubblici dell'appena citata Campione, e sono curiose le testimonianze "da straniero" del Nostro a proposito di Padova, Napoli o Palermo - il viaggio di quest'uomo dalle mille risorse pare non conoscere una pausa neppure quando è la DEA, espressione della potenza dello stato più incredibile e terribile del mondo a muovergli guerra finendo per allontanarlo da amici, parenti, moglie, figli e soprattutto dalla libertà, quella stessa che - e sono sicuro che Howard Marks per primo la pensa così - vale decisamente più di una ricchezza spropositata.
Anche perchè, in fondo, per quanto se la sia goduta, il buon Mr. Nice ha dichiarato in più di un'occasione che se le droghe leggere fossero state legalizzate lui avrebbe volentieri fatto parte dei più accesi sostenitori di questo passaggio: del resto - e sono parole del vecchio How che condivido - se le droghe - tutte, nessuna esclusa - fossero vendute in farmacia e distribuite come prodotti approvati dalla legge, almeno la metà delle organizzazioni criminali mondiali - non soltanto quelle non violente come fu sempre per  Marks ed i suoi compagni, ma anche le più pericolose - verrebbero debellate senza il bisogno di alzare un dito, e ognuno di noi sarebbe libero di scegliere di essere dipendente da una sostanza accettandone le conseguenze - come è già con alcool e sigarette -.
Ma se così fosse, che ne sarebbe di quel brivido che ci spinge a muovere sempre un passo oltre?
Non è difficile trovarlo.
In fondo, Howard Marks lo ha capito in un momento ben preciso della sua vita.
Il momento in cui, tra decine di identità che lo avevano accompagnato in tutto il mondo e negli anni, venne determinata la sua più importante.
Il momento in cui fu chiamato papà.


MrFord


"You and me
and the guy from the Sparks
hanging out with Howard Marks
we're the three musketeers yeah
gather round with your beers yeah
there's no need for the fears."
Super Furry Animals - "Hangin' out with Howard Marks" -

martedì 11 ottobre 2011

La pelle che abito

Regia: Pedro Almodovar
Origine: Spagna
Anno: 2011
Durata: 117'



La trama (con parole mie): Robert Ledgard, un luminare della chirurgia estetica e di ricostruzione della pelle, è isolato nella sua tenuta da quando la figlia ha subito un completo crollo psicologico a seguito di un tentativo di violenza sessuale.
Prigioniera nella villa del medico è Vera, una giovane appassionata di bambole che l'uomo sfrutta per sperimentare le sue avveneristiche teorie in campo medico e che pare essere oggetto di un corteggiamento in bilico tra follia e passione.
In realtà, a legare i due è un segreto che risale ad anni prima, alla violenza che portò la giovane Norma Ledgard alla follia e alla misteriosa scomparsa di Vicente, un giovane sarto di Toledo.


