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mercoledì 15 febbraio 2017

2001: a Dembo odyssey





Qualche anno fa, proprio in questo periodo, decisi di dedicare un paio di settimane circa di post ripercorrendo l'intera carriera di quello che, forse, potrebbe essere considerato il Regista tra i registi, l'indimenticato ed inimitabile Stanley Kubrick.
Seguendo il percorso cronologico della filmografia di quest'ultimo, mi cimentai ovviamente con il post dedicato a quello che io considero IL film, 2001: Odissea nello spazio.
Grazie ad un'imbeccata di quello che considero non solo uno tra i miei migliori amici, ma una sorta di Fratello aggiunto, Dembo, lo scorso sabato ho potuto godere dell'esperienza mistica di questo film su grande schermo, precisamente nella mitica Sala Energia dell'Arcadia di Melzo, che per l'occasione ha deciso di proiettare la versione 70mm della pellicola.
Al mio fianco, ovviamente, lo stesso Dembo, che ora e con grande piacere prenderà il mio posto per l'occasione in qualità di recensore.
Dacci dentro, Fratello.



MrFord




L'altra notte, mentre dormivo il sonno dei giusti, mi sono svegliato tutto sudato ed ansimante, e dopo aver indicato un punto a caso del soffitto, ho gridato: “Film dal potente e misterioso fascino che si interroga sul passato e futuro dell’uomo in un turbine di sequenze al limite dell’onirico!” (Recitato tutto d’un fiato, come fosse il titolo di un lavoro della Wertmüller).
Mia moglie mi ha detto qualcosa che io, ottenebrato dalla forte esperienza mistica che avevo appena vissuto, ho percepito come un “E smettila di drogarti, porco cazzo!” 
Dopo aver incassato l’apprezzamento della mia dolce metà riguardo lo stile di vita che conduco sono svenuto in un sonno senza sogni. La mattina, appena sveglio, mi sono trovato teletrasportato sul divano, in pigiama, tremante e con la bavetta alla bocca – in stile Danny di Shining quando ha la luccicanza - a fissare lo schermo del mio smartphone aperto sulla pagina del cinema Arcadia, sezione eventi extra, sottosezione eventi speciali: SABATO 11 FEBBRAIO, ORE 17:00, 2001 ODISSEA NELLO SPAZIO.
Tutto torna! I pezzi del puzzle si incastrano, il grande Demiurgo che tutto controlla e tutto vede mi ha permesso di scorgere i fili del destino. Sento che sto per ascendere al cielo, ma non c’è tempo! Bacio mia moglie, abbraccio mia figlia fortissimo, prendo una tibia dallo scheletro medievale che tengo in salotto e mi precipito saltando e urlando in sala non prima, ovviamente, di aver coinvolto uno dei miei migliori amici nonché uno dei migliori recensori cinematografici del nostro Sistema Solare: Mr. James Ford.
Quello che segue è la cronaca dell’esperienza trascendentale cui siamo stati sottoposti dalla potenza del film, dalla magnificenza dell’impianto audio Atmos, dall’imponenza dell’enorme schermo della Sala Energia e… Dal fatto che eravamo nella PRIMA fottutissima fila.
Si può recensire un film come 2001 Odissea nello spazio? Secondo me no, nel modo più assoluto. 
O almeno, non nel senso tradizionale del termine. Troppa roba da digerire e metabolizzare, troppi significati reconditi, troppe chiavi di lettura, insomma un incubo per qualsiasi critico che gli si avvicini con questo scopo. E infatti, giustamente, quando chiedi a qualcuno “Com’è 2001 Odissea nello spazio?” sentirai le più disparate risposte, perché ognuno carica di aspettative e significati -ed in base alla propria sensibilità, ai propri gusti e perché no, in base alla propria cultura - un film così monumentale. 
Mi limito a sottolineare che mai come questa volta mi sia trovato in balia della storia, con un'incontrollabile voglia di scoprire cosa avrebbe riservato la scena successiva – era la prima volta che lo vedevo, ecco l’ho detto - con quel senso di fascinoso mistero che ti si attacca alla gola quando stai guardando qualcosa che, evidentemente, sta andando a toccare qualcosa di atavico, di ancestrale –si parla pur sempre del passato dell’Uomo e, soprattutto, del suo futuro -. 
Più volte Kubrick ha sottolineato il fatto che la sfida più grande di 2001 –per altro vinta a mani basse- sia stata quella di creare un film che rifuggisse dalla canonica visione del causa/effetto che regola la narrazione cinematografica, un film che non andasse spiegato al pubblico, ma più semplicemente vissuto lasciando che suggestioni ed emozioni sgorgassero fuori come nel flusso di coscienza di Joyce.
Esistono poi diverse leggende che accompagnano Kubrick e 2001 Odissea nello spazio, si va dal finto allunaggio girato proprio da Stanley per conto della Nasa – si racconta che le speciali lenti usate per girare il film siano state fornite proprio dal famoso ente spaziale americano e che, una volta visto lo straordinario risultato ottenuto, sia stato chiesto al Maestro di replicarlo nel famoso sbarco lunare- passando per le parziali ammissioni di tutto ciò nel film Shining –Danny indossa spesso un maglione con l’effige dell’Apollo 11- per arrivare, ciliegina sulla torta, all’attacco di cuore procurato da non meglio precisati Poteri Forti che imputavano a Kubrick, con il suo ultimo lavoro Eyes wide shut, di aver reso pubblici rituali e modus operandi di alcune società segrete, -mi riferisco, ovviamente, alla strepitosa scena del culto della fertilità con gli incappucciati e la leggendaria musica rumena suonata al contrario- un film troppo semplicemente bollato come “minore” nella sua filmografia e, cosa ancora più triste, balzato agli onori della cronaca più per le scene orgiastiche e per la presenza della coppia Cruise-Kidman, che per il profondo simbolismo massonico che permea l’opera e per la precisissima e tagliente analisi che si fa del Potere, di chi lo esercita e di chi lo subisce.
Che Kubrick fosse un genio lo sanno tutti, pochi sanno però che era anche massone –e quindi sicuramente depositario di antiche conoscenze esoteriche, come l’architettura sacra, la sezione aurea, la veicolazione di simboli subliminali e solo Cthulhu sa cos’altro- quindi non c’è da stupirsi se i suoi lavori riescano a colpire così nel profondo e quasi senza fartene rendere conto, – sono 48 ore che penso a 2001 e ancora non riesco a capire cosa abbia smosso dentro di me per farmelo tanto amare, probabilmente il fatto che il famoso Monolite nero in qualche modo si colleghi alla nota questione del Paleocontatto o, detto più semplicemente, alla teoria degli Antichi astronauti, roba per cui ultimamente sto in fissa parecchio, ergo: sono a tanto così da scavare nel giardino di casa convinto di poter trovare Antichi Manufatti Alieni- perché sono creati proprio con quello scopo, veicolare un messaggio senza che lo spettatore quasi se ne accorga.
Molto interessante poi, è notare che il film non sia invecchiato di un giorno uno. 
Tecnicamente è qualcosa di mostruoso, con una perfetta fusione di modellini, fondali e scenografie–cosa che farà, egregiamente, anche Ridley Scott con Alien nel 1979- ci sono movimenti di macchina che avranno fatto rizzare il pisellino a tutti gli aspiranti registi dell’epoca, c’è una dottrina antropologica/filosofica potentissima ed ancora oggi ineguagliata da tutti quei film che in un modo o nell’altro hanno saccheggiato il lascito di Kubrick –mi riferisco ad Arrival, Gravity, Interstellar –in fondo la libreria pentadimensionale altro non è che la stanza verde in stile Impero della parte finale del film- Stargate, Prometheus e chissà quanti altri che ora non mi vengono in mente.
Insomma, un film grosso così [allarga le braccia fino a quasi fare uscire le spalle dall’articolazione] magari “non il mio preferito in assoluto” come mi ha detto Ford a fine visione andando perfettamente a sovrapporsi al mio pensiero ma “indubbiamente una pietra miliare della cinematografia mondiale, 2001 Odissea nello spazio è IL film
E quando a fine visione il Super Feto –che ha me ha ricordato il Superuomo di Nietzsche- guarda direttamente in macchina esortandoci a continuare il nostro personale “viaggio” verso la conoscenza e la consapevolezza del nostro posto nell’universo, risulta davvero difficile, se non impossibile, trattenere un sussulto al cuore esclamando: “Apri il portello, Hal!”



