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lunedì 11 aprile 2016

Desconocido - Resa dei conti

Regia: Dani De La Torre
Origine: Spagna
Anno:
2015
Durata:
102'








La trama (con parole mie): Carlos è un funzionario di banca con una lunga carriera alle spalle, una vita agiata, una bella famiglia ed un'apparenza di successo. Una mattina, quando decide di accompagnare i due figli a scuola, il suo mondo si ribalta: contattato tramite un cellulare ritrovato proprio sul cruscotto della sua auto da uno sconosciuto, è ricattato in modo da trasferire tutti i suoi risparmi ed una considerevole somma di denaro attraverso la banca su un conto sicuro.
Se non obbedirà alle istruzioni del suo contatto, il mezzo che sta trasportando lui ed i suoi figli esploderà a causa delle bombe installate sotto i sedili, pronte a detornarsi nel momento in cui qualcuno dovesse lasciare il suo posto.
L'uomo si troverà dunque a lottare per la sopravvivenza della sua famiglia - oltre che di se stesso -, per il suo lavoro e la speranza di poter spiegare alle forze dell'ordine che quello che sta facendo non è frutto di un gesto estremo di follia legato alla sua separazione dalla moglie: cosa accadrà, dunque, quando i nodi verranno al pettine?











Ammetto di averci sperato.
Il Cinema spagnolo ha sempre prodotto buone cose, il thriller è un genere di casa al Saloon, recensioni di alcuni bloggers decisamente affidabili - e non sto parlando del mio antagonista Cannibal Kid, ovviamente -, una tecnica notevole - basti pensare al piano sequenza che, di fatto, segna il giro di boa della pellicola, davvero splendido -, un protagonista da pollici altissimi - Luis Tosar, già apprezzato in Bed Time e Cella 211 -.
Le premesse di un successo, insomma, c'erano davvero tutte.
Ritmo ed azione compresi, conditi da una spalla per il suddetto main charachter come la coordinatrice degli artificieri da fare invidia alle più cazzute eroine ottime per registe come Katherine Bigelow.
Eppure Desconocido, serratissimo film iberico da poco approdato in sala in Italia, ha finito per non convincermi affatto.
Ma non voglio concentrarmi sui palesi limiti di sceneggiatura di una vicenda intrigante pronta a fare acqua da tutte le parti - in fondo, non siamo dalle parti di Speed, che essendo una tamarrata feroce può permettersi certe concessioni, ma di qualcosa dal taglio decisamente più realistico, almeno sulla carta -, di una seconda parte nettamente inferiore alla prima o di tutto quello che si potrebbe criticare - tecnica a parte, per l'appunto - del lavoro del pur promettente Dani De La Torre: vorrei concentrarmi sul Cinema americano, palese ispiratore di questo prodotto, osteggiato spesso e volentieri dai radical di qualsiasi continente.
Perchè se Desconocido fosse stato girato a Los Angeles invece che a La Coruna, con Jason Statham a prendere il posto di Luis Tosar ed un Simon West qualsiasi dietro la macchina da presa a dispetto del già citato De La Torre, la maggior parte dei sostenitori "alti" di questo film si sarebbero trovati senza se e senza ma dall'altra parte della barricata: tipico thriller d'azione poco plausibile, grande sfoggio di mezzi e tecnica assolutamente non supportato dalla plausibilità logica, un finale che più retorico e buonista non si potrebbe.
Peccato che il film non sia a stelle e strisce, ma un prodotto assolutamente e completamente figlio di un tentativo tutto europeo di sdoganare l'intrattenimento più basic cercando di dare allo stesso una connotazione autoriale: troppa grazia, ragazzi miei.
La realtà dei fatti, purtroppo, è che a parte l'indubbia perizia ed un attore protagonista molto valido, Desconocido sia una brutta copia di decine e decine di produzioni statunitensi non solo attuali o quantomeno recenti, ma figlie di epoche già trascorse da parecchio, eighties su tutte: troppo facile mascherare l'operazione come qualcosa di nuovo, o cool, e troppo poco per considerarla, al contrario, soltanto un divertissement buono per rilassare i neuroni al termine di una giornata o di una settimana pesanti.
Un vero peccato, perchè per un amante del genere come il sottoscritto titoli che possano in qualche modo rinverdire i fasti del passato sono una vera e propria manna dal cielo, e soprattutto dopo aver letto segnalazioni come quella della Bolla, l'impressione di trovarsi di fronte proprio ad una piccola perla aveva assunto una certa consistenza, sfumata un minuto dopo l'altro nel corso della visione di questo Desconocido che sarà scorrevole e comunque piacevole da vedere quanto vorrete, ma che alla fine suonerà senza appello come una pesante delusione.
A meno che non siate strenui detrattori di un certo tipo di produzioni americane: allora potrà essere l'occasione giusta per apprezzare un genere senza sputtanarvi con gli amici del circolino d'essai affermando che, sotto sotto, voi i vecchi film con Stallone, Schwarzenegger e Bruce Willis li adorate.






MrFord





"We get some rules to follow
that and this, these and those
no one knows
we get these pills to swallow
how they stick in your throat
taste like gold
oh what you do to me
no one knows."
Queens of the stone age - "No one knows" -







lunedì 11 gennaio 2016

Carol

Regia: Todd Haynes
Origine: UK, USA
Anno:
2015
Durata:
118'







La trama (con parole mie): Therese, un'introversa aspirante fotografa che si barcamena tra un lavoro in un grande magazzino come commessa e la storia con un fidanzato che non ama nella New York degli anni cinquanta incontra proprio sul luogo di lavoro Carol, una donna più vecchia di lei, madre ed in procinto di divorziare, ricca ed affascinante.
Tra le due ha inizio un gioco di seduzione ed avvicinamento progressivo che le condurrà ad una vera e propria fuga alla scoperta di se stesse attraverso la provincia americana, verso Ovest, fino a quando Harge, marito di Carol, non metterà i bastoni tra le ruote alle due donne in modo da avere gli strumenti per ricattare la futura ex moglie rispetto alla custodia della figlia.
Cosa accadrà quando Carol e Therese dovranno scegliere quale strada prendere, e cosa sarà davvero meglio per il loro futuro?