L'impressione che ho avuto, con il passaggio negli ultimi giorni sugli schermi di casa Ford di Polanski e Almodovar - due registi straordinari che ho sempre ammirato -, è stata quella di un'inesorabile quanto silenziosa decadenza.
Non una caduta, qualcosa di magnificente e clamoroso, ma una sorta di progressivo torpore che attanaglia da qualche tempo mostri sacri che fino a qualche anno fa erano il motore principale delle mie aspettative in ambito cinematografico: già con Scorsese, lo scorso anno, ho avvertito una sensazione simile che, bottigliate a parte, ha mosso anche la visione di The tree of life durante questa stagione cinematografica.
Il fatto è che pare che tutti questi giganteschi titani della settima arte stiano cominciando a ritenersi così Classici da sedersi sulla loro condizione senza mostrare altro che non una confezione, quello che ci si aspetterebbe da una loro opera.
Così il buon vecchio Pedrito porta sullo schermo tutto quello che da lui ci si potrebbe attendere, dalla teatralità alle ottime interpretazioni dei protagonisti, dai colori saturi e ribollenti alla passione che muove i personaggi della storia, dagli incastri agli illusionismi da sceneggiatore amante delle scatole cinesi. E lo fa con il solito, consueto, splendido stile.
Eppure, per chi ha amato il suo Cinema fin dal principio - rivalutando anche opere recenti come Volver, inizialmente sottovalutata come uno sdoganamento rispetto al grande pubblico - come il sottoscritto, La pelle che abito non può che far riflettere sulla volontà dell'autore di rimanere uguale a se stesso nel peggiore e più noioso dei modi, mettendo anni luce di distanza rispetto ai suoi successi maggiori - gli splendidi Tutto su mia madre e Parla con lei - e alle sue opere più significative - Donne sull'orlo di una crisi di nervi, Carne tremula -.
Occorre ammettere che ad aggravare la posizione del regista iberico è stata senza dubbio la mia precedente lettura di Tarantola, il romanzo di Thierry Jonquet che ha ispirato questo film, rendendosi responsabile di mezzo voto finale in meno senza troppi ripensamenti: il romanzo legato alle vicende di Ledgard e Vera, infatti, oltre che profondamente noir, presentava un elemento crime radicatissimo - qui assolutamente assente - nonchè un finale decisamente più coraggioso e potente, di quelli capaci di insinuare il dubbio nel sottoscritto che il simpatico Pedro abbia deciso di "smussare gli angoli" dell'opera di riferimento in modo da evitare di essere bollato come troppo radicale nelle sue scelte narrative.
Certo, si potrebbe obiettare che in questo caso stiamo parlando del film, e non del romanzo, e che Almodovar non dovrebbe essere giudicato in alcun modo per avere soltanto tratto spunto dalla materia narrata splendidamente sulla pagina da Jonquet, eppure, anche senza dover necessariamente sottolineare il legame tra le due opere distinte, la sola pellicola era entrata senza troppe difficoltà nel novero delle creazioni minori del nostro Pedrito.
Dunque, cosa resta da dire, a proposito di La pelle che abito?
Certo è un film affascinante, in grado di conquistare e sedurre - soprattutto spettatori alle prime esperienze con il Cinema almodovariano -, esteticamente ottimo e narrato con la perizia cui il regista ci ha abituato fin dai suoi esordi: peccato che, a ben guardare, qui, di lui, ci sia soltanto l'ombra.
O la pelle, giusto per rimanere legati al tema principale - e con un gioco di parole, all'ultimo lavoro che aveva visto Almodovar e Banderas insieme, vent'anni or sono: Legami -.
Peccato che a volte, dietro l'apparenza, possano nascondersi segreti e sentimenti ben più profondi di quelli che un chirurgo decide di imporre all'occhio di chi guarda.
Vite, addirittura.
E se sono quelle, che cercate, dovrete fare uno sforzo e non restare alla superficie: perchè soltanto nel profondo della sua filmografia passata, troverete il meglio che questo sorprendente regista può offrire.

MrFord

"Skin thin
I breathe out, you breathe in
but the day seems so long
skin thin
blood again
it's all I can do to hold on
we're just skin thin."
Ben Harper and Relentless7 - "Skin thin" -

mercoledì 13 luglio 2011

Cecità

La trama (con parole mie): Un uomo è fermo al semaforo, alla guida della sua auto, quando d'improvviso una coltre bianca cala sui suoi occhi. 
E' diventato cieco, prigioniero di una sorta di luce perpetua che gli impedisce di vivere la sua vita come l'aveva vissuta fino a quel momento.
E' l'inizio di un'epidemia che porterà il governo ad isolare tutti i casi di cecità all'interno di un vecchio manicomio in disuso, dove si ritroveranno tutte le prime vittime del misterioso morbo venute a contatto con il primo cieco. Tra loro, l'oculista che lo ha visitato e sua moglie, unica tra loro a non essere caduta vittima della malattia.
L'esperienza all'interno di quella prigione, sorvegliati dall'esercito, sarà terribile e traumatica per tutti, ma stringerà il legame di un gruppo che, una volta abbandonata la struttura, deciderà di vivere insieme quello che resta dei loro giorni in una città sporca e distrutta, popolata da una moltitudine di ciechi senza guida.