Dembo





venerdì 4 maggio 2012

Pontypool

Regia: Bruce McDonald
Origine: Canada
Anno: 2008
Durata: 93'



La trama (con parole mie): siamo in una piccola cittadina dell'Ontario, persi in inverni lunghi e bui, spesso e volentieri da sopportare sotto il peso di continue tormente di neve.
In una piccola stazione radio locale lavora Grant Mazzy, un vecchio dj affezionato al Glennfiddich che spesso e volentieri finisce per dire la sua anche quando la stessa non è decisamente richiesta.
Nel corso di quello che pare un normalissimo giorno di programmazione, dall'esterno cominciano ad arrivare notizie di una sorta di epidemia che si sta espandendo a macchia d'olio in tutta la città, causando addirittura la mobilitazione dell'esercito e stimolando l'interesse delle grosse emittenti come la BBC: Mazzy, con la produttrice Sydney e la giovane assistente Laurel-Ann, si troverà ad affrontare un virus come non se ne erano mai visti. E soprattutto sentiti.




Sono contento di aver visto Pontypool. Davvero contento.
Perchè, una volta tanto, ho la possibilità di chiarire il reale significato delle bottigliate, che spesso e volentieri arrivano neanche fossero le Tre Bufere roboando sulla testa dei registi autori di opere che, fondamentalmente, avrebbero potuto essere e non sono state, ma che, di fatto, sono decisamente migliori rispetto a quelle che si vedono appioppare un solo bicchiere di valutazione.
Pontypool, segnalatomi poco tempo fa dal mio fratellino Dembo, è un'opera assolutamente interessante, ricca di spunti e di idee come raramente se ne vedono - almeno di recente - nell'ambito horror, eppure, dall'inizio alla fine, non riesce a convincere appieno, stimolando più che altro nello spettatore la curiosità rispetto a quanto potenziale sarebbero stati in grado di tirare fuori da una materia così Maestri del genere come Romero o Carpenter.
Atmosfera anni settanta, ansia da assedio, un mistero che si svela - seppur in modo parecchio macchinoso - rivelando un morbo davvero unico nel suo genere, metafora non solo dell'ambientazione del film ma della nostra società, che vede alla sua base la comunicazione: le carte in regola per un cult vero e proprio - chissà, forse anche non solo di genere - c'erano tutte, così come un ribaltamento dei topoi del genere zombie movie, che dall'azione - seppur rallentata - e dalle allegorie politiche dei suoi claudicanti protagonisti permette un passaggio ai dialoghi - o più propriamente monologhi - fitti ed ubriacanti di Grant Mazzy - uno Steven McHattie in grande spolvero - e ad un film profondamente parlato, eccessivo e sopra le righe come il dj che lo conduce letteralmente dal principio alla conclusione (?), un tipo spigoloso e ruvido che fin dalla trasmissione del mattino è pronto a schiaffarsi un Glennfiddich giusto per darsi la carica - consiglio alcolico: se non l'avete fatto, provatelo: è una bomba -.
Eppure Pontypool è tutto tranne una pellicola riuscita: sarà la mancanza di un elemento effettivamente spaventoso - inquietudine ce n'è, e molta, ma nulla che si possa paragonare a Classici come La notte dei morti viventi o anche a titoli "minori" come The fog, giusto per citare di nuovo i due giganti cui si ispira palesemente McDonald -, sarà il gigioneggiare a tratti quasi fastidioso del protagonista, saranno gli elementi grotteschi inseriti - non divertenti quanto il regista vorrebbe fossero -, sarà che il talento dell'uomo dietro la macchina da presa non è certamente quello di una potenziale Palma d'oro, ma il sapore che resta una volta conclusa la visione è quello di una grande - per non dire grandissima - occasione più che sprecata affidata alle mani sbagliate.
Idee sulla carta geniali come il resoconto telefonico dell'attacco degli infetti alla clinica da parte dell'inviato dell'emittente esplodono così soltanto una minima parte del loro effettivo potenziale, ridimensionando una pellicola che appare come un cult da videoteca nerd da film anni ottanta quando avrebbe potuto rompere gli argini e diventare qualcosa di decisamente più incisivo come di recente è stato per lavori come The descent di Neil Marshall, Eden Lake di James Watkins e The Woman di Lucky McKee.
Certo, le atmosfere di Pontypool sono molto diverse, il gore è praticamente inesistente e i presupposti decisamente più mentali che viscerali: eppure chi ha mai detto che un horror debba inquietare, spaventare o esplodere soltanto grazie a squartamenti e sangue?
Non è la parola uno dei nostri strumenti di comunicazione, se non il principale?
E non è la mente il vero fulcro su cui fare leva per scatenare le peggiori paure?
In questo senso, il lavoro di McDonald scopre un nervo decisamente delicato per ogni spettatore, e lancia una sorta di sfida all'horror in toto ribaltando la necessità di stupire attraverso gli occhi e l'adrenalina per concentrarsi su quello che può fare il nostro cervellino, se stimolato a dovere.
Di recente, soltanto Ti West con il suo Innkeepers ha cercato di sperimentare una via alternativa in questo senso, e come per Pontypool, il risultato non è stato incisivo quanto avevo sperato.
Ma non occorre fasciarsi troppo la testa.
In fondo, ogni nuova strada si apre attraverso sacrifici ed esperimenti che possono anche non essere riusciti al meglio.
Si può dire che McDonald si sia dato da fare per essere una sorta di esploratore di quello che potrebbe tornare ad essere un punto di riferimento dell'horror: un'autorialità giocata su testa, società e comunicazione. Una litania invece di un grido. Un assedio invece di una fuga in campo aperto.
Sconvolgimento mentale prima di azione fisica.
Linguaggio prima di sangue.
Un survival politico che antispettacolarizza uno dei generi più spettacolari che esistano.
Resta da vedere se la strada imboccata da questi improvvisati nuovi pionieri si rivelerà un tripudio di genialità come fu per i loro più grandi predecessori o un'intricata matassa di noiosi tentativi pseudo intellettuali.


MrFord


"Fiumi di parole
fiumi di parole tra noi
prima o poi ci portano via
ti darò il mio cuore
ti darò il mio cuore se vuoi."
Jalisse - "Fiumi di parole" - 


 

giovedì 9 febbraio 2012

Secuestrados

Regia: Miguel Angel Vivas
Origine: Spagna
Anno: 2010
Durata: 85'



La trama (con parole mie): Jaime, Marta e la loro figlia adolescente Isa sono i componenti di una ricca famiglia della borghesia spagnola che di recente si è trasferita in una splendida villa lontana dalla città.
La sera della loro prima cena nella nuova abitazione, con Isa in agitazione a causa di un litigio con la madre e in attesa che il fidanzato la passi a prendere, tre rapinatori fanno irruzione prendendoli in ostaggio e minacciandoli per ottenere carte di credito e oggetti di valore.
Mentre Jaime viene portato in città da quello che pare il capo in modo da poter prelevare tutto il possibile dai conti correnti con la minaccia costituita dalle due donne in mano ai suoi due complici, però, in casa scoppia il finimondo: il ritorno dei due uomini non sarà davvero quello che si sarebbero aspettati.




