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venerdì 24 aprile 2015

Cadillac records

Regia: Darnell Martin
Origine: USA
Anno: 2008
Durata:
109'





La trama (con parole mie): a cavallo degli anni cinquanta, a Chicago, la Chess Records divenne una delle realtà più importanti degli USA e non solo rispetto alla divulgazione ed al successo prima della musica "black" e dunque del rock and roll. Da Muddy Waters a Chuck Berry, passando per Howlin' Wolf ed Etta James, i successi indimenticabili ed il declino di una delle realtà di culto che il mondo abbia conosciuto nell'ambito delle sette note.
Eccessi, invenzioni, incroci che avrebbero cambiato la Storia del Rock e drammi personali e sociali pronti a ridefinire l'approccio culturale a stelle e strisce, e non solo: il rapporto, infatti, tra produttore ed artista per come si sarebbe inteso da quel momento in avanti, venne ridefinito dal legame tra Leonard Chess e Muddy Waters, due dei più grandi innovatori che abbiano calcato i palcoscenici - da una parte e dall'altra del sipario - mondiali.








Senza ombra di dubbio, per quanto gli anni da commesso in un negozio di dischi mi abbiano aperto orizzonti musicali decisamente vari, le mie radici di ascoltatore vanno ricercate nel grande calderone del rock, che ancora oggi rappresenta, di fatto, il mio riferimento quando si parla di sette note: ma non ci sarebbe stato alcun rock se prima non fosse esistito il blues, che soprattutto negli States simboleggiò un percorso sociale fondamentale in termini culturali e di diritti civili.
Allo stesso modo, dietro ad ogni grande artista o album, è quasi ovvio scoprire un produttore che, come un regista, guida chi si guadagnerà fama e palcoscenici alla ribalta: in questo senso, poche pellicole riescono a rendere onore e rappresentare bene questi due concetti come Cadillac Records, per anni colpevolmente ignorato dal sottoscritto e recuperato a seguito di una serie di ascolti di genere su Spotify.
Il lavoro di Darnell Martin, prodotto ed interpretato dalla nota pop star Beyoncè Knowles - che si ritaglia il ruolo nientemeno che di Etta James -, è sentito ed onesto, coinvolgente e decisamente di pancia, sudato ed intenso come spesso vengono mostrati, sullo stage e nella vita privata, i suoi protagonisti, da Muddy Waters a Howling Wolf, dalla già citata Etta James a Chuck Berry: proprio a quest'ultimo, vero e proprio fenomeno che, di fatto, diede origine al rock americano - almeno quanto Waters fece con quello inglese - finendo per ispirare grossi calibri come i Beach Boys, si deve una delle sequenze a mio parere più importanti della pellicola, legata al momento in cui l'anima della Chess Records, il Leonard Chess cui presta volto Adrien Brody, decide di investire sull'arrembante nuovo volto della musica, ed assistiamo ad un divertente gioco fatto di scambi di sedia tra "chi conquisterà la fama, e chi avrà i soldi".
In fondo, e molto più che rispetto al mondo del Cinema, il producer musicale resta una figura decisamente più in ombra del regista nella settima arte, nonostante, di fatto, molti dei meriti di un disco riuscito vadano, di fatto, ricondotti proprio alla sua figura: ripenso a Rick Rubin, che sul finire degli anni novanta, dopo aver lavorato con i nomi più grossi dell'industria musicale, decise di reinventare Johnny Cash regalandogli una seconda giovinezza e centrando la premiatissima e fortunatissima serie degli American Recordings, responsabile di aver fatto conoscere al mondo ed al grande pubblico il Man in black, o a Brian Eno con David Bowie, e ritrovo la praticità e l'importanza di una figura di questo genere alle spalle degli spesso sregolati artisti pronti a calcare il palco e conquistarsi fama imperitura.
Ma Cadillac Records non è soltanto l'esplorazione delle figure cardine della Musica: ritroviamo, infatti, elementi che, nella realizzazione delle canzoni divenute miti finiscono per essere importanti quanto e forse più di interpreti e strumenti, dall'amore, al disagio, alle dipendenze, al sesso, passando per la necessità di comunicare ed affermare, sia pure in uno spettacolo, i propri diritti e la propria identità.
La passione e l'esigenza di portare all'esterno quello che, talento o volontà, sentiamo ribollire dentro.
Se, poi, si ha la fortuna di avere un talento come quello di Muddy Waters o Etta James, il viaggio sarà ancora più intenso, per chi lo vive e chi lo ascolta, vivendolo a sua volta: e come nelle migliori storie, e famiglie, si assisterà ad ascese e cadute, a successi e clamorose sconfitte.
Ma il cuore resterà sempre lì.
Perchè non ci sono fama e soldi che possano comprare quel sudore e quell'ardore.
Che si parli di blues, o di rock.



