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martedì 29 luglio 2014

Enemy

Regia: Denis Villeneuve
Origine: Canada, Spagna
Anno: 2013
Durata: 90'




La trama (con parole mie): Anthony, un professore di Storia dalla vita apparentemente tranquilla ma turbato da sogni popolati da misteriosi ragni, scopre per caso guardando un film dell'esistenza di un suo doppio in tutto e per tutto, un individuo che fisicamente pare la sua copia esatta.
Sconvolto dall'avvenimento, decide di fare il possibile per mettersi in contatto con lui ed incontrarlo, anche a rischio di passare per un folle pronto a minacciare l'esistenza di quello che è un noto attore sposato ed in attesa di un figlio: quando, finalmente, riuscirà ad ottenere un faccia a faccia, il punto di vista di Anthony si ribalterà, mentre Adam, il suo alter ego, comincerà a manifestare interesse rispetto ad uno scambio dei loro ruoli.
Chi, dunque, troverà il suo spazio e la sua vera collocazione?
E quale ruolo avranno, in tutto questo, la compagna di Anthony e la moglie di Adam?








Non è semplice, nell'oceano di proposte che il grande schermo passa di anno in anno, andando perfino indietro nel tempo, trovare registi che, nel corso della loro carriera, sono riusciti sempre e comunque a mantenere un livello qualitativo alto nelle loro opere per il sottoscritto: perfino i mostri sacri ed i fordiani come Clint Eastwood, leggenda vivente, non hanno risparmiato scivoloni.
Ad oggi, credo che soltanto Kubrick, Kurosawa, Welles, Bunuel, Fellini e pochi altri - e non parliamo certo di piccoli calibri - siano riusciti a lasciarmi sempre a bocca aperta: Denis Villeneuve, che negli ultimi anni aveva sfoderato cose egrege come Politechnique, La donna che canta ed il recente Prisoners, era avviato a diventare uno dei più performanti registi attuali, un nome che poteva già essere tradotto come una garanzia di visione importante.
Peccato che, dopo l'esperienza - peraltro molto riuscita, cosa non da tutti - ad Hollywood e con le majors, il nostro sia tornato in Canada come bisognoso di immergersi ed abbandonarsi ad un'apnea profonda nel Cinema autoriale a tutti i costi, ispirandosi ad un romanzo di Saramago per portare in scena un'opera pretenziosa e non sempre chiara, che pare mescolare Lynch e Cronenberg - il che, sulla carta, sarebbe senz'altro un bene -, poggiata sulle spalle di un ottimo - ma non convincente come fu nel già citato Prisoners - Jake Gyllenhaal e senza dubbio profonda, ma priva dello spessore drammatico e coinvolgente dei suoi lavori precedenti.
Il viaggio alla ricerca di se stesso - o dell'altro se stesso - del protagonista diviene dunque uno spunto per lo spettatore ma ad un tempo un bagaglio che pare troppo pesante da portare nonostante il minutaggio decisamente limitato, e che trova i suoi momenti peggiori proprio nelle parti oniriche, che dovrebbero, di fatto, essere invece il catalizzatore d'attenzione maggiore per l'audience: e tra ragni giganti e metamorfosi grottesche, la realtà finisce per vincere la battaglia con il sogno grazie ai confronti tra Anthony e Adam ed al loro ribaltamento di ruoli tra cacciatore e cacciato, senza dubbio l'elemento più interessante del lavoro di Villeneuve.
Lavoro, e ci tengo a sottolinearlo, non brutto o deludente - le bottigliate sarebbero prontamente scattate, se così fosse stato -, ma senza dubbio freddo ed incapace di incidere ai livelli cui questo incredibile regista mi aveva abituato, quasi la sua parte emotiva fosse rimasta imprigionata dalla voglia di lavorare su una nicchia di pubblico piuttosto che sulle platee mainstrem e dalla derivazione letteraria - pur rimasta solo una derivazione - dello script: un peccato davvero, perchè se di norma il problema degli autori d'essai giunti alla corte di Hollywood è la snaturazione del loro talento, per il buon Denis pare essere stato un comeback amplificato alla dimensione d'origine, ritrovata popolata da incubi dalle otto zampe ed una sorta di nebbia ad incombere sul cuore, che ritengo sia la parte più importante e tosta del suo Cinema.
Per quanto possa suonare assurdo, dunque, perfino al sottoscritto, spero che presto il talento esplosivo di questo regista possa tornare ad esplodere, anche se questo dovesse significare un suo nuovo abbraccio alle grandi platee e agli Studios delle produzioni milionarie.