Il Tempo, l'età e l'esperienza hanno un potere davvero enorme.
E' curioso quando si pensa a quanto si girava intorno alle cose quando si era ragazzini, e piuttosto che ammettere che una ragazza ci piaceva si negava all'inverosimile: ed è altrettanto curioso come una manciata di anni e di cicatrici possano cambiare radicalmente un approccio, un avvicinamento, un modo di intendersi.
Questione di prospettive, sempre e comunque.
Del resto, nessuno potrà mai percepire l'amore - o il sesso, ovviamente - a vent'anni come a quaranta, vivere una storia e raccontarla a se stesso e con il partner con un trasporto ed un modo di vedere le cose simile: noi stessi combattiamo una battaglia non solo contro il Tempo che inevitabilmente scorre, ma anche contro l'immagine che abbiamo avuto, abbiamo e speriamo di avere di noi.
Todd Haynes è nel pieno di un testa a testa di questo genere dai tempi di Velvet Goldmine, ed ha proseguito nella sua lotta anche con lo splendido Lontano dal Paradiso e l'ottimo I'm not here, giocando e non poco sull'estetica senza dimenticare una profondità decisamente passionale per prodotti sulla carta estremamente autoriali: non è da meno quest'ultimo Carol, accolto decisamente bene oltreoceano ma con molte riserve qui al Saloon, considerati i rischi concreti di polpettone d'essai buono giusto per Cannibal Kid.
Fortunatamente la vicenda di Therese e Carol ha finito per smentire ogni timore della vigilia, ed appoggiandosi a due splendide interpretazioni di due protagoniste impeccabili - Cate Blanchett e Rooney Mara, nonostante la prima mi stia sempre e comunque sul cazzo e la seconda abbia perso tutto il fascino della decisamente più fordiana Lisbeth Salander -, un comparto tecnico senza alcuna sbavatura - forse solo Steve McQueen riesce ad avvicinarsi alla classe delle pellicole di Haynes nel panorama mainstream mondiale - ma soprattutto ad un crescendo d'intensità che non solo inchioda alla poltrona a dispetto dell'apparente lentezza e delle quasi due ore di durata, ma smuove nel profondo proprio perchè in grado di raccontare con una passione smisurata una storia d'amore come ricordo quelle de I ponti di Madison County o I segreti di Brokeback Mountain, giusto per citare due tra i film romantici che ho più amato nella vita.
Ed il bello di questo magnifico affresco dipinto da Haynes sta proprio nelle differenze tra Therese e Carol, nella gioventù della timidezza, dello struggimento e dei sensi di colpa e nella maturità che pare sminuire l'amore ma che, di fatto, lo traduce in compromesso, rischio, dedizione verso i figli, che ad un certo punto della vita diventano la vera incarnazione del sentimento più forte che noi che calpestiamo questa terra possiamo provare - da questo punto di vista, il confronto legato all'affidamento della piccola Rindy di Carol e Harge è da brividi -: due realtà che possono sfiorarsi, ma forse non avranno mai la possibilità di vivere una accanto all'altra davvero, come tradotto in immagini dal perfetto ribaltamento della stessa sequenza girata da diverse angolazioni in apertura e chiusura della pellicola.
Così come il finale, volutamente sospeso, che quasi riporta alla mente l'altrettanto efficace Two lovers, pronto a lasciare nelle mani dell'audience una risposta che, a conti fatti, non sarà mai definitiva: Therese e Carol si guardano l'un l'altra come in uno specchio che porta la prima vent'anni nel futuro e la seconda altrettanti nel passato.
Se questo sguardo significherà qualcosa, non è dato saperlo, a meno di non immaginare un lieto fine.
Nel frattempo, resta la sensazione di un ricordo, una nostalgia, un momento che ha segnato il viaggio di due persone, che si è amato e odiato, e che, quando verrà l'istante in cui dovremo tirare le somme, senza dubbio tornerà, come un brivido, dalla pelle al cuore.





MrFord





"Oh, Carol
don't let him steal your heart away
I'm gonna learn to dance
if it takes me all night and day."
The Rolling Stones - "Carol" - 






domenica 28 settembre 2014

La città incantata

Regia: Hayao Miyazaki
Origine: Giappone
Anno: 2001
Durata: 125'


 

La trama (con parole mie): la piccola Chihiro, alle prese con un trasloco che non vuole ed in viaggio verso la sua nuova casa in campagna, si imbatte con i genitori in uno strano parco divertimenti deserto. Quando il padre e la madre cadono vittime di un incantesimo trasformandosi in maiali e Chihiro viene guidata dal giovane Haku in un mondo di spiriti e strane creature e viene ribattezzata Sem ed assunta in un complesso termale all'interno del quale si rilassano entità provenienti dalle differenti realtà, il suo confronto con la strega Yubaba e la sua gemella Zeniba diviene fondamentale per ritrovare la strada per il mondo che conosce e salvare i suoi genitori.
Riuscirà la bambina a trovare la via per l'equilibrio e lasciare il segno da una parte e dall'altra della realtà?






Lo Studio Ghibli, e Hayao Miyazaki, sono una realtà consolidata e celebrata in tutto il mondo, ed uno dei fiori all'occhiello della settima arte tutta: come spesso mi capita di citare, addirittura un Maestro come Kurosawa dichiarò in un'intervista che il paragone tra lui stesso e Miyazaki risultava riduttivo per quest'ultimo.
Una cosa non da poco, per un regista di "semplici" cartoni animati. E per un regista in generale.
La città incantata - primo, a quanto mi risulta, lungometraggio d'animazione a vincere il premio più prestigioso ad un grande Festival, nello specifico l'Orso d'oro a Berlino -, considerato da molti il Capolavoro del grande cineasta, la summa della sua opera, è un affresco meraviglioso per le suggestioni ed i colori, i paesaggi, i temi trattati, l'universalità dei temi - uno dei più grandi pregi di Miyazaki è la sua capacità, tratto distintivo dei grandi narratori, di parlare a tutte le latitudini ed età -, segnato da una vena dolce, speranzosa ed al contempo malinconica come la maggior parte dei suoi lavori, eppure, lo ammetto, continua a non essere di gran lunga il mio personale favorito.
Forse troppo ineccepibile, forse, effettivamente, un cocktail clamorosamente perfetto della poetica del suo autore, non sono mai riuscito a trovare in questa che è e resta, di fatto, una meraviglia, il cuore di Porco Rosso, la semplicità assoluta e disarmante del meraviglioso Totoro, la passione bruciante di Mononoke.
Senza dubbio, a partire dal tema del rapporto genitori/figli - dalla protagonista Chihiro alla strega Yubaba - alla meraviglia dei paesaggi offerti dal mondo "dall'altra parte", dalla varietà di personaggi e caratteri - che si tratti della fugace apparizione dello Spirito del ravanello allo sfaccettato e senza dubbio vero jolly della pellicola Senza Volto -, fino alla cornice da togliere il fiato offerta dalla brulicante struttura termale al mondo come spesso accade nelle opere del già leggendario Hayao basato e strutturato principalmente sull'acqua, tutto è un restare a bocca aperta, nella speranza che il cuore si lasci trasportare dalle gesta di una protagonista femminile - altro tratto distintivo dell'opera del regista - pronta a ritagliarsi un ruolo forse non di primo piano, eppure fondamentale per il suo mondo, a prescindere da quale quest'ultimo sia.
Dunque, potrebbe apparire decisamente strano che qui al Saloon si decida di mettere La città incantata un gradino sotto - sempre che di "sotto" si possa parlare, per lavori di questo calibro - altri titoli meno celebrati di Miyazaki, lanciando di fatto una sorta di sfida alla critica illustre che proprio grazie al successo di questo film ha riscoperto un nome che in Giappone era considerato intoccabile da quasi un ventennio: eppure, con il cuore in mano - e quattro visioni alle spalle - posso affermare che l'innamoramento che di consueto provo quando mi trovo di fronte ad un lavoro targato Ghibli in questo caso ha faticato - come ad ogni passaggio in casa Ford - a farsi strada nel mio cuore, finendo per "ridursi" al finale per sancire la sua indiscutibile grandezza - ed in particolare, allo stupendo viaggio sulla ferrovia di Sen/Chihiro e della sua improvvisata brigata -.
Certo, ci sarebbero da analizzare tutte le derivazioni culturali e le ispirazioni di un mondo coloratissimo e fantastico, ribollente, a tratti spaventoso eppure in qualche modo sempre giocoso, e senza dubbio un prodotto come questo apre la strada ad articoli, recensioni fiume, saggi e chi più ne ha, più ne metta: ma in un momento, chiudo gli occhi e torno con la mente a Totoro, alla poesia e alla bellezza delle piccole cose, e penso che allora il ritorno di Chihiro al suo mondo, alla realtà, a quello che sta da questa parte, benchè segnato nel profondo dalla magia dell'altra, sia più che giusto.
Naturale.
Ed è per questo che, alle spalle i postumi della sbronza di colori e stupore che La città incantata saprà sempre regalare e regalarmi, continuerò a pensare che il meglio di questo strepitoso regista non si trovi nelle gesta mirabolanti e strepitose dell'energica e piena di sorprese Chihiro.