MrFord




"I got a black cat bone
I got a mojo too
I got the Johnny Concheroo
I'm gonna mess with you
I'm gonna make you girls
lead me by my hand
then the world will know
the hoochie coochie man
but you know I'm him
everybody knows I'm him
oh you know I'm the hoochie coochie man
everybody knows I'm him."
Muddy Waters - "(I'm your) Hoochie Coochie man" - 





lunedì 2 gennaio 2012

Dexter Stagione 6

Produzione: Hbo
Origine: Usa
Anno: 2011
Episodi: 12


La trama (con parole mie): dopo la partenza di Lumen, Dexter ha ripreso la sua vita di tutti i giorni da padre single, divisa tra il figlio Harrison, il lavoro come ematologo del Miami Metro e quello che lo lega al "passeggero oscuro" e lo porta a soddisfare i suoi istinti di serial killer sfruttando i malviventi sfuggiti alla giustizia.
La tranquillità è però destinata a durare molto poco: la promozione della sorella Debra a tenente del dipartimento e la comparsa di un nuovo omicida seriale ribattezzato Doomsday killer sono pronti a sconvolgere la vita del nostro, come se non bastasse alle prese con un'insolita quanto curiosa battaglia interiore con il concetto di Fede.




Neanche a farlo apposta, è arrivato anche per Dexter il momento che non mi sarei mai aspettato di dover affrontare, in cuor mio temutissimo rispetto ad una delle serie che, negli anni, più aveva mantenuto un livello qualitativo clamorosamente alto nonostante il rischio di cadute di stile e stagioni di transizione fosse sempre ed inevitabilmente presente.
La sesta serie, da poco conclusa, è, infatti e senza ombra di dubbio, la peggiore mai realizzata tra quelle dedicate alle gesta di questo insolito serial killer: non solo, ma a tratti è risultata essere addirittura inferiore a molte altre proposte del piccolo schermo che, fino allo scorso anno, il personaggio interpretato da Michael C. Hall avrebbe dovuto osservare con il telescopio Hubble sperando di poter intravedere qualcosina, data la distanza siderale che lo separava dalle stesse.
E proprio per non dimenticarcene, partiamo proprio dall'attore protagonista: straordinario nel dare corpo ed anima ad un personaggio solo apparentemente freddo, questa sesta stagione ha segnato un momento di profonda stanca per Hall, forse imprigionato dal volto che è significato la sua consacrazione.
Accanto a questa già clamorosa debacle, la sceneggiatura - fino ad ora uno dei punti di forza di Dexter - risulta confusa, approssimativa e caotica, persa dietro troppi spunti mai davvero approfonditi - il rapporto tra Debra e Quinn, il nuovo detective della Omicidi, la promozione della stessa Debra, il coinvolgimento di Laguerta nella "caduta" di Matthews, il confronto tra Dexter e suo padre e Travis ed il professor Gellar -, incapace di produrre un'escalation di livello portando sullo schermo vere e proprie cadute di stile più che inaspettate per una serie come questa - l'episodio Nebraska, con il ripescaggio del figlio di Trinity, è tra i più brutti che il piccolo schermo abbia riservato agli occupanti di casa Ford quest'anno -.
Ad aggravare la situazione, l'assenza di un vero avversario di livello per il buon Dex pesa come un macigno sul groppone degli spettatori, costretti a sorbirsi, dopo due annate con "cattivi" del calibro di Trinity e Jordan Chase il poco probabile Gellar e l'altrettanto inutile Travis Marshall - interpretato malissimo da Colin Hanks, figlio del più famoso Tom che probabilmente senza l'influenza del padre  non sarebbe stato assunto neppure come galoppino addetto al trasporto della colazione di Michael C. Hall -.
Come se tutto questo non bastasse, l'unica grande idea degli sceneggiatori rispetto a questa nuova stagione - l'ottimo personaggio di Brother Sam, interpretato da un convincente Mos Def - viene accantonata in fretta e furia per concentrarsi sull'aspetto più action della serie a scapito di una sottotrama mistica che al contrario possedeva appeal e potenzialità certamente superiori: un vero delitto, anche perchè il momento della vendetta assaporata da Dexter sulla pelle del responsabile del destino di Sam resta uno dei - l'unico? - momenti davvero degni di tutta questa dimenticabile annata.
Resta ora da vedere se la carne al fuoco buttata dagli autori per correre ai ripari con gli ultimi episodi si rivelerà un trampolino in grado di far tornare il nostro serial killer preferito ai livelli che lo competono oppure se il tutto si tramuterà in un clamoroso scivolone nel trash - la situazione tra Deb e Dexter risulta clamorosamente sul filo tra le stelle e le stalle, oltre che assolutamente delicata -: inoltre, la sequenza che ha chiuso la stagione - un momento atteso da tutti i fan della serie - rischia davvero tutto andando a svilire in qualche modo la meravigliosa scena che vide protagonisti Lumen, Dexter, Jordan Chase e Deb a fine 2010.
Che la crisi del settimo anno sia giunta prima, e dunque verrà il tempo, nel 2012, per Dexter di tornare a strabiliare e convincere?
La stanchezza e la monotonia continueranno ad avere saldo il timone, costringendo gli autori a puntare sul continuo colpo di scena in modo da evitare un'inesorabile parabola discendente?
Il rapporto tra Deb e Dex sarà il motore per una rinascita artistica del prodotto o ne segnerà la rovina?
Ed il titolo provvisorio annunciato per il primo episodio della nuova stagione - Doakes returns, tutto un programma - è l'avvisaglia di un crollo o l'inizio di una nuova era per il serial killer più amato della tv?
Le domande sono molte, indubbiamente.
Speriamo davvero che il passeggero oscuro ci porti in dono le risposte che vorremmo sentire.