MrFord



"I knew you were
you were gonna come to me
and here you are
but you better choose carefully
‘cause I, I’m capable of anything
of anything and everything."
Katy Perry - "Dark horse" - 



mercoledì 21 dicembre 2011

Ford Awards 2011: i libri

La trama (con parole mie): do ufficialmente inizio ai Ford Awards 2011 dedicandomi ai romanzi - e non solo - che hanno accompagnato il vecchio cowboy nel corso dei suoi viaggi da pendolare negli ultimi dodici mesi.
Lo scorso anno la fece da padrone Il potere del cane, che scalzò dal gradino più alto del podio Joe Lansdale e la premiata ditta Hap&Leonard, che fu comunque senza dubbio il simbolo del mio 2010 letterario.
A questo giro di drinks chi sarà stato a conquistare la vetta della classifica?
Chi avrà raccolto il testimone dai due improvvisati investigatori/avventurieri lansdaliani e si sarà affermato come miglior personaggio?
Ecco la risposta.

Prima di iniziare, un ringraziamento va fatto a Julez, che come al solito mi tira fuori da tutti i guai, e confeziona le grafiche che io immagino ma non riesco mai a realizzare. 



N° 10 - Notte di sangue a Coyote Crossing di Victor Gischler


Uno degli allievi prediletti della scuola Lansdale e Winslow arriva in casa Ford e subito piazza la zampata che lo porta nella top ten: una prosa asciutta e tosta, ricca di sfumature southern, senso della Frontiera, violenza ma anche una tenerezza di fondo che si fa largo a colpi di pistola fino a conquistare il lettore.
La lunga notte di Toby, da cazzone finito quasi per caso a fare il vicesceriffo a eroe e giustiziere di una città dimenticata, è stata un giro di giostra che non vedo l'ora di replicare con i romanzi precedenti di Gischler, che sono già pronti per essere tra le prossime letture fordiane.



N° 9 - C'era una vodka di Sapo Matteucci


Frutto di un'intuizione perfetta di Julez lo scorso Nachele, C'era una vodka rappresenta non solo un'educazione sentimentale ed una sorta di autobiografia alcoolica, ma anche una sorta di trattato di quelli che, un giorno o l'altro, vorrei poter scrivere anche io, mettendo a frutto le esperienze della mia vita da bevitore appassionato.
Il buon Sapo Matteucci ne sa davvero tante, si concentra su ogni tipo di bevanda - al contrario di me, che con vino e birra non mi cimento quasi per nulla - e lega ad ognuna di esse un racconto della sua vita, professionale o privata che sia.
Un libro divertente, curioso, che invita ad essere goderecci e pane e salame e a non trasformare la passione in eccesso, sulla scia di un altra opera simile che, per evitare "gemellaggi", non ho inserito in classifica, Taccuino di un vecchio bevitore di Kingsley Amis. 




N° 8 - Vizio di forma di Thomas Pynchon



La California, il surf ed una certa atmosfera alla Marlowe sono sempre stati miei punti deboli, ed il fascino di un certo esotismo seventies continua ancora oggi ad esercitare un magnetismo quasi irresistibile per il sottoscritto: quando, poi, un autore sfodera un investigatore scanzonato e fuori da ogni schema come Doc Sportello, il gioco è fatto.
Rimandi quasi lebowskiani, un sacco di erba e allucinogeni, pagine che paiono ritmate da Hendrix e divengono un manifesto della grande stagione del sesso, droga e rock&roll sono solo l'inizio di un romanzo unico nel suo genere, scritto quando l'autore aveva già superato i settanta eppure traboccante dell'energia di chi si sta cominciando ad affacciare sul grande universo della vita.