MrFord



"Centuries are what it meant to me
a cemetery where I marry the sea
stranger things could never change my mind
I've got to take it on the otherside
take it on the otherside
take it on
take it on."
Red Hot Chili Peppers - "Otherside" - 




venerdì 26 settembre 2014

Red Cliff - La battaglia dei tre regni

Regia: John Woo
Origine: Cina, Hong Kong, Giappone, Taiwan, Corea del Sud
Anno: 2009
Durata: 146' (parte prima) e 142' (parte seconda)




La trama (con parole mie): siamo attorno al duecento dopo Cristo nell'antica Cina, quando il primo ministro Cao Cao, portata a termine con successo la campagna contro i signori della guerra e divenuto più temuto e rispettato dell'Imperatore, decide di manipolare quest'ultimo in modo che gli permetta di innescare un conflitto contro i due principali regni del Sud, retti da Liu Bei e Sun Quan, il primo di umili origini ed avanti con gli anni, il secondo giunto sul trono quasi per caso, giovane e senza esperienza. Quando la sconfitta pare inevitabile per il primo, lo stratega Zhuge Liang comincia a lavorare ad un'alleanza tra i regni del Sud che possa significare non solo salvezza, ma anche speranza di sconfiggere l'invincibile Cao Cao.
Stretta una forte amicizia con Zhou Yu, vicino a Sun Quan e considerato da quest'ultimo come un fratello, Liang sfrutterà tutte le sue conoscenze ed abilità per preparare il terreno ai suoi compagni in modo che gli stessi possano vincere la battaglia decisiva: ma sarà davvero una vittoria? 
E Cao Cao si limiterà a soccombere, o rivelerà la sua natura di vincente?






Ricordo ancora quando vidi per la prima volta la versione cinematografica di Red Cliff, forse l'opera più ambiziosa, costosa e tecnicamente incredibile di John Woo, Maestro indiscusso del Cinema action d'Oriente e non solo: correva l'anno duemilanove, ed attendevo da tempo la trasposizione cinematografica di una delle epopee di guerra più note dellla Storia cinese, che paradossalmente, invece che a scuola - l'Oriente è purtroppo un snobbato ancora oggi - conobbi grazie alle interminabili partite a Dynasty Warriors, videogioco fracassone e di battaglie da ore passate davanti allo schermo grazie alla Playstation 2 di qualche anno fa.
Purtroppo si trattava della versione cinematografica di questo lavoro, ignobilmente tagliata a metà - in tutti i sensi - e così distribuita in tutto il mondo - per una volta, dunque, non fu colpa solo dei nostri distributori -: il risultato, quindi, fu una sorta di mezza delusione, anche perchè la complessità della trama, la varietà ed il numero dei personaggi nonchè la coesione del plot subirono dei pesanti condizionamenti di un montaggio assolutamente da macellai - destino che accomuna quest'opera enorme ad uno dei grandi Capolavori del Cinema tutto, I sette samurai, che ai tempi fu presentato a Venezia vincendo il Leone d'argento con la metà del minutaggio effettivo, portando lo stesso Kurosawa a dichiarare che la Giuria aveva visto, in realtà, solo tre samurai e mezzo -.
Fortunatamente, con l'uscita per home video è giunta anche dalle nostre parti la versione integrale di quello che è, forse, l'affresco più potente che l'autore di filmoni come The killer abbia mai prodotto in carriera: ed il risultato della visione è decisamente differente.
Red cliff, infatti, gustato nella sua interezza, rappresenta, di fatto, l'equivalente epico ed emozionante di quello che fu, da queste parti, Il ritorno del re, ovvero una grande fiera di emozioni e sentimenti da blockbuster orchestrati con mezzi e tecnica da fantascienza, filtrati però attraverso una sensibilità ed una profondità di temi da pellicola d'autore: per quanto, infatti, si tratti di fatto di un film che racconta una delle epopee belliche più note della sua terra - e quella che, di fatto, è l'Iliade cinese -, La battaglia dei tre regni è un accorato atto d'accusa contro la guerra come concetto, portato avanti principalmente dai personaggi dello stratega Liang - un ottimo Takeshi Kaneshiro - e da Zhou Yu - il mitico e decisamente fordiano Tony Leung - e la sua compagna, charachters dai molteplici interessi messi al servizio del conflitto ma dallo stesso clamorosamente lontani - la musica, la conoscenza del territorio, il rispetto della Natura, la cura della forma come della sostanza - e reso ancora più intenso da passaggi quasi bucolici - i generali di Liu Bei intenti ad insegnare ai bambini o ad intrecciare ciabatte di corda, gli intermezzi ironici legati alla figura di Sun Shangxiang ed il suo rapporto con gli uomini - ed altri profondamente commoventi e drammatici - il confronto nel finale tra la stessa Sun ed il giovane conosciuto durante il suo periodo da infiltrata tra le fila dell'esercito di Cao Cao -, concluso con il monito di Zhou Yu e con quel "nessuno ha vinto, oggi" che pare un macigno sul cuore.
Eppure, nonostante lo spirito profondamente antimilitarista che sostiene questa pellicola - sottolineato dalle continue dichiarazione degli alleati del Sud rispetto ad un futuro che potrebbe vederli, invece, avversari - Woo riesce al contempo a mostrare anche i lati più eroici ed onorevoli del combattimento, attraverso figure come i generali di Liu Bei o di Gan Xing, alimentando il coinvolgimento del pubblico - per quanto possa suonare cinico, infatti, difficilmente a smuoverci sono la tranquillità e la pace, ma la lotta ed il ribollire delle passioni -: Red Cliff, dunque, rappresenta in qualche modo lo Yin e lo Yang dell'Uomo, le sue contraddizioni, i suoi lati profondamente malvagi e quelli assolutamente eroici, le bassezze e i colpi d'ala che tutti noi che calpestiamo questa terra viviamo e facciamo vivere da millenni.
Proprio per questo, prima ancora che per i prodigi tecnici - pazzesca la battaglia della testuggine - e la meraviglia visiva, la capacità di avvincere e di narrare una storia lontana secoli e migliaia di chilometri da noi, Red Cliff è indiscutibilmente un titolo destinato a restare nel cuore e negli occhi di chiunque troverà il tempo e la voglia di approcciare il suo intero affresco: non lasciatevi spaventare, dunque, dalla durata, dai nomi o dalle diversità culturali.
Poco importa che sia il wuxia o qualche effetto mirabolante, a raccontare la passionalità umana ed i suoi eccessi: l'importante è che sia raccontata e trasmessa.
Ed è questo che riesce così bene a questa meraviglia.



MrFord



"Dark is the light,
the man you fight,
with all your prayers, incantations,
running away, a trivial day,
of judgement and deliverance,
to whom was sold, this bounty soul,
a gentile or a priest?"
System of a down - "War?" -




lunedì 21 luglio 2014

The Raid 2 - Berandal

Regia: Gareth Evans
Origine: UK, Indonesia, USA
Anno: 2014
Durata:
150'





La trama (con parole mie): Rama, sopravvissuto a stento alla missione che lo vide affrontare uno dei boss locali di Jakarta e ritrovare suo fratello, viene reclutato da un ufficiale della polizia che lo vorrebbe come infiltrato per una missione ad altissimo rischio che ha come obiettivo quello di smascherare i dirigenti delle forze dell'ordine in accordo con i boss criminali della città ed assicurare alla Giustizia - in un modo o nell'altro - gli stessi boss.
Rama, inizialmente refrattario all'idea, accetta convinto dalla promessa di una protezione per sua moglie e suo figlio garantita dalla polizia e per vendicare il fratello, nel frattempo ucciso da uno degli astri nascenti della criminalità di Jakarta.
Incarcerato sotto falso nome, il combattivo tutore dell'ordine dovrà trovare il modo di guadagnarsi la fiducia di Uco, figlio di uno dei più importanti padrini della malavita, e partire proprio da lui per cominciare a costruire la vittoria ed il completamento della missione stessa: peccato che la strada sarà lastricata di cadaveri e continui cambi di prospettiva.