Erano anni che sentivo parlare Julez di questo romanzo come di una sorta di essere mitologico, una delle letture più sconvolgenti ed intense che avesse fatto: una sera, alla mia proposta di visionare il film tratto, per l'appunto, da quest'opera di Saramago, lei ha controproposto che io lo leggessi prima di poter guardare la trasposizione cinematografica. E così è stato.
Personalmente, ho trovato Cecità un grandissimo romanzo: crudo, terribile, ribollente di sentimenti tra i più infimi che il genere umano possa provare eppure mai schiacciato nel suo coraggio, nell'intensità, nelle passioni e nella forza che i suoi protagonisti dimostrano, anche nei momenti in cui pare che gli eventi possano schiacciarli e calpestare inesorabilmente i loro sentimenti e la loro dignità.
In particolare, il personaggio della moglie del medico rappresenta tutta la potenza dirompente dell'autore, nonchè il nostro legame visivo con un romanzo che ci precluderebbe ogni riferimento di questo tipo, così come accade per la scelta di omettere i nomi dei suoi protagonisti, che divengono semplicemente un riferimento a ciò che sono stati prima dell'epidemia - il primo cieco, la ragazza con gli occhiali scuri, il bambino strabico, il medico, il vecchio dalla benda nera -. 
Ed è proprio la moglie del medico, dunque, a farsi carico del peso dell'intera vicenda, dal momento in cui il marito viene caricato sull'ambulanza e portato via alla volta del manicomio alla permanenza stessa all'interno della struttura, dall'organizzazione delle camerate al confronto con i ciechi "malvagi" che tentano di regolare secondo le leggi del crimine la vita di quella triste prigione di condannati al biancore eterno.
Ed è proprio nel confronto con la banda di usurpatori del potere interno che il personaggio di questa donna assume un'importanza clamorosa per l'economia del racconto, quasi rappresentasse, a tutti gli effetti, l'ideale di compagna, di madre e di confidente di ogni altro cieco presente, simbolo di forza assoluta a fronte dei comportamenti del marito, delle intemperanze dei membri della camerata, delle richieste sempre più terribili dei ciechi loro carcerieri.
La moglie del medico diviene il simbolo della Donna in senso universale, capace di prendere per mano e guidare una piccola comunità come fosse una famiglia, dentro e fuori il manicomio, per le strade di una città in cui tutto è allo sbando, in mano ad un destino amaro per tutti, alla ricerca di cibo e in attesa della pioggia per l'acqua camminando immersi in sporcizia e nel sudiciume lasciati per le strade con le carcasse dei morti.
E come se non bastasse, all'immagine della città e dei suoi disperati si aggiungono le incredibili sequenze del supermercato - così terribile da far tornare alla mente Romero - e della chiesa, all'interno della quale qualcuno - e non si saprà mai chi - ha fasciato ogni statua di santo, e lo stesso crocefisso con una benda bianca attorno agli occhi, quasi a dirci che il primo cieco di questa storia, o della Storia, è stato proprio Dio.
Un'opera clamorosamente umana e non priva di critiche allo Stato - e alla Chiesa, come appena citato - che va ad inserirsi nel grande filone dei 1984 e dei Fahrenheit 451, con la differenza, rispetto ai Capolavori in questione, di non partire dall'interno, con un uomo del governo trovatosi a vivere "dall'altra parte", bensì di concentrarsi su un dramma che progressivamente coinvolge tutti, inesorabilmente, senza differenza alcuna.
Dunque, sono diventati ciechi, questi uomini, queste donne, o lo erano già?
Cosa nascondeva quel candore terribile, tanto da giustificare morte, lotta per la sopravvivenza, amore, bassezze, putredine e liberazione?
Forse nulla che non fosse già vivo nell'Uomo.
A volte occorre diventare ciechi per imparare a vedere.

MrFord

"Another place I find, to escape the pain inside
you don't know the chances, what if I should die?
(A place inside my brain, another)
Another kind of pain
you don't know the chances, I'm so blind
blind, blind."
Korn - "Blind" -


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