MrFord


"Catch me if I fall
I'm losing hold
I can't just carry on this way
and every time
I turn away
lose another blind game."
The Cure - "Faith" -

venerdì 7 ottobre 2011

Solo due ore

Regia: Richard Donner
Origine: Usa
Durata: 105'
Anno: 2006



La trama (con parole mie):  Jack Mosley è un poliziotto stanco, solo e alcolizzato che pare proprio contare i giorni che lo separano dalla pensione per tagliare i ponti con il mondo intero e la feccia che lo abita. 
Una fine turno come un'altra, il suo tenente gli affida una missione di scorta di routine: un paio d'ore di straordinario per scortare un testimone di poco conto, il piccolo delinquente Eddie Bunker, per sedici isolati fino al Tribunale federale, giusto in tempo per registrare una deposizione.
Peccato che la stessa inchioderebbe l'operato di una squadra di poliziotti corrotti e brutali di cui lo stesso Mosley ha fatto parte, ed il suo vecchio compagno Frank Nugent pare deciso a togliere di mezzo Bunker passando anche sul cadavere di Jack, se costretto.
A questo punto a Mosley non resterà che scegliere da che parte stare ed accettarne le conseguenze.



Tra gli appassionati dell'action cresciuti grazie alle perle regalate al genere dagli anni ottanta, credo che nessuno si sia mai perso un passaggio uno di Arma letale, cult dell'epoca impreziosito da un Mel Gibson ancora umano e non in grado di parlare ai castori: già a seguito di questo, Richard Donner dovrebbe avere un posto d'onore nel cuore di ogni fan che si rispetti a scapito anche delle numerose cadute di stile dello stesso giunte nel corso degli anni - e senza dover necessariamente scomodare quello che è il suo Capolavoro: I Goonies -.
Ammetto comunque per primo che, se non fosse stato per il suggerimento di Dembo, ad oggi Solo due ore sarebbe ancora a fare la polvere nel dimenticatoio, e non mi sarei goduto una sana visione piena e corposa come per i vecchi film che ai tempi d'oro mi inchiodavano alla poltrona in attesa di scoprire in quale fracassone modo l'eroe di turno avrebbe tolto le castagne dal fuoco e spedito i cattivi nel posto che competeva loro.
Certo, gli anni passano e l'ispirazione scema, eppure regista e protagonista - un Bruce Willis in grandissimo spolvero - portano a casa il loro risultato confezionando un solido prodotto di (sotto)genere in grado di intrattenere senza pretendere di essere qualcosa in più, regalando alcune sequenze interessanti - la parte all'interno dell'autobus con gli ostaggi, a metà tra Copland e Il negoziatore, è sicuramente tra le più interessanti - e almeno una citazione degna di nota - a un film che omaggia Eddie Bunker non si può non voler bene -.
Ovviamente, lo script e la risoluzione sono telefonatissimi, eppure la narrazione quasi in tempo reale rende l'intera visione estremamente divertente e scorrevole, perfetta per una serata da rutto libero o con gli amici e in pieno rispetto dello spirito che avvolgeva i film di questo genere nel corso della golden age degli eighties.
Oltre ad un Willis in grande spolvero nel ruolo dell'outsider cavallo perdente, si distinguono un discreto Mos Def nel ruolo di Bunker - in una parte che pare cucita addosso all'Eddie Murphy dei tempi di 48 ore -, il David Zayas ormai noto a tutti i fan di Dexter e l'imponente David Morse, che continuo a vedere molto più convincente nei ruoli da personaggio positivo.
Un film assolutamente da evitare per tutti i cannibali di turno ma che regalerà robuste soddisfazioni alla parte fordiana dei cinefili della blogosfera e non, che potranno respirare, almeno in parte, l'atmosfera tutta d'un pezzo che regnava incontrastata sulle loro visioni di bambini.

MrFord

"Disconnect and self destruct one bullet at a time,
what's your rush now?
Everyone will have his day to die."
A perfect circle - "The outsider" -

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