Si può dire che fosse dai tempi del magnifico The Raid - Redemption, che i fan in tutto il mondo di Gareth Evans e del Cinema di botte ed action attendevano il secondo capitolo delle avventure di Rama: io stesso, dopo essere rimasto a bocca aperta di fronte al meraviglioso sfoggio di tecnica e di sprezzo del pericolo degli stuntmen nella prima pellicola, non vedevo l'ora di potermi mettere comodo e tuffarmi nell'allora solo annunciato The Raid 2.
In questi casi, la prima domanda è sempre la stessa: il regista sarà stato in grado di mantenere il livello della sua opera o la stessa sarà crollata miseramente sotto il suo stesso peso?
E subito dopo: il talento sarà all'altezza delle ambizioni?
Nel caso di questo titolo in particolare, la risposta è senza dubbio sì.
Non che il lavoro di Evans sia privo di difetti - soprattutto in fase di scrittura, considerato che le coreografie degli scontri, la fotografia, il montaggio e l'eleganza dei movimenti di macchina sono indiscutibili -, o che non si senta la mancanza della naturalezza del primo film, decisamente meno pretenzioso e più pane e salame, ma questo Berandal rappresenta, di fatto, uno di quei pugni nello stomaco in grado di trascendere un genere e renderlo oggetto di culto, mescolando la perizia di un Michael Mann al gusto per l'eccesso che le arti marziali e l'approccio orientale - benchè l'uomo dietro la macchina da presa sia un ragazzone gallese di nascita - hanno fatto loro fin dagli esordi, in Occidente e non.
Due ore e mezza di furia raccontata con un gusto estetico da fotografo d'elite, come se la pittura delle gallerie d'arte d'alto bordo incontrasse le nocche consumate a furia di pugni delle palestre di strada: la seconda impresa di Rama - un grandissimo Iko Uwais, già protagonista del capitolo precedente e dell'esordio del regista Merantau - riesce nell'impresa di ricordare ad un tempo le epopee di Bruce Lee e di tutti i suoi emuli - non solo orientali, si pensi a Van Damme - e la magia poetica di un Johnnie To, con quel gusto crepuscolare ripreso di recente anche da Refn in Solo dio perdona.
Lo script - certamente non il punto forte della pellicola - recupera a piene mani da tutta la mitologia dell'infiltrazione poliziesca, da Infernal affairs a I padroni della notte, mentre le parti dedicate alla lotta sono tra le migliori mai girate, dallo scontro a partire dal bagno del carcere con protagonista Rama all'inseguimento in macchina, senza contare il duello che precede l'epilogo - davvero degno di rivaleggiare con quello che chiuse Redemption - e soprattutto la prodigiosa sequenza con al centro la figura del sicario Prakoso, tradito dalla sua organizzazione e lasciato in balìa di un'orda di avversari decisi a fargli la pelle: il percorso che dal locale porta lo scatenato Yayan Ruhian - già interprete dell'indimenticabile Mad Dog nel film precedente - sulla strada è vera e propria poesia del Cinema di botte, una lezione indimenticabile con la quale tutti i titoli che usciranno da qui in avanti dovranno, volenti o nolenti, confrontarsi se vorranno assurgere al ruolo di cult.
Devo comunque ammettere che, personalmente e nonostante il livello di esaltazione assoluto provato nel corso di questa visione dal primo minuto alla strepitosa chiusura - non vedo già l'ora del terzo capitolo -, il mio cuore è e resta con The Raid - Redemption, un prodotto forse più grezzo eppure privo di quell'aura di autorialità a tutti i costi cercata - giustamente, considerato il talento visivo - da Evans per questo Berandal.
Senza dubbio, il buon Gareth è riuscito a rompere ogni schema e confine che divideva questo tipo di Cinema e proposte dall'Occidente tamarro e dozzinale all'Oriente esagerato e dalla profonda malinconia - si pensi a tutta la prima produzione di John Woo, o allo stesso e già citato Bruce Lee -: per un figlio della nostra cultura, già questo è sinonimo di un successo senza precedenti, reso ancora più clamoroso dalle evoluzioni che Uwais e tutti gli atleti, attori e comparse riescono a fornire per la gioa del pubblico in quest'occasione.
The Raid 2 è una nuova pietra miliare per il suo genere, e forse non solo.
Di fatto, è come se fosse iniziato un nuovo, strepitoso e senza confini geografici capitolo della Storia dell'action dalle ripercussioni enormi sulla settima arte intera: uno tsunami venuto dall'Estremo Oriente a suon di calci, pugni e colpi proibiti - con ogni tipo di arma ed oggetto - orchestrato da un direttore decisamente unico, venuto dalle brughiere di un Galles che con Jakarta pare non avere nulla a che fare.
Evidentamente, a volte, si sbaglia.
Qui non contano geografia o cultura.
Conta il Cinema.
E The Raid 2 - Berandal è senza dubbio grande Cinema.



MrFord



"Mother Nature's quite a Lady
but you're the one I need
flesh and blood need flesh and blood
and you're the one I need."
Johnny Cash - "Flesh and blood" - 



martedì 27 maggio 2014

Onirica - Field of dogs

Regia: Lech Majewski
Origine: Polonia
Anno: 2014
Durata:
96'





La trama (con parole mie): Adam, giovane promessa della poesia, è vittima ed unico superstite di un gravissimo incidente d'auto che lo lascia segnato nel corpo e nell'anima, incapace di riprendersi davvero superando il dolore e dipendente da sogni che finiscono per sostituire la realtà, legati a rappresentazioni di opere d'arte e della Divina Commedia di Dante, un tentativo estremo della mente del ragazzo di scoprire il mistero dietro la sua permanenza sulla Terra.
E tra un giorno e l'altro di un lavoro lontano dalla sua essenza e le visite alla zia, Adam assiste inerme alle tragedie che colpiscono il suo Paese, cercando di trovare nelle stesse una risposta per i suoi drammi personali: riuscirà ad uscire dalla selva oscura e tornare a riveder le stelle?