N° 7 - Il valzer dell'orrore di Joe Lansdale

Poteva mancare nella classifica del meglio delle letture fordiane il mio idolo Joe Lansdale?
Certo che no!
Quest'anno sono mancati come l'aria Hap&Leonard - che spero il buon Joe riprenda il più presto possibile -, ma con Il valzer dell'orrore mi è parso di tornare alle più grottesche e violente delle sequenze legate alle vicissituini dei due avventurieri dalla bocca larga.
Con una coppia cattivi d'eccezione - disturbanti ed inesorabilmente malvagi - e un'atmosfera che quasi ricorda Palaniuk, Lansdale tira fuori dal cilindro un romanzo torbido e viscoso come la più insidiosa delle paludi texane, senza dimenticare la forza della famiglia e dei legami, come sua buona tradizione.



N° 6 - Il pettirosso di Jo Nesbo


Ed eccoci al primo dei titoli in classifica dell'autore rivelazione del 2011 fordiano: Jo Nesbo.
Il primo dei romanzi dedicati alle vicende dell'Ispettore Harry Hole - anche se, a dire il vero, ne esistono due precedenti ancora non pubblicati in Italia - racconta una storia d'amore e vendetta che dai tempi della Seconda Guerra Mondiale giunge fino alla Oslo dell'inizio del nuovo millennio, passando attraverso un traffico di armi che sarà fondamentale per la costruzione di un personaggio importantissimo per la saga di Hole: il Commissario Tom Waaler.
Un noir di quelli che inchiodano alla pagina, e mostrano tutto il meglio ed il peggio dell'animale Uomo, costruito sulle spalle di un protagonista a dir poco perfetto.



N° 5 - Cecità di Josè Saramago


L'opera indimenticabile di un vero Maestro, giunta tra le mie mani a seguito della grande stima che Julez ha sempre provato per un'autore magico, che qui mostra il suo lato più terribile, senza mai dimenticare la speranza: un romanzo clamoroso che sfiora le vette di 1984 e ricorda le atmosfere opprimenti di alcune pagine de La trilogia della città di K.
Un lavoro che scava nel profondo del nostro essere uomini e bestie, e lancia riflessioni importanti legati a politica, società e senso di conservazione, sorretto da un personaggio - la moglie del medico - maiuscolo e potente, incarnazione del concetto più grande di Madre.



N° 4 - La stella del diavolo di Jo Nesbo


Come Il pettirosso, meglio de Il pettirosso.
Un romanzo tesissimo che porta a compimento il confronto "allo specchio" tra Harry Hole e Tom Waaler, una delle migliori coppie di antagonisti letterari che mi sia mai capitato di incontrare.
Il duello a distanza tra i due commissari è disegnato con tanta perizia da Nesbo da far quasi passare in secondo piano la caccia al serial killer che costituisce l'ossatura principale dell'opera, e senza dubbio la risoluzione dello stesso resta una delle pagine più intense e clamorose del mio anno da lettore.
Attenzione, perchè questi due personaggi, insieme, sono dinamite pura.
Due personalità speculari, completamente opposte eppure pericolosamente simili.
Quasi meglio di me e del Cannibale.
Imperdibile.



N° 3 - Satori di Don Winslow


 

E qui iniziano davvero i fuochi d'artificio.
Nonostante la delusione venuta dal suo ultimo lavoro, Le belve, Winslow è riuscito a piazzare un colpo da Maestro che per buona parte dell'anno l'aveva portato sul gradino più alto del podio, alla ricerca del secondo successo consecutivo nella mia personale classifica del meglio delle letture: il prequel delle avventure di Nikolaj Hel ispirato all'opera di Trevanian è un esempio perfetto di stile, senso dell'azione, capacità di narrazione e di fare di un personaggio creato da un altro autore una creatura profondamente figlia della propria penna: la parte legata alla permanenza a Shanghai di Hel è una vera e propria meraviglia, e di certo il creatore di questo incredibile protagonista, inarrivabile giocatore di Go e assassino letale, sarebbe stato fiero dell'omaggio reso da Winslow al suo più noto figlio letterario.