Alcune pellicole, quasi per definizione, paiono portare nel loro bagaglio polemiche e pareri profondamente discordanti, e riescono ad essere in grado di far parlare anche in maniera diametralmente opposta i loro spettatori: senza dubbio Secuestrados può essere considerata parte del gruppo, così come prima di lei furono i due Funny games firmati Haneke e, ancora più indietro, Arancia meccanica.
Certo, è chiaro fin da subito che in questo caso ci si trovi di fronte a qualcosa di ben diverso e ben lontano dal Capolavoro kubrickiano e più simile ai survival della storia recente come il clamoroso Eden Lake: il lavoro di Vivas, consigliato dal mio fratellino Dembo e molto chiacchierato nella blogosfera non arriva ai livelli di turbamento e tensione del gigantesco lavoro di Watkins, eppure il regista spagnolo confeziona una pellicola realizzata alla grande - con più di una strizzata d'occhio a De Palma, evidentemente omaggiato, ed il Gaspar Noè di Irreversible -, d'impatto, violentissima e decisamente efficace.
Sinceramente, alcune delle critiche mosse a questo lavoro - accusato di essere profondamente reazionario, soprattutto osservando l'utilizzo e la caratterizzazione dei personaggi dei rapinatori, due su tre albanesi, uno dei quali assolutamente folle - mi sono parse addirittura eccessive, anche e soprattutto perchè la sensazione più straniante emersa nel corso della visione è quella di una desolazione morale, fisica ed umana che coinvolge tutti i protagonisti, e di una freddezza che pervade lo spettatore lasciando spazio più all'attenzione per la resa visiva dell'opera che non per l'effettivo "trauma da visione" presente al contrario nel già citato Eden Lake - ansia dal primo all'ultimo minuto - o in lavori come l'altrettanto potente The woman.
I protagonisti di questo Secuestrados appaiono profondamente distanti dal pubblico, talmente chiusi nelle loro imperfette umanità da risultare - vittime e carnefici - quasi fastidiosi, dai ricchi borghesi per i quali, almeno in linea teorica, si dovrebbe parteggiare, ai tre rapinatori: in particolare, data una caratterizzazione maggiore legata all'approccio "da protagonisti" alla vicenda di questi ultimi, osserviamo quanto tutti, dal più professionale leader al suo compatriota - come detto, fulminato a mille - per giungere al "collega" spagnolo - per certi versi il peggiore, con il suo ruolo di talpa e di passivo aggressivo - risultano squallidi per l'atteggiamento quanto e prima che per la violenza perpetrata, e la sensazione è che si sia assistito, nonostante il finale per certi versi estremo, ad una mera esibizione di talento da parte del dotatissimo Vivas.
Proprio la tecnica del regista - per quanto, forse, eccessivamente reiterata nel suo utilizzo - legata al piano sequenza è obiettivamente sbalorditiva, e anche l'uso dello split-screen, normalmente non particolarmente apprezzato in casa Ford, risulta funzionale ed interessante, specie nei momenti in cui vengono presentate sequenze di pari importanza e tensione, e gli occhi finiscono per rimbalzare sconvolti da una parte all'altra dello schermo: il climax appena precedente alla conclusione, con l'incontro dei due piani sequenza e, di conseguenza, delle due metà dello schermo, resta un momento unico nel suo genere, nonchè uno dei passaggi più interessanti cui abbia assistito dai tempi della riscoperta del succitato Noè e del sorprendente Il segreto dei suoi occhi.
Forse è troppo poco, per una pellicola di questo genere, arrivare a coinvolgere soltanto per il talento da esecutore del suo regista, ma chissà che il futuro non riservi a Vivas uno sceneggiatore di livello che gli permetta di smussare gli angoli - l'inutile incipit tutto votato esclusivamente allo shock provocato nello spettatore -, non strafare e puntare, più che agli occhi, al cuore e allo stomaco dell'audience: qui, sarà per un'eccessiva confidenza con i film da morti ammazzati come se piovesse, più che il saggio di un ottimo regista, non mi è parso di trovare altro.


MrFord


"I just wanna be kidnapped
tied and gagged and bound to the chair
if you dare.
I'm just kidnapped
'cause you're stealing my love
and I swear you don't care."
Gary Moore - "Kidnapped" -



sabato 21 gennaio 2012

Mr. Nice

Autore: Howard Marks
Origine: Galles
Editore: Giano
Anno: 1996 (in Italia 2001 e 2010)



La trama (con parole mie): Dennis Howard Marks è ed è stato molte cose, nel corso della sua vita. Nato in un paesino del Galles da una modesta famiglia di lavoratori ha sognato di essere Elvis, si è laureato in fisica al prestigioso Balliol College, è divenuto il trafficante di droghe leggere più importante della storia, è stato una quasi spia dell'MI6, ha avuto rapporti con esponenti dell'IRA, della Mafia, della French Connection, è scampato ad una condanna in Inghilterra ed è stato perseguitato dalla DEA neanche fosse il più pericoloso dei criminali al mondo, ha scontato anni nel terribile penitenziario di Terre Haute, il peggiore degli States, è stato latitante per anni assumendo numerose differenti identità, ha accumulato e perso milioni, vissuto in numerosi Paesi e trafficato in altrettanti, fino ad arrivare a guadagnarsi il soprannome di Marco Polo per il ponte che costituì tra Oriente ed Occidente.
Ma soprattutto, Howard Marks è ed è stato un figlio, un padre ed un marito.
Ed ancora di più, un esploratore appassionato della vita.
Mr. Nice è la sua autobiografia.