La prima volta che lessi il nome Lech Majewski storsi il naso, in occasione dell'uscita de I colori della passione, sbirciato grazie alla rubrica settimanale che mi tocca condividere con l'antagonista di sempre Cannibal Kid: l'idea che mi feci, guardando il trailer del suddetto titolo, era dell'ennesima proposta autoriale radical a tutti i costi che una decina d'anni or sono mi avrebbe fatto impazzire, e che ora finisce per avere lo stesso effetto di una badilata di sabbia negli occhi.
Fortunatamente, dovetti ricredermi, dato che il buon Majewski seppe far coesistere una tecnica da Autore maiuscolo con la voglia di raccontare davvero a fondo una storia: apprezzai moltissimo il tentativo, promuovendolo anche in occasione dei Ford Awards di fine duemiladodici.
Dunque, all'uscita di Onirica, l'asticella delle aspettative partiva, al contrario del suo precedente, decisamente più in alto, considerati anche i riferimenti alla Divina Commedia - che ho sempre amato fin dai tempi delle superiori - che in mano ad un regista di questo tipo potevano dare voce ad uno dei titoli sulla carta più sorprendenti della stagione: peccato che, purtroppo per il sottoscritto, la visione della nuova fatica di Majewski si sia rivelata una fatica abnorme prima di tutto per il vecchio Ford, che rimbalzando tra i ritmi del lavoro, del pendolarismo e del Fordino comincia ad avere parecchie difficoltà a gestire, la sera, pellicole pronte a fare polpette delle parti basse.
E purtroppo Onirica - Field of dogs fa inesorabilmente parte della categoria: tolti, infatti, un paio di momenti interessanti - legati alla figura della zia visitata dal protagonista Adam e legati alle disquisizioni a proposito della natura della Morte e del Tempo -, il resto pare un'accozzaglia senza criterio di visioni buone giusto per essere proiettate nel soggiorno di casa Majewski ma che finiscono per avere poco senso agli occhi dello spettatore esterno al suo mondo, se non per i riferimenti alle tragedie che hanno colpito la Polonia negli ultimi anni - ricordavo la morte del Presidente in un incidente aereo, non l'alluvione - e le citazioni dell'opera di Dante, che comunque avrebbe meritato senza dubbio uno spazio maggiore, specialmente per mano di un aspirante Sokurov come il buon Lech, più che dotato quando si tratta di sfruttare al meglio la macchina da presa ed i suoi movimenti.
Peccato che, in fase di scrittura, il film latiti e non poco, assumendo le connotazioni di un unico, gigantesco, noiosissimo flusso di coscienza privo del fascino di opere come Enter the void e della capacità di ipnotizzare ed attrarre l'audience, che probabilmente tenderebbe a lasciare la sala entro i primi venti minuti, se non fosse che, di norma, per un titolo di questo genere si è già fortunati a trovare qualche altro coraggioso pronto ad affrontare la "via verso le stelle" attraverso la "selva oscura" ben rappresentata dalla confusione nelle idee e negli intenti del regista.
Senza dubbio si troverà, in rete e non, qualche accanito sostenitore del Cinema d'essai a tutti i costi pronto a difendere a spada tratta la visionarietà di questo lavoro, il suo coraggio, l'importanza data al proprio Paese, ai suoi limiti ed alle sue tragedie neanche fosse cosa viva, eppure, con tutti gli anni passati a nuotare nelle acque più profonde di questa parte della settima arte, sento il cuore in pace affermando che, in realtà, dietro operazioni di questo genere c'è ben poco cuore, o forse troppo, così tanto da non mettere in condizione il pubblico - anche quello, come il sottoscritto, disposto sulla carta ad amare un film - di godere appieno delle sensazioni che lo stesso può regalare.
Senza contare che un protagonista pronto ad ogni piè sospinto a schiacciare un pisolino non è certo d'aiuto nell'affrontare un titolo che rende la sua ora e quaranta scarsa l'equivalente di quattro abbondanti.




MrFord




"I did not believe because I could not see
though you came to me in the night
when the dawn seemed forever lost
you showed me your love in the light of the stars."
Loreena McKennitt - "Dante's prayer" -




domenica 11 maggio 2014

La congiura della pietra nera

Regia: Chao Bin Su, John Woo
Origine: Cina
Anno:
2010
Durata:
108'




La trama (con parole mie): la famigerata setta di assassini denominata Pietra nera è in cerca da tempo dei resti del leggendario monaco Bodhi, giunto dall'India in Cina secoli addietro, che si dice possano trasformare chi li possiede nel definitivo punto di riferimento del kung fu, oltre che in grado di curare qualsiasi malanno di natura fisica.
Ucciso il ministro che ne custodiva una parte insieme al figlio, i membri più importanti della Pietra nera vengono però spiazzati dalla fuga della loro più esperta killer, che messa al sicuro la parte di resti in suo possesso decide di cambiare volto ed identità per rifugiarsi nella capitale e vivere una vita normale.
Il tempo passa, e la stessa donna trova marito in un corriere onesto e gentile, conducendo un'esistenza assolutamente ordinaria: ma la Pietra nera è sempre in agguato, e quando anche la seconda parte delle spoglie di Bodhi tornerà alla luce proprio nella stessa città, il destino farà il suo corso per tutti i protagonisti della vicenda.








In casa Ford il wuxia è sempre stato un genere molto apprezzato fin dai tempi in cui, travolto - fortunatamente solo per poco - dal radicalchicchismo, mossi i primi passi nel Cinema d'autore a tutti i costi: il cappa e spada cinese, infatti, non solo è da sempre tra i più importanti esempi di utilizzo di tecnica e gusto estetico al servizio della vicenda narrata che la settima arte possa offrire, ma anche uno dei generi maggiormente ricco di proposte sconosciute quanto interessanti, senza contare blockbuster come La tigre e il dragone, Hero o La foresta dei pugnali volanti, divenuti veri e propri must anche in occidente.
Probabilmente l'origine del mio amore per questo tipo di prodotti va ricercata in Ashes of time firmato da Wong Kar Wai e Dynasty Warriors 2, che non c'entra assolutamente nulla con il Cinema - trattasi, infatti, del secondo capitolo di una serie di videogiochi uscito, ai tempi, per Playstation 2 - che fu veicolo di battaglie epiche giocate nell'allora camera del giovane Ford ignaro del fatto che più di dieci anni dopo avrebbe ritrovato sul grande schermo proprio la storia portata in scena dal videogame suddetto trasposta in una grandiosa epopea da uno dei più grandi registi che la Cina abbia negli ultimi trent'anni regalato al mondo, John Woo.
Il lavoro in questione è Red Cliff - La battaglia dei tre regni, che spero di poter rivedere nella sua versione integrale e recensire da queste parti una volta o l'altra, ma ora come ora poco importa: quello che importa è il nome del suo narratore, l'appena citato Woo, accreditato come co-regista di questo interessante La congiura della pietra nera, uscito ovviamente in ritardo nelle nostre sale un paio d'anni or sono e recuperato con piacere qui al Saloon.
Sfruttando un intreccio che mescola il cambio d'identità che fu alla base del più riuscito lavoro a stelle e strisce di Woo, Face/Off, al romanticismo alla base di must del wuxia come il già citato La tigre e il dragone, il regista Chao Bin Su racconta una struggente storia di sentimenti, sangue e vendetta costruita su duelli coreografati con precisione millimetrica - e che ricordano più la grande tradizione delle arti marziali, che non il cappa e spada tradizionale - ed una fotografia di eleganza sopraffina, che ha il suo apice nel meraviglioso confronto tra la protagonista ed il monaco che lei stessa ha amato prima del duello che sarà fatale proprio a quest'ultimo: elementi quasi shakespeariani si mescolano ad un'ironia di fondo mai dimenticata - il personaggio scanzonato del corriere pare quasi figlio della tradizione dell'eroe "underdog" dei manga giapponesi - per completare un cocktail decisamente interessante, sia dal punto di vista tecnico, che emozionale.
Certo, a remare contro il risultato finale c'è sempre l'impressione di assistere ad una versione montata ad uso e consumo del pubblico occidentale, una sorta di riassunto di quella che potrebbe essere la vicenda nella sua interezza - come fu per il già citato Red Cliff, uscito in Italia in un'edizione di poco superiore alle due ore ed in Cina in quella originale da sei - che a tratti trasmette la spiacevole sensazione di essere entrati in sala a spettacolo già iniziato, e che soprattutto nelle sequenze di raccordo manifesta un uso decisamente eccessivo dell'accetta in fase di montaggio, ma purtroppo è una realtà con la quale dovremo continuare a misurarci almeno fino a quando i distributori - questa volta non solo nostrani - si convinceranno che il pubblico è abbastanza intelligente per digerire anche prodotti impegnativi provenienti da culture molto diverse dalla propria.
Nell'attesa che quel momento giunga, il sottoscritto si gode con grande piacere titoli eleganti, ben girati ed interessanti come questo, in bilico tra la spettacolarità dei calci rotanti ed il romanticismo di un matrimonio costruito su una doppia menzogna e divenuto focolare di un amore più forte perfino del Destino.