N° 2 - Shibumi: il ritorno delle gru di Trevanian

 

Se l'allievo è stato insuperabile, il Maestro si è superato.
Il romanzo che ha ispirato Winslow per Satori è un esempio perfetto di ritmo, cambi di registo, gusto per l'attesa e azione sfrenata, pagine toccanti e drammatiche ed altre di leggerezza quasi eterea.
Hel non sarà mai un personaggio fordiano - troppo perfetto, razionale e controllato -, eppure le sue gesta restano negli occhi e nel cuore, dalle spedizioni speleologiche accanto alla sua straordinaria spalla Le Cagot al suo passato nel Giappone dilaniato dalle ferite del secondo conflitto mondiale: e come in una partita di Go, quando meno ce lo si aspetta, l'attesa diviene un turbinio di emozioni magiche, trasformandosi in un crescendo che toglie il fiato.



N° 1 - Il leopardo di Jo Nesbo


Ed eccolo qui, il romanzo dell'anno.
Il trionfo - e le innumerevoli cadute - di Harry Hole: il personaggio che è stato l'Hap&Leonard del 2011 si aggrappa alla vetta con le unghie e con i denti, il suo cronico alcolismo e tutte le sue imperfezioni, il suo non esserci mai eppure essere sempre pronto a difendere le persone che ama.
Giochi di specchi e di prestigio di un autore fenomenale - non solo per il genere thriller - che è già il mio Nolan letterario, personaggi descritti alla perfezione, una vicenda che vi porterà a credere una cosa e poi il suo contrario, prima di chiudersi in una risoluzione che sarà pronta ad esplodere nei vostri cuori come un vulcano: e come se non bastasse, confeziona anche una delle sequenze più emozionanti che la pagina scritta mi abbia regalato negli ultimi anni.
Una pietra miliare, senza se e senza ma.



I PREMI

Miglior autore: Jo Nesbo
Miglior personaggio: Harry Hole in Il pettirosso, La stella del diavolo e Il leopardo
Miglior antagonista: Tom Waaler in La stella del diavolo
Scena cult: Harry Hole e l'uomo di neve, Il leopardo
Premio "brutti, sporchi e cattivi": Fat Boy e l'Uomo Cobra, Il valzer dell'orrore
Premio stile: Nikolaj Hel, Satori e Shibumi
Miglior personaggio femminile: la moglie del medico, Cecità
Miglior non protagonista: Le Cagot, Shibumi
Momento action: Hel affronta Kang e i suoi sgherri, Satori
Atmosfera magica:  la California tutta seventies, surf e sesso di Doc Sportello, Vizio di forma

MrFord

"You were once running wild, 
hiding in the morning mist.
Game demands I make you mine.
I thought that I could resist,
but the leopard in you, silently preyed on me."
Duran Duran - "The man who stole a leopard" -


mercoledì 13 luglio 2011

Blindness - Cecità

La trama (con parole mie): un uomo è fermo ad un semaforo quando un insolita coltre di un biancore quasi innaturale cala sui suoi occhi. L'uomo è diventato cieco. E' l'inizio di un'epidemia terribile che colpisce la popolazione a tutti i livelli, e progressivamente conduce i contagiati attraverso un viaggio allucinante che passa dalla prigionia in un ex manicomio ad una libertà riconquistata per le strade di una città ormai preda di squallore, morte e degrado, popolata soltanto da ciechi che brancolano nella loro nuova condizione.
A guidare lo sparuto gruppo di protagonisti, l'unica donna che pare essere immune alla malattia: sarà destinata a fare da madre, compagna, confidente, amica e paladina di tutti loro.