Senza dubbio, prima di cominciare, devo ringraziare il mio fratellino Dembo per avermi fatto conoscere questo libro e, indirettamente, Howard Marks.
Ora, potrei stare qui a sproloquiare e raccontarvi, quasi idealizzandole, le imprese come trafficante di hashish e marijuana di uno dei veri pionieri del settore, uno dei più rivoluzionari ed estrosi personaggi della storia del crimine, un uomo che a quasi vent'anni ha scoperto di amare il rito della fumata - "High time" fu il primo libro che si dedico alle sue imprese, giusto per rimanere in tema - e ha deciso che procurare lo stesso piacere a quante più persone possibili arricchendosi e provando brividi unici nel contempo era quello che avrebbe voluto fare nella vita, ma non lo farò.
Cercherò di parlare il meno possibile, infatti, dell'aspetto più noto della vita di Howard Marks, in parte perchè ho sempre detestato il "fenomeno Scarface" che porta fin troppi ragazzi - e non solo, purtroppo - a considerare il crimine cool quasi fosse un'affermazione di potere e potenza, in parte perchè non sono le imprese come trafficante ad avermi colpito maggiormente, nel corso di questa autobiografia, ma l'uomo che le ha compiute.
Howard Marks, infatti, è riuscito subito ad entrarmi nel cuore grazie ad un innato carisma ed uno spirito da cercatore che, senza dubbio e più di una spiccata intelligenza, è stato il vero motore di ogni suo successo, e benzina per il riscatto nelle ore più buie: un ragazzo nato in un paesino di minatori nel cuore del Galles che da adolescente sognava di imitare Elvis, mosso quasi esclusivamente dalla curiosità e dalla voglia di scoprire il mondo ed il posto da occupare al suo interno, è arrivato ad essere considerato una sorta di quasi profeta, viaggiando in tutto il mondo - stupendo il passaggio del suo viaggio lungo il confine pakistano, dove nessun occidentale era mai stato, alla scoperta del mondo di contadini che vivono e muoiono su montagne che non hanno frontiere fabbricando l'hashish migliore del mondo - senza perdere lo spirito guascone e generoso di chi adora essere circondato dalle persone che ama, che dichiara che offrire una bevuta, cibo e una fumata a chi lo desidera resta uno dei più grandi piaceri della vita, che soffre per gli amici perduti lungo la strada ed anche per i nemici - ancora una volta, ottimi i passaggi che vedono Marks provare rimorso profondo per l'ufficiale che si tolse la vita quando il processo intentato contro di lui dalle corti inglesi fallì, o il momento in cui rifiutò di insultare la Spagna per evitare l'estradizione negli Usa, o ancora la punta di dispiacere per gli acciacchi fisici della sua nemesi più terribile, l'agente della DEA Lovato -, che nel carcere più duro e terribile degli Usa - Terre Haute, nell'Indiana, l'incubo di ogni detenuto - riesce a sopravvivere alla paura e allo sconforto mantenendo rapporti equilibrati con i membri delle più svariate organizzazioni criminali del mondo.
Un racconto di vita, questo, che ho associato immediatamente ad Educazione di una canaglia del mitico Edward Bunker, e che nonostante le differenze tra i due protagonisti mostra l'altra faccia di chi vive - o ha vissuto - oltre la legge e soltanto con il suo talento e la sua passione è riuscito non soltanto a trovare un riscatto, ma anche una nuova via verso il successo.
Da questo punto di vista, e al contrario della rabbia di Bunk, l'umanità di Howard Marks sta tutta nell'affetto che lo lega a luoghi e persone, dai lavoratori umili per le strade di Bangkok - di intensità notevole la vicenda di Sompop e la catenina protettiva che quest'ultimo gli regalerà - alla sua famiglia, dai genitori - da brividi il momento di sconforto vissuto dal protagonista nel corso della sua detenzione negli Usa, quando il costoso avvocato fu pagato grazie alla vendita della casa che i suoi comprarono da giovani, o la paura di Marks stesso di fronte all'idea di non riuscire a tornare in libertà in tempo per ritrovare i suoi vecchi ancora vivi - ai figli, fino alla compagna di una vita Judy, anch'ella autrice di un libro che racconta il loro rapporto, dalle sbronze dei giorni di gloria alla magia della prima figlia annunciata nella cornice di Campione d'Italia fino al dramma del loro arresto a Palma.
E tra Hong Kong, Manila, Bangkok, Karachi, il Canada, gli States, l'Europa - il passaporto di Mr. Nice, una delle identità assunte da Howard nei suoi anni di latitanza, pare si trovi ancora sepolto da qualche parte nei giardini pubblici dell'appena citata Campione, e sono curiose le testimonianze "da straniero" del Nostro a proposito di Padova, Napoli o Palermo - il viaggio di quest'uomo dalle mille risorse pare non conoscere una pausa neppure quando è la DEA, espressione della potenza dello stato più incredibile e terribile del mondo a muovergli guerra finendo per allontanarlo da amici, parenti, moglie, figli e soprattutto dalla libertà, quella stessa che - e sono sicuro che Howard Marks per primo la pensa così - vale decisamente più di una ricchezza spropositata.
Anche perchè, in fondo, per quanto se la sia goduta, il buon Mr. Nice ha dichiarato in più di un'occasione che se le droghe leggere fossero state legalizzate lui avrebbe volentieri fatto parte dei più accesi sostenitori di questo passaggio: del resto - e sono parole del vecchio How che condivido - se le droghe - tutte, nessuna esclusa - fossero vendute in farmacia e distribuite come prodotti approvati dalla legge, almeno la metà delle organizzazioni criminali mondiali - non soltanto quelle non violente come fu sempre per  Marks ed i suoi compagni, ma anche le più pericolose - verrebbero debellate senza il bisogno di alzare un dito, e ognuno di noi sarebbe libero di scegliere di essere dipendente da una sostanza accettandone le conseguenze - come è già con alcool e sigarette -.
Ma se così fosse, che ne sarebbe di quel brivido che ci spinge a muovere sempre un passo oltre?
Non è difficile trovarlo.
In fondo, Howard Marks lo ha capito in un momento ben preciso della sua vita.
Il momento in cui, tra decine di identità che lo avevano accompagnato in tutto il mondo e negli anni, venne determinata la sua più importante.
Il momento in cui fu chiamato papà.


MrFord


"You and me
and the guy from the Sparks
hanging out with Howard Marks
we're the three musketeers yeah
gather round with your beers yeah
there's no need for the fears."
Super Furry Animals - "Hangin' out with Howard Marks" -

domenica 4 dicembre 2011

Ong Bak - Nato per combattere

Regia: Prachya Pinkaew
Origine: Thailandia
Anno: 2003
Durata: 105'



La trama (con parole mie): Ting, eroe e campione di Muay Thai di uno sperduto villaggio, dopo aver completato il suo addestramento, parte per Bangkok alla ricerca della testa di una statua sacra per la sua gente trafugata da un piccolo malvivente originario del luogo.
In città è guidato da Humlae, anche lui proveniente dal villaggio ed un tempo aspirante monaco, divenuto un mezzo tamarro ossigenato pronto a fare da spalla comica al protagonista.
Ovviamente, il piccolo malvivente responsabile del furto è in realtà il galoppino di un boss locale al centro di un traffico di statue antiche e combattimenti illegali che Ting, a suon di gomitate in testa, sarà chiamato a sgominare.



Devo chiedere scusa al mio fratellino Dembo.
So che, infatti, prima o poi dovremo avventurarci nella visione del secondo capitolo delle avventure di Ting, che siamo entrambi figli di una sottocultura trash legata ai film di botte e da buoni tamarri dobbiamo tenere fede al nostro apparire duri e cazzuti, ma non riesco proprio a fingere: Ong Bak è uno dei film più brutti che mi sia mai capitato di vedere, una schifezza atomica di proporzioni bibliche che se non fosse stato per le doti atletiche indubbie del suo protagonista sarebbe in tutto e per tutto una produzione ad essere buoni dilettantesca, girata, pensata e realizzata così male da far apparire i vecchi cult del trash con Bud Spencer e Terence Hill delle cose degne della Palma d'oro, e addirittura - Julez è testimone - Don Matteo una sorta di piccolo cult che manca il sorpasso soltanto a causa della mancanza delle botte da orbi necessarie per ogni tamarrata che si rispetti.
Sequenze come quella dei combattimenti a ripetizione nel locale gestito dal boss - impagabile l'avversario giapponese, per non parlare dell'assurdo Mad Dog - o quella della battaglia finale con la Tigre - tirapiedi del suddetto boss che sfodera come colpo segreto l'iniezione dal nulla di una manciata di siringhe di steroidi nel petto - raggiungono livelli così bassi da risultare quasi incredibili, e stimolare nello spettatore domande importanti come "nella zuppa di stasera ho messo anche quei vecchi funghetti portati via di soppiatto dal Messico!?".
Tutto questo senza neppure prendere in considerazione le parti dedicate al comico/grottesco - l'inseguimento tra i taxi - o l'escursione in territori melò della conclusione legata al personaggio di Humlae/George, assolutamente ridicole e talmente brutte da risultare non solo innocue, ma quasi quasi addirittura divertenti - ho scritto quasi quasi, badate bene -.
Il mio consiglio, rispetto a questa roba, è quello di esimersi completamente e senza possibilità di replica nel caso in cui non foste appassionati dei film di botte, o di tapparvi il naso e pensare solo alle acrobatiche esibizioni di Tony Jaa nel caso in cui, al contrario, foste fan del genere: le evoluzioni di questo incredibile atleta, infatti, sono l'unica cosa per cui valga la pena di affrontare una visione di così basso livello, e le gomitate in testa rifilate agli avversari di turno sono uno spasso assoluto.
Nonostante questo, però, siamo ben lontani dall'effetto dei calci rotanti di Van Damme - Kickboxer e Senza esclusione di colpi tutta la vita, al posto di un "film" di questo genere - o della potenza dirompente di Scott Adkins: e già che ci sono, dichiaro ufficialmente che in una lotta all'ultimo calcio con l'alter ego di Boyka, il buon Tony Jaa, pur fenomenale, sarebbe destinato inevitabilmente a finire con il culo per terra.
Per non parlare del buon Jean Claude.
Ma che c'entrano Boyka e JCVD, direte voi!?
Il fatto è che un pò di folklore va fatto, anche perchè di Ong Bak è davvero difficile dire altro.