MrFord



"Black pearl - my kinda girl
just the kind of thing to rock my world
black pearl - she's my kinda girl."
Bryan Adams - "Black pearl" - 



venerdì 27 settembre 2013

Passion

Regia: Brian De Palma
Origine: Germania, Francia, USA
Anno:
2012
Durata:
102'




La trama (con parole mie): Christine Stanford, direttrice di un'agenzia pubblicitaria a Berlino, è una donna abituata a gestire il potere ed esercitarlo, così come ad avere tutti - in ufficio come nel letto - ai suoi ordini. Isabelle James è il talento più cristallino del suo team, una ragazza che Christine traduce in un'occasione di carriera così come in una sorta di giocattolo e sogno erotico idealizzato.
Quando quelli che apparentemente paiono normali conflitti lavorativi finiscono per trasformarsi in ossessioni e vendette, tra le due donne si innescherà un meccanismo mortale pronto ad oliarsi con il sangue di un omicidio apparentemente perfetto.
Ma le cose sono davvero come sembrano? O qualcuno, dietro le quinte, ha finito per manovrare anche chi pensava di essere regista di una vicenda pronta a concludersi con un finale senza sbavature?




Occorre ammettere che, nonostante il tempo che passa ed una distribuzione non più in grado - o disposta - a supportarlo come meriterebbe, Brian De Palma continua a difendersi decisamente meglio di molti suoi anche più illustri colleghi, dedicandosi alla realizzazione e messa in scena di pellicole che è evidente quanto finisca per amare senza tradire in alcun modo quella che, di fatto, è la sua poetica voyeuristica ed elegante fin dalle prime affermazioni di una lunga carriera.
Partendo da Crime d'amour di Alain Corneau, infatti, il regista di Newark porta sullo schermo una perfetta storia in piena De Palma's Way, circondando i consueti preziosismi tecnici con una cornice che ricorda i thriller di matrice hitchcockiana - del resto, il vecchio Hitch resta il Maestro ed il riferimento assoluto del buon Brian -, affiancando due protagoniste diversissime tra loro eppure insolitamente funzionali - non amo particolarmente Noomi Rapace, così come Rachel McAdams - e costruendo un crescendo di tensione e twist in grado di avvincere - seppur non convincendo fino in fondo - il pubblico dal primo all'ultimo minuto come di recente era stato in grado di fare Soderbergh con il suo Effetti collaterali, che in qualche modo ho trovato associabile - e non solo per genere - a questo Passion.
Dunque, ad un'algida fotografia e passaggi d'alta scuola - le riprese del finale, lo splendido split screen affiancato al piano sequenza di poco precedente alla scena dell'omicidio - vediamo svilupparsi temi attuali ed importanti come le molestie sul posto di lavoro - siano esse sessuali o no -, una critica feroce all'Uomo come predatore senza morale ed un deciso sguardo all'anima nera che guida la nostra mano - e non solo quella - quando all'istinto di sopravvivenza si mescola il desiderio di qualcosa, o qualcuno.
In questo senso, interessante notare come nessuno tra i protagonisti esca completamente pulito dalla vicenda, che spesso e volentieri pare quasi un complicato gioco delle parti all'interno del quale, inesorabilmente, tutti e senza complimenti lavorano in modo da colpire alle spalle chi sta loro attorno principalmente per un rendiconto personale, sia esso legato al denaro, alla carriera o al desiderio sessuale - anche perchè, di sentimenti, malgrado le complesse psicologie di Christine, Isabelle e Dani, pare davvero arduo parlare -, e che perfino nella figura dell'ispettore di polizia innamorato segretamente della sospettata principale trovano la conferma della debolezza e dell'oscurità che in quanto esseri umani portiamo in dote al mondo.
Certo, non stiamo comunque parlando del miglior lavoro del regista - i gloriosi anni ottanta e l'ironia nerissima di Omicidio a luci rosse sono purtroppo ormai lontani - ed alcuni snodi della sceneggiatura paiono a tratti troppo facili - l'escalation giudiziaria a seguito dell'omicidio e la chiusura "onirica" su tutti -, eppure il piacere di osservare un grande al lavoro resta, anche perchè l'amore che De Palma continua a nutrire per Hitchcock traspare senza spocchia alcuna da ogni fotogramma, e se il risultato resta pur sempre quello di un epigono - di classe, ma un epigono - incapace di raggiungere le vette dell'originale, il piacere si sente, negli occhi come sulla pelle.
A Brian De Palma continua, dopo decenni di onorata carriera, a non mancare la "passione".
E fortunatamente, noi amanti del Cinema siamo sempre qui, pronti a prenderci un pezzo in più di questo stesso torbido, sanguigno, travolgente istinto.


MrFord


"In the bars and the cafes, passion
in the streets and the alleys, passion
a lot of pretending, passion
everybody searching, passion."
Rod Stewart - "Passion" - 


martedì 24 settembre 2013

The Grandmaster

Regia: Wong Kar Wai
Origine: Cina, Hong Kong, USA
Anno: 2013
Durata: 123'





La trama (con parole mie): nella Cina degli anni trenta, Ip Man, indiscusso Maestro di arti marziali, vive una vita tranquilla con la famiglia, godendosi non soltanto la sua posizione, ma anche le ricchezze ereditate dai suoi avi. Quando un conflitto in seno alla comunità del kung fu lo porta al confronto con la dinastia dei Gong, Ip Man decide di defilarsi nonostante l'attrazione provata per la figlia dello stesso Gong, Er, in lotta con l'ex allievo del padre Ma San.
Quando i giapponesi invadono la Cina ed Ip Man è costretto a rinunciare a tutto spostandosi ad Hong Kong, le vite dei protagonisti della scena del kung fu cambiano e si disperdono, ma il legame che tocca le esistenze dei tre esperti più importanti del continente pare non dissolversi, accompagnando ognuno di loro nella vita e nella morte come un dono o una maledizione.