Portare sugli schermi un romanzo dell'intensità di Cecità è una sfida certo non da tutti i giorni.
Onestamente, con una materia così delicata tra le mani, il rischio di pesanti cadute è ben più che presente, specie se siete un regista venuto dritto dal videoclip con una tendenza piuttosto marcata all'esagerazione, sia essa visiva o emozionale, come Fernando Meirelles, autore del discreto City of god e del decisamente meno incisivo The constant gardener.
Eppure, al contrario di quanto mi aspettassi, il regista di San Paolo non solo riesce nell'impresa di rimanere fedele all'opera di Saramago, ma anche ad imbrigliare il suo stile adrenalinico per metterlo al servizio di una pellicola giocata quasi esclusivamente sulla sottrazione, sia essa stilistica o emotiva, dei suoi protagonisti e della realtà che li circonda: sfruttando una messa in scena decisamente teatrale - soprattutto per quanto riguarda la lunga parte del manicomio adibito a luogo di quarantena per gli infetti - il regista gioca il tutto e per tutto puntando sulla sua protagonista, una convincente Julianne Moore, sfruttando l'importanza che anche nel romanzo gioca nell'economia del racconto la moglie dell'oculista contagiato attraverso una visita dal primo cieco.
Eppure, nonostante una resa decisamente funzionale - anche nelle parti dedicate alla cecità nel momento del suo sopraggiungere - ed un incedere senza cadute di stile, Blindness pare restare sempre e comunque un passo indietro rispetto alla potenza dirompente del romanzo, emotivamente ben più travolgente soprattutto nella parte dedicata alla lotta strenua che la moglie dell'oculista combatte con i ciechi divenuti usurpatori del potere all'interno del manicomio - non efficace, in questo senso, Gael Garcia Bernal nel ruolo dello spietato cieco con la pistola - e  nel finale ambientato nella casa della coppia protagonista, limitato per questioni di minutaggio e, probabilmente, d'azione drammatica troppo ridotta per una versione cinematografica.
Qualcosa è perso anche nel confronto tra la moglie del medico e la ragazza con gli occhiali scuri a seguito del tradimento consumato nel corso della quarantena da parte dell'uomo, una delle parti più coinvolgenti dell'intero romanzo, a testimonianza di quanto, nonostante l'efficacia delle versioni su pellicola, la potenza della pagina scritta mantenga ancora il primato, soprattutto rispetto ad opere incredibili come questa.
Un plauso comunque va fatto a Meirelles, in grado di confezionare un film onestissimo, molto fedele alla sua fonte d'ispirazione e dalla buona resa, anche se sicuramente non in grado di sostituire, nel cuore dei lettori di Saramago, quello che è considerato a tutti gli effetti come uno dei suoi Capolavori.
Ora, per non fare la parte del borioso e radical chic che se la mena perchè si è letto il romanzo prima del film posso dire che, in questo caso, se tra i due quello davvero meritevole è il libro, una visione della pellicola è comunque consigliata, anche perchè parte del sempre troppo ristretto gruppo di titoli in grado di non sfigurare completamente rispetto alle controparti letterarie: in questo senso, ho trovato Blindness molto simile a Non è un paese per vecchi dei Coen, anch'esso fedelissimo all'opera di McCarthy ma privo della carica delle sue pagine.
La cecità algida che vela gli occhi dei protagonisti, anche se soltanto in misura emozionale, pare aver avvolto anche il cuore della pellicola stessa.
A voi, in un modo o nell'altro, trovare la strada per tornare a vedere.

MrFord

"And I know how it should be
there is nothing more for you and I
some are young and some are free
but I think I'm goin' blind."
Kiss - "Goin' blind" -

Cecità

La trama (con parole mie): Un uomo è fermo al semaforo, alla guida della sua auto, quando d'improvviso una coltre bianca cala sui suoi occhi. 
E' diventato cieco, prigioniero di una sorta di luce perpetua che gli impedisce di vivere la sua vita come l'aveva vissuta fino a quel momento.
E' l'inizio di un'epidemia che porterà il governo ad isolare tutti i casi di cecità all'interno di un vecchio manicomio in disuso, dove si ritroveranno tutte le prime vittime del misterioso morbo venute a contatto con il primo cieco. Tra loro, l'oculista che lo ha visitato e sua moglie, unica tra loro a non essere caduta vittima della malattia.
L'esperienza all'interno di quella prigione, sorvegliati dall'esercito, sarà terribile e traumatica per tutti, ma stringerà il legame di un gruppo che, una volta abbandonata la struttura, deciderà di vivere insieme quello che resta dei loro giorni in una città sporca e distrutta, popolata da una moltitudine di ciechi senza guida.