MrFord

"I'm so dead
you're the first star
you're the one who sees it all
I know
I'm so tired
and sick."
Deftones - "Fist" -


venerdì 7 ottobre 2011

Solo due ore

Regia: Richard Donner
Origine: Usa
Durata: 105'
Anno: 2006



La trama (con parole mie):  Jack Mosley è un poliziotto stanco, solo e alcolizzato che pare proprio contare i giorni che lo separano dalla pensione per tagliare i ponti con il mondo intero e la feccia che lo abita. 
Una fine turno come un'altra, il suo tenente gli affida una missione di scorta di routine: un paio d'ore di straordinario per scortare un testimone di poco conto, il piccolo delinquente Eddie Bunker, per sedici isolati fino al Tribunale federale, giusto in tempo per registrare una deposizione.
Peccato che la stessa inchioderebbe l'operato di una squadra di poliziotti corrotti e brutali di cui lo stesso Mosley ha fatto parte, ed il suo vecchio compagno Frank Nugent pare deciso a togliere di mezzo Bunker passando anche sul cadavere di Jack, se costretto.
A questo punto a Mosley non resterà che scegliere da che parte stare ed accettarne le conseguenze.



Tra gli appassionati dell'action cresciuti grazie alle perle regalate al genere dagli anni ottanta, credo che nessuno si sia mai perso un passaggio uno di Arma letale, cult dell'epoca impreziosito da un Mel Gibson ancora umano e non in grado di parlare ai castori: già a seguito di questo, Richard Donner dovrebbe avere un posto d'onore nel cuore di ogni fan che si rispetti a scapito anche delle numerose cadute di stile dello stesso giunte nel corso degli anni - e senza dover necessariamente scomodare quello che è il suo Capolavoro: I Goonies -.
Ammetto comunque per primo che, se non fosse stato per il suggerimento di Dembo, ad oggi Solo due ore sarebbe ancora a fare la polvere nel dimenticatoio, e non mi sarei goduto una sana visione piena e corposa come per i vecchi film che ai tempi d'oro mi inchiodavano alla poltrona in attesa di scoprire in quale fracassone modo l'eroe di turno avrebbe tolto le castagne dal fuoco e spedito i cattivi nel posto che competeva loro.
Certo, gli anni passano e l'ispirazione scema, eppure regista e protagonista - un Bruce Willis in grandissimo spolvero - portano a casa il loro risultato confezionando un solido prodotto di (sotto)genere in grado di intrattenere senza pretendere di essere qualcosa in più, regalando alcune sequenze interessanti - la parte all'interno dell'autobus con gli ostaggi, a metà tra Copland e Il negoziatore, è sicuramente tra le più interessanti - e almeno una citazione degna di nota - a un film che omaggia Eddie Bunker non si può non voler bene -.
Ovviamente, lo script e la risoluzione sono telefonatissimi, eppure la narrazione quasi in tempo reale rende l'intera visione estremamente divertente e scorrevole, perfetta per una serata da rutto libero o con gli amici e in pieno rispetto dello spirito che avvolgeva i film di questo genere nel corso della golden age degli eighties.
Oltre ad un Willis in grande spolvero nel ruolo dell'outsider cavallo perdente, si distinguono un discreto Mos Def nel ruolo di Bunker - in una parte che pare cucita addosso all'Eddie Murphy dei tempi di 48 ore -, il David Zayas ormai noto a tutti i fan di Dexter e l'imponente David Morse, che continuo a vedere molto più convincente nei ruoli da personaggio positivo.
Un film assolutamente da evitare per tutti i cannibali di turno ma che regalerà robuste soddisfazioni alla parte fordiana dei cinefili della blogosfera e non, che potranno respirare, almeno in parte, l'atmosfera tutta d'un pezzo che regnava incontrastata sulle loro visioni di bambini.

MrFord

"Disconnect and self destruct one bullet at a time,
what's your rush now?
Everyone will have his day to die."
A perfect circle - "The outsider" -

venerdì 12 agosto 2011

My name is Bruce

Regia: Bruce Campbell
Origine: Usa
Anno: 2007
Durata: 86'

La trama (con parole mie): Bruce Campbell, storico protagonista della saga de La casa ed idolo di generazioni di amanti dell'horror, è in piena crisi di mezza età, ancora in ballo con l'ex moglie e gli alimenti da pagare, la dipendenza dall'alcool e dal sesso, l'ego smisurato ed un agente non sempre affidabile.
Nel giorno del suo compleanno, pensando ad un regalo dello stesso agente, l'attore risponde alla richiesta d'aiuto di un ragazzo vissuto nel suo culto in un piccolo paese dell'Oregon, nel panico a causa di un antico demone che lo stesso giovane ha liberato da un sonno secolare.
Giunto a destinazione, il vecchio Bruce affronterà il mostro credendo di essere nel pieno delle riprese di un nuovo lavoro, e scoprirà sulla sua pelle il prezzo del successo.


Da queste parti, c'è sempre grande rispetto per un personaggio del calibro di Bruce Campbell. 
Del resto, uno che ha regalato al mondo personaggi del calibro dell'Ash de L'armata delle tenebre o l'Elvis di Bubba Ho Tep - peraltro basato su un racconto di Joe Lansdale - dovrebbe praticamente vivere di rendita.
Nonostante la suddetta stima, però - e mi giustifico parzialmente a causa della penalizzazione data dalla distribuzione italiana delle pellicole di serie b -, non ero ancora a conoscenza di questa piccola perla del trash made in Campbellandia: la rivelazione è giunta non troppo tempo fa, grazie a Dembo, che durante una delle nostre visioni incrociate è arrivato a casa Ford armato di chiavetta lanciandomi questa bomba del cattivo gusto dall'impatto di un fulmine a ciel sereno.
Risultato: uno dei film inequivocabilmente più trash e tamarri dell'anno, dal gusto più che dubbio, decisamente scorretto e votato ad una spietata autoironia da parte del suo regista e protagonista, che impazza sbeffeggiando l'horror, i suoi adepti e, prima di tutto, se stesso, in pratica decostruendo il mito dell'attore tutto d'un pezzo pronto a far incetta di donne, alcool e fan sfegatati ad ogni piè sospinto.
Certo, il budget è ridottissimo, le riprese ed il montaggio al limite dell'amatoriale, la resa del mostro terrificante - ovviamente non rispetto alla tensione e allo spavento -, eppure tutto funziona alla grandissima, tanto da riportare alla mente l'epoca dei grandi film di infima serie che, con il passare degli anni, hanno fatto la storia di un genere - l'horror, appunto - e anche, in qualche modo, del Cinema.
Una sorta di omaggio a quello che, ormai quasi un'epoca fa, era stato Ed Wood, il tutto senza dimenticare il gusto clamorosamente trash dell'interprete, che si cimenta in una serie di situazioni in perfetto equilibrio tra idiozia e redneck style da far impallidire fior di parodie in stile Hot Shots - il whisky bevuto dalla ciotola del cane, il demone cinese che si inchina al formaggio, la mano sul culo, il rutto libero, la scelta delle armi e l'impareggiabile fuga dal demone stesso con tanto di incontro/scontro con vecchietta degno del miglior Hot Fuzz - ed in grado di lasciare impietrita l'audience, che sia per soddisfazione - come nel caso del sottoscritto - che per orrore vero e proprio - gli spettatori più fighettini e radical chic -.
Certo, il buon Bruce non passerà sicuramente alla Storia come regista o grande interprete, ma resta una sorta di sacra icona per tutti noi vecchi cowboys ancora affezionati agli squartamenti come solo lui sapeva regalarci e a quel "dammi un pò di zucchero, baby!" che nessuno, e dico nessuno, potrà mai anche solo pensare di eguagliare.