Non è un mistero che Wong Kar Wai sia stato una delle più grandi passioni cinematografiche del sottoscritto nei primi anni del nuovo millennio, ovvero nel periodo in cui maggiormente mi concentrai sul solo Cinema d'autore senza preoccuparmi troppo di tutte le proposte tamarre che costellarono la mia infanzia e che tornai - fortunatamente - a recuperare qualche anno dopo.
Come se non bastassero, poi, perle assolute del calibro di In the mood for love o 2046, il buon Wong si rivelò responsabile di una delle folgorazioni più travolgenti della mia storia di spettatore, quell'Hong Kong Express che ancora oggi è senza dubbio parte dei miei dieci film della vita di tutti i tempi - o forse ci si avvicina, ma siamo comunque molto in alto nella graduatoria emotiva -.
Come molti altri registi, giunto all'apice del successo in patria e riconosciuto dai più importanti Festival internazionali, il cineasta di Shanghai finì per cedere alla corte degli States, firmando un'opera decisamente minore come My blueberry nights, fondamentalmente un condensato dei suoi lavori precedenti - tra i quali spicca anche lo splendido Happy together - preparato per tutti gli spettatori mai avvicinatisi al suo lavoro.
Dunque, il quasi silenzio.
Quando, praticamente a sorpresa, venni a sapere della realizzazione di un film legato alla figura di Ip Man, leggendario Maestro di arti marziali che fu anche tra i primi insegnanti di un giovanissimo Bruce Lee, già passato peraltro da queste parti a seguito del biopic action a lui dedicato - un prodotto niente male, tra l'altro -, fui molto felice del ritorno in patria di Wong, pronto a mettersi al lavoro insieme al suo attore feticcio Tony Leung su una materia profondamente cinese: non nascondo, dunque, una certa delusione a seguito della visione.
Senza dubbio la tecnica del regista in questione resta clamorosa ed indiscutibile, la confezione pressochè perfetta, la fotografia splendida, così come i movimenti di macchina, eppure The Grandmaster soffre delle stesse patologie che rendono il Cinema d'autore attuale piuttosto indigesto al sottoscritto: autoreferenzialità, cura eccessiva della confezione a scapito dell'impatto emotivo, una sterilità di fondo che spesso e volentieri, oltre alla noia, fa insorgere nello spettatore il dubbio di non trovarsi nel posto giusto, e che un parco, o qualche locale nell'ora dell'aperitivo sarebbe senza dubbio più divertente di un pippone sul grande schermo, per quanto di classe lo stesso sia.
Ed eccomi infatti annaspare sul divano di casa Ford cercando di aggrapparmi all'idolo e già citato Tony Leung o alla sempre splendida Zhang Ziyi per non rischiare di rimpiangere troppo le tempeste di legnate che l'Ip Man della versione action dispensa per una buona metà di pellicola rispetto a mezze frasi sussurrate sotto la pioggia inquadrata goccia per goccia in una cornice di ricostruzione d'epoca impeccabile, maledicendo il fatto che nell'ultimo periodo riesce davvero difficile a questo vecchio cowboy trovare un film di un certo spessore che coinvolga invece di sfracellare a morte i cosiddetti.
Fortunatamente per me - e per tutti quelli che sceglieranno di vederlo in sala - Wong Kar Wai è e resta un grande narratore delle storie d'amore irrelizzabili e struggenti, e a tre quarti di pellicola spesso dal sapore new age "alto" succede una parte conclusiva di bellezza disarmante, finalmente consacrata ai destini dei protagonisti e alle loro interiorità, in grado di emozionare e coinvolgere come avrebbe dovuto fare l'intero lavoro.
In qualche modo, per esecuzione ed eccessiva freddezza, questo The Grandmaster rappresenta una risposta orientale all'Anna Karenina di Joe Wright, che qui al Saloon subì lo stesso tipo di rimproveri ed osservazioni.
Onestamente spero che Wong possa tornare ad un approccio più naif e semplice, e alla freschezza di quelle che furono le sue prime, fulminanti opere: e poco importerà se dovrà essere sacrificata un pò di forma.


MrFord


"Everybody went kung fu fighting
those cats were fast as lighting
in fact it was a little bit frightning
but they fought with expert timing."
Foo Fighters - "Kung fu fighting" - 


mercoledì 10 luglio 2013

To the wonder

Regia: Terrence Malick
Origine: USA
Anno: 2012
Durata:
112'




La trama (con parole mie): Marina, giovane madre single, incontra Neil, americano purosangue, e tra loro sboccia un amore che si snoda tra Parigi e Mont Saint Michel. 
Quando la donna decide di seguire il suo compagno con la figlia in Oklahoma, all'estasi dell'innamoramento si sovrappone un passo dopo l'altro il declino del rapporto, che culmina con un legame sempre più stretto tra Marina e Padre Quintana, religioso in cerca di Dio, ed in una nuova relazione per Neil, legatosi alla vecchia amica Jane.
Ma questo è solo l'inizio di una storia che vede i protagonisti toccare la Fede e l'Amore, concetti gemelli, indissolubilmente legati ed inesorabilmente scissi: il nostro cuore, dio o chi per lui, però, tarderanno a trovare e fare avere le risposte anche per le strade del mondo.
Resterà solo un'illuminazione: cercare la meraviglia.



Chiunque sia passato dalle parti del Saloon dentro e fuori le Blog Wars, sa benissimo la storia del rapporto tra il sottoscritto e Terrence Malick, regista di culto ed un tempo centellinatore selvaggio delle opere regalate alla settima arte: per anni il cineasta texano è stato uno dei miei favoriti di sempre, esempio di potenza emozionale ed eleganza di immagini, tecnica e cuore, chi più ne ha, più ne metta. Da La rabbia giovane a La sottile linea rossa, non ho fatto che sbrabuzzare gli occhi di fronte all'opera di quello che consideravo un genio quasi all'altezza dell'inarrivabile Kubrick: giunse poi The new world, filmone che adorai e che già alcuni dei fan della prima ora videro come troppo ridondante, appesantito da un'autoreferenzialità eccessiva.
Ed io mi battei, mi battei con tutte le forze affinchè una volta ancora fosse riconosciuta la grandezza del suo Autore.
Ed arrivò il giorno di The tree of life.
Atteso spasmodicamente a seguito di un trailer che prometteva scintille nonchè una vittoria a Cannes - che poi effettivamente giunse -, passò davanti agli occhi del sottoscritto in una serata in compagnia di Julez, Dembo e signora.
Ricordo che, all'uscita dalla sala, tutti e quattro eravamo tra l'attonito e lo sconvolto, con tanto di vena alla tempia pronta ad esplodere per la rabbia: due ore e mezza di pippa gigante travestita da pistolotto new age dalle immagini splendide ma completamente ed inesorabilmente vuoto - fatta eccezione per l'unica mezzora decente, dedicata alla parte di storia effettivamente scritta con un senso -.
Da quel giorno Malick divenne uno dei miei nemici giurati, grande nome furbescamente asservito ad un Cinema tronfio e buono solo per i radical chic da Festival e per i boccaloni - vedasi il mio antagonista Peppa Kid - pronti ad accettare ogni suo movimento di macchina come un'opera intoccabile e sacra, fosse anche la ripresa di una mosca che caga sopra un fiore.
In tutta onestà, attendevo con grande curiosità questo To the wonder, accolto all'ultimo Festival di Venezia in modo piuttosto tiepido anche dalla critica favorevole all'eremita Terrence, e non vedevo l'ora di sfoderare le mie più potenti bottigliate ad ogni fotogramma del film: purtroppo, e ammetto di esserne dispiaciuto, questo non sarà possibile, principalmente perchè To the wonder risulta essere nientemeno che una versione edulcorata di quello che fu The tree of life, finendo per guadagnarsi una quasi mediocrità che è l'incontro perfetto tra la tecnica - indubbiamente sopraffina - dell'artigiano e la clamorosa montagna di stronzate pontificate come Vangelo dall'artista.
Ormai è risaputo che questo vecchio cowboy è piuttosto refrattario alla religione ed ai messaggi messianici, eppure mi è capitato, nel corso degli ultimi mesi, di incontrare opere in grado di stimolare quantomeno la curiosità del sottoscritto rispetto a quello che muove le persone normalmente tese verso qualcosa di "superiore" - o presunto tale -, e che vada oltre un sonno eterno nella totale pace dei sensi, come Natura vuole: titoli come Vita di Pi o Red lights, ad esempio, sono riusciti a solleticare corde normalmente molto lontane dalla mia personale visione del mondo, così come The master.
In questo caso, invece, mi pare di aver assistito ad una di quelle prediche infinite che da bambino mi annoiavano tanto quando venivo costretto ad andare a Messa, ed aspettavo soltanto il momento dello scambio della stretta di mano perchè mi pareva l'unica cosa fisica e sensata di quel tormento.
La poetica di Malick, passata dall'essere un inno lirico ad un vero e proprio sermone, sta finendo per minare la stima che avevo anche del già citato The new world e nientemeno che de La sottile linea rossa, portandomi in qualche modo a sminuirli in quanto basi di quelli che poi sarebbero stati The tree of life e questo To the wonder.
Malick, in qualche modo, pretende di spiegare l'Amore a noi comuni mortali almeno quanto i signori prelati finiscono per esercitare un potere "superiore" in base al quale noi tutti siamo giudicati e che allo stesso modo dovremmo temere.
Idoli e mostri sacri.
Ho una sola parola, per tutto questo, molto adatta al Saloon e al suo bancone di legno grezzo: fanculo.
Una volta un saggio scrisse che la religione è l'oppio dei popoli.
Se è così, allora Malick è l'oppio del Cinema.