Erano anni che sentivo parlare Julez di questo romanzo come di una sorta di essere mitologico, una delle letture più sconvolgenti ed intense che avesse fatto: una sera, alla mia proposta di visionare il film tratto, per l'appunto, da quest'opera di Saramago, lei ha controproposto che io lo leggessi prima di poter guardare la trasposizione cinematografica. E così è stato.
Personalmente, ho trovato Cecità un grandissimo romanzo: crudo, terribile, ribollente di sentimenti tra i più infimi che il genere umano possa provare eppure mai schiacciato nel suo coraggio, nell'intensità, nelle passioni e nella forza che i suoi protagonisti dimostrano, anche nei momenti in cui pare che gli eventi possano schiacciarli e calpestare inesorabilmente i loro sentimenti e la loro dignità.
In particolare, il personaggio della moglie del medico rappresenta tutta la potenza dirompente dell'autore, nonchè il nostro legame visivo con un romanzo che ci precluderebbe ogni riferimento di questo tipo, così come accade per la scelta di omettere i nomi dei suoi protagonisti, che divengono semplicemente un riferimento a ciò che sono stati prima dell'epidemia - il primo cieco, la ragazza con gli occhiali scuri, il bambino strabico, il medico, il vecchio dalla benda nera -. 
Ed è proprio la moglie del medico, dunque, a farsi carico del peso dell'intera vicenda, dal momento in cui il marito viene caricato sull'ambulanza e portato via alla volta del manicomio alla permanenza stessa all'interno della struttura, dall'organizzazione delle camerate al confronto con i ciechi "malvagi" che tentano di regolare secondo le leggi del crimine la vita di quella triste prigione di condannati al biancore eterno.
Ed è proprio nel confronto con la banda di usurpatori del potere interno che il personaggio di questa donna assume un'importanza clamorosa per l'economia del racconto, quasi rappresentasse, a tutti gli effetti, l'ideale di compagna, di madre e di confidente di ogni altro cieco presente, simbolo di forza assoluta a fronte dei comportamenti del marito, delle intemperanze dei membri della camerata, delle richieste sempre più terribili dei ciechi loro carcerieri.
La moglie del medico diviene il simbolo della Donna in senso universale, capace di prendere per mano e guidare una piccola comunità come fosse una famiglia, dentro e fuori il manicomio, per le strade di una città in cui tutto è allo sbando, in mano ad un destino amaro per tutti, alla ricerca di cibo e in attesa della pioggia per l'acqua camminando immersi in sporcizia e nel sudiciume lasciati per le strade con le carcasse dei morti.
E come se non bastasse, all'immagine della città e dei suoi disperati si aggiungono le incredibili sequenze del supermercato - così terribile da far tornare alla mente Romero - e della chiesa, all'interno della quale qualcuno - e non si saprà mai chi - ha fasciato ogni statua di santo, e lo stesso crocefisso con una benda bianca attorno agli occhi, quasi a dirci che il primo cieco di questa storia, o della Storia, è stato proprio Dio.
Un'opera clamorosamente umana e non priva di critiche allo Stato - e alla Chiesa, come appena citato - che va ad inserirsi nel grande filone dei 1984 e dei Fahrenheit 451, con la differenza, rispetto ai Capolavori in questione, di non partire dall'interno, con un uomo del governo trovatosi a vivere "dall'altra parte", bensì di concentrarsi su un dramma che progressivamente coinvolge tutti, inesorabilmente, senza differenza alcuna.
Dunque, sono diventati ciechi, questi uomini, queste donne, o lo erano già?
Cosa nascondeva quel candore terribile, tanto da giustificare morte, lotta per la sopravvivenza, amore, bassezze, putredine e liberazione?
Forse nulla che non fosse già vivo nell'Uomo.
A volte occorre diventare ciechi per imparare a vedere.

MrFord

"Another place I find, to escape the pain inside
you don't know the chances, what if I should die?
(A place inside my brain, another)
Another kind of pain
you don't know the chances, I'm so blind
blind, blind."
Korn - "Blind" -


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