MrFord


"Hi kids! Do you like violence? (Yeah yeah yeah!)
Wanna see me stick Nine Inch Nails through each one of my eyelids? (Uh-huh!)
Wanna copy me and do exactly like I did? (Yeah yeah!)
Try 'cid and get fucked up worse that my life is? (Huh?)"
Eminem - "My name is" -


venerdì 29 luglio 2011

Il tesoro dell'Amazzonia

Regia: Peter Berg
Produzione: Usa
Anno: 2003
Durata: 104'

La trama (con parole mie): The Rock - che si fa chiamare Beck, sperando di portare la genialità del musicista in cucina e coltivare il sogno di aprire un ristorante - viene incaricato dalla versione miliardaria di Piney dei Sons of anarchy di recuperare il figlio, scapestrato avventuriero, che si è stabilito in una remota zona dell'Amazzonia dove impazza Hatcher, proprietario di una miniera e vero e proprio padrone di luoghi e persone lì residenti - o almeno questo è quello che gli piace pensare -.
Dopo un primo approccio piuttosto complicato, il giovane Travis e il suddetto The Rock dovranno unire le forze per cercare di sopravvivere, aiutare i rivoluzionari del posto a spodestare Hatcher e recuperare un antico manufatto: il tutto, con la promessa che, alla fine, Beck porterà a termine il suo compito. Ovviamente.
Inutile aggiungere che, per farlo, dovrà propinare una serie non indifferente di calci nel culo dei cattivi di turno.

A volte, è necessario poco perchè ci si senta soddisfatti di una visione.
Nel caso di questa incredibile, inqualificabile tamarrata, sono bastate la comparsata di Schwarzy ad inizio pellicola che incrociando The Rock regala un "Divertiti!", la presenza stessa del People's champion - come veniva chiamato ai tempi dell'apice della carriera come wrestler - e l'incredibile momento magico, così incredibile da riportarmi dritto dritto a quando avevo dodici anni e d'estate andavo a panini al prosciutto, Coca cola e filmacci di questo genere già dal mattino, della sequenza che vede il protagonista armato di due fucili a pompa rigirare le armi sulle dita, bloccarle sotto le ascelle, ricaricarle e rigirarle di nuovo prima di fare fuoco. 
Senza parole. 
Una cosa così non l'avrebbero osata neppure ai tempi d'oro dell'action movie, e nel pieno della calura estiva, l'amarcord suscitato non poteva che compensare tutti i clamorosi ed evidenti limiti della pellicola, a tratti davvero imbarazzante, seppur mai supponente come i blockbusteroni cui ci hanno abituati Michael Bay e soci negli ultimi anni.
Certo, vedere Christopher Walken imperversare in film di questo genere provoca la stessa sgradevole sensazione di necessità di bottigliate che ultimamente suscita De Niro nel sottoscritto, ma l'indimenticabile protagonista di Fratelli e Il cacciatore pare prendersi sul serio almeno quanto il film stesso, diretto da un Peter Berg che pare ben conscio dei suoi limiti e comincia a sperimentare quello che gli riuscirà senza dubbio meglio in Hancock e The losers, pellicole in cui l'azione appare subordinata ad una vena di comicità grottesca tipica del nuovo trend made in Usa figlio dell'Apatow style.
Fondamentalmente, oltre che ad un sano spegnimento di cervello tipico dei giorni di soffocante calura di luglio, Il tesoro dell'Amazzonia rappresenta un ritorno alla commistione avventura/azione che fece la fortuna di tanti personaggi divenuti ormai feticci personali del sottoscritto, e pur non raggiungendo le vette cui mi hanno abituato nel corso dell'infanzia Sly o Van Damme, offre qualche sana risata, Rosario Dawson nelle vesti di ribelle - doppiata malissimo con un ridicolo accento portoghese -, un paio di sequenze di lotta davvero niente male - soprattutto quella nella foresta - e tutti i classici tormentoni di genere, dai cazzotti che The Rock rifila con cadenza quasi rituale a Travis al rapporto tra i due, dall'alternanza battuta/cazzotto/battuta tipica di questo tipo di prodotto, per giungere fino al telefonatissimo ed autoimposto divieto del protagonista di non usare mai armi da fuoco ovviamente infranto nel momento in cui la situazione comincia a surriscaldarsi.
Una perla del trash riscoperta grazie a Dembo, che sta diventando un punto di riferimento per quanto riguarda le pellicole tamarre che mi sono perso negli anni in cui mi sono dedicato quasi esclusivamente alla scoperta del Cinema autoriale, e non vedevo nient'altro che mattonazzi a ripetizione pensando che cose come questa non mi servissero più.
Poco male, sbagliando si impara.

MrFord

"Whoa, thought it was a nightmare,
lo, it's all so true,
they told me, "Don't go walkin' slow
'cause Devil's on the loose.
Better run through the jungle,
better run through the jungle,
better run through the jungle,
woa, Don't look back to see."
Creedence Clearwater Revival - "Run through the jungle" -

domenica 3 luglio 2011

The Barbarians

La trama (con parole mie): Kutchek e Gore, gemelli adottati da una pacifica tribù di musicanti e saltimanchi guidata dalla giusta regina Canary, vengono costretti ai lavori forzati quando gli uomini del crudele Kadar decidono di mettere le mani sul rubino incantato che da sempre guida i sovrani di questo popolo girovago. Ma la sorte è dalla loro parte, e quando, una volta divenuti uomini, fortissimi e pronti a combattere, decideranno di fuggire e ribaltare le sorti del loro popolo, niente riuscirà a fermarli.
Ma è inutile girarci intorno: questo film non ha bisogno di alcuna trama.
E' un cult totale e senza tempo del trash anni ottanta.

Saranno stati vent'anni, più o meno, che non mi capitava di rivedere questo film.
La memoria ne aveva cancellato ampie parti, ma alcune scene cult le avevo impresse a fuoco, memore di quando, con mio fratello, passavamo i pomeriggi - o, in questa stagione, tutto il giorno - a guardare un film dopo l'altro quando non eravamo al parco a sfiancarci giocando a pallone.
Grazie al provvidenziale intervento di Dembo - muchas gracias, fratello! - che ha recuperato l'edizione in dvd di questa perla, ho avuto modo di tornare ad assaporare le sensazioni che avevano reso Peter e David Paul due veri e propri miti della mia infanzia, tanto da farmi preferire di gran lunga questo fantasy agghiacciante che Deodato pare recuperare dagli scarti di Conan - il secondo, quello scarso - al doppio Van Damme di Double Impact.
E questo è dire tutto.
Ovviamente, anche ora questa risibile pellicola va gustata con uno spirito legato ai miti passati, quasi come se ci trovassimo di colpo di fronte un vecchio scatolone con i giocattoli più significativi del nostro passato, quelli che, in genere, le madri vogliono sempre buttare o dare a qualche asilo e si lotta fino all'ultimo per tenere, fosse anche per tenerli chiusi in soffitta o in cantina.
Ad aggiungere valore al già enorme spessore affettivo che le gesta dei due pompatissimi gemelli avevano per il sottoscritto la riscoperta della totale idiozia degli stessi protagonisti, che, seppur inseriti in un contesto fantasy, paiono comportarsi come gli ultimi dei tamarri della periferia di Harford, Connecticut, loro città d'origine.
Vederli compiaciuti e sorridenti mostrare i muscoli ad ogni piè sospinto o stuzzicarsi a vicenda è ancora oggi un tuffo al cuore che, probabilmente, per chi non ha potuto gustarsi questo film ai tempi, risulterà una cosa completamente folle, anche perchè The Barbarians rivaleggia praticamente ad armi pari con I dominatori dell'universo, uno dei film più terrificanti della Storia delle tamarrate figlie della settima arte.
Un ritorno al passato che è stato una vera e propria goduria e che ha avuto come apice l'indimenticabile scena dell'impiccagione dei gemelli con tanto di rottura della corda grazie allo sforzo del collo taurino di uno dei due - non chiedetemi quale, l'affezione non arriva fino a questo punto - con tanto di urlo di trionfo gutturale che tanto ricorda il grugnito di qualche curioso animale.
Ma potrei andare avanti ore, e non renderei abbastanza la sensazione che è stata viverlo allora, e ritrovarlo oggi. M-I-T-I-C-O.