MrFord


"And all the roads we have to walk are winding
and all the lights that lead us there are blinding
there are many things that I would like to say to you, but I don't know how
because maybe you're gonna be the one that saves me
and after all, you're my wonderwall."
Oasis - "Wonderwall" - 


lunedì 18 marzo 2013

Eyes wide shut

Regia: Stanley Kubrick
Origine: USA, UK
Anno: 1999
Durata: 159'




La trama (con parole mie): William e Alice Hartford sono una coppia bella e di successo della New York che conta. Lui è un medico ormai affermato, lei un'esperta del settore artistico, sono ricchi, felici e con una famiglia perfetta: non potrebbero desiderare altro nella vita.
Quando il racconto di una fantasia erotica di Alice scatena una crisi profonda in William, l'affascinante dottore si imbarca in un viaggio oltre i confini della notte alla scoperta di un lato della città che non conosceva, accendendo la scintilla che porterà il suo rapporto con la moglie ad esplodere.
Coinvolto, inoltre, da un vecchio amico pianista fino ad assistere ad un incontro segreto organizzato da un'elite misteriosa e molto gelosa della privacy dei "party" che organizza, William scoprirà di dover fare i conti con ben altro che il tradimento, il sesso e i desideri proibiti: di fronte a lui, infatti, comincerà a prendere forma una vera e propria minaccia per i suoi cari.





E così, siamo arrivati alla fine.
L'ultimo lavoro del Maestro dei Maestri.
Un film controverso, amato alla follia ed odiato disperatamente.
Indovinate un pò da che parte sta il vecchio Ford?
La prima volta che vidi Eyes wide shut fui dubbioso, principalmente perchè mio fratello l'aveva dipinto come l'ultimo, grande monito di quello che, senza ombra di dubbio, è stato uno dei registi più importanti - se non il più importante - della Storia della settima arte, mentre il sottoscritto temeva fortemente l'ingerenza di chi - Spielberg in primis - aveva avuto l'occasione di metterci le mani sopra dal momento stesso della morte del Nostro, avvenuta quando ancora questo incredibile lavoro era in fase di produzione, montaggio e arzigogoli vari.
Ma poche palle. Eyes wide shut è una bomba. Un film che manca la zampata dei Capolavori kubrickiani per un nonnulla.
Un ritratto dei rapporti di coppia lucido, sensuale e terribile come non se n'erano mai visti.
Sempre contro, come il buon Stan.
Orchestrando ed incastrando neanche si fosse nel pieno del più perfetto dei sessantanove una coppia di attori in parte clamorosa - tanto che divorziarono non molto tempo dopo il termine delle riprese - ed una tecnica da urlo - piani sequenza ed un utilizzo della musica oltre i limiti del magistrale -, ispirandosi all'opera Doppio sogno di Arthur Schnizler, Kubrick porta sullo schermo la forza e le maschere del matrimonio adattandole ad un'epopea tra il thriller e il grottesco che ricorda la meraviglia scorsesiana di Fuori orario ed anticipa le meraviglie di Lynch - potrei dedicargli una retrospettiva come questa prossimamente - Mulholland drive e Inland empire, mutando un lavoro di concetto in una sorta di viaggio iniziatico che, al contrario della norma, considera e mette sulla bilancia due differenti visioni, incarnate da Bill Hartford e sua moglie Alice.
Uomini e donne, la facilità del tradimento fisico guidato dall'istintività e quello dell'influenza mentale, che non necessariamente deve o dovrà avere uno sfogo anche reale: lasciare da parte tutto quello che ci riserva il destino così come i sogni che lo stesso non potrà mai tradurre in ricordi, osservare nella loro esecuzione l'improvvisazione dell'istante e l'eleganza da eminenza grigia dell'idea.
Eyes wide shut è davvero un sacco di cose, troppo.
Un pò come quando ci si imbarca in una storia che finisce per essere ben oltre i confini che normalmente finiamo - volenti o nolenti, perennemente in crisi d'identità come Bill Hartford, intento ad ogni piè sospinto a mostrare il suo tesserino identificativo come per dichiarare al mondo di essere
un medico, e dunque un uomo rispettabile, e la sua compagna Alice, che gioca al gatto col topo senza mai predere davvero in considerazione l'idea di uscire dal seminato, forse per paura dei labirinti di Shining: Eyes wide shut non va sottovalutato, perchè rappresenta una minaccia come quella che è stata per i suoi interpreti, o per l'incredibile abisso che si schiude nella notte che il buon medico dedica alla trasgressione estrema, a quello che non è mai stato, ma che, forse, avrebbe voluto essere - incredibile il confronto tra Cruise/Bill e la coinquilina di Domino, un vero e proprio saggio di recitazione e senso della scena -, al rischio che tutti corrono, quello di lasciare che mente ed istinto si fondano, fino a mettere in gioco ogni certezza della propria vita.
Eyes wide shut è un film che racchiude l'opera intera del vecchio Stan, dallo spirito rivoluzionario rispetto ad una società che non è mai stata considerata "casa" dal regista alla sensualità proibita e grottesca di Lolita, dall'osare di un protagonista solo in apparenza freddo come Barry Lyndon alla fusione tra immagini e musica di Arancia meccanica: il sesso, base taciuta della nostra convivenza civile, diviene il simbolo principale della struttura di potere che regola le architetture del mondo e del Cinema - meravigliosa l'apertura in bilico tra la casa degli Hartford e la festa -, i rapporti tra Uomo e Donna, la base della politica che è essa stessa alla base del mondo, la tecnica ed il sentimento, il compromesso ed il rischio, il rapporto di una vita e la fuga di una notte.
Cosa vale di più? Il sogno o la verità?
Dove stiamo andando? E cosa rischiamo?
C'è solo una risposta, al viaggio del dottor Bill.
Di Alice, degli ungheresi, dei pianisti e delle coppie.
Una risposta che non ha parole d'ordine, o colonne sonore che si stoppano ad un gesto.
Non ci sono Fidelio che tengano.
O giuramenti, o sogni, o doppi sogni.
Bisogna scopare, e non c'è altra storia.
Perchè questo è il metronomo del nostro essere animali sociali.
E non c'è sfida più grande che il Maestro potesse lanciare.


MrFord


"Let's fuck 'til the sun goes up
because we haven't got long but we've got enough
a night to remember, a day to forget
(don't stop 'til we pirouette)
I'm no saint, you're no martyr
one more night playing heart pinata
how do you say goodbye..."
Bring me the horizon - "Fuck" -



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