MrFord

"Back to the primitive
fuck all your bullshit
we're back to set it free
confronting the negative."
Soulfly - "Back to the primitive" -

sabato 2 luglio 2011

Apocalypto

La trama (con parole mie): Zampa di giaguaro, giovane maya cacciatore membro di una tribù che vive nella foresta, è costretto a lottare per la sopravvivenza quando un misterioso gruppo di spietati guerrieri fa irruzione nel suo villaggio per fare razzia e procacciarsi agnelli sacrificali in nome di un sovrano a capo di una città imponente e maestosa. Nascosti in un pozzo profondo la moglie incinta ed il figlio ed assistito all'uccisione del padre, il nostro attende il momento propizio per fuggire al controllo dei suoi carcerieri: scampato al sacrificio grazie ad una provvidenziale eclissi, Zampa dovrà fare ritorno alla sua foresta cercando di contenere gli assalti di Cazzo duro, Dente cariato, Strani capelli, Ferri di cavallo sulla schiena ed il resto dei guerrieri sulle sue tracce.
Un ritorno al Cinema d'avventura tutto sommato guardabile rispetto allo scempio precedente firmato Mel Gibson.

Diciamolo pure chiaro: se non fosse stato Dembo a propormelo, non so se avrei mai preso la decisione di guardare un altro film diretto da Mel Gibson dopo il disastro cosmico che fu quella montagna di immondizia di La passione di Cristo.
Certo, nel corso degli ultimi anni mi era capitato di leggere più di una recensione che rassicurava il pubblico affermando che quel vecchio pazzo di Mel aveva contenuto il suo fervore religioso e si era limitato ad infarcire un classico film d'avventura con un pò di quella truce violenza che tanto pare dargli soddisfazione, ma non ero mai riuscito a superare la barriera che ancora costituiva il secondo film più brutto che abbia mai visto al Cinema nel corso della mia vita di spettatore.
La serata in amicizia con il suddetto Dembo, però, ha permesso che i miei pregiudizi rispetto al regista/attore australiano si quietassero liberando più che altro una robusta dose d'ironia, che ha accompagnato la visione - sicuramente scorrevole e ritmata, come deve essere per un film di questo tipo - ribattezzando praticamente tutti i protagonisti e bersagliando ad ogni occasione il William Wallace dei NeoCon.
Occorre riconoscere, comunque, che le poco più di due ore trascorse in compagnia di Zampa di giaguaro sarebbero passate senza troppi problemi anche se non ci fossimo fatti quattro risate alle spalle del controverso cineasta, nonostante le numerosissime citazioni di capisaldi del genere sicuramente di altra caratura - L'ultimo dei mohicani, Predator - e la suddetta violenza come al solito molto compiaciuta tipica dei lavori del protagonista di Mad Max.
Il tentativo di riportare lo spettatore ad un mondo lontano e crudele, affascinante e barbaro, può quasi definirsi riuscito, e le ingenuità e le inesattezze storiche escono quasi subito di scena per lasciare spazio alla sola adrenalina dell'impresa del giovane protagonista, che più che in fuga, appare nel pieno di una sorta di viaggio iniziatico che lo porterà dalla giovinezza all'età adulta.
La stessa aura quasi sciamanica di Zampa ed il suo progressivo avvicinarsi alla foresta e ai suoi abitanti, una sorta di appartenenza sancita dal sangue e dalla terra si pongono a difesa del protagonista contro gli inseguitori, guerrieri dal distruttivo fascino che riportano alla mente le epopee di Mongol e Avatar, ancora una volta con la coscienza che entrambe queste pellicole siano, e di gran lunga, migliori del lavoro della nostra mascotte Gibson.
Dunque cosa resta, del mio incontro di riconciliazione con Mel? 
Un'ottima serata con il già citato Dembo e Julez, un film d'avventura che si lascia guardare, con tutti i limiti del caso, un sacco di risate e, chissà, la possibilità, al prossimo film, di tentare la visione nonostante i miei trascorsi non proprio pacifici con il più fervente tra i credenti della settima arte.
Se non altro, per dispensare un pò di sane, divertite bottigliate.


MrFord


"And I can tell you why
people die alone
I can tell you I'm
a shadow on the sun."
Audioslave - "Shadow on the sun" -


 

giovedì 23 giugno 2011

Le mele di Adamo

La trama (con parole mie): Adam Pedersen, un neonazista dal temperamento violento, uscito dal carcere viene assegnato alla missione di Padre Ivan, un pastore protestante dall'incrollabile, naif ottimismo a proposito del Bene e di Dio dalla sua parte, nonostante tutte le prove cui la vita pare aver sottoposto lo stesso uomo di chiesa.
Nella piccola realtà della parrocchia, accanto ai disadattati Gunnar, Sarah e Khalid, Adam dovrà confrontarsi con il compito di realizzare una torta con le mele del grande albero che si staglia proprio di fronte alla chiesa: peccato che Satana, stando a quanto afferma Ivan, sarà sempre pronto a metterlo alla prova, almeno fino a quando Adam troverà lo stimolo giusto per credere, e dunque farcela.

Ricordo la prima volta che mi capitò, quasi per caso, di vedere questo film.
Mi aspettavo di trovarmi di fronte all'ennesimo polpettone radical chic di poco conto, ed al contrario rimasi sorpreso dalla freschezza del prodotto, dalle sue ottime intuizioni e dalla cattivissima ironia in grado di prendersi gioco dei massimi sistemi senza mai dare l'impressione di qualcosa che fosse anche solo lontanamente volgare o fine a se stesso.
Con il tempo, la rivalità ed il rapporto tra Adam e Ivan - già mitico grazie all'indimenticabile One eye di Valhalla rising - sono divenuti una sorta di piccolo cult per il sottoscritto, che non ha mai esitato a mostrare questo film ogni volta che se ne presentava l'occasione: così, dopo Julez ai tempi dell'inizio della nostra storia, è stato il turno di mio fratello prima e di Dembo, qualche sera fa. 
Tornare dopo almeno un paio d'anni dall'ultima visione alla missione di Ivan è stato come vivere per la prima volta quell'impertinente, inscalfibile, titanica fede talmente grottesca nella sua negazione della realtà da risultare a suo modo geniale, ed in grado di mettere in difficoltà lo spettatore quanto Adam, versione estremizzata ed estremista dello scetticismo rispetto alla materia religiosa, da sempre uno dei punti focali del Cinema danese - si pensi a Dreyer, tanto per citare il Maestro indiscusso della patria del Dogma, scomodato anche dalla critica a proposito di questo film, definito come un incontro tra lo stesso Dreyer e Tarantino -.
Ovviamente, il paragone tra Anders Thomas Jensen e i due veri e propri mostri sacri appena citati è qualcosa di quantomeno azzardato, eppure il regista, sfruttando un budget tutto sommato molto limitato ed una messa in scena che definirei quasi essenziale riesce a regalare una sequenza di scene memorabili - i corvi sull'albero e la conseguente sparatoria che vede coinvolto il gatto, il the con i biscotti preso da Ivan e Sarah, il vecchio Poul, il rapporto tra Adam con i suoi compagni neonazisti ed i pestaggi perpetrati ai danni di Ivan da parte dello stesso Adam, ma sono solo alcune - come raramente capita di avere occasione di vedere concentrate in un unica pellicola, sempre tenendo in secondo piano - ma mai dimenticandosi - delle riflessioni celate dalle stesse e dalle risate che spesso suscitano.
Il rapporto tra Adam e Ivan, così come quello tra Male e Bene, scetticismo e fede, violenza e filosofia del "porgi l'altra guancia" assume connotati molto più profondi di quanto la vena grottesca della pellicola non possa far apparire ad una visione superficiale, portando l'audience a confrontarsi con un ateo fermamente legato al potere della forza - non a caso, a mio parere, è stato scelto per il personaggio di Adam il background scomodo del neonazista - ed un credente in senso assoluto, capace, in nome della sua fede, di negare la stessa realtà quotidiana.
E dunque, chi avrà ragione dell'altro, in questa lotta che pare eterna e che si gioca in ben più di un campo? E davvero Ivan è meno pericoloso del suo antagonista? Il pastore è soltanto uno stupido dalle convinzioni deviate o un genio assoluto, illuminato da una forza di volontà incrollabile e da un controllo di sè da fare invidia a tutti i Jedi passati sul grande schermo ad un tempo?
Sinceramente, una risposta non c'è. E, probabilmente, non ci sarà mai.
Quel che è sicuro, è che, senza dubbio, Dio - o chi per Lui - sta tutto ed indiscutibilmente dalla parte di Ivan.
E di questo piccolo, grande film.
Talmente grande, che quasi riesce a convertirmi ogni volta.
Quasi.


MrFord


"How deep is your love?
How deep is your love?
I really meant to learn
cos we're living in a world of fools
breaking us down when they
all should let us be."
Take That - "How deep is your love" -

lunedì 13 giugno 2011

Role models

La trama (con parole mie): Danny e Wheeler sono due promoter che si occupano della promozione di una nuova energy drink nelle scuole superiori. Il primo è ombroso, piuttosto stronzo e visibilmente insoddisfatto della sua vita e del suo lavoro, nonchè fidanzato da anni con l'avvocatessa Beth. Il secondo ha abbracciato felicemente la vita dello scapolo e si gode i suoi giorni senza troppe preoccupazioni. Tutto questo fino a quando Beth molla Danny che, ubriaco, mette i due nei guai con la legge e li costringe a dedicarsi a centocinquanta ore di servizio civile per evitare il carcere.
La "pena" prevede che i nostri si occupino di due ragazzini con dei problemi: a Danny tocca Augie, chiuso nel suo mondo fatto di giochi di ruolo e signori degli anelli vari, a Wheeler Ronnie, sboccato e pronto a dare battaglia all'ennesimo adulto che gli viene assegnato.


Devo dire che il mio fratellino Dembo comincia a conoscermi bene.
Quando mi suggerì di recuperare Role models, una decina di giorni fa, la mia mente passò da una cosa scassona ed action come The Losers al "nostro" indimenticabile Suxbad, senza sapere bene cosa aspettarmi, a parte il fatto che faceva parte del cast la sempre agguerrita Sue Sylvester che tutti gli spettatori di Glee hanno imparato ad amare.
Risultato: pur non raggiungendo le vette toccate dalle imprese di McLovin, Role models è stato un ottimo intrattenimento godereccio appartenente meritatissimo dell'Apatow-movement che tante perle sta regalando a noi vecchi, inossidabili cazzoni sempre pronti ad una serata tra amici ed una risata - anche di troppo -.
Inoltre, due elementi hanno permesso che percepissi Role models in modo molto più personale rispetto ad altre pellicole dello stesso genere: il servizio civile e i Kiss.
Come altre volte mi è capitato di raccontare, i dieci mesi che spesi tra il 2000 e il 2001 in modo da esaurire i crediti dello Stato sulla mia persona - peraltro, ricordo che fui l'unico tra i miei amici a passare al primo colpo le visite dei famigerati "tre giorni" e ad essere chiamato per adempiere ai miei doveri - furono tra i più importanti e formativi che mi sia capitato di vivere nel corso della mia vita. 
Fu l'occasione di cimentarsi in qualcosa che non avevo mai fatto prima e scoprire come rapportarsi a problematiche fino a quel momento da me praticamente neppure immaginate.
Dall'altra parte, come il mio antagonista Cannibale ben sa, i Kiss sono state una delle band responsabili del mio amore per il rock e per le maschere, per i fumetti e per il senso di spettacolo che ancora oggi mi attanaglia e mi fa godere di tamarrate inusitate come, ad esempio, il wrestling - che se solo avessi un pò più di tempo e qualche anno meno continuerei a praticare dopo la mia esaltante esperienza legata ad un incredibile regalo di Julez, ma questa è un'altra storia-.
Tornando al film, non posso certo dire che si tratti di una pellicola fondamentale ed assolutamente necessaria per uno spettatore, eppure nell'ambito della commedia demenziale made in Usa di cui sopra si colloca ben al di sopra di altri titoli più noti e riconosciuti - qualcuno ha detto Molto incinta? -: inoltre, il valore aggiunto dato dalla presenza di Christopher Mintz-Plasse, vero e proprio nuovo oggetto di culto del panorama attoriale giovane, è assolutamente incalcolabile, e rende davvero al meglio in un contesto come quello dei giocatori di ruolo dal vivo ricco di sfigati e subnormali a livelli che voi umani non potreste neppure immaginare - e lo dico da conoscitore della materia, essendo stato frequentatore, almeno in passato, delle fiere di fumetti, nonchè giocatore di ruolo, pur se "solo" da tavolo -.
L'accettazione del diverso e la crescita interiore legata al confronto con lo stesso è un tema vecchio come il mondo, e qui neppure affrontato nel modo più originale possibile, eppure a volte bastano una semplice buona dose di onestà ed autoironia per trasformare un potenzialmente banalissimo filmetto in un divertente intrattenimento pomeridiano.
Inoltre, Sean William Scott e quel suo essere tamarro - spalleggiato dal piccolo, terribile Ronnie - rientra perfettamente nella mitologia fordiana degli ultimi anni, e culmina nella battaglia tra giocatori di ruolo sul terreno della quale i nostri si presentano in formazione piena e truccati come i suddetti Kiss.
Ovviamente, come il sottoscritto ai tempi in cui mi cimentai nell'impresa, lo stesso Scott impersona "Space" Ace Frehley, da sempre il mio favorito della band.
Chissà che un giorno non decida dunque di ripetere l'esperienza - facendomi clamorosamente buttare fuori di casa da Julez - e di pubblicare una foto della versione fordiana dei Kiss.
Bastano solo altri tre volontari.
E mi offro, tramite attenta parafrasi, di ripagare i fortunati spiegando nel dettaglio il sottotesto culturalmente superiore di Love gun.

MrFord

"No place for hidin' baby
no place to run
you pull the trigger of my
love gun, (love gun), love gun
love gun, (love gun), love gun."
Kiss - "Love gun" -
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